COMUNICAZIONI DI MASSA
di Denis McQuail
'Mezzi di comunicazione di massa' (o mass media) è un termine collettivo entrato nell'uso per indicare svariate tecnologie sviluppatesi in forme istituzionali per la diffusione su vasta scala dell'informazione e della cultura nelle società moderne. Queste tecnologie sono meglio note coi loro nomi tradizionali: stampa, radio, televisione, cinema, ecc. Tuttavia l'uso di un termine comune riflette il fatto che tutti questi mezzi di comunicazione di massa condividono alcuni caratteri di base, e tutti assieme fanno parte di quella che è ora virtualmente un'istituzione sociale a sé stante, con uno status che si avvicina a quello di istituzioni fondate da molto più tempo, come l'apparato scolastico, la religione, la famiglia, la politica, ecc.
L'acquisizione di uno status istituzionale implica un complesso di attività e di rapporti organizzati e interrelati, regolamentati da un insieme di finalità, criteri, convenzioni e norme specifiche. I mezzi di comunicazione di massa, in generale, hanno acquisito de facto questo status, sia perché si sono trasformati in un'industria di primaria importanza e in un servizio pubblico, sia perché hanno finito per assolvere molte funzioni significative nella vita delle società sviluppate e nella vita quotidiana di gran parte degli individui. L'istituzione costituita dai mezzi di comunicazione di massa ha manifestato la tendenza a svolgere, almeno in parte, alcune delle attività svolte in precedenza da altre istituzioni (come, per esempio, la famiglia, la scuola, la politica), seguendo un modello di divisione istituzionale del lavoro caratteristico delle società moderne. Queste attività hanno principalmente a che fare con il cambiamento sociale, con l'esercizio del potere nella società e con l'integrazione sociale. A proposito dei mezzi di comunicazione di massa possiamo parlare di singole istituzioni nazionali, ma anche di un'istituzione mondiale, giacché è possibile individuare una rete globale delle comunicazioni di massa, caratterizzata da un complesso specifico di attività organizzate, di norme, ecc. È evidente che i diversi sistemi nazionali di mezzi di comunicazione di massa, se hanno caratteri specifici a seconda della cultura e delle condizioni sociali nazionali, mostrano, d'altro canto, molte caratteristiche comuni. I caratteri comuni si possono far risalire a varie cause: a un processo di convergenza verso un modello dominante; alla similarità delle funzioni assolte; alle similarità di fondo della tecnologia che sta alla base delle attività legate ai mezzi di comunicazione di massa.
3. Il processo della comunicazione di massa e i concetti collegati
Con l'espressione 'comunicazione di massa' i sociologi hanno designato un processo fondamentale sottostante all'attività dei mezzi di comunicazione di massa. Anche le forme di società premoderne erano caratterizzate da reti di comunicazione che investivano il complesso della società e che di solito erano in mano alla Chiesa o allo Stato. Se, sotto un certo profilo, i mezzi di comunicazione di massa e il processo fondamentale che è alla loro base rappresentano una continuazione di forme preesistenti, vi sono delle differenze che vanno al di là del fatto che i mezzi di comunicazione di massa usino tecnologie nuove e complesse per la riproduzione e la diffusione di 'messaggi'. Il processo della comunicazione di massa è correlato a varie caratteristiche specifiche e storicamente nuove: la grande scala di produzione e la possibilità di raggiungere, rapidamente o addirittura simultaneamente, un grandissimo numero di individui in località diverse; una forma altamente organizzata di produzione della comunicazione; un rapporto in larga misura impersonale tra emittente e ricevente, dal momento che il ricevente è di solito anonimo e non è in grado di rispondere a chi trasmette la comunicazione; un rapporto che, per motivi simili, è tipicamente volontario (e pertanto non coercitivo), basato su un calcolo e non morale. Inoltre la comunicazione di massa appartiene alla sfera pubblica della vita della società e la sostiene; i suoi messaggi sono in linea di principio disponibili liberamente e accessibili a tutti, spesso trattano di questioni di pubblico interesse e svolgono una funzione nella vita della società per quanto riguarda questioni di politica, d'opinione e di moralità pubblica.
Il concetto di 'massa', intesa come nuova forma di collettività, è stato introdotto per la prima volta, per riferirsi al pubblico dei mezzi di comunicazione di massa, da Blumer (v., 1939). Tale pubblico è composto da un gran numero di individui che non si conoscono fra loro, non sono organizzati, sono separati fisicamente l'uno dall'altro e sono accomunati solo dal fatto puramente casuale di prestare attenzione a uno stesso oggetto d'interesse o d'attrazione reso disponibile dai mezzi di comunicazione di massa a ciascuno di loro simultaneamente. La storia del termine 'massa' mostra come esso sia associato ad altri termini e idee chiave, specialmente a quelli di 'comportamento collettivo (o di massa)' e di 'cultura di massa'. L'espressione 'comportamento di massa' si riferisce tendenzialmente a un'azione collettiva scarsamente istituzionalizzata, carente sotto il profilo organizzativo e del controllo sociale e spesso irrazionale.
L'espressione 'cultura di massa' è spesso usata per indicare la cultura tipica prodotta dai mezzi di comunicazione di massa, che si differenzia dalla cultura alta, o di élite, da un lato, e dalla cultura popolare, dall'altro. Di solito le si attribuiscono queste caratteristiche principali: un alto grado di popolarità; contenuti superficiali ed effimeri; il divertimento come obiettivo prevalente; la commercializzazione. La cultura di massa è un prodotto della 'produzione di massa', un'altra espressione che si collega strettamente all'idea della comunicazione di massa, riferendosi soprattutto alla standardizzazione, alla mancanza di originalità, al basso costo. Non sorprende che da queste associazioni sia derivata inizialmente una tendenza a definire la comunicazione di massa in termini piuttosto negativi e che ai mezzi di comunicazione di massa sia stato riconosciuto al principio un valore sociale inferiore a quello di altre istituzioni sociali. Per questo motivo, inoltre, le prime ricerche sui mezzi di comunicazione di massa e sulla comunicazione di massa erano incentrate sui problemi sociali originati dai media, considerati potenziali ispiratori di aggressività e di crimini e divulgatori di valori morali e sociali inferiori. I media erano inoltre rifiutati in quanto considerati una minaccia potenziale all'integrazione e all'ordine sociali, perché sembravano favorire l'isolamento degli individui e l'atomizzazione della società.
La 'società di massa' descritta da teorici come Mills (v., 1956) e Kornhauser (v., 1959) era una società in cui i pochi appartenenti alle élites potevano manipolare e controllare la massa di coloro che non ne facevano parte. Questa interpretazione era influenzata dalla situazione dell'epoca (specialmente dal fascismo e dallo stalinismo); la riflessione attuale sul sistema dei mezzi di comunicazione di massa, che ha raggiunto una forma più matura, contesterebbe tale visione negativa. I mezzi di comunicazione di massa sono assai più integrati nella struttura della società di quanto non si riconoscesse allora e di regola riflettono le molte divisioni e i vari livelli di struttura e organizzazione sociali, promuovendo, al tempo stesso, un certo grado di unità e di consenso.
4. Differenze storiche tra i mezzi di comunicazione di massa
Anche se è normale e utile designare tutti i mezzi di comunicazione di massa con un unico termine, vi sono, tuttavia, importanti differenze tecnologiche e organizzative tra i vari media e ciascuno di essi ha la sua storia specifica. Il primo mezzo di comunicazione di massa è stato il libro; sono poi comparsi, nell'ordine, il giornale, il film, la radio e la registrazione del suono, la televisione e, recentemente, i nuovi media telematici basati sul calcolatore e quelli per la produzione, la registrazione e la riemissione di immagini. Attraverso un processo continuo chiaramente percepibile l'introduzione di ogni nuovo mezzo di comunicazione di massa ha fatto sì che quelli preesistenti si adattassero e cambiassero le proprie funzioni e la propria importanza nella società (v. DeFleur, 1966). I primi libri furono stampati intorno alla metà del XV secolo e per lungo tempo i loro contenuti non si discostarono di molto dai contenuti usuali della produzione manoscritta. Tuttavia, gradualmente, essi giunsero a introdurre nuove forme, una cultura differente e nuove idee, e giocarono un ruolo chiave nel Rinascimento, nella Riforma e, più tardi, nell'Illuminismo. Il giornale nacque nel corso del XVII secolo come mezzo di comunicazione destinato alla classe borghese urbana, con funzioni essenziali per il commercio e la politica. Per le sue caratteristiche e per le funzioni che era chiamato a svolgere, il giornale era uno strumento di comunicazione essenzialmente laico (anche se ve ne furono versioni ideologiche o religiose), legato agli interessi economici, politici e sociali del momento. Contribuì a promuovere la democrazia e il cambiamento sociale e a minare il predominio di istituzioni radicate come la Chiesa, la classe latifondista e lo Stato autocratico. Il cinema, apparso alla fine del XIX secolo, si caratterizzò prevalentemente come mezzo di intrattenimento popolare destinato alle masse urbane, giacché traeva il suo contenuto in massima parte dalla letteratura popolare e dal teatro. Tuttavia esso è stato anche usato, talvolta, come mezzo di propaganda nazionale, come strumento di educazione popolare e come forma d'arte in sé. La radio e la televisione, sin dagli anni trenta, sono considerate i media più importanti, per la loro capacità di diffusione, maggiore di quella di ogni altro mezzo di comunicazione di massa, e per la molteplicità delle loro funzioni. Grazie alla loro forma 'audiovisiva' i messaggi radiotelevisivi possono superare barriere di istruzione, di cultura, di classe e di alfabetizzazione, mentre le tecniche di trasmissione consentono loro di attraversare grandi distanze e frontiere nazionali. Per queste caratteristiche la radio e la televisione sono sempre state considerate mezzi importanti per promuovere il cambiamento dei paesi in via di sviluppo e per mediare le relazioni tra aree sviluppate e meno sviluppate. I più importanti mutamenti tecnologici in corso, specie quelli relativi alle trasmissioni via cavo e via satellite, tendono ad aumentare ulteriormente le possibilità di trasmissione dei mezzi radiotelevisivi.
5. Tipi alternativi di sistemi di mezzi di comunicazione di massa
È importante distinguere non solo tra i diversi periodi storici e le diverse tecnologie dei mezzi di comunicazione di massa, ma anche tra i diversi tipi di sistemi. Le differenze riguardano, essenzialmente: il tipo di sistema economico; le relazioni tra i media e lo Stato; le funzioni che i mezzi di comunicazione di massa sono chiamati ad assolvere nella società; il livello di sviluppo economico. Molti sistemi nazionali di mezzi di comunicazione di massa hanno carattere misto, ma ve ne sono altrettanti che appartengono, prevalentemente, all'uno o all'altro dei tipi seguenti (v. Altschull, 1984).
1. Il sistema concorrenziale, o del libero mercato. - La caratteristica principale di questo sistema è che in esso i mezzi di comunicazione di massa sono in mani private, non sono sottoposti a controllo governativo e puntano a ricavare profitti mediante il soddisfacimento dei desideri del pubblico potenziale. Questo sistema soddisfa i bisogni della società sia andando incontro alle esigenze individuali, sia offrendo l'accesso ai canali di comunicazione, gratuitamente o dietro pagamento, alle principali istituzioni della società. Il vantaggio principale di questo modello consiste nella sua libertà e nell'apertura nei confronti di espressioni culturali, informazioni e opinioni diverse. I pericoli principali sono il rischio di un regime di monopolio, i pregiudizi politici e l'eventualità che gli interessi economici soppiantino quelli culturali.
2. Il modello del servizio pubblico, o della responsabilità sociale. - Questo modello è tipicamente rappresentato dalle istituzioni di servizio pubblico radiotelevisivo dell'Europa occidentale e di altre parti del mondo, dove la società assegna una vasta gamma di funzioni, nella sfera dell'istruzione, dell'informazione, della cultura e dell'intrattenimento, a enti pubblici che debbono rendere conto del loro operato alla società stessa, di solito tramite rappresentanti eletti. Il finanziamento pubblico fornisce una forma di controllo e di protezione contro interessi commerciali o settoriali e la garanzia che le esigenze fondamentali della società nel campo dell'informazione vengano soddisfatte. Il vantaggio principale di questo modello consiste nel fatto che esso è posto al servizio del pubblico interesse ovvero del benessere generale. I pericoli principali derivano dalla mancanza di autonomia nei confronti dello Stato, dalla possibile burocratizzazione e dalla scarsa sensibilità verso la domanda popolare.
3. Il modello del Terzo Mondo, o dei paesi in via di sviluppo. - I sistemi basati su questo modello sono di solito caratterizzati da capacità e portata limitate e sono inoltre segnati da una forte adesione alla meta primaria dello sviluppo economico e sociale. Per i mezzi di comunicazione di massa del Terzo Mondo, di norma, è questo il compito centrale (accettato ovvero imposto) ed essi sono meno liberi di scegliersi obiettivi propri. I benefici principali consistono nell'uso attento e pianificato di risorse nazionali limitate per scopi essenziali; i difetti nella carenza di risorse e nella scarsa libertà.
6. Funzioni dei mezzi di comunicazione di massa nella società
Come si è notato nell'introduzione, i mezzi di comunicazione di massa sono dovunque chiamati ad assolvere certi compiti nell'interesse generale, fermo restando il fatto che il grado di istituzionalizzazione formale e le priorità che essi devono rispettare variano da paese a paese o da un tipo di sistema sociale a un altro. Vari teorici - fra cui Merton (v., 1957²) e Wright (v., 1960) - hanno contribuito a delineare le funzioni sociali dei mezzi di comunicazione di massa, funzioni che si possono elencare come segue.
1. Informazione. - I mezzi di comunicazione di massa dovrebbero fornire informazioni riguardanti fatti e situazioni che si verificano nella società e nel mondo, e specialmente informazioni rilevanti per il sistema democratico, la partecipazione dei cittadini, l'innovazione e il cambiamento, l'adattamento a situazioni esterne.
2. Correlazione. - I mezzi di comunicazione di massa dovrebbero offrire i commenti, le critiche e le interpretazioni dei fatti. Ci si attende che contribuiscano alla socializzazione, al mantenimento dell'ordine sociale, allo sviluppo del consenso e dell'integrazione. Essi aiutano a porre in relazione e a coordinare numerose e disparate attività economiche, sociali e politiche.
3. Continuità. - I mezzi di comunicazione di massa esprimono sia le culture dominanti che quelle minoritarie e ne preservano l'identità nel tempo, contribuendo a formare e a mantenere una continuità dei valori sociali e culturali delle nazioni e dei gruppi sociali che le compongono.
4. Intrattenimento. - I mezzi di comunicazione di massa forniscono divertimento e distrazione, offrendo spettacoli distensivi che, a prescindere dalla loro popolarità, contribuiscono a ridurre la tensione e a favorire lo svago e il riposo.
5. Mobilitazione. - I mezzi di comunicazione di massa offrono gli strumenti per la mobilitazione su larga scala verso svariati obiettivi politici, economici, religiosi e sociali.Naturalmente all'interno di questo quadro di riferimento generale, gli scopi e i compiti effettivi assunti dai media, le concrete aspettative in essi riposte e gli effetti reali della loro attività sono giudicati in modo molto differente da individui o gruppi sociali che occupano posizioni diverse. Per esempio, le funzioni dei mezzi di comunicazione di massa saranno specificate in modo diverso se considerate dal punto di vista: a) dell'interesse nazionale; b) delle voci che nella società cercano una opportunità per esprimersi o per indurre cambiamenti; c) dei detentori del potere economico o politico; d) delle classi povere e subalterne; e) dei proprietari dei mezzi di comunicazione di massa o di coloro che li controllano. Scopi ed effetti possono essere giudicati desiderabili (funzionali) o indesiderabili (non funzionali) a seconda dei diversi punti di vista.
