Comunicazione
Filosofia e semiotica
di Stefano Gensini
La nozione di comunicazione (dal lat. tardo e medievale communicatio, l'atto di mettere in comune con altri, di trasmettere a) ha un'ampia nel dibattito filosofico-linguistico contemporaneo. Diversamente che in altre aree disciplinari, essa non è di norma utilizzata per caratterizzare l'essenza né la funzione dominante del linguaggio (alla quale concorrono nozioni quali 'cognizione', 'espressione', 'interpretazione' e così via), ma per riferirsi alla sua dimensione pragmatica, coinvolgente due o più soggetti (umani, animali non umani, in certi casi anche automi), in un processo semiotico regolato da codici. Da tale punto di vista la c. va distinta (Prieto 1966) dalla semplice 'significazione', ovvero dall'attribuzione di senso a un evento percettivo qualsivoglia, da parte di un interprete, in assenza di un'intenzionalità comunicativa altrui. In quanto strettamente connessa a un sistema di relazioni sociali, e agli effetti istituzionali svolti dal linguaggio (verbale o non verbale), la prassi comunicativa insiste sul territorio tradizionalmente coperto dalla 'retorica'. Si parla inoltre (in analogia con la 'competenza linguistica', che, secondo N. Chomsky, caratterizza la conoscenza spontanea delle regole grammaticali del proprio linguaggio storico-naturale da parte del parlante nativo) di 'competenza comunicativa' (espressione coniata da D. Hymes) per riferirsi alla conoscenza delle regole di utilizzazione appropriata di enunciati e testi linguistici in situazioni e/o contesti culturalmente determinati.
La ricerca filosofica sulla c., partendo da un ormai consolidato patrimonio di riflessioni classiche che ne ha sedimentato il nocciolo teorico e terminologico di base, e continuando a formarne l'implicita sponda, si muove all'intersezione fra discipline diverse, dalla linguistica alla psicologia (soprattutto di orientamento cognitivo; v. supra: Psicologia), dalla teoria matematica dell'informazione all'etnografia e alla filosofia della mente. In questo complesso intreccio, essa identifica un proprio spazio riconducendo la problematica comunicativa oltre la dimensione strumentale e utilitaristica del linguaggio, cercando di coglierne l'inerenza ai dispositivi generali della conoscenza e agli assetti biocognitivi delle specie.
Sembra possibile identificare quattro modelli principali del processo comunicativo, corrispondenti ad altrettanti percorsi, sovente fra loro alternativi, della filosofia del linguaggio degli ultimi decenni. Il primo in ordine cronologico è il 'circuito delle parole' formulato nel Cours de linguistique générale di F. de Saussure (1916, 19222), modello di origine linguistica inserito nel circuito filosofico tramite la rilettura esegetico-critica del pensiero saussuriano avvenuta negli anni Cinquanta-Sessanta del 20° sec. (R. Godel, R. Engler, T. De Mauro): il processo della c. ha un risvolto fisico-acustico e uno psichico, corrispondente all'articolazione del sapere linguistico in un 'sistema' astratto, condiviso dai parlanti, la langue, e in (potenzialmente) infiniti atti linguistici individuali (o parole), i cui componenti fonici e semantici si ripartiscono nelle classi, arbitrariamente determinate da ogni lingua, corrispondenti al 'significante' e al 'significato'. L'arbitrarietà 'radicale' dei sistemi linguistici, mentre rappresenta il modo in cui le diverse lingue giungono a strutturare la 'nebulosa' del pensiero e del suono prelinguistici, chiarendo dunque la loro funzione 'formativa' (nel senso già di K.W. von Humboldt) e conoscitiva, garantisce d'altra parte della loro interna storicità, irriducibile a un banale convenzionalismo semiotico (il che escluderebbe l'imputazione di 'platonismo' variamente avanzata al Saussure); conseguentemente, 'tempo' e 'massa parlante' risultano fattori non esterni, ma costitutivi della dinamica linguistica, e il rapporto fra individuale e sociale nel linguaggio (corrispondente al rapporto parole/langue) assume carattere dialettico: parlanti e ascoltatori sono sempre necessariamente ben più che fruitori di un codice, e al funzionamento del sistema di classificazione che fonda la reciproca comprensione è connaturato un principio di 'indeterminatezza', quanto è a dire di adattabilità al concreto della situazione comunicativa, nel tempo e nello spazio.
