Comunicazione
sommario: 1. Lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e i media come apparato sociale. 2. La neo-televisione e il declino della comunicazione di massa tradizionale. 3. I media elettronici come estensione del sensorio collettivo e le comunità virtuali. 4. Vecchi e nuovi media: un bilancio più realistico. 5. La società dell'informazione e il divario digitale. 6. Media, opinione pubblica e democrazia. □ Bibliografia.
1. Lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e i media come apparato sociale
Lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e di informazione ha conosciuto, negli ultimi due decenni del Novecento, un'accelerazione impressionante, destinata ad avere ripercussioni di grande portata sulla vita economica e politica, oltre che sul costume e sulla cultura. Alcuni ritengono anzi che questo sviluppo stia trasformando in profondità le stesse basi biosociali della conoscenza e del pensiero umano. Ma se la portata delle trasformazioni in atto è innegabile, va ricordato che tra le caratteristiche salienti dei media vi è quella di essere fortemente autopromozionali, cioè capaci al massimo grado di promuovere se stessi e presentarsi in una luce favorevole e accattivante agli occhi del pubblico, generando miti che alimentano l'immaginario collettivo e suscitando attese epocali.
Le conseguenze dello sviluppo dei sistemi di comunicazione sono ambivalenti. L'aumento delle informazioni e l'accresciuta velocità nella circolazione dei messaggi, tanto a livello micro, nei sistemi locali, quanto a livello macro, su scala planetaria, non significano di per sé un miglioramento nella qualità della vita individuale o un progresso per la società. Al contrario, vi è chi ritiene che i sistemi di comunicazione e di informazione abbiano portato a un inquinamento culturale e mentale che sta provocando un degrado dell'ambiente simbolico umano parallelo a quello causato nell'ambiente fisico e materiale dal modo di produrre e dall'organizzazione economica della società. Così come suscita attese futuribili, lo sviluppo dei media genera nel contempo grandi paure e previsioni allarmate.
I media possono essere definiti come apparati sociali nei quali sono incorporate tecnologie per la comunicazione a distanza con un pubblico di grandi dimensioni. In via di principio la loro funzione è quella di comunicare con il maggior numero possibile di persone, riducendo al minimo i tempi di diffusione dei messaggi. Storicamente, essi hanno in effetti consentito di moltiplicare i contatti fra popolazioni lontane, accrescendo gli scambi a livello mondiale, e quindi sono stati un indubbio fattore di progresso. Ma vari elementi possono ostacolare o distorcere la loro funzione.
Il primo di essi è costituito dalle diseguaglianze sociali, come la mancanza di istruzione e le condizioni di vita precarie, che in molti paesi escludono ampi settori della popolazione dalla fruizione dei media; o come la disuguaglianza di genere, ancora lungi dall'essere superata, tanto nei paesi poveri che in quelli ricchi. Anzi, non pochi studiosi e osservatori sostengono che lo sviluppo dei sistemi mediali e l'affermarsi di quella che viene chiamata 'società dell'informazione' non contribuiscono a ridurre il divario esistente tra paesi ricchi e paesi poveri, ma portano invece a un suo aggravamento, generando nuove forme di diseguaglianza sociale e di ritardo culturale.
Un altro possibile ostacolo alla funzione dei media è poi costituito dal fatto che in tutti i paesi, anche in quelli più democratici, essi subiscono, in una forma o in un'altra, condizionamenti esterni da parte di ambienti economici e finanziari, e vengono sottoposti a qualche forma di controllo politico. Inoltre i media, in quanto apparati sociali, sono organizzati in base a routines e principî di carriera, risultando quindi soggetti a quel fenomeno che in sociologia viene chiamato goal displacement, o distorsione degli scopi primari di un'organizzazione. Una delle forme più vistose di distorsione è la cosiddetta 'autoreferenzialità dei media'. Avviene spesso che le persone che hanno a che fare coi media - giornalisti, dirigenti, professionisti in vari campi della comunicazione - invece di parlare al pubblico, delle cui aspettative hanno spesso un'idea approssimata, finiscano per parlare soprattutto fra loro o con quei pochi che hanno un accesso privilegiato ai giornali e alle televisioni, come i leaders politici, i grandi managers, gli intellettuali di più o meno chiara fama, insieme ad altre categorie di personalità ritenute influenti, dai campioni sportivi ai divi dello spettacolo. L'autoreferenzialità dei media condiziona la rilevanza attribuita agli eventi e la priorità dei temi economici e sociali nella costruzione dell'agenda politica, e può portare a una frattura tra élites politiche e opinione pubblica, con conseguenze negative sulla qualità della democrazia. Un certo grado di autoreferenzialità è osservabile in tutti i sistemi mediali, anche in quelli maggiormente spettacolarizzati, come il sistema americano. La spettacolarizzazione e il sensazionalismo, del resto, ne sono spesso soltanto un aspetto complementare.
Tra gli effetti strutturali inattesi prodotti dall'espansione dei sistemi di comunicazione, vi è quello per cui quanto più cresce la quantità di informazioni diffuse dai media, tanto più diminuisce l'attenzione del pubblico. In altre parole, nella nostra società, paradossalmente, più i media comunicano e meno riescono a farsi sentire. Si tratta peraltro di un fenomeno che può essere spiegato in base al principio di utilità marginale che è alla base di tutte le scienze economiche. Nella fase storica in cui esistevano pochi canali e l'offerta di comunicazione rimaneva relativamente bassa, l'attenzione del pubblico e la domanda di comunicazione erano in crescita. Oggi, invece, il continuo aumento di notizie e informazioni da cui ogni giorno siamo bombardati fa sì che il pubblico fruisca sempre più distrattamente dei messaggi che gli vengono rivolti. Di conseguenza, l'attenzione del pubblico nelle condizioni attuali va considerata un 'bene scarso'. Il valore aggiunto dei media, come mostra il funzionamento dei mercati pubblicitari, è relativo alla loro capacità di attirare l'attenzione. Ormai da un paio di decenni il pubblico sembra essere in fuga dall'ascolto dei programmi televisivi e dalla lettura dei quotidiani. Anche se, considerato anno per anno, il calo non è drammatico, esso è tuttavia progressivo, si manifesta in tutti i sistemi mediali giunti a una certa soglia di sviluppo e sembrerebbe essere irreversibile. Se non si vuole accettare l'interpretazione semplicistica secondo cui il fenomeno sarebbe dovuto a una regressione culturale, e cioè alla crescente ignoranza e al disinteresse di massa verso l'informazione, questa contrazione del pubblico va intesa come l'indizio di un mutamento sistemico: il declino della comunicazione di massa tradizionale e l'avvento di modalità nuove di comunicazione mediale.