7. L'organizzazione dei mezzi di comunicazione di massa
I mezzi di comunicazione di massa, come si è già notato, costituiscono un'istituzione. Questa istituzione comprende una serie di organizzazioni cui competono diversi ruoli implicati nel processo generale della comunicazione di massa. Uno degli sviluppi più importanti della sociologia dei mezzi di comunicazione di massa si è avuto considerando la comunicazione di massa alla stregua di un processo di lavoro, il che ha portato ad approfondire, in particolare, i seguenti aspetti: a) i vincoli imposti e le richieste avanzate dall'ambiente nel quale la cultura e l'informazione dei mezzi di comunicazione di massa devono essere prodotte; b) la necessità dell'organizzazione burocratica dei compiti e della standardizzazione di quella che in altri contesti è un'attività creativa e personale; c) la divisione interna del lavoro e la definizione dei ruoli; d) la professionalità nell'espletamento dei compiti specifici delle comunicazioni di massa; e) le relazioni intercorrenti tra gli operatori dei media e i fruitori finali, cioè il pubblico. I mezzi di comunicazione di massa si distinguono in quanto svolgono funzioni sociali diverse e impiegano tecnologie e forme di distribuzione (stampa, radiodiffusione, ecc.) differenti. Essi sono inoltre diversificati al loro interno perché mansioni diverse - organizzazione delle strategie, amministrazione, reperimento delle notizie, edizione, produzione, creazione, ricerca, allestimento, distribuzione, ecc. - competono a strutture diverse.
Come hanno indicato Hirsch (v., 1977) e altri, i mezzi di comunicazione di massa hanno importanti caratteristiche in comune con altre organizzazioni complesse, sebbene se ne differenzino principalmente in quanto il prodotto dei media è considerato creativo, originale o inatteso (per esempio le notizie) e tuttavia realizzato con estrema regolarità e spesso rispettando rigorosamente i tempi previsti. Inoltre, nell'ambito dei media, questioni di libertà politica e di autonomia artistica debbono essere trattate pubblicamente in un contesto burocratico. Le ricerche hanno svelato un mondo complesso e carico di conflitti, nel quale gli operatori dei mezzi di comunicazione di massa debbono adottare varie strategie per far fronte a pressioni e a incongruenze. A questi problemi si cerca di rispondere con: a) la professionalizzazione, che offre (ai giornalisti, per esempio) una certa protezione dalle pressioni dell'organizzazione; b) la conformità agli scopi o alle tradizioni consolidate di una particolare organizzazione, conformità favorita da meccanismi che inducano il personale ad aderire a tali scopi (ciò vale specialmente nel caso di un ente nazionale radiotelevisivo o di giornali di primaria importanza); c) un alto grado di routine e di pianificazione, per far fronte all'incertezza e all'imprevisto; d) l'isolamento della sfera operativa dalle pressioni di quella manageriale, da un lato, e dalle possibili richieste (e reazioni) del pubblico, dall'altro. L'esistenza di queste tendenze ha condotto alcuni sociologi a concludere che i mezzi di comunicazione di massa per sopravvivere si preoccupano più di seguire i loro rituali interni che della comunicazione (v. Elliott, 1972). Un'altra conclusione generale delle ricerche è che, qualora esistano conflitti d'intenti tra le diverse culture e i diversi interessi di lavoro presenti nell'organizzazione di un mezzo di comunicazione di massa, quasi sempre il riferimento ultimo è a ciò che piace al pubblico, perché l'unica condizione che garantisca la sopravvivenza è avere un pubblico. Malgrado ciò, o forse in parte proprio per questo motivo, molti studi sui mezzi di comunicazione di massa registrano una difficoltà degli operatori dei mezzi stessi a formarsi un'idea obiettiva del loro pubblico, magari basata sui risultati di ricerche ad hoc. Essi preferiscono costruirsi l'immagine di un pubblico ideale cui vorrebbero piacere, spesso simile a loro o ai membri della loro cerchia sociale o gruppo di riferimento.
Molte ricerche si sono concentrate sulla questione delle selezioni operate dai mezzi di comunicazione di massa all'interno della vasta gamma di fatti e di idee che potenzialmente potrebbero essere diffusi tramite i loro canali. La funzione 'filtro' interviene in vari momenti del processo della comunicazione di massa: la selezione iniziale dell'evento, del personaggio, o dell'argomento culturale da presentare; la selezione, la revisione e la trasformazione ulteriori cui è sottoposto il contenuto dei media prima che sia trasmesso al pubblico. I mezzi di comunicazione di massa sono considerati i 'guardiani simbolici' della società, che determinano collettivamente quale visione del mondo e quale immagine della società stessa sarà registrata e amplificata. È stato dimostrato che questa funzione 'filtro' è soggetta a diversi tipi di influenza e di pressione, ivi comprese specialmente le richieste del pubblico, la pressione di coloro che cercano un accesso o di clienti che chiedono un trattamento di favore, le limitazioni imposte dal potere politico e dai valori culturali dominanti. È stato dimostrato anche che la funzione 'filtro' ha in genere un andamento molto regolare e persino prevedibile, che in larga misura può essere spiegato facendo riferimento ai bisogni operativi e all'economia politica della stessa organizzazione dei mezzi di comunicazione di massa.
8. Il contenuto dei mezzi di comunicazione di massa
Dal punto di vista sociologico lo studio del contenuto dei mezzi di comunicazione di massa è legato molto strettamente allo studio dell'organizzazione dei mezzi stessi, in quanto tale contenuto è il prodotto dell'organizzazione. Se, da una parte, è impossibile fare una qualsiasi affermazione generale riguardo al contenuto di tutti i mezzi di comunicazione di massa, esistono d'altronde regolarità e strutture che riflettono le funzioni che la società assegna ai media e le aspettative che in essi ripone, nonché i processi standardizzati di produzione. Lo studio del contenuto dei mezzi di comunicazione di massa è stato condotto per scopi sociologici molteplici e alquanto differenti, e specialmente per: a) capire la sostanza di ciò che viene trasmesso e di ciò che viene recepito; b) individuare determinati aspetti della società e della cultura; c) valutare l'effetto dei processi organizzativi dei mezzi di comunicazione di massa e le caratteristiche dei loro operatori; d) fare previsioni circa i possibili effetti sul pubblico, o contribuire a spiegare gli effetti osservati; e) valutare le prestazioni dei mezzi di comunicazione di massa in base a diversi criteri possibili; f) comprendere meglio le forme, i linguaggi e i codici della comunicazione. Perseguendo questi e altri obiettivi, sono stati messi a punto numerosi metodi, che variano da quelli puramente quantitativi e statistici a quelli qualitativi e descrittivi. Le prime analisi del contenuto erano tendenzialmente del primo tipo: puntavano alla descrizione sistematica e obiettiva del significato manifesto dei messaggi, specialmente del contenuto di notizie e informazioni (v. Berelson, 1952). Il metodo di base seguiva il modello dell'indagine sociale empirica: si estraevano campioni di contenuto, si individuavano le unità elementari da analizzare e si calcolava la frequenza di certe parole, immagini o riferimenti, caratterizzati a volte da variabili descrittive. In presenza di contenuti di per sé meno 'obiettivi' - come quelli di romanzi, opere di cultura, film - e nei casi in cui è importante tener conto di significati nascosti o impliciti, di elementi simbolici e mitici, ecc., si è sempre sentita una certa esigenza di un'analisi più qualitativa, e quindi interpretativa (v. Holsti, 1969). A tale scopo sono stati applicati a fini sociologici metodi presi a prestito dalla semiologia e dall'analisi strutturalista della letteratura (v. Barthes, 1965; v. Eco, 1975).
Buona parte delle ricerche sul contenuto dei mezzi di comunicazione di massa si è occupata di valutare, in un modo o nell'altro, fino a che punto il contenuto dei media rifletta la 'realtà' della società. I risultati dimostrano quasi sempre che il mondo che i mezzi di comunicazione di massa ritraggono diverge da altre versioni della realtà, ricavate in base a svariati indicatori. Questo è vero sia per le notizie sia per le opere di fantasia, sebbene il contenuto di queste ultime sia meno facile da misurare o descrivere in un modo coerentemente obiettivo. La divergenza dalla 'realtà sociale' del contenuto dei media si può orientare verso direzioni diverse e i modelli individuati variano in relazione alla pretesa fattualità del contenuto in questione. Il contenuto di notizie e informazioni implica di solito una pretesa di obiettività, mentre si è scoperto che si discosta dalla realtà specialmente nei seguenti modi: a) dando maggior risalto a ciò che è a portata di mano, personale, elitario e negativo (cattive notizie; v. Galtung e Ruge, 1965); b) facendo grande assegnamento su fonti ufficiali o di alto livello. Si sostiene che questi atteggiamenti favoriscano le tendenze: a) all'etnocentrismo; b) al sensazionalismo; c) a generare immagini distorte (negative) di luoghi distanti culturalmente e fisicamente o di gruppi devianti all'interno della società; d) a dare maggiore spazio a coloro che detengono il potere e quindi a mantenere lo status quo.Nel caso del contenuto delle opere di fantasia le principali tendenze riscontrate sono quelle dirette a sottolineare la morale e il comportamento convenzionali, ma anche il comportamento delle élites e la cultura e lo stile di vita delle classi medie e superiori. Al tempo stesso le opere di fantasia si concentrano, in modo diverso, sul comportamento criminale e deviante, una tendenza che è stata interpretata in termini contraddittori: da un lato si ritiene che premi la devianza sociale, dall'altro che la punisca simbolicamente. Il contrasto nasce in parte dalla relativa libertà di cui godono, in molte società, i mezzi di comunicazione di massa nella scelta dei lavori da trasmettere, e in parte dalla miscela di motivazioni e aspettative che sta alla base della mediazione di massa della cultura: da un lato al pubblico piace essere rassicurato e ricevere modelli di comportamento e valori positivi; dall'altro esiste un gusto diffuso per l'eccitazione provocata dalla rappresentazione della violenza e del crimine.
Quali che siano i risultati, peraltro assai controversi, delle ricerche cui si è fatto cenno, è possibile individuare i meccanismi principali che danno al contenuto un'impronta di tipo conformista o deviante. Fra i fattori in gioco svolgono un ruolo particolarmente importante le strutture e le dinamiche delle organizzazioni dei media, che premiano lo stereotipo, la convenzione e la ripetizione, e la volontà di dare al pubblico ciò che si pensa che voglia, in genere secondo la formula 'eccitazione e sensazioni senza turbamento profondo'. Inoltre, in merito ai contenuti esistono due spiegazioni teoriche generali che non si escludono totalmente a vicenda: la teoria funzionale, secondo cui il contenuto premiando il conformismo e scoraggiando la devianza generalmente contribuisce a rendere stabile il consenso, un fine auspicabile e perseguito; la teoria della cospirazione o dell'egemonia, secondo la quale i mezzi di comunicazione di massa - posseduti o controllati dalla classe dominante - tendono in misura maggiore o minore a essere conservatori e a sostenere i valori sociali dominanti (v. Hall, 1977).
Uno sviluppo significativo nella ricerca sociologica sul contenuto dei mezzi di comunicazione di massa si è avuto con l'identificazione dei possibili effetti determinati dai formati, dai linguaggi e dai mezzi utilizzati per la presentazione dei messaggi. Le forme di presentazione, generalmente costruite o scelte per attrarre il più possibile l'interesse o l'attenzione del pubblico, possono, specialmente per quel che riguarda le notizie, essere in aperto contrasto con il contenuto sostanziale di ciò che è comunicato. Si parla di una 'logica dei media', orientata a comunicare per immagini; questa logica si pone in conflitto con altre logiche istituzionali, per esempio quella della politica (v. Altheide e Snow, 1979). 8e. Il contenuto dei mezzi di comunicazione di massa e i flussi della comunicazione internazionale.Lo studio del contenuto dei mezzi di comunicazione di massa ha anche giocato un ruolo importante nell'analisi dei flussi della comunicazione internazionale. Si è accertato che i flussi di contenuti di tutti i tipi sono molto sbilanciati, nel senso che è molto maggiore il flusso (specie di audiovisivi) che va da Nord (mondo sviluppato) a Sud (Terzo Mondo) e da Ovest (Europa e Nordamerica) a Est che viceversa (v. McBride e altri, 1980). Le implicazioni per lo sviluppo sono più negative che positive: l'espressione 'imperialismo culturale' - o 'imperialismo dei media' - è stata coniata per indicare la dipendenza dai mezzi di comunicazione di massa sorta nelle relazioni tra settori del mondo (v. Boyd-Barrett, 1977). La tesi dell'imperialismo culturale è che le importazioni attinenti ai media (di contenuto, di tecnologia, di norme professionali) danneggino l'integrità delle culture nazionali ed esaltino l'immagine e il potere degli esportatori di cultura, che sono anche, di solito, le potenze economiche dominanti.
9. Il pubblico dei mezzi di comunicazione di massa
A parte la sua importanza per le organizzazioni e le industrie dei mezzi di comunicazione di massa, il pubblico presenta numerosi aspetti di maggior interesse sociologico. Indagare su questi aspetti equivale a rispondere ai seguenti quesiti: a) quali conseguenze per la vita sociale comporti l'uso dei media; b) fino a che punto il pubblico possegga una struttura di gruppo, anziché essere semplicemente un aggregato non strutturato, come postula la teoria della società di massa; c) fino a che punto certe norme, convenzioni e modelli governino la formazione e il comportamento del pubblico; d) fino a che punto il comportamento del pubblico sia motivato, attivo e, in generale, 'sociale'.Possiamo cominciare notando che il pubblico dei mezzi di comunicazione di massa, inteso come l'insieme delle persone che assistono a un medesimo programma (o leggono lo stesso giornale, ecc.), può costituirsi a prescindere dall'attività dei media o come diretta conseguenza di questa attività. Nel primo caso abbiamo a che fare con una categoria o un gruppo sociale preesistente, come quelli composti da coloro che risiedono in una data località, dai sostenitori di un partito politico, da coloro che condividono determinate idee, da persone che hanno in comune le stesse esperienze di vita, e così via. In questo caso la definizione sociale della collettività preesiste, e il contenuto dei media mira a soddisfare interessi già definiti per il fatto di appartenere al gruppo in questione. Nel secondo caso, quello del pubblico 'creato' dai mezzi di comunicazione di massa, l'identità del pubblico e la sua demarcazione in quanto gruppo derivano in larga parte dal comportamento dei media e dall'interesse verso un dato genere di contenuto (tipo di film, di musica, ecc.) o dalla preferenza per un dato mezzo (un canale radiotelevisivo, un giornale, un periodico, ecc.), che accomunano i membri di questo pubblico. Mentre spesso è preferibile considerare questo secondo tipo di pubblico alla stregua di un mercato di consumatori ed è meno probabile che esso costituisca un gruppo sociale o che presenti una qualsiasi continuità o senso di identità collettiva, ci sono casi in cui il pubblico può essere inteso sia come una categoria sociale che come una categoria creata dai mezzi di comunicazione di massa, ed esiste la possibilità che un pubblico sviluppi proprietà di gruppo sulla base della predilezione, consolidata nel tempo, per le stesse fonti di informazioni (v. Noble, 1975). Il concetto di 'interazione parasociale' è stato usato in riferimento all'attaccamento sostitutivo ai divi e alle personalità dei mezzi di comunicazione di massa. La cerchia dei lettori di un giornale di grande tradizione può anche rivendicare il diritto di essere considerata come una categoria sociale in se stessa, in quanto portatrice di determinati valori, opinioni e stili di vita.