La diffusione di una lettura 'vulgata' del Saussure nell'ambito dello Strutturalismo europeo (carattere presuntivamente 'chiuso' del sistema linguistico, contrapposizione ontologica, anziché meramente metodologica, fra sincronia e diacronia ecc.) ha contribuito al diffondersi di altri modelli apparentemente estranei a quella lezione. è il caso del cosiddetto modello lineare della c., elaborato da G.A. Miller (1951) e successivamente da R. Jakobson (1956) a partire dalla teoria matematica dell'informazione formulata nel noto schema di C.E. Shannon e W. Weaver (1949). Ogni processo comunicativo importa la presenza di sei partner (mittente, messaggio, ricevente, codice, canale, contesto), relazionati in modo che quel messaggio (un qualsiasi testo) che il mittente codifica tramite un linguaggio x, utilizzando il mezzo fisico richiesto dal codice (per es., il mezzo fonico-uditivo nel caso della verbalità, il mezzo grafico-visivo nel caso della scrittura ecc.) e tenendo conto di un sistema di circostanze esterne (contesto), viene positivamente decodificato dal ricevente, purché vi sia condivisione del codice e più o meno completa condivisione del contesto. A tale schema ideale Jakobson associa la teoria delle 'funzioni' del linguaggio, basata sull'idea che in ogni evento comunicativo, pur essendo compresenti i sei partner, uno di questi di volta in volta assuma una posizione di salienza: si ha quindi, a seconda dei casi, una prevalente funzione emotiva (mittente), conativa (ricevente), fàtica (canale), referenziale (contesto), metalinguistica (codice) e poetica (messaggio). Lo schema jakobsoniano ha avuto amplissimo risalto, e costituisce spesso lo standard con cui si aprono i trattati di comunicazione. Esso presenta infatti una larga estensibilità a linguaggi diversi, che ha aiutato il costituirsi di un approccio integrato ai fenomeni comunicativi, bilanciato fra livello teorico-descrittivo e applicazioni alle pratiche della c. di massa (giornalismo, radio, televisione). Al successo interdisciplinare del modello hanno fatto riscontro, all'incirca dalla metà degli anni Settanta del 20° sec., opposizioni crescenti insorte al convergere di prospettive teoriche diverse: la semiotica interpretativa di derivazione peirceana, la psicologia e la linguistica cognitiva, la metaforologia. è stata rilevata la fallacia della nozione di codifica/decodifica, la quale implica una concezione banalmente strumentalista del linguaggio verbale, dipendente a sua volta sia da una visione statica, ingegneristica del concetto di codice, sia da una semplicistica equiparazione (a ruoli invertiti) delle funzioni di emittenza e ricezione. In particolare, il carattere articolato e stratificato di ogni codice linguistico (non riducibile al caso dei codici artificiali) è emerso dall'analisi delle varietà di accessi cognitivi dei parlanti, condizionati da variabili di ordine sia idiosincratico, sia storico e sociale (incluse possibili situazioni di bi- e multinguismo); inoltre il ruolo non meramente ricettivo-passivo del ricevente è risultato dalle ricerche intorno alla complessità del 'capire', di estrazione sia psicologico-linguistica (da L.S. Vygotskij alla psicologia cognitiva), sia semiotica (la teoria del lettore 'cooperante' di U. Eco), sia fenomenologico-ermeneutica (la teoria della ricezione di W. Iser e della cosiddetta Scuola di Costanza). Tuttavia parti del pensiero elaborato da Jakobson, in particolare la teoria della funzione 'poetica', contenevano 'anticorpi' contro la sua diffusa semplificazione sociologico-mediale, in un senso (quello della 'creatività' del ricevente) che lasciava preludere a tematiche che avrebbero caratterizzato il dibattito successivo.