2. La neo-televisione e il declino della comunicazione di massa tradizionale
Intorno al 1980 il sistema dei media è andato incontro a un cambiamento di notevole portata. Per rendersene conto, basterà ricordare che sino ad allora, in quasi tutti i paesi, vi erano soltanto pochi canali televisivi nazionali, in bianco e nero. L'introduzione della TV a colori, avvenuta in quel periodo, poté sembrare solo un miglioramento tecnico, ma in realtà portò a una diversa fruibilità del mezzo e a un cambiamento della forma culturale stessa della televisione, spingendo i produttori a creare nuovi formati e nuovi linguaggi, mentre orientava il pubblico verso modalità diverse di ricezione e di consumo. Più o meno nello stesso periodo in cui fu introdotto il colore, cominciò la diffusione di massa della videoregistrazione e l'offerta sul mercato dei primi compact discs. Ciò portò al formarsi di un nuovo settore di consumo mediale, quello del home video. A rendere ancora più complessa la trasformazione dei mezzi audiovisuali, nascevano negli Stati Uniti nuove tecnologie di distribuzione delle immagini e dei suoni, come la televisione via cavo e via satellite; e venivano offerti, anche in Europa, i primi servizi interattivi, come il minitel, in Francia, e il teletext, che ebbe larga diffusione negli altri paesi. L'effetto sistemico principale di tutte queste innovazioni fu quello di portare a una convergenza e a un uso combinato di tipologie diverse di produzione audiovisiva, diminuendo fortemente i tempi di circolazione dei prodotti comunicativi e rendendo minimo l'intervallo che separa la produzione dal consumo (v. Pilati, 1990; v. Ortoleva, 1995; v. Pilati e Richeri, 2000). Tra le innovazioni tecnologiche introdotte in quegli anni va ricordata infine quella del telecomando, che permettendo le pratiche cosiddette di zapping, lo zigzagare da canale a canale, contribuì a rendere l'audience sempre più mobile, sfuggente e imprevedibile.
Tutto ciò spinse verso una trasformazione degli assetti istituzionali. Negli Stati Uniti nacque la CNN, una televisione che trasmetteva soltanto informazioni ventiquattr'ore su ventiquattro. Oltre a rompere il preesistente assetto oligopolistico dominato da tre grandi compagnie televisive, la CNN introduceva un modello nuovo, quello della televisione tematica a flusso continuo che diffonde i programmi via satellite o via cavo e si finanzia tramite abbonamento (v. Semprini, 1994). In Europa si ebbe la fine del monopolio statale dell'audiovisivo e l'affermarsi di un modello misto, di coesistenza tra radiotelevisione pubblica e radiotelevisione commerciale. La pubblicità, che sino ad allora aveva avuto un'incidenza relativamente ristretta, s'impose come una componente centrale del palinsesto televisivo, investendo il vissuto quotidiano degli spettatori con i suoi stilemi e le sue metafore che alimentavano l'immaginario collettivo e stimolavano la formazione di nuovi modelli culturali. Considerata negli anni cinquanta e sessanta soprattutto come una forma di manipolazione e di persuasione occulta (v. Packard, 1958), la pubblicità appariva ora, agli occhi di alcuni interpreti, come una tra le forme più originali di espressione della sensibilità e della cultura postmoderne (v. Abruzzese, 1988).
Il cambiamento sistemico sviluppatosi in quel periodo portò a un modo diverso di considerare il mezzo televisivo e a mettere in questione il concetto stesso di comunicazione di massa così com'era stato tradizionalmente inteso negli studi precedenti. Questa espressione, di sapore ottocentesco, viene usata di solito per indicare genericamente la comunicazione a un pubblico di grandi dimensioni. Ma non si deve dimenticare che, in senso proprio, la comunicazione di massa è quella forma culturale che ha caratterizzato la società industriale di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, quando i media quasi non esistevano o erano fruibili solo da una élite, e la circolazione sociale dei messaggi a larga diffusione era assicurata, più che dai media, dalle numerose occasioni in cui una moltitudine di persone si trovava fisicamente in contatto sui luoghi di lavoro, nelle caserme o nelle manifestazioni di piazza, spontanee od organizzate. La composizione del pubblico cominciò a cambiare già con l'introduzione della radio, e più ancora con quella della televisione, che portò alla formazione dell'audience, un nuovo tipo di pubblico che presenta caratteristiche sociologiche diverse da quelle della folla. Mentre la folla è un aggregato omogeneo e compatto in cui le differenze individuali si annullano, l'audience è un insieme internamente differenziato di persone disseminate sul territorio.
Spetta a Marshall McLuhan il merito di aver intuito per primo le forme sociali nuove della comunicazione elettronica. Dapprincipio la televisione era stata considerata nient'altro che un perfezionamento della radiofonia, una 'scatola dei suoni' a cui veniva ad aggiungersi l'immagine. McLuhan sostenne che in realtà la televisione è un mezzo del tutto diverso, che incorpora una tecnologia nuova e comunica in base a una logica mediale sua propria. Il modo di esprimersi aforistico e il gusto di McLuhan per le enunciazioni paradossali hanno fatto sì che questo autore venisse tanto amato e sostenuto da una schiera di seguaci entusiasti, quanto avversato aspramente e considerato alla stregua di un affabulatore da molti rappresentanti del mainstream accademico (v. Finkelstein, 1968). Ciò portò a non poche incomprensioni. È nota, in proposito, l'aggressività con cui egli attaccò Wilbur Schramm, considerato allora come il maggior esponente della communication research, quel filone di ricerca empirica sviluppatosi sin dagli anni quaranta negli Stati Uniti che aveva gradualmente accumulato preziose conoscenze sui meccanismi della comunicazione di massa. L'esigenza di operare una rottura con la precedente tradizione di studi e di mettere in primo piano la discontinuità rappresentata dalla comunicazione elettronica resero ingeneroso il grande studioso canadese, mentre Schramm reagì in modo signorile alla contestazione, dando ampio spazio alle critiche di McLuhan nei suoi scritti successivi (v. Savarese, 1990).