La questione dell'importanza dell'attività dei mezzi di comunicazione di massa nel più vasto contesto della vita sociale è strettamente collegata alla questione della motivazione e del comportamento del pubblico. Una lunga tradizione di ricerca, a partire dagli anni quaranta, ha tentato di spiegare le motivazioni del pubblico e di valutare quali gratificazioni ci si aspetta di ricavare dal contenuto dei media e gli usi che si fanno di quel contenuto nella vita quotidiana (v. Blumler e Katz, 1974; v. Rosengren e altri, 1985). Il principale interrogativo cui si cerca di dare risposta con queste ricerche è fino a che punto determinati modelli d'uso dei mezzi di comunicazione di massa siano in qualche modo causati da circostanze sociali esperite dagli individui nell'ipotesi che i mezzi di comunicazione di massa possano rispondere a bisogni - di informazione, di orientamento, di sicurezza, di svago, ecc. - che si ingenerano nella vita sociale. I risultati di molte ricerche hanno confermato che, nonostante il gran numero di comportamenti passivi e abitudinari, l'utilizzazione dei mezzi di comunicazione di massa (specialmente televisione e radio) è spesso accompagnata da una gamma di aspettative o di gratificazioni che entro certi limiti la giustificano sul piano razionale.
I principali tipi di motivazioni e di gratificazioni che spingono all'uso dei media rientrano in uno schema ricorrente; in sostanza i media si utilizzano per: a) ottenere informazioni pratiche e più in generale orientative; b) ricavarne svago e divertimento; c) comprendersi meglio e trovare una propria identità; d) stabilire un contatto sociale, nel duplice senso di condividere una stessa esperienza con altre persone, ponendo così le basi per un certo tipo di interazione sociale, e realizzare un contatto sostitutivo attraverso una maggiore empatia sociale. Le funzioni sociali dei mezzi di comunicazione di massa, intese in questi termini, variano parecchio a seconda del tipo di mezzo e del tipo di contatto e in funzione di determinate categorie sociali. Secondo Katz e altri (v., 1973) i mezzi di comunicazione di massa vengono usati "per cose importanti" nella vita sociale, specialmente per questioni che hanno a che fare con l'integrazione nella società, nella cultura e nella famiglia, sebbene essi non siano i soli strumenti, o quelli più significativi, per raggiungere un collegamento con la società.I risultati delle ricerche in questione forniscono anche, in parte, la risposta all'interrogativo se l'uso dei mezzi di comunicazione di massa sia un 'comportamento sociale' veramente significativo: quanto meno apprendiamo, da questi risultati, che per gran parte delle persone alle volte può esserlo e spesso lo è. Esistono anche numerosi dati che dimostrano come il comportamento relativo all'uso dei mezzi di comunicazione di massa sia governato da un insieme di norme e valori che ne regolano la frequenza e il tipo. Criteri di questo genere sono spesso applicati dalle famiglie per regolare l'uso dei mezzi di comunicazione di massa da parte dei bambini e vengono abitualmente espressi nelle risposte fornite alle indagini sull'uso ottimale dei media (v. Steiner, 1963). È stato anche dimostrato che l'uso dei mezzi di comunicazione di massa può essere scelto dai giovani come forma di protesta o di isolamento sociale (v. Brown, 1976) ovvero come mezzo per mantenere il contatto con gruppi di loro pari.
I mezzi di comunicazione di massa, per pianificare la loro produzione, sono obbligati a prendere in considerazione le caratteristiche sociali del pubblico, perché queste, in special modo, possono determinare gli interessi e contraddistinguere i gruppi che la pubblicità o altri tipi di comunicazione pianificata intendono raggiungere. La strutturazione del pubblico secondo caratteristiche sociodemografiche tende a seguire linee stabili e ben note. In generale coloro che dispongono di più tempo libero fruiscono dei mezzi di comunicazione di massa più degli altri, anche se la scelta dei media - e dei programmi - dipende dall'età, dal grado di istruzione e dal reddito (questi ultimi due parametri sono correlati). Così gli anziani e i giovani, che in genere hanno più tempo degli altri, nutrono interessi diversi: i primi prediligono la lettura e la televisione, i secondi la musica e la radio. Le persone più istruite preferiscono, relativamente, leggere che guardare la televisione, e all'aumentare del reddito la gamma dei media utilizzati tende a diversificarsi. In passato i mezzi di comunicazione di massa tendevano ad adeguarsi ai gusti e ai canoni sociali esistenti, insiti nella struttura di gruppo della società. Recentemente, col moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione di massa e con l'aumento della competizione per accaparrarsi il tempo che il pubblico dedica all'uso dei media, si è manifestata la tendenza a conquistare il pubblico trasversalmente rispetto alle linee consolidate della struttura sociale. Ciò è collegato allo svilupparsi di 'culture di gusto', diverse dalle precedenti culture di classe, che raramente si identificano con gruppi sociali e hanno carattere più artificiale ed effimero. Queste tendenze sono accelerate, comunque, dalla trasformazione in atto verso una strutturazione in classi sociali meno schematica, via via che si eleva il tenore di vita.
Di recente, in relazione al dibattito sul 'pubblico attivo', è emersa la tendenza a prestare maggior attenzione alla ricezione - intesa come percezione e interpretazione selettive - del contenuto dei media da parte del pubblico. L'enunciato di base, stabilito in uno stadio precedente della ricerca sociologica, è che la 'decodificazione' del contenuto sia molto variabile, con grandi differenze in ciò che è percepito e ricordato, e in come è interpretato. Esistono varie spiegazioni del modo in cui si attua la decodificazione: una è che essa segua linee caratteristiche di una classe o di una subcultura, e che quindi il significato sia attribuito in base a interessi o punti di vista fondamentali; un'altra è che al pubblico vengano offerti (dai media stessi) criteri di riferimento o schemi alternativi da applicare per dare un senso al contenuto. In un certo senso ciò equivale a dire che i contenuti specifici dei mezzi di comunicazione di massa sono corredati di un insieme di regole o istruzioni generali per la decodificazione. È chiaro, tuttavia, che esistono diversi criteri di riferimento o istruzioni e che la percezione del contenuto è difficile da prevedere. L'imprevedibilità dell'effetto è aumentata dal fatto, già menzionato, che gli operatori dei mezzi di comunicazione di massa sono spesso in qualche modo isolati dal loro pubblico, si basano su reazioni individuali non rappresentative, su indagini e valutazioni fraintese, o sulla concezione personale di un pubblico ideale che può non corrispondere alla realtà.
10. Gli effetti dei mezzi di comunicazione di massa
Un tempo le idee sugli effetti dei mezzi di comunicazione di massa erano molto influenzate dalla nozione di massa, come descritta precedentemente, e dagli esempi storici dell'uso dei mezzi di comunicazione di massa per la propaganda, la pubblicità, il controllo sociale e il cambiamento sociale nell'era pretelevisiva. Si riteneva che la massa, concepita come una moltitudine di individui isolati, fosse particolarmente vulnerabile alla persuasione e alla manipolazione. Gli effetti più spesso postulati erano, da un lato, un indebolimento dell'ordine sociale e morale e, dall'altro, un maggiore potere collettivo di mobilitare le popolazioni, spesso per fini irrazionali o dubbi.Le teorie sul potere dei mezzi di comunicazione di massa furono messe alla prova con indagini ed esperimenti, specie negli Stati Uniti, fra la metà degli anni trenta e la metà degli anni cinquanta; i risultati di queste ricerche indussero a ridimensionare la capacità dei media di influenzare direttamente opinioni, atteggiamenti e comportamento. Gli effetti, ove riscontrati, risultarono generalmente di scarsa entità, spesso di breve durata e altrettanto spesso dipendenti dalle circostanze, dall'argomento e dal temperamento dell'utente. Secondo una rassegna ancora oggi autorevole di ricerche empiriche sugli effetti della comunicazione di massa, pubblicata nel 1960 (v. Klapper, 1960), "la comunicazione di massa di solito non costituisce la causa necessaria o sufficiente degli effetti sul pubblico, ma funziona piuttosto attraverso fattori di mediazione". Uno dei fattori di mediazione sembrava essere il gruppo o l'insieme dei contatti personali di ciascun utente e alcune ricerche (v. Katz e Lazarsfeld, 1955) sostenevano l'ipotesi che l'influenza personale avesse un effetto ancora maggiore dell'influenza diretta dei media nel provocare il cambiamento, anche se in definitiva la fonte dell'influenza personale (da parte dei cosiddetti opinion leaders) potevano essere i mezzi di comunicazione di massa. Vari studi su campagne elettorali parevano smentire che il voto fosse influenzato in modo particolare dalle campagne condotte attraverso i mezzi di comunicazione di massa (v. Lazarsfeld e altri, 1944; v. Trenaman e McQuail, 1961). Gli enormi sforzi fatti per verificare il possibile effetto dei mezzi di comunicazione di massa sul crimine, sull'aggressività e sul comportamento violento, sebbene non privi di risultati di qualche interesse, non hanno prodotto risposte sicure (v. Comstock e altri, 1978). Una spiegazione teorica dell'apparentemente scarsa influenza diretta dei mezzi di comunicazione di massa sugli atteggiamenti e sul comportamento si basava sull'assunto che il pubblico usasse i mezzi di comunicazione di massa per propri fini, scelti in modo del tutto autonomo, anziché lasciarsi manipolare dai media.
In uno stadio successivo della ricerca sugli effetti dei mezzi di comunicazione di massa, la nuova opinione corrente - la tesi dell''effetto minimo' - fu a sua volta messa in discussione e se ne riscontrò l'inadeguatezza. Dall'inizio degli anni settanta circa, si è tornati ad attribuire un potere significativo ai mezzi di comunicazione di massa, almeno in certe condizioni. Questo sviluppo è dipeso da una ridefinizione del problema e dalla scelta di una più vasta gamma di metodi. In particolare le ricerche e la teoria hanno prestato maggior attenzione al cambiamento che si verifica nel lungo periodo, piuttosto che nel breve, e a fenomeni collettivi (climi d'opinione, ideologie, modelli culturali, eventi di particolare importanza sociale, accordi istituzionali relativi alla comunicazione) più che a comportamenti e atteggiamenti individuali. Inoltre si è dedicata più attenzione agli aspetti cognitivi e all'informazione che non all'atteggiamento, all'emotività e al comportamento, conseguendo migliori risultati.
Sembra oggi più corretta l'idea che i mezzi di comunicazione di massa abbiano senz'altro degli effetti, sia direttamente sugli individui (spesso effetti voluti dagli operatori dei mezzi stessi), sia più indirettamente sulla società, in quanto il comportamento e le istituzioni si adattano alle possibilità offerte dai media. Le caratteristiche dei mezzi di comunicazione di massa e la storia del loro uso ci consentono di attribuire loro certe possibilità fondamentali alternative. In primo luogo i media possono o unificare e integrare o frammentare e individualizzare comunità e società. Questa tendenza è basata sul fatto che i mezzi di comunicazione di massa forniscono oggetti di attenzione, cultura e informazioni simili a un gran numero di individui e di famiglie altrimenti separati. Si può sostenere che nella società attuale, in rapido cambiamento, sono i mezzi di comunicazione di massa, e specie quelli dominanti (televisione e stampa a diffusione nazionale), a fornire di giorno in giorno, più di ogni altra istituzione, la forza principale di integrazione. I mezzi di comunicazione di massa, tuttavia, possono anche stimolare una tendenza alla frammentazione, favorendo la maggiore autosufficienza degli individui e delle famiglie, un atteggiamento più calcolatore e pragmatico, un incremento della mobilità e del cambiamento, il declino delle antiche credenze e valori, che hanno tenuto assieme la società, e una riduzione dei contatti sociali personali.Un'altra linea di valutazione riguarda il potere e il controllo; a questo proposito ci vengono offerti due modelli interpretativi del tutto diversi: il primo evidenzia il dominio da parte dell'autorità centrale, o di una classe egemone, che controlla i 'sistemi di messaggio' che giungono in ogni casa; il secondo riconosce ai mezzi di comunicazione di massa la capacità di offrire una risposta differenziata e variegata alle domande e ai desideri degli individui che compongono il loro pubblico, in sintonia con le esigenze di una politica pluralistica.Un terzo aspetto fondamentale che dà adito a valutazioni contrapposte è la questione dell'importanza da attribuire ai media oppure alla società nel promuovere le trasformazioni sociali. Alcuni vedono i mezzi di comunicazione di massa semplicemente come un riflesso di cambiamenti e tendenze in atto nella società, come se essi stessi dipendessero in special modo dalla struttura sociale o da fattori economici e politici; altri, invece, attribuiscono ai mezzi di comunicazione di massa la capacità di influire in modo determinante sulla società, in virtù delle loro tecnologie specifiche o dei loro tipici contenuti culturali. Coloro che considerano cruciali i fattori tecnologici si aspettano verosimilmente cambiamenti fondamentali nella società quando cambia la tecnologia dominante della comunicazione di massa, come, per esempio, nel passaggio dalla stampa alla radio, alla televisione e ora ai mezzi di comunicazione più interattivi, basati sui calcolatori.
Non è facile riassumere i risultati delle moltissime ricerche sui numerosi effetti dei mezzi di comunicazione di massa, ma esiste un certo accordo su parecchi effetti di portata generale che i media tendono a produrre. In primo luogo sembra incontestabile che molta della nostra conoscenza, nel senso più ampio del termine, provenga dalla comunicazione di massa almeno tanto quanto dall'esperienza personale. Questa conoscenza derivata dai mezzi di comunicazione di massa riguarda non solo parti remote del mondo, ma anche il funzionamento interno di istituzioni alle quali non abbiamo accesso (governi, imprese, organizzazioni militari, ecc.). I mezzi di comunicazione di massa ci possono anche fornire ragguagli circa altri gruppi o individui appartenenti alla nostra stessa società e circa esperienze di vita che non abbiamo (ancora) fatto. Quale che sia l'esattezza o la rilevanza dell'informazione fornita dai mezzi di comunicazione di massa, è verosimile che in linea generale noi dipendiamo da essa. Di conseguenza, i mezzi di comunicazione di massa possono avere un ruolo di primaria importanza come fattori di socializzazione e come fonti di modelli di comportamento da imitare o da evitare. Essi offrono una ricca panoramica di fatti reali e immaginari dalla quale possiamo trarre elementi per costruire le nostre personali interpretazioni del mondo. Ne consegue anche che i mezzi di comunicazione di massa sono una fonte d'informazione di primaria importanza sul mondo dei fatti e del potere. Oltre all'informazione, sotto forma di 'notizie', i media generalmente forniscono schemi di riferimento interpretativi per collocare i fatti in un contesto. Nel fare ciò essi di solito offrono una scelta di valori e opinioni, spessissimo quelli in linea coi valori e gli interessi dominanti dello Stato in cui operano.Quasi tutti gli effetti dei mezzi di comunicazione di massa esaminati in questa prospettiva sono cognitivi, poiché riguardano il contenuto di conoscenza e informazione dei media, variamente espresso, contenuto generalmente considerato estraneo a particolari scopi ideologici o propagandistici.
Tra i tipi di effetti cognitivi individuati dalle ricerche si possono elencare i seguenti. In primo luogo i media contribuiscono a instaurare un 'clima d'opinione' dominante (v. Noelle-Neumann, 1980). Si sostiene che i mezzi di comunicazione di massa siano la fonte principale di conoscenza su quello che pensano gli altri membri della società e che molta gente ne tragga l'impressione che esista un clima d'opinione dominante; adeguandosi a quella che si ritiene l'opinione dominante si finisce per crearla: così l'opinione riflessa dai mezzi di comunicazione di massa diviene l'opinione dominante. Un altro punto di vista simile è che i principali mezzi di comunicazione di massa, prestando un diverso grado di attenzione a fatti, circostanze e gruppi differenti, coltivino un particolare modo di vedere la società, le sue tendenze, i rischi che presenta e le ricompense che offre, il posto che assegna a gruppi particolari. Un terzo effetto attribuito ai mezzi di comunicazione di massa è quello di strutturare la distribuzione delle opinioni nella società definendo le scadenze dell'azione, indicando quali siano le questioni e i problemi chiave del momento, col peso della loro attenzione (selettiva). In quarto luogo si sostiene che i mezzi di comunicazione di massa giochino un ruolo privilegiato nel determinare la struttura della conoscenza, un ruolo molto simile a quello che una volta - in forma più esclusiva - sosteneva l'istruzione. Più i gruppi hanno accesso ai mezzi di comunicazione di massa, più conoscono; meno accesso hanno, meno conoscono. Ciò determina una sperequazione (variabile), 'culturale' e quindi sociale, tra gruppi diversi (classi).