Il terzo modello della c. nasce nell'area della filosofia analitica, con lo sviluppo di una terza branca della filosofia del linguaggio - la pragmatica (pragmatics), accanto alla sintattica e alla semantica (secondo la celebre tripartizione proposta da Ch. Morris nel 1938) -, con lo scopo di indagare il rapporto del linguaggio con i suoi utenti, e sul presupposto che il significato, oggetto della semantica, sia indagabile separatamente dall'utilizzazione empirica delle parole. A tale impostazione si giunge sulla scorta della scuola oxoniense di J.L. Austin (How to do things with words, si intitola il libro che nel 1962 rese note le sue lezioni) e, in misura minore, di quella cantabrigense di L. Wittgenstein, che nelle Ricerche filosofiche (1953) aveva teorizzato la molteplicità e la centralità epistemica dell'uso linguistico. Il problema della c. si ripresenta in questa tradizione come articolazione di una teoria del linguaggio ordinario, nelle sue componenti 'illocutive' (ossia intese a realizzare azioni mediante il linguaggio, sovente mediante l'uso di specifiche risorse linguistiche, per es., verbi come promettere, giurare, dichiarare, e simili) e 'perlocutive' (che condizionano e influenzano i partner comunicativi). Le distinzioni di Austin (anticipate per certi versi da G. Frege) sarebbero state integrate da P. Grice in una teoria dei principi regolativi della conversazione (le cosiddette massime della quantità, della qualità, della relazione e del modo) che formerebbero l'orizzonte implicito entro cui i parlanti comunicano (anche quando vogliano distorcerne o negarne la logica); e successivamente da una precisa tipologia di 'atti comunicativi' cui si ricondurrebbero le forme istituzionali di comportamento linguistico. La teoria degli speech acts (Searle 1969) si distacca da Wittgenstein nel momento in cui suggerisce che vi sia un numero chiuso, tendenzialmente universale di 'giochi linguistici', caratterizzabili come atti 'rappresentativi' (impegno del parlante all'effettivo darsi di qualcosa), 'direttivi' (tentativi di indurre l'ascoltatore a fare qualcosa), 'commissivi' (con i quali il parlante si impegna ad assumere una condotta futura), 'espressivi' (esprimenti lo stato psicologico del parlante verso le circostanze specificate nel contenuto proposizionale), 'dichiarativi' (finalizzati a sostenere la corrispondenza fra contenuto proposizionale e realtà). In tale forma la teoria ha raggiunto il suo stadio maturo e ha conseguentemente esercitato un influsso imponente sui dibattiti pragmatici, sovente intersecando aree disciplinari e branche di ricerca diverse ma correlate, quali la linguistica testuale e la sociolinguistica, la neoretorica, la psicologia della comunicazione.
All'approccio alla c. della filosofia del linguaggio ordinario è sottesa, come in genere nelle dottrine di area analitica, una visione tendenzialmente strumentalista del linguaggio, che, se da una parte le demarca dalla tradizione saussuriana e strutturalista (anche nella versione postkantiana di E. Cassirer), dall'altra non esclude notevoli sviluppi teorici che la conducono oltre quel limite originario. Lo studio griciano delle implicature conversazionali (di cui le massime citate sono l'espressione diretta) porta con sé un'attenzione privilegiata a quanto nella c., pur restando implicito, forma l'orizzonte di senso dei parlanti: le loro 'presupposizioni' (approfondite in chiave logica da R. Stalnaker e in chiave linguistica da O. Ducrot), le loro svariate 'inferenze' (onde evidenti intersezioni con problematiche logiche ma anche semiotiche, soprattutto in prospettiva peirceana). Analogamente, le teorie di J.R. Searle si integrano con la tematica filosofico-mentalista dell'Intenzionalità (nel senso, inaugurato da F. Brentano, del direzionamento verso il mondo dei nostri stati o contenuti mentali), andando così al di là dell'intenzionalismo (con la i minuscola) delle dottrine convenzionaliste. Non sorprende più di tanto, dunque, la torsione in senso antianalitico e neotrascendentalista che la speech acts theory ha subito in area tedesca, a opera di autori come K.O. Apel (che si propone di valorizzare in senso kantiano, con Searle ma contro Searle, la nozione di atto comunicativo) e soprattutto come J. Habermas, con la sua idea di una 'pragmatica universale' che assuma la forma di una teoria complessiva dell'agire comunicativo (Habermas 1981), con forti implicazioni etiche e nella prospettiva di una grammatica a suo modo 'politica' della comunicazione.
Un quarto modello, proposto da D. Sperber e D. Wilson nel 1986, e successivamente sviluppato e riarticolato (Sperber, Wilson 19952, 2004), muove decisamente dallo studio delle operazioni cognitive dei parlanti, subordinando a esse (anche dal punto di vista filogenetico) le pratiche comunicative. Il punto di partenza dei due autori è una serrata critica del modello Shannon-Weaver e in particolare del concetto di codifica/decodifica. Come insegna Grice, il significato strettamente linguistico dei messaggi (sentence meaning) è soltanto un input per la ricostruzione, da parte del soggetto umano, della reale intenzione di senso dell'altro (speaker's meaning), identificata mediante 'inferenze' che scelgono fra le varie possibilità di interpretazione quella 'pertinente' al contesto (la relevance è dunque il principio-guida del processo). Il contesto, lungi dal ridursi a un insieme di circostanze materiali esterne ai parlanti, è in effetti costruito dai parlanti stessi in base al loro sapere reciproco.