Ragionando a distanza di tempo su questa controversia è tuttavia possibile cogliere tra le due scuole di pensiero, così diverse per metodo di analisi e stile conoscitivo, un importante elemento di convergenza. McLuhan sosteneva infatti che la televisione, essendo un mezzo 'freddo' e cioè povero di informazioni, in quanto comunica essenzialmente attraverso immagini, richiede per funzionare la collaborazione dello spettatore, che deve poter attribuire un significato a ciò che vede sullo schermo. Perciò McLuhan, in contrasto con la tradizione di studi sulla comunicazione di massa, affermava che la televisione, malgrado l'apparenza, è fondamentalmente un mezzo di comunicazione interattivo.
Dal canto suo, Schramm sosteneva che il pubblico non è passivo, come voleva la cosiddetta bullet theory, o teoria ipodermica, di ispirazione behaviorista, ma si mostra attivo e capace di reagire in modi molto differenziati, a volte anche inaspettati, a uno stesso messaggio. Bisognava quindi formulare una teoria della ricezione che mettesse in rilievo questi fenomeni e che sapesse cogliere gli aspetti interattivi della comunicazione.
Questo elemento di convergenza è stato in seguito ripreso da un nuovo filone di ricerca, quello sulla cosiddetta 'neo-televisione', a cui ha dato un importante contributo la scuola semiologica italiana (v. Eco, 1975; v. Bettetini, 1979; v. Casetti, 1988; v. Odin e Casetti, 1990). In sintesi, essa pone come centrale il problema della produzione di senso, affermando che il senso si genera solo grazie a un patto più o meno tacito tra media e audience. L'introduzione del telecomando avrebbe potenziato le capacità reattive anche delle specie più teledipendenti di spettatori, dotandole di una vera e propria protesi-arma, che avrebbe prodotto una sorta di mutazione antropologica e che imporrebbe alle emittenti di blandire una audience sempre più sfuggente allo scopo di conquistarla. Come osserva Francesco Casetti, anche se questo è pur sempre un patto diseguale in cui l'emittente televisiva si ritaglia una parte leonina, la tendenza è irreversibile e impone un cambiamento di paradigma: la comunicazione, che agli inizi era concepita essenzialmente come un processo di 'trasmissione', deve ormai essere considerata in termini di 'interazione'. Negli anni novanta questo mutamento di prospettiva trova conferma con il moltiplicarsi degli audience studies, che adottano spesso metodi di indagine microsociologica ed etnografica (v. Ang, 1991; v. Moores, 1993; v. Silverstone, 1994; v. McQuail 1997).
3. I media elettronici come estensione del sensorio collettivo e le comunità virtuali
A quarant'anni dalla pubblicazione, nel 1964, dell'opera fondamentale di McLuhan, Understanding media, molte delle tesi sostenute dall'autore appaiono singolarmente attuali se riferite alle reti di computer e alle nuove prospettive della comunicazione interattiva. L'idea più originale e teoricamente produttiva di McLuhan è certo stata quella dei media come protesi, ossia estensione del sensorio umano nell'ambiente e come mezzo di interazione con esso. Una concezione che ha le sue radici nella tradizione di pensiero americana rappresentata dal pragmatismo e che McLuhan ha rielaborato in maniera originale. Egli sosteneva inoltre che la comunicazione elettronica rende "immateriale" il nostro corpo, dilatandolo nell'etere; e che questo fenomeno genera una "guerra dei media", come mostravano, già alla fine degli anni settanta, le nuove forme di terrorismo che si servivano della televisione per diffondere i loro messaggi. Infine, un'altra idea di McLuhan che è stata largamente ripresa è quella secondo cui la comunicazione elettronica, data la sua velocità e la possibilità di far circolare le informazioni quasi in tempo reale, rende il mondo un "villaggio globale".
Oltre a essere recepite successivamente anche dal mainstream accademico, queste idee di McLuhan hanno fatto nascere un filone di 'profetismo mediatico' che ha sviluppato il suo pensiero in senso idealistico, non privo di esiti mistici. Tra gli interpreti più originali va incluso innanzitutto Derrick de Kerckhove, che di McLuhan è stato assistente e collaboratore. De Kerckhove considera i media elettronici come "psicotecnologie" che stanno iniziando a cambiare il nostro modo di percepire l'ambiente e di pensare le relazioni fra interno ed esterno. L'uomo del Rinascimento cede il passo a un uomo diverso, che non pensa più come una singola mente, ma diventa lo 'snodo' di un sensorio elettronico trascendente l'individuo. Questo nuovo tipo umano sarà l'uomo "transinterattivo". Sviluppando il tema mcluhaniano del "villaggio globale" in senso idealistico, de Kerckhove preannuncia l'avvento di una "intelligenza connettiva", basata su un nuovo brainframe, o schema-mente, che supererà i limiti sia dell'individualismo che del collettivismo. Il tema dell'intelligenza collettiva superindividuale generata dalle reti mediali interattive è stato affrontato anche dal francese Pierre Lévy, che ha cercato di sfrondarlo dagli accenti misticheggianti e di presentarlo come un progetto ideale di legame sociale senza barriere.