Ricerche più recenti sui mezzi di comunicazione di massa non escludono la possibilità di effetti diretti sul comportamento, per esempio in casi di tumulto o di disordini civili: la diffusione di notizie riguardanti questi eventi può fornire modelli da imitare in altri luoghi. Sembra inoltre del tutto possibile che, in alcune circostanze, i mezzi di comunicazione di massa fungano da mezzi di diffusione di innovazioni, talvolta superficiali e temporanee (come nel caso della moda), talvolta rilevanti per lo sviluppo (v. Rogers e Shoemaker, 1971²). I mezzi di comunicazione di massa possono anche giocare un ruolo nel provocare eventi storici, come avvenne per la caduta del presidente Nixon (v. Lang e Lang, 1983), sebbene sia più probabile che essi siano canali e strumenti - o una condizione - del cambiamento, piuttosto che causa diretta. I mezzi di comunicazione di massa portano anche a cambiamenti e adattamenti nel funzionamento di altre istituzioni.Gran parte delle ricerche continua a confermare che ogni singolo effetto prodotto dai mezzi di comunicazione di massa è ancora fortemente condizionato e guidato dal contesto sociale e dall'esperienza personale degli individui su cui agisce. Per questo motivo non è verosimile che gli effetti negativi più temuti sul comportamento individuale (violenza, crimine, ecc.) si verifichino, se non in compresenza di condizionamenti più potenti che operino nella stessa direzione. È più verosimile che i cambiamenti connessi ai mezzi di comunicazione di massa siano il risultato del modo in cui i mezzi di comunicazione stessi definiscono le situazioni, stabiliscono le priorità e presentano valori alternativi. È altrettanto probabile che tali cambiamenti avvengano nel lungo periodo e siano la conseguenza dell'effetto cumulativo della presentazione reiterata di modelli da parte dei mezzi di comunicazione di massa. È anche chiaro che i mezzi di comunicazione di massa possono avere, e in effetti hanno, una quantità di effetti socialmente apprezzabili sugli atteggiamenti e sul comportamento, dal momento che anche molte forme di comportamento e molte idee positive sono spesso presentate e poste in rilievo in modo coerente.
11. Conclusione: i mezzi di comunicazione di massa e la società dell'informazione
Molti sociologi prevedono una trasformazione radicale della società e della comunicazione di massa che può alterare il peso e la portata dei mezzi di comunicazione di massa. L'espressione 'società dell'informazione' è stata usata per descrivere una società in cui: a) una maggioranza di lavoratori è impiegata nei settori dell'economia afferenti all'informazione; b) l'informazione è una risorsa di primaria importanza (per la ricchezza e il potere); c) le attività dell'informazione arrivano a determinare i modi di utilizzazione del tempo. I mezzi di comunicazione di massa sono solo una componente di tale forma di società, ma danno un contributo al suo avvento subendo essi stessi dei cambiamenti. I cambiamenti principali che si cominciano a osservare sono: a) un aumento del numero dei canali e del flusso di informazioni, determinato specialmente dal potenziamento delle trasmissioni via cavo e via satellite; b) un venir meno delle differenze tra mezzi di comunicazione di massa e altri mezzi di comunicazione (sistemi di telecomunicazioni, reti di calcolatori, ecc.). Si ritiene che la caratteristica più significativa dei nuovi mezzi di comunicazione di massa sia il loro potere 'interattivo' (v. Rogers, 1986), che consente a chi trasmette e a chi riceve di scambiarsi i ruoli e di cambiare in tal modo il carattere fondamentale - a senso unico, dal centro alla periferia - della comunicazione di massa di vecchio tipo. Il contenuto non deve più essere diffuso in modo generalizzato e alla cieca, ma può essere diretto specificamente a molti gruppi più piccoli di destinatari, e può anche essere 'richiesto' da tali gruppi e da singoli individui. In linea di principio tutto ciò può cambiare la natura della comunicazione pubblica e privata in una società moderna, e alterare i fondamenti su cui si basa gran parte della teoria discussa in questo articolo. Sinora cambiamenti fondamentali e di vasta portata nella natura e nel funzionamento dei mezzi di comunicazione di massa non sono avvenuti, e molte parti del mondo non sono ancora state raggiunte da tali mezzi. Nondimeno il cambiamento si sta indirizzando in una direzione che può portare a possibilità di progresso nella società ma anche a rischi e problemi. Mentre un'espansione del flusso dell'informazione e del dialogo può essere ben accetta - secondo gran parte delle teorie della società democratica -, d'altronde nel cambiamento in corso è insito un rischio di maggior diseguaglianza tra i 'ricchi di informazione' e i 'poveri di informazione', categorie che all'interno di una singola società corrispondono a gruppi economici (classi sociali) e su scala planetaria alle economie sviluppate, da un lato, e al Terzo Mondo dall'altro.
(V. anche Cinema; Giornalismo; Opinione pubblica; Propaganda; Pubblicità; Società di massa; Stampa; Televisione).
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di Alessandro Pace
1. Caratteri differenziali delle comunicazioni di massa
Rilevanza giuridica meramente descrittiva della locuzione.Ancorché diffusa nel lessico quotidiano e oggetto di approfonditi studi sociologici, la locuzione 'comunicazioni di massa' da un punto di vista giuridico ha una rilevanza meramente descrittiva. In altre parole, il nostro ordinamento giuridico né prescrive cosa debba intendersi per 'comunicazione di massa', né determina quali siano le conseguenze giuridiche (ad esempio una speciale disciplina normativa) che dovrebbero applicarsi ricorrendo tale fattispecie. Ciò nonostante, anche tra i giuristi italiani la locuzione 'comunicazione di massa', dopo l'uso invalso tra i colleghi americani, è diventata di uso comune e, anzi, di recente si è caldeggiata l'istituzione di una nuova disciplina giuridica - appunto, il diritto delle comunicazioni di massa - che interdisciplinarmente studi i problemi comuni alla stampa periodica e alla radiotelevisione (v. Roppo, 1985, pp. 16 ss.). Dal canto suo, ancor più di recente, ma parimenti senza alcun intento prescrittivo, anche il legislatore italiano ha fatto uso di tale locuzione allorché ha disposto "il divieto di posizioni dominanti nell'ambito dei mezzi di comunicazione di massa" (art. 15 della legge n. 223 del 6 agosto 1990; ma già prima art. 21, comma 1, della legge n. 103 del 14 aprile 1975 sui limiti della pubblicità della società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo posti a "tutela degli altri settori dell'informazione e delle comunicazioni di massa"). L'uso puramente descrittivo della locuzione, da parte del legislatore e del giurista, è tuttavia non solo spiegabile, ma anche giustificabile (anche se non è detto che, un domani, le cose non possano andare diversamente). Per rendersene conto è però necessario porre in evidenza le caratteristiche delle comunicazioni di massa a fronte delle comuni manifestazioni di pensiero.Nel lessico quotidiano per 'comunicazione' (del pensiero) si intende quell'attività umana - che si serve della parola, dello scritto, di mezzi tecnici (stampa, cinema, radiotelevisione ecc.) o di comportamenti concludenti - consistente nella trasmissione del proprio pensiero a un'altra persona (il Tommaseo metteva acutamente in luce il risultato di tale operazione, consistente per l'appunto nel "far comune qualche cosa con altri"). La locuzione 'comunicazioni di massa' individua, del pari, un'attività di partecipazione ad altri delle proprie conoscenze, ma con alcune rilevanti specificazioni. Il soggetto emittente non è mai una persona singola ma un' 'organizzazione sociale' di rilevanti dimensioni, ancorché il compito di esternare il messaggio sia affidato a singoli individui (v. Schramm, 1975, p. 905). Il soggetto ricevente è costituito da un numero indistinto e indistinguibile di persone (la 'massa'). Corrispondentemente, i relativi messaggi (in quanto rivolti a una 'massa' e in quanto provenienti da strutture facenti capo a imprese finanziariamente dipendenti dal mercato pubblicitario o da contributi statali) assumono peculiarità contenutistiche. Non a caso nella letteratura sociologica lo studio delle comunicazioni di massa si accompagna a quello della cultura di massa e viceversa (v. Horkheimer e Adorno, 1947; tr. it., pp. 130 ss.; v. McQuail, 1983; tr. it., p. 38; v. Livolsi, 1969, pp. 22 ss., 183 ss.).
È intuitivo il salto di qualità che passa tra la comunicazione a un destinatario prescelto e la comunicazione a una generalità di persone (nel cui genus rientra la comunicazione di massa). La prima, qualora venga effettuata con modalità tali da escludere, secondo le comuni regole di prudenza, la conoscibilità del messaggio da parte di terzi, è una comunicazione (necessariamente 'personalizzata') con un individuo determinato: comunicazione della quale l'ordinamento giuridico può tutelare non solo la 'libertà' (al fine di assicurare la possibilità che il messaggio - sia esso trasmesso verbalmente o su supporto cartaceo o elettronico - pervenga effettivamente al destinatario), ma anche la 'segretezza' (al fine di assicurare che il contenuto del messaggio non sia conosciuto da estranei, nella fase della sua trasmissione dall'emittente al ricevente). Con riferimento a questo primo tipo di comunicazioni, la 'segretezza' costituisce non tanto una tecnica per garantire l'esercizio della 'libertà' (come invece accade nel diritto di voto, per il quale la segretezza è in funzione della libertà), quanto la stessa ragion d'essere di una particolare forma di espressione sostanzialmente diversa dalle altre: la 'libertà' delle comunicazioni interpersonali 'riservate' (v. Pace, 1992², pp. 243 ss.; cfr., in questo senso, l'art. 15 della Costituzione italiana).Giuridicamente diversa è la comunicazione rivolta a una pluralità indifferenziata di individui: essendo questa non personalizzata e, anzi, essenzialmente rivolta al pubblico, la tutela della segretezza è, per definizione, estranea alla problematica giuridica che la concerne. Ne consegue che questo tipo di messaggio viene correttamente qualificato nella Costituzione italiana come 'manifestazione' (e cioè espressione 'pubblica') del pensiero, la quale può essere destinata alla più ampia 'divulgazione' per il tramite di mezzi di 'diffusione' (cfr. l'art. 21, comma 1, della Costituzione).
Di qui la conseguenza che le comunicazioni a destinatario indeterminato, e cioè le 'manifestazioni', ricevono in tutti gli ordinamenti, e non solo nel nostro, una tutela ridotta rispetto alla tutela giuridicamente assicurata alle comunicazioni interpersonali riservate. La 'pubblicità' che caratterizza le manifestazioni di pensiero rende infatti configurabili, nei confronti di esse, alcune fattispecie penalmente sanzionabili (i reati di vilipendio, di diffamazione, di pubblicazione oscena, ecc.) che sono invece assolutamente (e ovviamente) inipotizzabili nelle comunicazioni interpersonali riservate. Inoltre, a carico delle manifestazioni del pensiero (ancorché effettuate a mezzo stampa) il nostro ordinamento costituzionale prevede, in date ipotesi, la possibilità di misure di polizia giudiziaria (sequestri) atte a impedirne l'ulteriore diffusione; e consente (relativamente ai mezzi di diffusione diversi dalla stampa: cinema, teatro, radiotelevisione) che il legislatore possa stabilire provvedimenti adeguati a prevenire, oltre che a reprimere, le violazioni del buon costume. Per contro non è consentita alcuna limitazione preventiva a danno della libertà e della segretezza delle comunicazioni interpersonali riservate.Quanto fin qui ricordato a proposito delle manifestazioni a destinatario indeterminato, per quanto necessario al fine di individuare l'ampio genus nel quale giuridicamente rientrano le comunicazioni di massa, non è tuttavia sufficiente a identificare quelli che, almeno da un punto di vista sociologico, ne sono i caratteri differenziali. Questi, come si diceva all'inizio, consistono: a) nelle peculiarità strutturali dell'emittente; b) nelle peculiarità strutturali del ricevente e in quelle funzionali del messaggio; c) nelle peculiari modalità espressive.
Corrispondentemente, si rendono necessari i seguenti approfondimenti.
a) Mentre un individuo può, da solo, porre in essere manifestazioni di pensiero rivolte a un numero, anche notevole, di destinatari indeterminati (ad esempio parlando in una riunione in luogo pubblico), soltanto una complessa organizzazione specializzata, costituita da un'impresa con un elevatissimo numero di addetti con competenze diversificate e dotata di rilevanti mezzi tecnici e finanziari, può gestire un mezzo di comunicazione di massa; anzi, i programmi radiotelevisivi - che sono, in questo momento storico, i mass media per eccellenza - costituiscono addirittura la risultante del 'coordinamento', da parte dell'impresa emittente, di una pluralità di processi informativi posti in essere da imprese 'specializzate'.
b) Il destinatario delle comunicazioni di massa non è una platea, per quanto vasta, di persone sconosciute; è, appunto, la 'massa', con ciò intendendosi non un'entità fisica - la folla (ancorché le 'adunate oceaniche', tipiche dei regimi totalitari, presentino talvolta i caratteri della 'massa') -, bensì un'entità astratta, costituita da una moltitudine indistinta e indistinguibile di componenti, a cui partecipano individui culturalmente, economicamente, ideologicamente diversi tra loro (cfr. H. Blumer [1950], in Livolsi, 1969, pp. 259 ss.; v. McQuail, 1983; tr. it., pp. 34 ss.), ma dei quali l'organismo emittente, al fine di ampliare al massimo la sfera dei destinatari su cui poter incidere politicamente, culturalmente o commercialmente, prende in considerazione, in linea di massima, le più diffuse inclinazioni. Di qui - e cioè dalla peculiarità del destinatario e, insieme, dal potere di influenza che il soggetto emittente ha nei confronti della massa - discende la rilevanza politica e sociale dei mass media in quanto strumenti di legittimazione di status di individui (uomini politici, giornalisti, imprenditori, divi dello spettacolo ecc.) e di prodotti commerciali, nonché come strumenti per l'introduzione di nuove norme sociali (cfr. P.F. Lazarsfeld e R.K. Merton [1948], in Livolsi, 1969, pp. 81 ss.) e perciò come strumenti idonei a condizionare il mercato, la formazione della pubblica opinione e il consenso politico.
c) Ancorché nel singolo medium possano confluire anche esperienze intellettuali la cui comprensione implica un elevato grado di cultura (il raffinato elzeviro o il saggio filosofico nella pagina culturale del quotidiano; l'esecuzione di un concerto di musiche d'avanguardia o la lettura di una poesia futurista in un programma radiofonico; la presentazione di una serie di dipinti astratti in un programma televisivo), la comunicazione di massa, a cagione dell'identità (anzi della non identificabilità) del destinatario, richiede per definizione l'uso di peculiari modalità espressive. L'informazione - la quale gioca un ruolo determinante nei media scritti e radioelettrici - impone infatti (diversamente dalla manifestazione artistica ecc.) un'assoluta intelligibilità del messaggio (v. Pace, 1983, p. 170): di qui l'importanza dell'apporto iconico, ma, nel contempo, la sua insufficienza senza un'adeguata illustrazione orale o scritta.