In fasi successive della ricerca, il risvolto cognitivo del processo di c. è stato approfondito mediante il ricorso alle nozioni di Intenzionalità e di 'teoria della mente', desunti dal coevo dibattito in filosofia della mente e in zoosemiotica cognitiva (D. Premack, A.M. Leslie). L'operazione di scelta delle pertinenze da cui dipende l'esito della c. viene collegata al possesso da parte della specie umana di una sviluppatissima capacità di 'metarappresentazione' (ovvero della capacità di attribuire alle altre creature stati mentali), presente a livelli rudimentali anche in altre specie animali: questa capacità fonderebbe le inferenze, e ne guiderebbe il funzionamento secondo principi di economia e minimo sforzo; ogni processo inferenziale si ferma, infatti, non appena si sia raggiunto un senso che appaia il più pertinente nel contesto dato. Alla luce di tale impostazione, "un input è pertinente per un individuo quando la sua elaborazione, in un contesto di assunzioni disponibili, produce un effetto cognitivo positivo. Un effetto cognitivo positivo è una differenza degna di nota introdotta in una rappresentazione individuale del mondo - per esempio, una conclusione vera" (Sperber, Wilson 2004, p. 608).
Rilevanti sono le conseguenze di tutto ciò sia per la teoria linguistica, sia per la filosofia della mente. Per un verso, infatti, la c. non sarebbe che un campo di applicazione fra altri delle capacità metarappresentazionali, le quali caratterizzerebbero la cognizione umana prima e indipendentemente dal linguaggio; per un altro verso, il dispositivo inferenza-pertinenza risulterebbe svincolato dallo stesso principio griceano di cooperazione, come da ogni convenzione squisitamente comunicativa, per caratterizzarsi come un modulo cognitivo specifico. Inoltre, se la capacità di comunicare - in armonia con quanto evidenziato negli ultimi cinquant'anni dalla etologia comparata e dalla zoosemiotica - appare facilmente estendibile a numerose specie animali, dalle api agli scimpanzé, la ricerca delle peculiarità dell'individuo andrebbe invece riferita a una superiore architettura e organizzazione delle forme conoscitive. In questo quadro torna quindi d'attualità il dibattito inaugurato da J.A. Fodor intorno al carattere 'informazionalmente incapsulato' di sezioni importanti dell'apparato cognitivo (accanto a processi cognitivi centrali relativamente indifferenziati). Sperber e Wilson si collocano fra coloro i quali ritengono possibile ampliare e quasi generalizzare il modello modulare fodoriano, sostenendo che la ricerca della migliore pertinenza comunicativa, sorretta dal principio di economia cognitiva, può dipendere da un modulo dedicato, il quale automaticamente calcolerebbe e soppeserebbe un'ipotesi intorno allo speaker's meaning sulla base degli input linguistici e non linguistici che sono disponibili.
È interessante osservare, prescindendo dalle articolazioni interne delle differenti teorie presentate, come un elemento costante dell'analisi filosofica della c. sia la ricerca intorno alla presenza e alle modalità di intervento della soggettività umana nell'attività linguistica. A questo obiettivo guardano, con strumenti diversi e spesso senza reciproca permeabilità, la scuola postsaussuriana, che afferma il carattere interno della comunità parlante rispetto alla lingua e insiste sulla conseguente indeterminatezza (quanto è a dire non autonomia calcolistica, storicità) del significato; la lettura di Jakobson dei processi di connotazione a carico della funzione 'poetica' del linguaggio; l'enfasi di Grice sulle dinamiche inferenziali sottese alla conversazione, indipendentemente e al di là delle pure e semplici convenzioni comunicative; la critica di Sperber e di Wilson alla dottrina del codice, che conduce a una focalizzazione delle peculiarità cognitive umane impegnate nella prassi comunicativa. Anche la teoria degli atti linguistici, nelle suggestive combinazioni che l'hanno contraddistinta con l'etnografia della c. e la semiotica sociale (Hymes, M. Halliday e altri) appare, da tale punto di vista, orientata nella stessa direzione. Permangono tuttavia profondi dissensi fra le scuole quanto alla complessiva teoria del linguaggio da sottoscrivere (Comunicazione, 2005): se, cioè, la critica alla riduzione sociologica della c. vada svolta sul presupposto (humboldtiano e saussuriano, ma anche cassireriano) della centralità cognitiva del linguaggio; o se invece la c. (e il linguaggio in genere) vada ridotta, sulle orme di Chomsky e del Cognitivismo, alla dimensione di un modulo, subordinato a una più complessiva architettura mentale specie-specifica.
bibliografia
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Comunicazione e scienza cognitiva, a cura di F. Ferretti, D. Gambarara, Roma-Bari 2005.