L'idea che il computer sia una protesi della nostra mente e che sia possibile, in un futuro più o meno prossimo, collegarlo a essa innestando direttamente dei biochips elettronici nel cervello, in modo da potenziare le nostre facoltà sensoriali e intellettive, è stata peraltro sfruttata e resa popolare da un importante filone della letteratura 'di anticipazione'. Tale filone è stato iniziato da uno scrittore considerato ormai un caso letterario, come Philip K. Dick, il primo ad affrontare il tema dei simulacri, dei cloni e dei cyborgs, e ha trovato uno sbocco nella fantascienza cyberpunk. La possibilità - ipotizzata dagli scrittori cyberpunk e poi spettacolarizzata da vari film, tra cui Nirvana di Gabriele Salvatores - di registrare i pensieri e le sensazioni di una persona su un supporto elettronico, come si fa con una cassetta televisiva, per poi trasferirli nella mente di un altro individuo che li rivive, prefigura anch'essa il superamento dell'esperienza individuale e l'avvento di forme trascendenti di mentalismo sociale. Ma questo tema assume qui toni antagonistici, di contrapposizione anarchica e libertaria alla società delle reti informatiche. Il protagonista delle narrazioni cyberpunk è lo hacker, nuovo tipo di eroe negativo e reincarnazione dello spirito underground, il quale si ribella contro un mondo inquadrato e computerizzato, e non solo è capace di penetrare nelle banche dati più gelosamente custodite, ma fa anche saltare le matrici di realtà imposte dalle grandi corporations, liberando gli uomini dalla schiavitù elettronica (v. Hafner e Markoff, 1991; v. Giovannini, 1992).
Accenti ottimistici dominano invece nel pensiero dell'americano Nicholas Negroponte, direttore del Media Lab presso il Massachusetts Institute of Technology, una tra le più note figure di guru dei media, che predice l'avvento della "società digitale". Come afferma uno dei suoi principali collaboratori (v. Brand, 1987), Negroponte assomiglia più a un idolo del cinema che allo stereotipo del tecnologo d'avanguardia. Egli ama circondarsi di un pizzico di mistero e parlare in modo oracolare. Attorno alle ricerche e agli esperimenti da lui condotti sono nate varie leggende, sapientemente alimentate. Giornali elettronici fatti su misura e personalizzati, computer che avranno la dimensione di un bottone, pur essendo infinitamente più potenti di quelli attuali, addirittura abiti la cui fibra sarà intessuta di microchips, che non avranno più bisogno di essere lavati e permetteranno di connettersi in continuazione con persone e centri sparsi in tutto il mondo, telefoni che rispondono da soli e utensili intelligenti d'ogni tipo: sono solo alcune delle mirabilia di cui Negroponte decanta l'imminente scoperta e messa in circolazione. Di fronte a clamorosi annunci come questi, miranti soprattutto ad appoggiare campagne di raccolta fondi, è lecito nutrire dei dubbi e ricordare gli inviti alla riflessione e alla cautela rispetto alle reali prospettive della 'società dell'informazione' (v. Stoll, 1995; v. Cesareo, 1996; v. Van Dijk, 1999; v. Wolton, 1999; v. Castells, 2001).
Un caso emblematico di proiezioni future che hanno suscitato brillanti discussioni, ma che oggi debbono venir ripensate criticamente, è rappresentato dalla tesi sostenuta da Joshua Meyrowitz, secondo cui i nuovi media, in quanto consentono di avere scambi e stringere relazioni personali senza necessità di essere fisicamente presenti, porteranno alla "perdita del senso del luogo". In realtà, questo punto di vista enfatizza una tendenza che è lontana dall'affermarsi come dominante e non coglie il fatto che l'era digitale fa nascere a sua volta nuove forme di selezione e di esclusività basate sul luogo e nuovi bisogni di prossimità sociale (v. Rampini, 2001). A Palo Alto come a New York o a Roma, pranzare in un ristorante esclusivo, avere accesso a certi club o a certi salotti, poter incontrare a quattr'occhi talune persone che contano, rimane e rimarrà un fattore di distinzione sociale e un canale attraverso cui ottenere risorse.
I media digitali semmai cambiano la nostra concezione dello spazio e offrono la possibilità di creare nuovi luoghi, come le comunità virtuali, che pur non avendo più come base una contiguità territoriale generano ugualmente delle relazioni di prossimità. A dieci anni di distanza dall'ormai classica opera di Howard Rheingold (v., 1993) su questo tema, bisogna però dire che le comunità virtuali assimilabili al tipo sociologico del buon vicinato, o che ricalcano il modello della fattoria e del ruralismo homesteading auspicato da Rheingold, sono rimaste una minoranza e rappresentano più un fenomeno da iscriversi nel filone del neocomunitarismo californiano e delle élites controculturali che un ampio movimento destinato a cambiare la forma delle relazioni sociali. Semmai, come osserva Manuel Castells (v., 2001), il contributo delle comunità in rete è stato quello di espandere in maniera straordinaria l'attività di connessione, contribuendo a far conoscere ad ampi strati di operatori economici e sociali, al di fuori delle élites tecnocratiche o controculturali, le potenzialità implicite nella comunicazione interattiva a distanza.
4. Vecchi e nuovi media: un bilancio più realistico
Il limite principale della maggior parte delle previsioni e delle profezie sull'evoluzione dei sistemi mediali è quello di non tenere conto della complessità e delle interazioni tra tecnologie di comunicazione, funzionamento dei mercati, forma organizzativa degli apparati e stili di fruizione e consumo da parte del pubblico. D'altra parte va riconosciuto che è piuttosto difficile riuscire ad avere dei punti di riferimento sicuri in un settore in continua evoluzione come questo. E anche chi ha tentato, con più attendibilità, di tracciare un quadro complessivo (v. Van Dijk, 1999; v. Castells, 2001), rischia nel giro di pochi anni di trovarsi spiazzato. Pertanto, se negli anni novanta la letteratura sulla comunicazione è stata dominata dal profetismo e dalle mitologie nati su Internet (v. Stefik, 1996), la tendenza che sembra affermarsi nel primo decennio del XXI secolo è quella del ripensamento critico e del bilancio realistico sugli sviluppi in corso.