Le tre caratteristiche testé illustrate valgono a differenziare la 'manifestazione' di un pensiero, per quanto ampiamente diffuso, da una comunicazione di massa. Le caratteristiche della comunicazione di massa fanno invece difetto nelle forme artigianali di stampa periodica o di emittenza radiotelevisiva, che si rivolgono a un pubblico ristretto (avente date caratteristiche soggettive o oggettive) al fine di portarlo a conoscenza di fatti o di problemi specificamente concernenti un certo quartiere o una determinata comunità religiosa o etnica; del pari tali caratteristiche difettano nei film che, deliberatamente sfuggendo ai canoni dell'industria culturale e del consumo di massa, vengono costruiti in funzione di pubblici definiti (v. Bettetini, 1991).Il vero è che in queste ultime ipotesi non si è neppure in presenza di una comunicazione di massa. Tale concetto è infatti strettamente connesso alle anzidette peculiarità contenutistiche e funzionali che non si riscontrano necessariamente in tutte le forme di utilizzazione del medesimo mezzo. Ne consegue che, se si può dubitare della totale rispondenza al vero del noto aforisma di M. McLuhan (v., 1964; tr. it., pp. 25 ss.) "il mezzo è il messaggio", non sembra invece dubbio che "il mezzo (di massa) è il messaggio (di massa)", intendendosi con ciò sostenere che le comunicazioni di massa sono necessariamente il prodotto di tecnostrutture con imponenti risorse finanziarie e tecnologiche.Sono allora evidenti le difficoltà, per lo stesso legislatore, di dettare regole per differenziare un'ipotesi - quella delle comunicazioni di massa - distinguibile dalle diffusioni di pensiero a destinatario indeterminato non già in base a caratteristiche estrinseche (strutturali), attinenti al tipo di mezzo usato, bensì in base a caratteristiche intrinseche (contenutistiche o funzionali) del messaggio. A ciò si aggiunga che le comunicazioni di massa necessitano delle tecnologie più avanzate per poter efficacemente influire sulle masse. Ciò implica che un mezzo, per l'innanzi qualificabile come mass medium (ad esempio la cinematografia), se soppiantato da altro medium tecnologicamente più idoneo allo scopo (la televisione), viene progressivamente a perdere quella sua qualificazione per assumere, o comunque per accentuare, un'altra funzione (ad esempio quella culturale).
È perciò comprensibile che legislatori e giuristi pongano la loro attenzione, anziché sulle caratteristiche intrinseche dei mass media - che però sono quelle più significative -, su una delle loro caratteristiche estrinseche: la dimensione delle imprese. Essendo la comunicazione di massa il prodotto di imprese integrate in grandi gruppi finanziari egemoni (v. Predieri, 1988, p. 116), le discipline legislative delle comunicazioni di massa, invece di prendere in considerazione le sole imprese che effettivamente si rivolgono al pubblico con 'programmi di massa', finiscono per coinvolgere tutte le imprese di diffusione del pensiero che presentino, sotto il profilo del prodotto, dimensioni tali da far presumere che la loro attività di comunicazione si rivolga prevalentemente (anche se non esclusivamente) alla massa. Le leggi, nel considerare, sia pure descrittivamente, le imprese di comunicazioni di massa, fanno perciò riferimento, senza andare troppo per il sottile, alle imprese che editano un certo numero di copie di quotidiani o di periodici; che trasmettono programmi radiotelevisivi diffusi da una 'rete' di impianti trasmettitori e ripetitori che interessi una parte cospicua del territorio nazionale; che, nella vendita o nell'utilizzazione di prodotti audiovisivi (e, quindi, anche nella distribuzione di pellicole cinematografiche), ottengano determinati ricavi e così via.
Se, sotto il profilo funzionale e contenutistico, le imprese di comunicazione di massa presentano delle peculiarità rispetto alle altre imprese di diffusione che utilizzino lo stesso mezzo - il che potrebbe consentire un trattamento giuridico diversificato delle seconde rispetto alle prime (cfr., in questo senso, la disciplina delle radiodiffusioni "a carattere comunitario", senza fine di lucro, di cui all'art. 16, comma 5, della legge n. 223 del 1990) - , è tuttavia evidente che, per i restanti profili, le imprese di comunicazione di massa non si differenziano dalle imprese di diffusione (si pensi alla tutela dell'altrui reputazione, del buon costume ecc.). Donde questa conseguenza metodologica: lo studio degli aspetti giuridici delle comunicazioni di massa si risolve, allo stato attuale delle legislazioni, nell'esame dei problemi comuni a tutte le imprese di diffusione, e cioè nell'esame dei problemi generali concernenti sia la disciplina dei mezzi di diffusione del pensiero, sia la libertà di manifestazione del pensiero esercitata per il tramite di essi. Quanto precedentemente osservato sulle caratteristiche contenutistiche e funzionali delle comunicazioni di massa, e sul loro rilievo sociale e politico, serve tuttavia a comprendere le ragioni di taluni interventi legislativi che, pur concernendo in genere i mezzi di diffusione del pensiero, in effetti si giustificano solo in ragione delle peculiarità dei mass media.
2. Fondamento costituzionale e disciplina delle imprese di diffusione radiotelevisiva
Per quanto storicamente rilevante sia stato il ruolo giocato, nelle dinamiche istituzionali, dalle proclamazioni costituzionali delle libertà di comunicazione dei pensieri (art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789), di parola (I emendamento della Costituzione degli Stati Uniti), di manifestazione del pensiero (art. 21, comma 1, della Costituzione italiana), di opinione (art. 5 della Legge fondamentale della Rep. Fed. di Germania) ecc., al fine del concreto riconoscimento del diritto dei privati a costituire ed esercitare imprese di radiodiffusione, è sintomatica della netta differenza che passa tra quei diritti individuali di libertà e il diritto d'impresa radiotelevisiva (che è un aliud: v. Hoffmann-Riem, 1983, pp. 407 s.) la circostanza che gli organi di giustizia costituzionale hanno ovunque negato che tra le facoltà incluse nel contenuto dei diritti (individuali) di libertà di parola, di opinione ecc. rientri anche la possibilità di costituire ed esercitare un'impresa radiotelevisiva (U.S. Supreme Court, in N.B.C. vs. U.S., 319 U.S. 190, 1943; Bundesverfassungsgericht tedesco, decisione n. 14 del 1981; Corte costituzionale, sentenze nn. 105 del 1972, 225 del 1974, 202 del 1976, 826 del 1988, 102 del 1990; Conseil constitutionnel francese, decisioni nn. 141 del 1982 e 217 del 1986; più sfumata è la posizione del Tribunal constitucional spagnolo, sentenze nn. 12 del 1982 e 206 del 1990). Di qui la conseguenza che tale possibilità diviene concretamente attuabile, nei vari ordinamenti, solo in conseguenza dell'intervento del legislatore ordinario (cfr., nel medesimo senso, le recenti Costituzioni di Spagna - art. 20, comma 3 - e dei Paesi Bassi - art. 7, comma 2 - e l'art. 55 bis della Costituzione federale elvetica).Ciò che - a proposito delle trasmissioni radiotelevisive - generalmente preoccupa i vari organi di giustizia costituzionale e li induce a non ritenere aprioristicamente incostituzionali le leggi che diano una disciplina restrittiva dei contenuti e delle modalità di presentazione delle informazioni e dei programmi radiotelevisivi (ai quali le varie legislazioni impongono, generalmente, di rispettare i principî di correttezza, obiettività e completezza nella diffusione delle notizie, di imparzialità nella scelta degli intervistati, oltre, beninteso, al rispetto dei valori politici fondamentali dell'ordinamento, della reputazione dei terzi, della personalità dei minori, delle regole del buon costume, nonché, talora, anche del buon gusto: art. 6 del britannico Broadcasting act del 1990; v. Gillmor e Barron, 1984⁴, pp. 783 ss.; v. Jongen, 1989, p. 180) è la loro "notoria capacità di immediata e capillare penetrazione nell'ambito sociale attraverso la diffusione nell'interno delle abitazioni [...] e la forza suggestiva dell'immagine unita alla parola" (Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 1981; analogamente U.S. Supreme Court, in C.B.S. vs. Democratic National Commission, 412 U.S. 94, 116, 1973; Federal Comunication Commission vs. Pacifica Foundation, 438 U.S. 726, 1978). Tale teoria è stata sostenuta dapprima negli Stati Uniti (nella prima delle citate sentenze la Corte Suprema ha infatti accennato a una audience "prigioniera" - captive audience - del broadcaster; nella seconda ha stigmatizzato il potere "intrusivo" di esso: v. Franklin e Anderson, 1990⁴, p. 860) e poi in Germania e in Italia, per sottolineare, a proposito delle trasmissioni radiotelevisive, la loro "peculiare capacità di persuasione e di incidenza sulla formazione dell'opinione pubblica nonché sugli indirizzi socioculturali" (così la Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 1981; analogamente il Bundesverfassungsgericht, decisioni nn. 23 del 1961, 30 del 1971, 14 del 1981, 3 del 1986, 22 del 1987).Tale teoria, proprio perché così autorevolmente seguita, è più che sufficiente per spiegare in primo luogo la ragione per la quale, al suo primo apparire, la radiodiffusione è stata ovunque assoggettata, nel continente europeo, a monopolio statale, anche se come sostegno ufficiale di tale scelta politica - ovviamente scontata nei regimi totalitari - è stato generalmente addotto l'argomento della scarsità delle radiofrequenze utilizzabili. (Dal canto suo la U.S. Supreme Court, pur operando in un sistema essenzialmente privatistico, è parimenti ricorsa, nella decisione resa in N.B.C. vs. U.S., 319 U.S. 190, 1943, alla scarsità delle frequenze per giustificare la sottoponibilità del diritto d'impresa radiotelevisiva a licenza amministrativa discrezionale, finalizzata al pubblico interesse, rilasciata da un organo federale: la Federal Communications Commission. La conseguenza è che, ancor oggi, in quel sistema non esistono 'diritti' dell'impresa emittente, nemmeno dopo il rilascio della licenza: l'impresa licenziataria è qualificata infatti "fiduciario del pubblico", public trustee, e come tale è giuridicamente obbligata a rispettare tutta una serie di regole di fairness dettate dalla Federal Communication Commission: Red Lion Broadcasting Co. vs. F.C.C., 395 U.S. 367, 1969).In secondo luogo tale teoria chiarisce assai bene la ragione per la quale, anche quando la disponibilità di radiofrequenze si è venuta progressivamente ampliando per ragioni tecniche, il legislatore ha mantenuto un atteggiamento assai cauto nei confronti della totale liberalizzazione delle trasmissioni radiotelevisive. Ciò è comprovato dalla disciplina delle trasmissioni via cavo, le quali, a rigore, dovrebbero godere - il che non è - di un trattamento contenutisticamente diverso, qualora la giustificazione di tale disciplina restrittiva risiedesse soltanto nella maggiore o minore scarsità delle radiofrequenze (U.S. vs. Midwest Video Corp., 406 U.S. 649, 1972; va comunque segnalato un preannuncio di possibili 'aperture' nella disciplina dei contenuti: City of Los Angeles vs. Preferred Communications Inc., 476 U.S. 488, 1986; v. Holsinger, 1991², pp. 482 s.; v. Parsons, 1987, pp. 53 ss.). Seguendo questo indirizzo, la recente disciplina legislativa italiana delle trasmissioni radiotelevisive via cavo - nella quale, come in genere accade altrove, dovrebbero collocarsi le cosiddette trasmissioni televisive private a pagamento (i cui contenuti espressivi restano pur sempre 'pubblici': v. cap. 1) - per quanto lacunosa, sembrerebbe estendere anch'essa ai soggetti autorizzati all'uso del cavo gli stessi obblighi dei concessionari delle radiodiffusioni via etere (art. 29 della legge n. 223 del 1990; art. 9 del decreto legislativo n. 73 del 22 febbraio 1991; v. Jongen, 1989, pp. 176 e 214 ss.).
Questa diversificata disciplina del mezzo radiotelevisivo, rispetto al riconoscimento della libertà di parola, potrebbe, a prima vista, sorprendere. Il vero è, come accennato sopra, che le proclamazioni costituzionali delle libertà di parola, di opinione e di manifestazione del pensiero, anche quando si estendono, come quella italiana (o come l'art. 2 della Carta canadese dei diritti e delle libertà del 1982), fino a garantire il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero "con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", non comprendono - né possono comprendere - il diritto "di disporre di tutti i possibili mezzi" (Corte costituzionale, sentenze nn. 105 del 1972 e 225 del 1974; ma anche, implicitamente, le sentenze nn. 59 del 1960, 202 del 1976, 148 del 1981, 153 del 1987, 1030 del 1988, 102 del 1990. Si noti che la stessa possibilità di manifestare il pensiero "con lo scritto", per quanto espressamente garantita, presuppone la giuridica disponibilità... del foglio di carta). Di qui l'esatta constatazione che l'essenza del diritto di libera manifestazione non è che "il singolo abbia possibilità di uso dei mezzi di diffusione del pensiero, ma che egli possa liberamente manifestare ciò che pensa, con i mezzi [giuridicamente] a propria disposizione" (v. Esposito, 1958, p. 27, nota 58).
La scissione della libertà di parola dalla disciplina dell'uso dei mezzi, se - da un lato - attribuisce al legislatore ordinario la potestà di disciplinare l'accesso ai mezzi di diffusione "con le modalità ed entro i limiti resi eventualmente necessari dalle peculiari caratteristiche dei singoli mezzi" (Corte costituzionale, sentenza n. 105 del 1972), dall'altro impone però al legislatore di assicurare 'a tutti' la libera utilizzazione dei mezzi in condizioni di eguaglianza (v. Crisafulli, 1964, p. 297; Corte costituzionale, sentenze nn. 105 del 1972 e 94 del 1977).È perciò comprensibile perché i giudici costituzionali europei, chiamati a giudicare della legittimità delle norme disciplinanti il mezzo radiotelevisivo come servizio pubblico, non ne abbiano mai negata, in sé e per sé, la costituzionalità; e come si siano invece preoccupati di individuare le modalità e le garanzie di un corretto esercizio 'aperto' e 'pluralistico' del servizio (Bundesverfassungsgericht, decisioni nn. 23 del 1961, 30 del 1971, 14 del 1981; Corte costituzionale, sentenze nn. 59 del 1960, 225 del 1974, 148 del 1981; cfr. altresì Conseil constitutionnel, decisione n. 129 del 1981 e Tribunal constitucional, decisioni nn. 12 e 74 del 1982, 206 del 1990). Se la gestione delle radiodiffusioni secondo il modello del 'servizio pubblico' si giustifica in ciò, che non esiste un diritto costituzionale dei privati all'utilizzazione diretta dei vari mezzi di diffusione, da tale premessa discende altresì che, come non esiste un diritto soggettivo dei privati - a meno che il legislatore espressamente non lo preveda - di accedere alle trasmissioni del mezzo pubblico (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 7072 del 1983; v. Hoffmann-Riem, 1983, p. 411; v. Pace, 1983, pp. 311 ss.), così nemmeno esiste, da parte dei giornalisti e dei programmisti del mezzo pubblico, nonché da parte degli stessi dirigenti, il "pieno" diritto di "libera" manifestazione delle "proprie" opinioni mediante tale mezzo (Bundesverfassungsgericht, decisione n. 30 del 1971; v. Barrelet, 1987², pp. 72 ss.; v. Hoffmann-Riem, 1983, pp. 416 s.; v. Pace, 1983, p. 231). Quando gli organi di giustizia costituzionale invocano "la libertà di parola" (I emendamento della Costituzione degli Stati Uniti) per garantire il "libero mercato delle idee"; la "libertà di espressione della propria opinione" (art. 5 della Legge fondamentale della Rep. Fed. di Germania) per costruire la "libertà istituzionale di formazione di una libera opinione individuale e pubblica"; il "diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero" (art. 21 della Costituzione italiana) per individuarvi il "fondamentale principio di libertà" posto a garanzia del pluralismo; "la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni" (art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789) per fondare la possibilità di scelta tra le notizie e le opinioni, ebbene, essi enunciano queste libertà in una dimensione diversa da quella (soggettiva) dei diritti individuali, e cioè nella dimensione di "valori" - o "esigenze" o "principî oggettivi" o "obiettivi costituzionali" (U.S. Supreme Court, in Red Lion Broadcasting Co. vs. F.C.C., 395 U.S. 367, 1969; Bundesverfassungsgericht, decisioni nn. 23 del 1961, 30 del 1971, 3 del 1986 e, soprattutto, 22 del 1987; Corte costituzionale, sentenze nn. 225 del 1974, 202 del 1976, 826 del 1988; Conseil constitutionnel, decisioni nn. 141 del 1982 e 217 del 1986) - alla cui realizzazione il legislatore ordinario dovrà comunque tendere, nella disciplina del mezzo, secondo il prudente ma discrezionale apprezzamento delle concrete circostanze e dello stato delle innovazioni tecniche.