Psicologia
di Rino Rumiati
La psicologia della c. prende in esame gli aspetti cognitivi e relazionali che determinano la particolare attività volta a permettere lo scambio di significati e di informazioni tra i singoli individui e tra i gruppi, nelle sue forme normali o patologiche, in forma diretta, attraverso uno scambio faccia a faccia, o in forma mediata dal ricorso a tecnologie. La c. è un'attività tipicamente sociale, poiché si svolge all'interno delle comunità umane, favorendo e garantendo l'interazione tra gli individui e la costruzione e la stabilizzazione dei rapporti interpersonali. Tuttavia essa è anche un'attività cognitiva poiché è intimamente relata con il complesso di processi implicati nella produzione e nella comprensione di informazioni, sia verbali sia non verbali.
Comunicazione e intenzionalità
Sul piano psicologico la c. è innanzitutto caratterizzata dalle intenzioni che guidano gli individui nel generare i messaggi. L'intenzione comunicativa del parlante è un aspetto particolare di una più generale attitudine degli esseri umani a interpretare qualsiasi attività, e quindi anche quelle comunicative, come attività organizzate secondo piani e guidate da scopi (Dennett 1987). Questo aspetto produce conseguenze importanti sugli scambi comunicazionali: infatti, il disporsi intenzionalmente nella dinamica comunicazionale fa sì che il parlante tenderà a rappresentarsi le aspettative del destinatario della c. e sulla base di quest'aspettativa costruirà ed emetterà il messaggio. L'intenzionalità del destinatario svolge comunque un ruolo complementare: quest'ultimo si configura infatti le aspettative del parlante e sulla base di ciò decodificherà il messaggio. L'intenzionalità può manifestarsi a due diversi livelli con obiettivi differenti: nel comunicare, infatti, il parlante può essere mosso da intenzione informativa oppure da intenzione comunicativa. La prima modalità fa riferimento all'intenzione di informare il destinatario di qualcosa, la seconda all'intenzione di informare il destinatario sulla propria intenzione informativa (Sperber, Wilson 1986). L'intenzionalità è un aspetto della c. rilevante anche nella modalità non verbale: i segnali non verbali, infatti, possono essere emessi con differenti finalità così come avviene nel caso dei messaggi verbali. Per es., tali segnali possono essere di tipo informativo, se il significato di certi gesti è condiviso da alcune categorie di partecipanti alla c., di tipo comunicativo, se i gesti utilizzati dal partecipante sono inviati in maniera consapevole per trasmettere al ricevente un messaggio preciso e, infine, di tipo interattivo, se i segnali gestuali utilizzati nell'interazione influenzano e modificano il comportamento dei partecipanti all'interazione (Zani, Selleri, David 1994).
La coerenza nella comunicazione
La c. intesa come trasmissione interattiva di informazioni tra i partecipanti richiede l'utilizzo congiunto di espedienti testuali e cognitivi. Una strategia cognitiva fondamentale nella comprensione dei messaggi è il cosiddetto contratto dato-nuovo (given-new contract), in base al quale i parlanti utilizzano l'informazione già posseduta e la integrano con quella nuova. H.H. Clark e S.E. Haviland (1977), che per primi hanno esaminato questa strategia, sottolineano che è responsabilità del parlante indicare in maniera precisa ciò a cui si riferisce quando all'ascoltatore viene fornita una nuova informazione. Connesso a tale strategia è il ricorso all'anafora, particolare dispositivo comunicazionale in cui un'entità precedentemente introdotta viene segnalata all'ascoltatore mediante una nuova espressione: l'utilizzo del pronome, per es., costituisce un'anafora poiché permette all'ascoltatore di comprendere che l'espressione da esso introdotta si riferisce a qualcosa che è stato descritto in precedenza; in tal modo, quando l'ascoltatore registra un pronome, deve iniziare una ricerca in memoria all'interno della rappresentazione dell'informazione testuale precedente per poter trovare l'informazione corrispondente. Se quest'ultima non viene trovata, allora l'informazione diventa inintelligibile (Sanford 1987).