Ad esempio, ancora non si è realizzata la digitalizzazione del flusso televisivo che, grazie alla traduzione in codice binario delle immagini e dei suoni, permetterebbe l'aumento delle frequenze e dei canali disponibili dalle poche decine attuali a più di un migliaio. E questo frena l'avvento della televisione tematica via cavo o via satellite, che avrebbe dovuto essere la "televisione di domani" (v. Lunven e Vedel, 1993). La profonda crisi dell'impero mediatico di Leo Kirch, le vicende della francese Vivendi e la contrazione dell'audience di Canal Plus mostrano che il passaggio dal modello di impresa televisiva finanziata dalla pubblicità e con visione gratuita dei programmi, alla televisione a pagamento nelle sue varie forme, è più complesso di quanto non si pensasse. Il prezzo dell'abbonamento o dei programmi pagati a consumo (la cosiddetta TV on demand) è troppo alto per le fasce popolari. E il fenomeno della pirateria e delle smart cards contraffatte è così diffuso che per contrastarlo sarebbero necessari grossi investimenti nella sicurezza informatica, tali da rendere queste imprese poco redditizie. A tutto ciò si aggiunga che i mezzi tradizionali non sono affatto scomparsi, come mostra l'esempio della radio, che ha trovato una propria nicchia e nuovi modi di fruizione da parte di settori considerevoli di pubblico (v. Menduni, 1993). Allo stesso modo anche la TV pubblica generalista, già data per obsoleta e prossima alla marginalità, è tutt'altro che morta e trova ancora autorevoli sostenitori che credono nella sua validità rispetto alle televisioni commerciali di ogni tipo (v. Wolton, 1990).
Il giornale elettronico personalizzato, che Negroponte chiamava il "Me daily", non si è realizzato, anche se si stanno sviluppando varie forme di microgiornalismo, come i cosiddetti weblogs, a metà strada tra la bacheca elettronica e il foglio di notizie locali. Inoltre, è sempre più diffuso il ricorso alle testate nazionali on line per informarsi sugli eventi in corso. Negli Stati Uniti, in base a dati del Pew Research Center riferiti al 2000, la percentuale di coloro che apprendono le notizie dalla rete è ormai quasi alla pari con quella di coloro che le apprendono dalla televisione, i quali sono fortemente diminuiti dal 1993 al 2000, passando da valori prossimi al 60% a poco più della metà. E ormai, ben il 74% dei giovani attinge le notizie del giorno in rete, trascurando la televisione.
Una novità importante è rappresentata dalla messa in commercio di supporti DVD, il sostituto digitale della videocassetta. Già nel 2001 le vendite di lettori DVD hanno superato negli Stati Uniti quelle degli apparecchi di videoregistrazione, ma il salto vero e proprio avverrà quando sul mercato saranno posti in vendita apparecchi a più basso costo e in grado non soltanto di leggere, ma anche di registrare digitalmente. Anche in Europa, del resto, si può notare che all'offerta di DVD nei grandi magazzini si tende già a dare maggiore evidenza rispetto a quella delle videocassette tradizionali o dei CD musicali, che vengono relegati negli scaffali meno importanti. Quando questa tendenza si affermerà definitivamente, poiché i files sono duplicabili e trasmissibili, vi saranno indubbie ripercussioni sull'industria del video, sulle catene di videonoleggio e forse sulla stessa televisione commerciale. Lo si è già intravisto con il caso Napster, un programma inventato da un diciannovenne studente a Boston, che permetteva lo scambio gratis di files musicali. Si calcola che nel momento della sua maggiore espansione, e prima di essere bloccato dai processi intentatigli dalle grandi case discografiche, solo negli Stati Uniti questo programma sia stato utilizzato da 58 milioni di persone. Senza contare la sua diffusione in altri paesi, ivi compresa l'Italia. E sviluppi analoghi sono attesi con le macchine fotografiche e le videocamere digitali, che metteranno alla portata di tutti tecniche ed effetti speciali estremamente sofisticati.
Infine, non è detto che la convergenza multimediale porti a una unificazione tra video e computer. Per ora il computer rimane un manufatto da scrivania, usato di preferenza nel lavoro e nella vita attiva, mentre lo schermo televisivo continua a essere la scatola mediale che presiede alle nostre ore di divertimento e di relax (v. Menduni, 2002). È comunque prevedibile a breve, specie tra i giovani, il moltiplicarsi di schermi e di consolles fungibili, collocati in vari ambienti e adatti a vari usi.
5. La società dell'informazione e il divario digitale
Anche se con ritmi di cambiamento più lenti del previsto, l'affermarsi di quella che Manuel Castells ha chiamato "società dell'informazione", e che altri autori preferiscono invece definire "società digitale" o "società in rete", sembra gradualmente proseguire. Lo dimostra, non fosse altro, il crescente numero di possessori di personal computers, che secondo un dato fornito da Bill Gates sarebbero oggi 600 milioni nel mondo. E gli utenti attivi di Internet, cioè le persone che passano almeno un'ora alla settimana collegandosi alla rete, che erano 327,5 milioni nel 2000, secondo alcune stime diventerebbero oltre 600 milioni nel 2003, una cifra pari al 10% della popolazione mondiale. Stiamo dunque passando dalla fase in cui l'attività di connessione e l'accesso alle reti di computer erano praticati solo da ristrette élites tecnocratiche o controculturali, a una fase nuova, in cui entrano in scena fasce relativamente ampie di pubblico, che negli Stati Uniti comprendono già più della metà delle famiglie e anche nei paesi europei si stanno progressivamente avvicinando a questa soglia. La rapidità di questa evoluzione può essere meglio compresa se si considera che alla radio occorsero 38 anni per raggiungere un pubblico di 50 milioni, alla televisione 13 anni, mentre a Internet sono bastati 4 anni appena. In Italia, dove l'attività di connessione si è sviluppata più tardi che negli altri paesi europei, il ritmo di aumento è tuttavia accelerato e in pochi anni si è passati dai 4-5 milioni di utenti agli 11-12 attuali, secondo stime di varie fonti. Anzi, in base a un'indagine Federcomin svolta alla fine del 2001, il 41% delle famiglie italiane disporrebbe ormai di un personal computer, una percentuale superiore a quelle della Germania e della Francia, sebbene in questi ultimi paesi l'impatto delle tecnologie dell'informazione e l'accesso a Internet siano superiori.
Lo sviluppo globale delle comunicazioni digitali è però fortemente squilibrato, come ha denunciato il segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan in un discorso tenuto il 16 novembre 2000, in occasione del United Nations world television forum. Il 70% circa della popolazione mondiale non avrebbe mai sentito parlare di Internet. Il 97% dei siti web, il 95% dei servers e l'88% degli utenti è concentrato nei paesi industrializzati. Stati Uniti e Canada comprendono da soli il 57% dei navigatori Internet, mentre Africa e Medio Oriente insieme arrivano appena all'1%. E anche nei paesi maggiormente industrializzati, come gli Stati Uniti, vi sono aree più svantaggiate (ad esempio quelle rurali) e settori di popolazione (ad esempio gli Afro-americani e gli Ispano-americani) che in gran parte mancano di accesso ai media connettivi (v. Morawski, 2001). È il problema del cosiddetto 'divario digitale', che rischia di aggravare la spaccatura esistente tra paesi poveri e paesi ricchi.