Il superamento del modello della gestione monopolistica pubblica, ritenuto possibile dalle Corti europee, è stato perciò da queste prudentemente sottoposto a varie condizioni: mentre la gestione del servizio pubblico, al fine di soddisfare il cosiddetto diritto all'informazione dei cittadini, deve comunque caratterizzarsi per il suo "pluralismo interno" (Bundesverfassungsgericht, decisioni nn. 14 del 1981, 3 del 1986, 22 del 1987; Corte costituzionale, sentenze nn. 225 del 1974, 826 del 1988; Conseil constitutionnel, decisione n. 217 del 1986), l'accesso delle imprese private al settore radiotelevisivo in tanto può essere consentito dal legislatore ordinario, in quanto venga legislativamente apprestato "un sistema di garanzie efficace al fine di ostacolare in modo effettivo il realizzarsi di concentrazioni monopolistiche o oligopolistiche non solo nell'ambito delle connessioni fra le varie emittenti, ma anche in quello dei collegamenti tra le imprese operanti nei vari settori dell'informazione incluse quelle pubblicitarie" (Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 1981). Conseguentemente, per soddisfare il cosiddetto diritto dei cittadini a essere informati (v. cap. 5) e, nel contempo, per garantire una situazione di 'libertà' per le emittenti private, il legislatore deve garantire "il massimo di pluralismo esterno" (Corte costituzionale, sentenza n. 826 del 1988). Tuttavia, mentre la Corte italiana si ferma qui, e in pratica risolve la garanzia del pluralismo dei mezzi di diffusione (art. 21 della Costituzione) nella garanzia della pluralità delle imprese radiotelevisive economicamente operanti nel settore (art. 41 della Costituzione), la Corte tedesca (fautrice di una ben più decisa 'funzionalizzazione' sia del diritto 'di' informazione delle imprese di radiodiffusione, sia del diritto 'alla' informazione dei cittadini: v. Hoffmann-Riem, 1983, pp. 409 s. e 461 s.; v. Bastida, 1990, pp. 221 ss., 237, 246 ss.) va ben oltre e puntigliosamente sottolinea, per tutelare la qualità della programmazione, l'indispensabilità del servizio pubblico (gestito da imprese pubbliche indipendenti dal potere politico, disciplinate da leggi dei Länder) anche in un sistema ormai aperto alle imprese private (decisioni nn. 14 del 1981 e 22 del 1987). Rileva infatti il Bundesverfassungsgericht che la completezza, nei programmi delle imprese private, potrebbe mancare in quanto, approvvigionandosi finanziariamente mediante la vendita di spazi pubblicitari, esse devono "per necessità economica diffondere programmi il più possibile attraenti per la massa, per aumentare il numero degli spettatori e degli ascoltatori e per ridurre al massimo i costi" (decisione n. 3 del 1986); che la libertà radiotelevisiva è, comunque, una "libertà servente" della libera formazione delle opinioni (decisioni nn. 14 del 1981 e 22 del 1987); che pertanto anche nelle imprese private deve essere tendenzialmente rispettato il principio del pluralismo interno (decisione del 5 febbraio 1991; cfr. anche il Conseil constitutionnel, decisione n. 217 del 1986). Ancorché non possa dirsi che i sistemi radiotelevisivi statunitense e canadese siano 'esclusivamente' privatistici, data la presenza, in entrambi, di emittenti pubbliche (per gli Stati Uniti cfr. il Public broadcasting act del 1967 e la decisione della U.S. Supreme Court in F.C.C. vs. League of women voters, 468 U.S. 364, 1984; v. Gillmor e Barron, 1984⁴, pp. 1020 ss.; per il Canada cfr. il Broadcasting act che già nel 1928 autorizzava la creazione di una rete pubblica, la C.B.C.), deve tuttavia ammettersi che essi lo sono nella sostanza. Ciò nonostante - come già si è avuto modo di osservare - le licenze per la radiodiffusione sono, in entrambi i sistemi, discrezionalmente rilasciate nel 'pubblico interesse', purché ricorrano date condizioni soggettive e oggettive. (Le condizioni previste dal legislatore federale statunitense per garantire il pluralismo consistono nella previsione di un numero massimo di licenze assentibili allo stesso soggetto per l'esercizio di emittenti televisive o radiofoniche locali; nella previsione di limiti temporali massimi di diffusione nazionale; nel divieto o, comunque, in limiti alla proprietà di quotidiani e periodici ecc.). Alle imprese radiotelevisive, non diversamente dalle imprese editrici di quotidiani, si applicano inoltre, negli Stati Uniti, le comuni norme antitrust concernenti l'attività economica (Associated Press vs. U.S., 326 U.S. 1, 1945; Lorain Journal vs. U.S., 342 U.S. 193, 1951; v. Gillmor e Barron, 1984⁴, pp. 639 ss.).Paragonati al sistema privatistico statunitense i sistemi europei (i quali unanimemente prescrivono, perché le imprese radiotelevisive possano legittimamente operare, il rilascio della previa 'concessione' o, quantomeno, della previa 'licenza' (secondo quanto consentito dall'art. 10, comma 1, della Convenzione europea per i diritti dell'uomo) sembrerebbero a prima vista più attenti al contenuto e alle modalità dei messaggi. Va tuttavia osservato che tale apparente maggiore attenzione è forse dovuta alla minore omogeneità politica e culturale delle società europee (che richiede l'adozione di regole esplicite a garanzia di certi valori unificanti che, invece, nella società americana sono, per così dire, metabolizzati).La varietà è però notevole anche all'interno dei sistemi europei: da un lato è enorme la differenza che, ad esempio, passa tra la concessionaria pubblica inglese, la B.B.C. (il cui finanziamento consiste nel solo canone di abbonamento pagato dagli utenti), e la concessionaria pubblica italiana, la RAI, notevolmente condizionata, nella predisposizione del palinsesto dei programmi, dalla necessità di reperire finanziamenti anche sul mercato della pubblicità. Dall'altro è indubitabile il maggior rigore circa i divieti di concentrazione e circa i contenuti educativi e culturali dei programmi, richiesti dalle legislazioni sull'emittenza privata francese (artt. 41 ss. della legge del 30 settembre 1986), spagnola (artt. 9 e 10 della legge n. 10 del 3 maggio 1988) e britannica (sez. 6 e 7, Schedule 2, del Broadcasting act, 1990) rispetto a quanto disposto dalla recente legge italiana (1990). Quest'ultima non solo non pone un serio ostacolo alla costituzione, nei fatti, di una posizione dominante nel settore radiotelevisivo (l'art. 15 della legge n. 223 del 1990, pur trionfalisticamente intitolato, nella rubrica, al "divieto di posizioni dominanti nell'ambito dei mezzi di comunicazioni di massa", consente a uno stesso soggetto la titolarità di ben tre reti radiotelevisive nazionali, laddove la legge francese e quella spagnola consentono al massimo la titolarità del 25% del capitale sociale di una sola società concessionaria), ma nemmeno si preoccupa, ad esempio, dei contenuti educativi e culturali dei programmi e della parità di trattamento dei candidati nei periodi di campagna elettorale, ancorché una pregnante interpretazione dell'art. 1 della legge n. 223 del 1990 (il quale dispone: "1. La diffusione di programmi radiofonici o televisivi, realizzata con qualsiasi mezzo tecnico, ha carattere di preminente interesse generale. 2. Il pluralismo, l'obiettività, la completezza e l'imparzialità dell'informazione, l'apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione, rappresentano principî fondamentali del sistema radiotelevisivo che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati ai sensi della presente legge") possa indurre a ritenere che anche le trasmissioni diffuse in Italia dai privati - tenuti a irradiare quotidianamente telegiornali, giornali radio e programmi informativi (artt. 20, comma 6, e 16, comma 18) - costituiscano, oggettivamente, un 'servizio pubblico' (v. Roppo e Zaccaria, 1991, pp. 26 ss.), né più né meno di quel che è previsto, anche per i concessionari privati, in Spagna (art. 3 della legge n. 10 del 3 maggio 1988) e in Gran Bretagna (sez. 3, 4, 5 e 6 del Broadcasting act, 1990). (Vero è, però, che la qualificazione oggettiva di un'attività come 'servizio pubblico' non ha un grande rilievo pratico se a essa non corrisponda una pregnante disciplina pubblicistica delle situazioni giuridiche soggettive del concessionario, anche sotto il profilo dei controlli).
Non tutte le colpe sono però attribuibili al legislatore. Questi può bensì imporre, anche ai privati, che spazi radiotelevisivi debbano essere riservati a trasmissioni di contenuto politico, culturale, sociale ecc., ma, una volta entrato nella logica pluralistica della disciplina dei mezzi di diffusione radiotelevisiva, non può precludere all'utente la facoltà di scelta tra i programmi delle varie emittenti. Ciò è sufficiente perché, in un sistema di comunicazioni di massa, il programma confezionato 'per la massa' - ancorché concernente la politica (v. Sartori, 1989) - sia inevitabilmente quello più appetito dall'utente medio, e quindi si imponga, di fatto, come il più importante sia sotto il profilo finanziario, sia sotto il profilo politico.
Nonostante sia qualificabile, anch'essa, come mezzo di comunicazione di massa, la stampa presenta caratteristiche oggettive tali da consentirne, negli ordinamenti liberaldemocratici, una più decisa tutela costituzionale e legislativa, nei confronti dei pubblici poteri, per ciò che riguarda sia i contenuti espressivi, sia la disciplina del mezzo. La circostanza che in talune Dichiarazioni dei diritti delle colonie americane (Virginia, 1776, sez. 12; North Carolina, 1776, art. XV; Massachusetts, 1789, art. XVI; New Hampshire, 1784, art. XXII) e in talune Costituzioni ottocentesche (cfr., ad esempio, la Costituzione belga del 1831, art. 18; lo Statuto albertino del 1848, art. 28) fosse riconosciuta la libertà di stampa, e non anche la libertà di parola (ma significativamente veniva del pari ivi garantita la libertà di riunione, politicamente rilevante non meno della stampa: art. XVIII della Costituzione del North Carolina; art. 19 della Costituzione belga; art. 32 dello Statuto albertino), comprova che all'epoca vi era una diffusa consapevolezza dell'importanza della stampa come fattore di mutamento sociale, incommensurabilmente maggiore rispetto alla semplice parola (v. Altick, 1983; v. Eisenstein, 1979; v. Schramm, 1975, p. 903). Si può anzi aggiungere che già negli articoli del giovane Marx sulla libertà di stampa in Prussia (1842) traspare la chiara percezione - comune ai fautori e agli oppositori di tale libertà - della stampa come strumento per influenzare l''uomo di massa' e, quindi, della forza politica di tale mezzo (v. Marx, 1975, pp. 93 ss.; v. Altick, 1983). Da alcune delle citazioni degli oppositori della libertà di stampa, riportate in quegli articoli ("il canto di sirena del male agisce potentemente sulle masse"; "la cattiva stampa parla solo alle passioni degli uomini") emergono addirittura quegli stessi temi che la giurisprudenza costituzionale enuncerà 130 anni dopo, a proposito della radiotelevisione (v. cap. 2), per denunciarne le potenzialità di coinvolgimento emotivo.Sarebbe tuttavia inesatto sostenere che la stampa abbia un impatto sociale analogo a quello della radiotelevisione. Anzi, il ben maggiore potere di coinvolgimento psicologico di questa rispetto a quella è stato enfatizzato a tal punto che, se da un lato si è sostenuto che i media radioelettrici mettono "istantaneamente in rapporto ogni esperienza umana", laddove la stampa separa "le funzioni della conoscenza e dell'azione" (v. McLuhan, 1962, tr. it., p. 230, e 1964, tr. it., pp. 386 ss.), dall'altro si è concluso nel senso che è proprio la ben diversa (e maggiore) capacità di persuasione e di incidenza sulla formazione della pubblica opinione della radiodiffusione rispetto alla stampa ciò che induce a differenziare - sotto un primo profilo - la disciplina dei due media riconoscendo, in conseguenza, una più ampia tutela costituzionale e legislativa alla stampa rispetto alla radiotelevisione (U.S. Supreme Court, in C.B.S. vs. Democratic National Commission, 412 U.S. 94, 1973, e in F.C.C. vs. Pacifica Foundation, 438 U.S. 726, 1978; Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 1981).La seconda spiegazione della più ampia tutela costituzionale e legislativa della stampa va rinvenuta nella secolare rivendicazione dell'immunità di tale mezzo da censure e da autorizzazioni preventive (J. Milton, Areopagitica, 1644; W. Blackstone, Commentaries on the laws of England, vol. IV, 1769, pp. 151 ss.). Sta di fatto che, nel momento in cui questa immunità si trasforma da formale proclamazione in effettiva garanzia - con un processo che inizia in Inghilterra nel 1694 ed è tuttora in corso in paesi diversi da quelli del Nordamerica e dell'Europa occidentale -, essa si risolve altresì in un notevole ostacolo giuridico per l'assoggettamento della stampa al monopolio statale nonché per la sua disciplina come servizio pubblico. Notevole ostacolo giuridico, tuttavia, non già esplicita garanzia di esclusiva appartenenza privatistica del mezzo. Infatti, se così fosse, la rigorosa conseguenza dovrebbe essere che qualsiasi tipo di stampato (quali che siano le modalità di diffusione - un volume, un periodico, un giornale murale ecc. - e quale che ne sia il contenuto: politico, religioso, artistico, scientifico, commerciale ecc.) non solo sarebbe sottratto ad autorizzazione e censura, ma sarebbe editabile solo da privati.