Comunicazione e persuasione
Gli effetti persuasivi di un messaggio dipendono da una molteplicità di fattori, quali la fonte che emette il messaggio, il ricevente e il messaggio stesso. Gli effetti congiunti di questi fattori sono modulati dal contesto entro cui essi interagiscono e sono stati analizzati principalmente dalla psicologia sociale. Uno dei modelli più accreditati per spiegare l'influenza sociale della c. è il modello della probabilità di elaborazione dell'informazione proposto da R.E. Petty e J.T. Cacioppo (1986). Tale modello prevede che il destinatario vari il suo interesse, il suo coinvolgimento e la sua attenzione a seconda degli ambiti a cui si riferiscono le informazioni contenute nel messaggio. A seconda del grado in cui il destinatario sarà cognitivamente impegnato attiverà uno dei due percorsi per l'elaborazione della c. persuasiva, il percorso centrale o il percorso periferico. Il primo viene attivato quando l'informazione richiede un'elaborazione accurata delle argomentazioni contenute nel messaggio: l'attivazione di tale percorso è tanto più probabile quanto più il messaggio contiene argomenti forti; l'elaborazione di queste informazioni richiede infatti una notevole quantità di risorse cognitive per la comprensione e l'integrazione delle nuove conoscenze con quelle già possedute. Il percorso periferico viene attivato quando il messaggio riveste uno scarso interesse per il destinatario, principalmente perché gli elementi coinvolti nel cambiamento dell'atteggiamento non sono direttamente collegati al tema principale del messaggio oppure perché le argomentazioni contenute nella c. sono deboli. Per quanto concerne gli aspetti interattivi, uno dei fattori più importanti nel favorire l'effetto persuasivo di un messaggio è la credibilità percepita della fonte da cui origina la c.: la credibilità sarà tanto maggiore quanto più elevato è il grado di competenza riconosciuto alla fonte e quanta più fiducia il ricevente è disposto ad assegnarle. Un altro fattore rilevante concerne l'insieme delle caratteristiche del ricevente, come, per es., le disposizioni stabili che lo rendono più o meno influenzabile. Gli effetti persuasivi della c. si osservano prevalentemente in una modificazione degli atteggiamenti di soggetti esposti al messaggio, dalla quale spesso ne deriva una conseguente modificazione del comportamento. Un qualche ruolo nel cambiamento dell'atteggiamento va riconosciuto al modo con cui i messaggi vengono formulati e presentati e agli obiettivi specifici che la c. si prefigge di raggiungere. Questi aspetti sono stati studiati in vari settori della c. e in particolare nell'ambito degli interventi diretti a preservare la salute. Una ricerca condotta da A.J. Rothman e P. Salovey (1997) per studiare gli effetti persuasivi di messaggi volti a sollecitare le donne americane a sottoporsi a mammografia, ha evidenziato che la modalità di formulazione del messaggio presenta effetti differenziati a seconda della finalità per la quale la campagna è stata progettata. I due studiosi distinguono due differenti categorie di interventi: gli interventi di controllo e gli interventi preventivi. I primi sono per lo più percepiti come attività rischiose dato che consentono di scoprire un eventuale danno e sembrano manifestare la migliore efficacia persuasiva quando sono formulati in termini negativi, ossia sottolineando che se non si esegue l'esame si perdono i benefici di rilevare i problemi. I secondi, per contro, sono percepiti come attività volte a mantenere lo stato di salute; in tal caso gli effetti persuasivi sembrano più efficaci se i messaggi vengono formulati in termini positivi, ossia sottolineando che se si esegue l'esame si può fruire dei benefici di avere informazioni sullo stato di salute attuale.
Gli effetti della salienza della comunicazione e l'agenda setting
La c. e i messaggi da essa veicolati avranno più successo e più a lungo saranno presenti alla memoria degli individui esposti ai messaggi quanto più saranno caratterizzati dalla salienza o vividezza, ossia quanto più saranno emotivamente interessanti, avranno forza immaginifica e saranno immediati (Pratkanis, Aronson 1992). Questi aspetti possono influenzare anche la c. pubblica: le questioni che attirano l'attenzione del pubblico godono di momenti in cui appaiono particolarmente interessanti o rilevanti, mentre lo diventano sempre meno per importanza attribuita o per notorietà quando vengono sostituite da altre informazioni che a loro volta subiranno la medesima sorte. La teoria dell'agenda setting è stata sviluppata all'interno dell'analisi degli effetti dei mezzi di c. di massa sull'opinione pubblica. L'idea è che i media possono tradurre e modificare la salienza di una notizia in modo tale da collocarla e mantenerla in una posizione privilegiata nella gerarchia di importanza che il pubblico si costruisce soggettivamente delle questioni e dei fatti che si verificano in un certo periodo. Attraverso i media vengono dunque indicate le informazioni alle quali bisogna prestare attenzione e quale è la loro importanza relativa in un dato momento (Communication and democracy, 1997). Naturalmente, ciò non significa che l'influenza dei media sia diretta e automatica: i media non impongono una particolare modalità di lettura dei fatti né inducono meccanicamente le persone a dare rilievo proprio a quei fatti; essi possono semplicemente suggerire le cose a cui prestare attenzione, predisponendo in tal modo l'ordine del giorno che guida le aspettative delle persone.