Già nel 1980 una commissione nominata dall'UNESCO e presieduta dall'irlandese Sean MacBride denunciava la diseguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri nel campo delle comunicazioni mediali. Quasi il 100% del flusso di informazione risultava essere a senso unico, dai paesi occidentali verso gli altri paesi, con gravi rischi di colonizzazione culturale oltre che di controllo politico e di subordinazione economica (v. Commission internationale ..., 1980). Oggi la situazione non è molto cambiata rispetto a questo rapporto, anzi, lo sviluppo della comunicazione e dei media digitali ha per molti aspetti aggravato le diseguaglianze esistenti. Vi sono però alcune novità. Va in primo luogo ricordato che, nel campo della fiction, alcuni paesi terzi, in particolare l'Egitto, l'India e il Brasile, dispongono di centri di produzione cinematografica e televisiva di una certa consistenza. Stando ai dati dell'UNESCO, purtroppo discontinui e aggiornati con ritardo, l'Egitto avrebbe prodotto 103 film nel 1986 e 72 nel 1994 (ultimo dato riportato). Quanto all'India, si hanno ben 912 lungometraggi nel 1985 e 838 nel 1992 (ultimo dato riportato). I film indiani (la cui industria dello spettacolo è stata significativamente soprannominata 'Bollywood') hanno una certa penetrazione, oltre che nei mercati asiatici, anche nei mercati occidentali, specie in quello statunitense. La grande emittente brasiliana Rede Globo, che ha acquistato varie partecipazioni e canali televisivi, anche in Italia, rappresenta secondo alcuni il quarto network mondiale ed è sicuramente tra i maggiori produttori di fiction televisiva. Le telenovelas brasiliane hanno invaso i teleschermi di molti paesi, in special modo quelli italiani. Ma soprattutto, il fenomeno di maggior rilievo, a livello mondiale, è la nascita di Al Jazira, la televisione che è stata soprannominata 'la CNN del mondo arabo' e che ha dimostrato di saper incidere in modo efficace sul flusso globale della comunicazione, specie in occasione della guerra in Afghanistan e del terrorismo fondamentalista.
Anche per quel che riguarda il divario digitale, sebbene esso sia di tale entità da non potersi ritenere possibile colmarlo nel breve periodo, o almeno giungere a una sua attenuazione significativa, vi sono segni e fenomeni che vale la pena seguire attentamente. La rivista "Wired", ad esempio, ha stilato nel luglio 2000 una classifica dei 46 luoghi che contano maggiormente nel campo dell'ICT (Information and Communication Technologies). Al primo posto troviamo naturalmente la Silicon Valley. Ma già al decimo si incontra Taipei (Taiwan), e subito dopo Bangalore (India). Sia pure al 32° e al 34° posto, vi sono Hong Kong e San Paolo (Brasile); e agli ultimi posti della classifica, oltre a Singapore, riescono a entrare nella lista, che non comprende alcun sito italiano, anche due località africane, El Ghazala (Tunisia) e Guteng (Sudafrica). Anche se in Africa i possessori di personal computers sono una minoranza molto ristretta, stanno comunque nascendo dei punti di eccellenza e si vengono formando delle piccole élites informatiche. Accanto a esse, il fenomeno degli Internet café promette una diffusione dell'accesso a fasce un po' più larghe di pubblico, stimate sui 4-5 milioni. E se la rete fissa di telefonia africana cammina con passo lento, la telefonia mobile conta già 23 milioni di utenti. Pochi, su scala continentale, ma già molti se si guarda in prospettiva alle possibilità dello sviluppo digitale futuro.
6. Media, opinione pubblica e democrazia
Insieme al problema del divario digitale, l'aspetto più importante su cui riflettere è quello dell'influenza dei media e dell'impatto che essi possono avere sulle forme di regime politico e in particolare sulla qualità della democrazia. Il dibattito fra chi attribuisce ai media un grande potere e drammatizza le conseguenze della loro influenza sociale e politica, e chi invece tende a ridimensionarne gli effetti ha accompagnato sin dalle origini gli studi sulla comunicazione ed è con ogni probabilità destinato a riproporsi anche in futuro. Negli anni ottanta, ai critici di quella che David Altheide ha definito media logic - ossia la tendenza a spettacolarizzare e a personalizzare la vita politica -, i quali mettono i media sotto accusa per le periodiche ondate di allarmismo e di emotività da essi suscitate (v. Edelman, 1967 e 1988), si sono contrapposti quegli studiosi che considerano la televisione come un grande occhio che non vede (v. Patterson e McClure, 1976) o guardano alla politica-spettacolo come a un fenomeno di costume, senza darne un giudizio pregiudizialmente negativo (v. Cayrol, 1986; v. Statera, 1986).
La difficoltà di accertare quale sia l'influenza dei media ha portato a distinguere gli effetti cognitivi della comunicazione da quelli persuasivi. Questa nuova prospettiva di ricerca è stata aperta innanzitutto dagli studi sul cosiddetto 'effetto di agenda'. Il termine 'agenda' indica l'insieme dei temi (in inglese issues e in francese enjeux) a cui si attribuisce priorità nei processi di policy making. Secondo questa teoria, il più importante effetto dei media non è tanto quello di influenzare l'atteggiamento del pubblico pro o contro le alternative che un problema presenta, quanto piuttosto di rendere questo problema più visibile e quindi di 'metterlo all'ordine del giorno' e farlo considerare rilevante sia dall'opinione pubblica che dai politici. Ciò viene chiamato agenda setting, o predeterminazione dell'agenda politica (v. Cobb ed Elder, 1972; v. Shaw e McCombs, 1977; v. MacKuen e Coombs, 1981; v. Iyengar e Kinder, 1987; v. McCombs e altri, 1997).