La prima conclusione deve considerarsi esatta, non essendo ammissibile che il legislatore distingua discrezionalmente tra le varie modalità di stampa, nonché tra stampato e stampato ai fini del divieto di autorizzazioni e censure (v. Esposito, 1958, p. 11, nota 14; v. Fois, 1965, p. 849; v. Barrelet, 1987², p. 37).La seconda conclusione (secondo la quale le imprese di stampa dovrebbero essere gestite esclusivamente da privati) può invece essere condivisa solo in via tendenziale, in quanto il divieto di autorizzazioni e censure sulla stampa, se implica il divieto di "interventi dei pubblici poteri suscettibili di tradursi, anche indirettamente, e contro le intenzioni, in forme di pressione, per indirizzare la stampa verso obiettivi predeterminati a preferenza di altri" (Corte costituzionale, sentenza n. 94 del 1977), certamente non esclude, in Italia e altrove, che lo Stato, nella sua funzione di promozione culturale, possa darsi carico - direttamente o indirettamente - di finanziare iniziative editoriali di opere artistiche, scientifiche ecc. (cfr. i contributi di L.M. Salamon, R.S. Katz e A.E. Dick Howard, in Clemente di San Luca, 1990, pp. 30 ss., 64 ss. e 172 ss.). Del resto, come si è autorevolmente sostenuto che la diffusione del proprio pensiero per il tramite di una struttura disciplinata come pubblico servizio non trasforma automaticamente la libertà di parola in pubblica funzione (v. Crisafulli, 1964, p. 294), così tale conclusione potrebbe a fortiori essere accolta con riferimento a quotidiani e a periodici in mano pubblica (i quali non sono, ovviamente, sottoposti alla disciplina del servizio pubblico, né possono esserlo, non ricorrendo i presupposti giuridici e di fatto: cfr. gli artt. 43 della Costituzione italiana, e 128, comma 2, della Costituzione spagnola). Ne deriva, allora, che mentre è razionalmente giustificato che enti pubblici o società in mano pubblica possano acquisire partecipazioni in aziende editoriali di giornali o di periodici che abbiano carattere tecnico e siano inerenti all'attività dell'ente o della società (art. 1, comma 14, della legge n. 416 del 5 agosto 1981), non può neanche ritenersi incostituzionale che tali enti possano continuare a detenere precedenti partecipazioni in aziende editoriali di quotidiani o periodici ancorché non aventi carattere tecnico (art. 1, comma 14 cit.). I problemi che pongono tali ipotesi non sono, quindi, quelli connessi alla (supposta) incostituzionalità dell'appartenenza alla mano pubblica di un'azienda editoriale (di libri, di periodici o di quotidiani) bensì altri, concernenti, in primo luogo, le garanzie di obiettività e di imparzialità che dovrebbero caratterizzare la gestione dell'azienda, anche con riferimento alla possibilità di accesso al mezzo da parte del quisque de populo; in secondo luogo, i limiti modali (di completezza e di correttezza del linguaggio) che, nell'uso del mezzo, dovrebbero essere imposti tanto ai giornalisti quanto agli eventuali accedenti; infine, per ciò che riguarda le pubblicazioni culturali, le modalità della previa verifica 'tecnica' del valore artistico o scientifico dell'opera.
La terza ragione di distinzione della disciplina della stampa da quella della radiotelevisione è, storicamente, la più nota, essendo stata più volte utilizzata dalle varie Corti. Si è infatti ritenuto che la radiotelevisione, ma non la stampa, è condizionata dalla limitatezza delle risorse fisiche del mezzo, che potrà essere maggiore o minore, ma che comunque non consentirà mai a tutti, nemmeno potenzialmente, di accedere liberamente alle radiofrequenze (U.S. Supreme Court, in N.B.C. vs. U.S., C.B.S. vs. U.S., 319 U.S. 190, 1943; Red Lion Broadcasting Co. vs. F.C.C., 395 U.S. 367, 1969; C.B.S. vs. Democratic National Committee, 412 U.S. 94, 1973; Corte costituzionale, sentenze nn. 59 del 1960 e 202 del 1976; Bundesverfassungsgericht, decisioni nn. 23 del 1961 e 14 del 1981; Tribunal constitucional, sentenza n. 12 del 1982). Inoltre la radiotelevisione, ma non la stampa, utilizza un mezzo avente natura giuridica 'pubblica'. Ciò è senz'altro vero se si prende in considerazione il bene (l'etere) attraverso il quale si irradiano le onde elettromagnetiche (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 5336 del 1980; Corte costituzionale, sentenza n. 102 del 1990; Tribunal constitucional, sentenze nn. 12, 26 e 44 del 1982; art. 22 della legge francese del 17 gennaio 1987 istitutiva del Conseil supérieur de l'audiovisuel; cfr. D. Forkosch, in Paladin, 1979, p. 211; v. Nelson e Teeter, 1986³, p. 556; v. Debbasch, 1991, p. 269; v. Jongen, 1989, pp. 19 e 34; v., contra, Bastida, 1990, pp. 163 ss.
Va comunque sottolineato che l'essenziale disciplina pubblicistica dell'etere e la conseguente illiceità delle appropriazioni non autorizzate delle radiofrequenze discendono da tutta una serie di accordi internazionali - Stoccolma 1961, Malaga-Torre Molinos 1973, Nairobi 1982 ecc. - che obbligano gli Stati firmatari a richiedere in ogni caso la previa licenza governativa per l'installazione e l'esercizio delle stazioni radiotelevisive; ne consegue che, anche a voler considerare l'etere come mera res communis omnium, ciò non di meno il potere di conferimento delle relative utilitates resta pur sempre esclusivamente riservato alla pubblica autorità). Ma ciò è altrettanto vero anche se si prenda in considerazione il bene (il suolo) sul quale e nel quale vengono installati i cavi. Di qui, ancora una volta, la legittimità delle richieste di previa concessione o di previa licenza, se riferite alle imprese radiotelevisive (art. 10, comma 1, della Convenzione europea per i diritti dell'uomo), e l'illegittimità delle stesse richieste, qualora fossero formulate con riferimento alle imprese di stampa. La conclusione a cui sopra si è pervenuti - e cioè che negli stessi ordinamenti occidentali caratterizzati da economia di mercato non esiste alcuna norma che, a livello costituzionale, riservi alle imprese private la gestione di aziende editoriali - non significa però, per quanto più specificamente concerne l'editoria quotidiana o periodica, che sarebbero razionalmente giustificabili (e quindi costituzionalmente legittime) leggi che consentissero agli enti pubblici e alle società a partecipazione pubblica di costituire liberamente imprese editoriali di quotidiani e periodici, o di acquisire liberamente partecipazioni in preesistenti aziende editoriali. È evidente che siffatte leggi contraddirebbero l'assunto in base al quale viene giustificata la differente disciplina della stampa rispetto alla radiotelevisione: vale a dire la presenza in questo settore di un numero di quotidiani e di periodici tale da assicurare il pluralismo informativo.
È allora evidente come, anche per l'editoria quotidiana e periodica, si imponga giuridicamente (ed è infatti generalmente prevista) una disciplina che garantisca tale pluralismo.Questo obiettivo è solitamente perseguito dal legislatore: in primo luogo non condizionando - in ossequio al divieto di autorizzazioni preventive - l'accesso al settore (diversamente dal settore radiotelevisivo nel quale l'accesso è sempre pubblicisticamente condizionato); in secondo luogo imponendo la trasparenza dell'assetto proprietario delle imprese editoriali e di quelle concessionarie di pubblicità (titolarità delle imprese limitata alle persone fisiche se non al primo, quantomeno al secondo o al terzo livello; predisposizione dei bilanci secondo modelli tipizzati; istituzione di un apposito registro nazionale; divieto di intestazioni fiduciarie; limitata capacità giuridica dei soggetti stranieri ecc.); in terzo luogo assicurando - più o meno rigorosamente - il mantenimento dell'effettiva concorrenza tra le imprese del settore. I sistemi utilizzati a questo fine sono vari. Esemplificativamente si può accennare a quello italiano e a quello statunitense. Il primo è caratterizzato dalla previsione di criteri giuridici formali per l'individuazione del controllo o, quantomeno, del collegamento tra imprese (modalità di comunicazione degli utili e delle perdite, distribuzione degli utili e delle perdite in misura diversa, coordinamento della gestione delle imprese ecc.) e da soglie quantitative rigide (numero delle testate editate ecc.), che fanno presumere, senza possibilità di prova contraria, l'esistenza della situazione di 'dominanza' che il legislatore intende impedire. Il secondo è caratterizzato, oltre che da criteri giuridici formali per l'individuazione delle situazioni illecitamente restrittive della concorrenza 'di per sé irragionevoli' (accordi orizzontali o verticali concernenti la fissazione dei prezzi, la ripartizione dei mercati, la limitazione della produzione ecc.), dall'affidamento a un organo pubblico del compito di determinare, di volta in volta, la ricorrenza della norma che, in via generale, vieta l'irragionevole restrizione del mercato. La peculiarità del contenuto dell'attività d'impresa (l'informazione) implica peraltro che in questo ordinamento accordi, altrimenti illeciti, posti in essere da imprese editoriali giornalistiche possano talvolta essere ritenuti validi, quando consentano la sopravvivenza di una testata altrimenti destinata incolpevolmente a scomparire (U.S. newspaper preservation act del 1982; v. Moses, 1984; v. Gillmor e Barron, 1984⁴, pp. 647 ss.).
Nella giurisprudenza dei vari organi di giustizia costituzionale, la ratio costituzionale delle norme antimonopolistiche, così in questo settore come in quello radiotelevisivo, viene solitamente individuata nella tutela dell'interesse pubblico all'informazione (U.S. Supreme Court, in Associated Press vs. U.S., 326 U.S. 1, 20, 1945; Conseil constitutionnel, decisioni nn. 141 del 1982, 181 del 1984 e 217 del 1986; Corte costituzionale, sentenza n. 826 del 1988 e, su un piano più generale, sentenza n. 241 del 1990; Bundesverfassungsgericht, decisione n. 15 del 1966; v. Baldassarre, 1986, pp. 600 ss.; v. Barendt, 1987, pp. 70 s.; v. Favoreu e Philip, 1989⁵, p. 608). Non può però non osservarsi, contro le formule (spesso soltanto declamatorie) inneggianti alla tutela 'primaria' di tale interesse, che a rigore non è necessario porsi "du côté du public" (v. Debbasch, 1991, p. 202) per affermare la legittimità costituzionale delle normative antitrust: queste tendono infatti a garantire, insieme con la (obiettiva) libertà del settore, anche la possibilità (soggettiva) delle imprese di operare economicamente in quel settore. Tali normative sono fisiologiche in un sistema di libero mercato e tendono (rectius: dovrebbero tendere) a che una situazione giuridica soggettiva di libertà - e cioè il diritto dell'imprenditore di diffondere date idee - non si trasformi in 'potere' ("Il primo emendamento [...] si basa sulla premessa che essenziale all'interesse generale è la più ampia diffusione di informazioni derivanti da fonti diverse e antagoniste", "La libertà di pubblicare significa libertà di tutti e non di pochi": U.S. Supreme Court, in Associated Press vs. U.S., 326 U.S. 1, 20, 1945, espressamente ribadita in Miami Herald Publishing Co. vs. Tornillo, 418 U.S. 241, 1974). Quale che sia la ratio della legislazione antitrust nel settore delle comunicazioni di massa, è comunque indubbia la rilevanza pubblicistica della disciplina, come testimoniato dal frequente ricorso a sanzioni penali, dalla possibilità, talvolta riconosciuta a 'qualsiasi persona fisica o giuridica', di promuovere l'azione di nullità di atti giuridici per effetto dei quali un'impresa assuma una posizione dominante e infine dall'istituzione di organi amministrativi a cui è affidato il compito di vigilare, anche in via preventiva, sul rispetto delle regole del gioco.Altrettanto evidente è la necessità di disciplinare il fenomeno della titolarità, in capo al medesimo soggetto, di giornali (quotidiani o periodici) e di concessioni (autorizzazioni, licenze ecc.) per l'esercizio di imprese radiotelevisive. Generalmente tale disciplina viene dettata nel contesto delle condizioni per l'accesso ai mezzi di radiodiffusione, non esistendo per definizione una disciplina che condizioni l'accesso nel settore della stampa scritta.
Le discipline degli incroci stampa-radiotelevisione sono estremamente diversificate e possono distinguersi a seconda che concernano i soli incroci con la titolarità di testate quotidiane (così ad esempio l'art. 15 della legge n. 223 del 1990 e l'art. 41-1 n. 4 della legge francese del 30 settembre 1986) oppure si estendano alla stampa di periodici (ad esempio la IV parte dello Schedule 2 del Broadcasting act del 1990, nella quale si parla genericamente di newspapers). Possono altresì distinguersi in discipline flessibili o rigide, a seconda che consentano o meno all'organo amministrativo che ha il governo del settore (ad esempio alla Federal Communication Commission, negli Stati Uniti) di derogare al divieto, in considerazione della peculiarità delle condizioni locali dei media (sulla legittimità del sistema flessibile cfr. U.S. Supreme Court, in F.C.C. vs. National Citizen Committee for Broadcasting, 436 U.S. 775, 1978). Possono ancora distinguersi a seconda che il controllo di imprese editrici di quotidiani o periodici costituisca requisito ostativo per la titolarità di concessioni di radiodiffusione sonora e televisiva in ambito sia nazionale che locale (così, ad esempio, le norme contenute nella IV parte dello Schedule 2 del britannico Broadcasting act del 1990, nonché gli artt. 41-1 n. 4° e 41-2 n. 4° della legge francese del 30 settembre 1986) ovvero per la sola radiodiffusione televisiva su scala nazionale (così, ancora, il già citato art. 15 della legge n. 223 del 1990).Alla disciplina degli incroci stampa-radiotelevisione possono anche affiancarsi - il che appunto accade nel nostro ordinamento - norme tendenti a impedire l'assunzione di una posizione dominante nel complessivo settore delle comunicazioni di massa. Tale obiettivo viene perseguito mediante la previsione della nullità (e, quindi, dell'inefficacia giuridica) degli atti per effetto dei quali uno stesso soggetto realizzi una certa percentuale (il 25 o il 20%, a seconda che tale soggetto sia più o meno interessato anche in ulteriori settori economici) delle "risorse complessive del settore delle comunicazioni di massa", a tal fine intendendosi "i ricavi derivanti dalla vendita di quotidiani e periodici, da vendite o utilizzazione di prodotti audiovisivi, da abbonamenti a giornali, periodici o emittenti radiotelevisive, da pubblicità, da canone e altri contributi pubblici di carattere continuativo" (così il già citato art. 15, comma 4, della legge n. 223 del 1990 nel quale, rispetto al testo inizialmente approvato dal Senato, risulta discutibilmente eliminato il riferimento anche al settore librario).
È, tuttavia, da sottolineare come il pluralismo assicurato dalle normazioni antitrust non sia del tutto funzionale alla tutela del pluralismo delle idee, per il semplice fatto che il pluralismo delle idee non si identifica, né può mai identificarsi, con la sola pluralità delle imprese economiche operanti nel settore; e tanto meno si identifica con la pluralità degli operatori economici, quanto più il legislatore si mostri preoccupato dell'efficienza economica dell'impresa.È infine doveroso accennare ai problemi della distribuzione e della diffusione della stampa d'informazione. Diversamente da altri ordinamenti nei quali è generalizzato il recapito per posta ed è capillare la dislocazione dei punti di vendita automatica, in Italia la distribuzione è effettuata da apposite imprese legate agli editori da rapporti contrattuali, a loro volta condizionati dal contenuto dei contratti stilati tra gli editori e i rivenditori. I compiti delle imprese di distribuzione "vanno dal recapito ai punti di vendita, al conteggio delle vendite e delle rese, ai relativi pagamenti, alla vigilanza sull'attività dei rivenditori" (v. De Siervo, 1990, p. 608). La parità di trattamento delle testate, in precedenza garantita solo convenzionalmente, è ora imposta dalla legge (art. 16 della legge n. 416 del 1981). Quanto alla diffusione, nonostante gli indubbi progressi dovuti alla legge n. 416 del 1981 - che prevede i criteri in base ai quali le Regioni devono dettare gli indirizzi per la predisposizione di piani comunali per la localizzazione dei punti ottimali di vendita (art. 14) -, le resistenze delle organizzazioni dei rivenditori non hanno finora consentito una più capillare diffusione automatizzata. È però prevista l'obbligatoria diffusione di giornali nelle scuole di istruzione secondaria superiore (art. 15).