Comunicazione di gruppo
La c. interpersonale è uno degli aspetti principali della costituzione dei gruppi, del loro mantenimento e della loro attività. La c. tra i componenti dei gruppi, oltre a favorire il consolidamento della struttura organizzativa e la distribuzione del potere tra i membri, è un potente strumento di influenza sociale di singoli o di componenti del gruppo su altri componenti. L'influenza sociale all'interno dei gruppi può assumere due forme principali: maggioritaria e minoritaria. L'influenza maggioritaria ha come effetto quello di indurre gli individui al conformismo. Una delle prime prove sperimentali di questo fenomeno è stata fornita da una ricerca condotta da S.E. Asch (1956). Il compito dell'esperimento consisteva nel chiedere a un campione di studenti universitari di individuare quale fra tre segmenti di differente lunghezza fosse uguale a un segmento campione. Tutti i membri del gruppo, tranne uno, il 'soggetto critico', erano d'accordo con lo sperimentatore e dovevano sempre rispondere che i segmenti erano uguali al segmento campione anche se obiettivamente non lo erano. I risultati mostrarono che le valutazioni erronee espresse dalla maggioranza causavano il giudizio erroneo in circa un terzo dei giudizi dei soggetti critici; al contrario, nel gruppo di controllo in cui non erano presenti partecipanti 'confederati' i giudizi erronei erano pochissimi. L'influenza maggioritaria dipende da molti fattori e tra questi alcuni sono tipicamente comunicazionali, come le pratiche discorsive e lo stile comunicativo del gruppo maggioritario, aspetti che caratterizzano il grado di consistenza della maggioranza (Psicologia della comunicazione, 2002).
L'influenza sociale può essere d'altra parte esercitata anche a opera di una minoranza. Questa seconda modalità di influenza è stata oggetto di indagine da parte di S. Moscovici e C. Faucheux (1972). Utilizzando il cosiddetto paradigma blu-verde, si chiedeva a un gruppo di soggetti di denominare i colori che venivano loro presentati; ma una minoranza costituita da due soggetti, d'accordo con gli sperimentatori, riconosceva le diapositive blu come verdi. I risultati dimostrarono che i giudizi espressi dai partecipanti all'esperimento erano influenzati dai giudizi espressi dalla minoranza. Tuttavia perché si manifesti tale influenza è necessario che la minoranza sia coesa e che i giudizi non siano ambigui.
La c. all'interno dei gruppi svolge un ruolo primario quando devono essere risolti problemi di tipo conflittuale, in cui le soluzioni da adottare possono essere o prudenti, ma non molto appetibili, o rischiose, ma più attrattive. In situazioni come queste, in cui non esiste una soluzione corretta, gli esperimenti mettono in luce che la c. interpersonale tra i membri del gruppo favorisce l'emergere del fenomeno della 'polarizzazione', che consiste nel fatto che i gruppi tendono a estremizzare le decisioni, ossia a rendere più marcate le posizioni espresse fin dall'inizio. Perciò, se la propensione iniziale è caratterizzata dalla prudenza, allora la conclusione cui il gruppo giungerà sarà prudente; viceversa, se la propensione iniziale manifestata dal gruppo è caratterizzata da un atteggiamento orientato al rischio, allora la conclusione sarà più rischiosa. La dinamica comunicazionale all'interno dei gruppi, quando si tratta di prendere una decisione, può produrre effetti sulla bontà della decisione stessa. Lo scambio delle informazioni e la discussione sulle questioni per le quali il gruppo è chiamato a decidere può generare un fenomeno comunicativo denominato pensiero di gruppo (groupthink), in forza del quale il gruppo produce delle performances qualitativamente inferiori rispetto a quelle che possono produrre i singoli. Tale fenomeno si verifica con maggiore probabilità quando il gruppo è particolarmente coeso ed è guidato da una forte leadership. Il groupthink si manifesta attraverso una molteplicità di 'sintomi': uno di questi è una sorta di 'illusione di invulnerabilità' caratterizzata da un ottimismo ingiustificato; un secondo sintomo è l''illusione di unanimità', per cui i membri del gruppo ritengono che tutto il gruppo sia d'accordo; un ulteriore sintomo si manifesta quando i membri del gruppo si costruiscono artificiosamente delle giustificazioni per qualsiasi azione il gruppo stia intraprendendo.