Uno tra i contributi più originali alla teoria degli effetti cognitivi della comunicazione è l'ipotesi della 'spirale del silenzio', avanzata dalla studiosa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann. Secondo tale ipotesi, gli individui si troverebbero in uno stato di isolamento, definito dall'autrice pluralistic ignorance, per cui cercherebbero innanzitutto di capire se il loro punto di vista sia condiviso da altri, prima di esprimersi pubblicamente. Se trovano conferme alla loro opinione, la sostengono apertamente, mentre tendono a tacere in caso contrario. Si innesca così un processo a spirale, in cui di volta in volta gli uni si zittiscono e gli altri parlano più forte, finché non si raggiunge un punto di equilibrio e si viene a formare un clima d'opinione dominante. I media hanno un ruolo centrale in questo processo, perché forniscono rappresentazioni delle tendenze che si vanno affermando. Questa ipotesi è molto convincente, ma presenta alcuni limiti. Secondo Noelle-Neumann la spirale del silenzio porta fondamentalmente a una pressione verso il conformismo sociale. Ma è chiaro che ciò dipende dal grado maggiore o minore di pluralismo dei mezzi di comunicazione. In una democrazia pluralistica l'agenda politica si forma entro arene aperte, dove i leaders e gli apparati politici competono fra loro e interagiscono con i media, cercando di stabilire a quali temi vada attribuita la priorità e di affermare una rappresentazione a loro favorevole del clima d'opinione. La qualità della democrazia, oltre che dal pluralismo dei mezzi di comunicazione, dipende anche dal mantenimento della distinzione di ruoli fra giornalisti e politici. Quando essa tende a scomparire, la capacità di tematizzazione del giornalismo viene meno, il grado di autoreferenzialità del sistema aumenta portando a un distacco fra élite politica e cittadini (v. Marletti, 1984 e 1985; v. Grossi, 1985). Ciò può aprire il varco a movimenti populisti e al formarsi di un clima antipolitico, come mostra il caso italiano e la crisi seguita a 'Tangentopoli' (v. Mastropaolo, 2000).
L'influenza che i media hanno sulla politica è variabile secondo il contesto sociale e politico (v. Gunther e Mughan, 2000). Nei paesi dove sono al potere regimi autoritari, o dove si sta sviluppando una transizione alla democrazia, il giornalismo e i media hanno svolto una importante funzione democratica e possono contribuire positivamente al ristabilirsi delle libertà civili, come mostrano numerosi casi, dai paesi comunisti dell'Est europeo a quelli del Sudamerica. Viceversa, nelle democrazie consolidate l'interazione fra media e politica tende a produrre effetti involutivi. Se nelle democrazie consociative, basate su sistemi elettorali proporzionali, si ha il fenomeno della autoreferenzialità (v. Marletti e Roncarolo, 2000), nelle democrazie maggioritarie, e in particolare nei regimi presidenzialisti, la politica-spettacolo dà luogo a forme di 'campagna negativa', basate sullo scandalismo e sull'attacco personale agli avversari, che diffondono cinismo e portano al rifiuto della politica da parte di larghi settori dell'opinione pubblica (v. Patterson, 2000; v. Sabato e altri, 2000; v. Thompson, 2000).
Sebbene non manchino, anche recentemente, studiosi che lo considerano alla stregua di un mito (v. Schudson, 1995; v. Neveu, 1997), il potere dei media e la cosiddetta 'mediatizzazione della politica' sono stati nell'ultimo decennio il bersaglio polemico di una nutrita schiera di critici. Particolare impressione ha destato, nel 1989, l'elezione di Fernando Collor de Melho, un politicante di provincia quasi sconosciuto, a presidente del Brasile, grazie al sostegno di Roberto Marinho, il potentissimo proprietario di Rede Globo (v. De Lima, 1996). Questo risultato è sembrato una conferma del rischio di uno slittamento dalla democrazia liberale alla "telecrazia", un termine coniato da Christopher Arterton. Successivamente, il caso Ross Perot negli Stati Uniti e le elezioni politiche italiane vinte nel 1994 da Silvio Berlusconi - anche grazie all'uso di tecniche di marketing politico, per la prima volta usate su larga scala nel nostro paese - hanno fatto ulteriormente divampare la polemica. Per altro, va ricordato che appena tre anni dopo la sua elezione Collor de Melho è stato sottoposto a impeachment e costretto a dimettersi; e oggi il Brasile è governato da un politico di sinistra come Luiz Inácio Lula da Silva. Ross Perot non è riuscito nei suoi tentativi, e quanto a Berlusconi, il suo caso va ricondotto innanzitutto al problema del grado di pluralismo esistente nei sistemi di comunicazione e alla regolamentazione delle campagne elettorali e dei conflitti di interesse tra cariche politiche e proprietà dei media.
Tra gli elementi strutturali che caratterizzano l'evoluzione attuale delle democrazie mediatizzate, due in particolare vanno segnalati. Il primo è costituito dall'uso sempre più frequente di sondaggi d'opinione, non soltanto nell'imminenza delle campagne elettorali, ma in occasione di ogni evento o congiuntura di un qualche rilievo. Questo crescente ricorso ai sondaggi assume la forma di una continua interrogazione del corpo elettorale e di una ininterrotta messa in discussione del consenso e degli equilibri di potere, che dà luogo al fenomeno della cosiddetta 'campagna permanente' (v. Blumenthal, 1980).
Intrecciato a questo primo aspetto, vi è poi quello della formazione di apparati sempre più massicci di consulenti ed esperti di comunicazione e di campaigning, che vanno considerati come un tipo nuovo di attore politico, differenziato sia dagli apparati dei media che da quelli dei partiti o dei leaders. Questo fenomeno, che si è sviluppato sin dagli anni ottanta nel sistema presidenzialistico americano (v. Sabato, 1981; v. Roncarolo, 1994), tende a diffondersi ormai anche nei sistemi europei, sia pure con varie differenze e limitazioni (v. Mancini, 1988; v. Franklin, 1994; v. Séguéla, 1995; v. Swanson e Mancini, 1996). In una prima fase, il consulente politico è soprattutto un esperto di marketing, chiamato ad applicare delle tecniche pubblicitarie nelle campagne elettorali. In un secondo tempo, questa figura tende a fondere insieme il ruolo del portavoce e quello dell'esperto in relazioni pubbliche. Emerge così lo spin doctor, termine intraducibile in italiano, il cui compito è quello di fornire ai media e all'opinione pubblica la versione 'autentica' dei fatti, vale a dire l'interpretazione maggiormente favorevole di eventi e temi scottanti. Gli spin doctors che facevano parte della squadra di consulenti media intorno a Clinton sono stati i protagonisti dell''affare Lewinski' e hanno avuto un ruolo essenziale nel trarre il presidente d'impaccio e consentirgli di mantenere il favore dell'opinione pubblica, malgrado la pesante campagna negativa dei repubblicani e l'atteggiamento sfavorevole degli ambienti giornalistici più influenti (v. Snyder, 1995; v. Tonello, 1999; v. Ewen, 1996; v. Kurtz, 1998).