I fallimenti della comunicazione problematica
Il flusso della c. può dar luogo a situazioni conflittuali, a contraddizioni o a distorsioni nella comprensione dei messaggi a causa del fatto che i partecipanti al gioco dialogico segmentano in maniera arbitraria il processo continuo della comunicazione. La c. problematica può manifestarsi con gradi diversi di difficoltà. B. Zani propone un'analisi dei fattori responsabili della c. problematica riguardanti il partecipante e quelli riguardanti il contenuto dei messaggi (Zani, Selleri, David 1994). Nel primo caso la c. può fallire a causa del fatto che il partecipante al dialogo interpreta in maniera errata le intenzioni sottostanti ai messaggi prodotti dal parlante oppure perché il parlante emette in maniera non corretta i messaggi o non rivela accuratamente le proprie intenzioni. Nel secondo caso si fa riferimento al contenuto dei messaggi e gli effetti problematici della c. possono essere imputati per lo più alle interazioni tra gli individui. Le interazioni, infatti, possono avere un'evoluzione positiva o negativa e ciò può riflettersi sui risultati della c.: per es., nel caso dell'interazione tra soggetti appartenenti a classi sociali differenti o a generazioni diverse, il fallimento della c. non dipende dal suo contenuto ma dall'obiettiva problematicità dell'interazione. Esempi specifici di fallimenti della c. possono essere alcune particolari forme di c. problematica che sfociano in modalità di 'discomunicazione' estreme quali la c. patologica. A questo proposito, G. Bateson (1979) ha elaborato la teoria del 'doppio legame' per descrivere diverse situazioni spesso paralizzanti. Il doppio legame è un meccanismo che sta alla base di una c. paradossale, in cui sono presenti simultaneamente messaggi multipli e contradditori, ossia una c. caratterizzata dal fatto che quanto il parlante afferma verbalmente viene contraddetto sul piano non verbale. Si produce il fenomeno del doppio legame, per es., quando un messaggio impone a un individuo di effettuare due comportamenti contradditori; se infatti il messaggio fosse del tipo 'Sii spontaneo', qualsiasi cosa un individuo facesse sarebbe in contraddizione con quanto il messaggio richiede: se non facesse nulla violerebbe l'imperativo di fare qualcosa, ma se aderisse all'ingiunzione non soddisferebbe la richiesta esplicitata dal messaggio. Modalità di c. problematiche sono del tutto naturali e frequenti nella vita quotidiana, ma sono anche caratteristiche di patologie mentali gravi come la schizofrenia.
La comunicazione mediata da tecnologie
Il prototipo della c. mediata da tecnologie è quella mediata da computer. Quest'ultima è tipicamente un sistema di c. asincrona il cui aspetto essenziale consiste nella tendenza a riportare in tutto o in parte il messaggio cui si intende rispondere. Si tratta di una particolare strategia volta a rendere più facile la comprensione della risposta da parte del ricevente. Un'altra caratteristica tipica di questa modalità comunicazionale è il ricorso a strategie volte a compensare la mancanza di codici di c. gestuali. C.C. Werry (1996) ha sottolineato che questa particolare modalità di c. influenza la conversazione caratterizzandola con un particolare 'registro linguistico' che si manifesta attraverso un uso altamente economico del linguaggio nel tentativo di emulare una normale conversazione faccia a faccia. In tale ottica vengono utilizzati molti acronimi e abbreviazioni; inoltre si osserva una frequente sostituzione di proposizioni, avverbi, aggettivi con simboli o segni di altri linguaggi artificiali. Vi sono altri aspetti psicologicamente rilevanti di questa modalità comunicazionale, messi in luce da P.M. Wallace (1999). Il primo è il processo di formazione delle impressioni dell'interlocutore. Mentre nella c. in presenza la creazione dell'impressione dell'interlocutore avviene velocemente, nella c. mediata dal computer il processo è sempre più lento ed è legato alle caratteristiche del mezzo. La velocità irregolare di trasmissione dei messaggi rende impossibile mantenere il ritmo tipico delle conversazioni tra interlocutori in presenza. Il secondo aspetto riguarda la gestione della propria identità. Spesso gli individui che comunicano in Internet, infatti, 'sperimentano' nuove identità con effetti positivi, come il miglioramento del sé reale, ma anche con conseguenze negative a livello sociale allorché il cambiamento di identità è volto a sostenere pratiche illecite.
bibliografia
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