Una linea di interpretazione critica che si potrebbe definire neo-tocquevilliana è stata sviluppata in Francia da Pierre Bourdieu, il quale, già in un saggio del 1973, aveva affermato provocatoriamente che "l'opinione pubblica non esiste" e che le indagini d'opinione, lungi dall'essere obiettive, sono un simulacro della volontà popolare, costruito con la scusa di dare la parola alla gente e utilizzato poi come instrumentum regni. Un punto di vista non dissimile è stato sostenuto negli Stati Uniti da Benjamin Ginsberg, secondo cui quella attuale è un'età in cui dominano le opinioni delle masse. Ma tra le masse e i leaders viene a crearsi una specie di circolo vizioso: i politici, smaniosi di assecondare il pubblico, con i sondaggi ne 'catturano' l'immagine per usarla come una loro risorsa di potere. Bourdieu è tornato a insistere su questo tema anche nei suoi ultimi scritti, accusando la televisione di cedere alla logica commerciale della misurazione dell'audience e di piegarsi alle esigenze demagogiche di quello che chiama il "plebiscito commerciale". I sondaggi, gli hanno fatto eco altri, non aprono il 'campo politico' e non lo rendono più trasparente, ma lo rinchiudono in giochi autoreferenziali (v. Bourdieu, 1973 e 1996; v. Ginsberg, 1986; v. Champagne, 1990; v. Blondiaux, 1998).
La diffusione del personal computer e lo sviluppo delle attività connettive e della navigazione in rete creano nuovi scenari nell'interazione tra media, politica e opinione pubblica. A questo proposito si rilevano due preoccupazioni in un certo senso opposte. La prima è quella di un rafforzamento del controllo sociale. Attraverso Internet le centrali del potere possono invadere la nostra intimità e giungere a controllare ogni aspetto della nostra vita quotidiana, manipolandola. Grandi satelliti spia sorveglierebbero ogni nostro comportamento e denuncerebbero ogni nostra trasgressione alle regole. L'uso di carte elettroniche rivelerebbe in continuazione i nostri movimenti alle grandi compagnie che se ne servirebbero per nuove tecniche di marketing. Inserite nelle banche dati delle centrali di intelligence queste informazioni personali consentirebbero una gigantesca schedatura della popolazione dell'intero pianeta. Internet, secondo questo punto di vista, rappresenterebbe l'avvento del Grande Fratello paventato da George Orwell. Altri temono invece, all'opposto, che la rete porti a un indebolimento del controllo e possa avere conseguenze disgregative e anarchiche rispetto al tessuto dei rapporti sociali, diffondendo disordine. Nei meandri del web possono annidarsi terroristi, sette sanguinarie, criminali pronti ad agire, gruppi che mettono a disposizione di chiunque tecnologie distruttive. Entrambe queste tesi estreme sono discutibili anche se colgono aspetti di realtà. Le nuove tecnologie di comunicazione e di informazione rendono possibili tecniche di controllo individuale e sociale molto sofisticate e consentono forme di intrusione senza precedenti nella nostra vita privata. Il problema da affrontare, se si vogliono evitare le conseguenze perverse derivanti da queste possibilità, è quello della istituzionalizzazione, culturale e giuridica, degli usi dei nuovi media. Un caso importante, in proposito, è costituito dalle leggi sulla privacy. Come è stato osservato, se la società industriale ha dovuto affrontare il problema della costruzione di una sfera pubblica, la società dell'informazione deve risolvere quello della costruzione di una sfera privata, vale a dire della tutela dell'individuo di fronte all'invadenza dei media, vecchi e nuovi (v. Rodotà, 1997).
Un altro aspetto, non meno importante, del rapporto tra nuovi media e democrazia riguarda il modo in cui vengono prese le decisioni politiche. Venuta meno la concezione, insieme ottimistica e ingenua, secondo cui le nuove tecnologie della comunicazione e dell'informazione rendevano possibile la democrazia diretta, l'attenzione è andata spostandosi sul processo dialogico che porta alle decisioni di governo. Se in precedenza solo un ristretto numero di specialisti e di attori politici poteva concorrere a definire i provvedimenti da prendersi, oggi i nuovi media e le reti connettive rendono possibili forme di consultazione molto più vaste e decisioni assai più ponderate. I pro e i contro di una scelta politica possono essere resi più trasparenti e messi alla portata di tutti tramite le reti connettive; e un'adeguata combinazione di sondaggi mirati e di assemblee popolari può rendere il processo decisionale autoriflessivo, cioè capace di correggersi e di imparare dall'ambiente. Raccogliendo spunti presenti nella teoria dell'agire comunicativo avanzata da Jürgen Habermas, questa concezione è stata chiamata 'democrazia deliberativa' (v. Dryzeck, 2000). Di fronte ai conflitti di potere e alle conseguenze perverse dello sviluppo dei sistemi di comunicazione, a livello locale come a livello globale, la sua generalizzazione è certo problematica. Essa tuttavia va considerata con interesse, perché, in un momento di transizione come l'attuale, offre la possibilità di sperimentare in maniera abbastanza realistica modelli più avanzati di pluralismo e di partecipazione democratica che possono bilanciare le tendenze all'accrescimento dei poteri di controllo. Come spesso è accaduto nelle fasi di mutamento storico conseguenti a innovazioni tecnologiche, nuove forme di condizionamento sociale e nuove forme di libertà tendono contraddittoriamente a emergere insieme.
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