Mentre non si è mai dubitato che la radiotelevisione costituisca un mezzo di diffusione del pensiero e che, quindi, la disciplina di quel medium incida, quantomeno indirettamente, sulla libertà di parola, ben più lungo e faticoso è stato il percorso normativo e giurisprudenziale in favore del riconoscimento di una tutela costituzionale della cinematografia (essa, ad esempio, fu esplicitamente negata dalla U.S. Supreme Court, in Mutual Film Corp. vs. Industrial Commission of Ohio, 236 U.S. 230, 1915, e dal Tribunale federale svizzero nelle decisioni Burckhardt, 1918, e Präsens-Film, 1931, citate da D. Barrelet: v., 1987², p. 89). Sorto come attrazione nelle fiere, il cinema ha infatti colto i suoi primi successi nella scelta di temi piccanti e, comunque, nella presentazione di scene (ritenute) di dubbia moralità. Di qui, insieme con il successo commerciale, anche la pessima fama del cinema come "strumento di depravazione dei costumi" e non di espressione artistica (ibid., p. 88). La conseguenza è stata che, negli stessi ordinamenti liberali, i film sono sempre stati sottoposti a restrizioni amministrative adottate preventivamente rispetto alla diffusione, e ciò anche quando tali misure preventive risultavano esplicitamente vietate per le pubblicazioni a stampa (cfr., ad esempio, l'art. 21, commi 2 e 6, della Costituzione italiana e l'art. 5, commi 1 e 2, della Legge fondamentale della Rep. Fed. di Germania; a tal riguardo il Bundesverfassungsgericht ha esplicitamente ritenuto - decisioni nn. 6 del 1972 e 14 del 1978 - che il generale divieto di censura previsto nel comma 1 si riferisce ai soli controlli anteriori all'esternazione del pensiero, non quindi a quelli anteriori alla diffusione, ma successivi all'esternazione). Ovviamente i sistemi di controllo sono notevolmente diversi tra loro: taluni, come in Gran Bretagna e in Francia, prevedono la possibilità del divieto di proiezione da parte delle autorità amministrative locali, anche se l'autorità centrale (privata nel primo ordinamento, pubblica nel secondo) ne ha autorizzato la diffusione (v. Barendt, 1987, pp. 114 ss.; v. Robertson, 1989⁶, pp. 214 ss.; v. Colliard, 1989⁷, pp. 647 ss.); altri, come quello statunitense, pur ammettendo la legittimità del controllo censorio effettuato da organi statali nel rispetto di rigorose regole procedurali (che prevedono, nel caso di divieto, una fase contenziosa dinanzi a un magistrato), sono ormai orientati, come in Gran Bretagna e in Germania, verso un sistema 'volontario' di classificazione dei film, effettuato dalle stesse industrie private (v. Barendt, 1987, p. 130; v. Pember, 1987⁴, p. 444; cfr. Freedman vs. Maryland, 380 U.S. 51, 1965); altri, come quello italiano, prevedono infine il solo nulla osta ministeriale per la diffusione del film (legge n. 161 del 21 aprile 1962, d.p.r. n. 161 dell'11 novembre 1963).
A parte i rimedi giudiziari contro i divieti, resta in linea di massima ovunque salva la possibilità (autonoma) del successivo intervento del giudice penale, secondo fattispecie più restrittivamente determinate. I valori giuridicamente rilevanti in sede di verifica amministrativa e, se del caso, giudiziaria sono praticamente i medesimi nei vari ordinamenti occidentali: inizialmente estesi fino a ricomprendere anche la tutela di fondamentali valori politici, essi sono ormai ristretti, pressoché esclusivamente, alla tutela del buon costume, inteso come pudore sessuale (corrispondentemente vietando le opere e gli spettacoli accusati di perversione dei costumi), nonché alla tutela dell'età evolutiva, variamente prefissata (13, 15, 16, 18 anni). In relazione alla tutela di quest'ultimo valore i margini di valutazione delle autorità amministrative sono più ampi e comprendono, oltre al divieto di film pornografici, il divieto di film che possano indurre a manifestazioni di odio, violenza, vendetta, razzismo ecc. (v. Barendt, 1987, pp. 125 ss.; v. Bailey e altri, 1985², pp. 230 ss.; v. Barrelet, 1987², pp. 360 s.; v. Colliard, 1989⁷, pp. 648 ss.; v. Münch, 1981², pp. 277 ss.).Diversamente da altri ordinamenti (ad esempio quello britannico), nell'ordinamento italiano tutti i film devono ottenere il nulla osta, ancorché programmati esclusivamente in locali per adulti. Sfuggono, invece, a tale obbligo le fictions televisive e i videoclips, che in altri ordinamenti sono parificati ai film, ai fini del controllo preventivo.
La mancanza del nulla osta ministeriale implica, nel nostro ordinamento, sia il divieto di proiezione in pubblico del film, sia, conseguentemente, il divieto di trasmissione televisiva. Il divieto di diffusione televisiva consegue, altresì, dal provvedimento di non ammissione dei minori di anni 18, laddove il divieto ai minori di anni 14 implica la possibilità di trasmissione televisiva solo in date ore notturne (art. 15, commi 11, 12 e 13 della legge n. 223 del 1990; art. 22 della direttiva CEE n. 552 del 3 ottobre 1989). Sono quindi intuibili il pregiudizio economico che subiscono il produttore e il distributore del film a causa del provvedimento ministeriale di non ammissione dei minori, e le conseguenti pressioni a cui sono sottoposte le commissioni amministrative che devono esprimere al ministro il parere per la concessione del nulla osta, al fine di ottenere il rilascio del medesimo o, quantomeno, la sola esclusione dei minori di anni 14. A ciò si aggiunga che la composizione delle commissioni consultive non sembra ispirata ai principî di imparzialità e buon andamento (art. 97 della Costituzione), essendovi, tra i membri della commissione, i rappresentanti di alcune delle categorie interessate (segnatamente della categoria dei registi e dell'industria cinematografica) (art. 2 della legge n. 161 del 1962).Altro problema che collega il settore radiotelevisivo a quello cinematografico è quello derivante dall'inserimento di messaggi pubblicitari nella trasmissione televisiva di un'opera cinematografica (ma il problema si pone anche per le opere teatrali, liriche, musicali, nonché, in un certo senso, per gli stessi avvenimenti sportivi). Alla tesi secondo la quale solo l'autore dell'opera cinematografica potrebbe liberamente decidere le modalità delle interruzioni pubblicitarie nell'ambito degli accordi contrattuali col produttore o con l'impresa di diffusione televisiva (v. Mezzanotte, 1990, p. 423) si contrappone l'altra tesi, implicitamente recepita dal legislatore italiano (art. 8 della legge n. 223 del 1990), a ciò obbligato dall'art. 15 della citata direttiva comunitaria del 3 ottobre 1989, secondo la quale l'autore dell'opera è da considerare "contraente debole" nei confronti di tali controparti e, pertanto, per tutelarlo, è necessaria la previsione, da parte del legislatore, di limiti temporali inderogabili per le interruzioni pubblicitarie (v. Grandinetti, 1990, pp. 504 s.). Le interruzioni consentite - secondo l'art. 15 della direttiva comunitaria - devono comunque essere effettuate in maniera tale da non incidere ulteriormente sull'integrità e sul valore dell'opera e devono tener conto sia delle interruzioni naturali del programma, sia della sua natura, al fine di non pregiudicare i vari diritti sull'opera medesima (tra cui il diritto morale dell'autore dell'opera, che non è mai negoziabile).
È diffusa la constatazione che anche l'industria cinematografica si presenti ovunque con caratteri elevatamente oligopolistici (v. Gillmor e Barron, 1984⁴, pp. 657 s.), il che conferma le pessimistiche conclusioni di cui al penultimo capoverso del precedente capitolo. Né vanno dimenticati i pericoli che, sotto il profilo della salvaguardia del pluralismo delle idee, derivano dai collegamenti sempre più stretti tra industria cinematografica e grandi reti televisive. E tanto più gravi appaiono i pericoli per il pluralismo delle idee (che le troppo elevate quote di ricavo, contrassegnanti nel nostro ordinamento la illecita 'dominanza' delle comunicazioni di massa, non sono certamente in grado di contrastare), quanto più ricorrenti si fanno i tentativi delle imprese di produzione di controllare, a loro volta, anche la distribuzione del film e la gestione delle sale di proiezione secondo una sperimentata logica intesa a restringere la libertà del mercato (U.S. Supreme Court, in Bigelow vs. R.K.O. Radio Pictures Inc., 327 U.S. 251, 1946).Sotto quest'ultimo profilo, se non risolutiva, certamente benefica è la recente introduzione della normativa antitrust nel nostro ordinamento (legge n. 287 del 10 ottobre 1990), la quale tuttavia non esime il legislatore dal dovere di assicurare un'adeguata presenza 'pubblica' nelle varie fasi della produzione, distribuzione e programmazione dell'opera cinematografica, per garantire quella promozione della cultura (art. 9 della Costituzione), che gli stessi ordinamenti a forte vocazione privatistica riconoscono essere anche di competenza statale (cfr. R.S. Katz, in Clemente di San Luca, 1990, pp. 47 ss.).
Nell'ambito della 'libertà di informazione' (rectius: 'libertà della informazione'), intesa come libertà istituzionale (v. Crisafulli, 1964, p. 291; v. Barile e Grassi, 1983, pp. 200 ss.; v. Zaccaria e Capecchi, 1990, p. 321; a essa alludono il Bundesverfassungsgericht nelle decisioni nn. 23 del 1961, 30 del 1971 e 3 del 1986, il Tribunal constitucional nelle sentenze nn. 12 del 1982, 104 e 159 del 1986, 206 del 1990, la nostra Corte costituzionale nella sentenza n. 348 del 1990 e il legislatore statunitense nel Freedom of information act del 1966), si contrappongono due idee-forza che dominano la disciplina dei contenuti dei messaggi diffusi dai mezzi di comunicazione di massa: da un lato la libertà di informare (rectius: il diritto 'di liberamente informare'), avente precisi connotati giuridici e immediata tutelabilità giudiziaria, dall'altro il cosiddetto 'diritto all'informazione' (comprensivo del 'diritto a essere informati') giuridicamente generico, ma non meno importante da un punto di vista politico e sociale. Queste due idee-forza sono tra loro antitetiche, nel senso che là dove si afferma l'una è perdente l'altra. Il perché è di tutta evidenza. Una volta che la libertà di informare venga ricondotta, per ragioni garantistiche, nell'ambito della tutela della libertà costituzionale di manifestazione del pensiero (come ha fatto, tra le altre, la nostra Corte costituzionale: sentenze nn. 59 del 1960, 25 del 1965, 18 del 1966, 175 del 1971, 105 del 1972, ecc.), essa diviene partecipe della natura di quest'ultima libertà. Conseguentemente, in quanto 'diritto della persona' (estensibile anche ai soggetti collettivi - art. 2 della Costituzione italiana; art. 19 comma 2 della Legge fondamentale della Rep. Fed. di Germania; U.S. Supreme Court, in First National Bank of Boston vs. Bellotti, 435 U.S. 765, 1978; Corte costituzionale, sentenze nn. 59 del 1960, 231 del 1985, 153 del 1987, 826 del 1988, ecc. - pur nella consapevolezza dei rischi che ciò comporta: v. Baldassarre, 1986, p. 587; v. Di Giovine, 1991, pp. 55 ss.; v. Pace, 1990², p. 18, nota 7), il diritto di liberamente informare implica la facoltà del soggetto titolare di scegliere 'se', 'come' e 'quando' esercitare tale diritto (v. Fois, 1960, p. 1138). Eventuali limiti modali e di contenuto che fossero imposti all'impresa di informazione dovrebbero conseguentemente ritenersi illegittimi (U.S. Supreme Court, in Miami Herald Publishing Co. vs. Tornillo, 418 U.S. 241, 1974), a meno che non rinvengano il loro fondamento in altre norme costituzionali (si pensi, ad esempio, nel nostro ordinamento, agli obblighi di informazione legittimamente posti a carico del produttore e dell'imprenditore, a tutela della salute e dell'incolumità dei terzi: artt. 32 e 41 della Costituzione).
Diversamente dal diritto di liberamente informare (che, dogmaticamente, è un diritto soggettivo di natura assoluta, il quale non presuppone - perciò - l'esistenza di un rapporto; analogamente, da un punto di vista sociologico, con riferimento alle comunicazioni di massa, v. Schramm, 1975, p. 905), il diritto a essere informati implica l'esistenza di uno specifico rapporto nel quale vengono in rilievo sia l'interesse del trasmittente sia, soprattutto, l'interesse del beneficiario della trasmissione (v. Lipari, 1979, pp. 146 ss., e 1991, pp. 90 ss.; v. Cuffaro, 1986, pp. 32 ss. e 102 ss.). Ne consegue che, qualora il legislatore prescelga questo e non quel modello di situazione giuridica soggettiva, il soggetto trasmittente sarà giocoforza limitato nella sua libertà di espressione, ben più di quanto non accadrebbe se fosse accolto il primo modello. Comunque sia, ciò che non si può ragionevolmente pretendere (ed è invece proprio ciò che generalmente, quanto superficialmente, si auspica) è che, da un lato, sussista la libertà di informare del trasmittente e, dall'altro lato, sia garantito il diritto a essere informato del destinatario.La scelta tra i due modelli non è ideologica (come talvolta si vorrebbe far credere) ma condizionata da presupposti tecnici e fattuali. Non è quindi per caso che negli ordinamenti liberaldemocratici si è imposto il primo modello per la stampa e il secondo (in via tendenziale) per la radiotelevisione. Sta di fatto che la libertà di informare è esercitabile sol che esista un soggetto in grado di esprimersi, e cioè, nel caso della stampa quotidiana e periodica, un'impresa editoriale giornalistica (si ricorderà - v. cap. 3 - che, in conformità al divieto di autorizzazioni e censure, non è prevista alcuna autorizzazione per l'accesso al settore dell'informazione giornalistica; la 'registrazione' del giornale presso il tribunale competente, richiesta dall'art. 5 della legge n. 47 dell'8 febbraio 1948, ha perciò carattere del tutto vincolato: Corte costituzionale, sentenza n. 31 del 1957). Per contro il cosiddetto diritto all'informazione non è realizzabile al di fuori dell'intervento del legislatore, sia che con tale diritto si alluda all'interesse della collettività a che l'ordinamento si doti di una disciplina pluralistica dei mass media (Corte costituzionale, sentenze nn. 153 del 1987 e 826 del 1988; in precedenza la Corte aveva parlato più concretamente, a tal riguardo, di un "interesse generale all'informazione": sentenze nn. 105 del 1972 e 94 del 1977), sia che con esso si alluda alla possibilità di 'accesso' a specifiche fonti di informazione altrimenti poste nella giuridica disponibilità di organi o enti pubblici (cfr., ad esempio, le leggi statunitensi generalmente conosciute come Freedom of information act del 1966 e Government in the sunshine act del 1976, la legge australiana parimenti conosciuta come Freedom of information act del 1982 e le nostre leggi n. 816 del 27 dicembre 1985, art. 25, n. 349 dell'8 luglio 1986, art. 14, comma 3, e n. 241 del 7 agosto 1990 sul procedimento amministrativo e sull'accesso alla documentazione amministrativa).
Con specifico riferimento al cosiddetto diritto all'informazione relativo alla disciplina della radiotelevisione, va inoltre aggiunto che l'intervento preventivo sia del legislatore sia della pubblica amministrazione non solo è costituzionalmente consentito, ma appare addirittura ineliminabile, a causa dei motivi tecnici e di contenuto illustrati in precedenza (v. capp. 2 e 3). L'accesso al settore radiotelevisivo non è mai libero, nemmeno nei sistemi essenzialmente privatistici, ma sottoposto, nel momento in cui il pubblico potere consente l'accesso al settore, a limiti quanto meno modali (v. cap. 2): limiti che mai esso potrebbe pretendere di imporre a soggetti cui è costituzionalmente riconosciuta una situazione di piena libertà, come, per l'appunto, le imprese editrici di quotidiani (non distingue le due ipotesi N. Lipari: v., 1991, p. 91). Il diritto all'informazione, che per le ragioni anzidette non può realizzarsi a carico della stampa periodica (la filosofia sottesa a questa scelta è così riassumibile: "una stampa corretta non è mai libera, se la correttezza deriva dalla predisposizione di meccanismi statali di controllo"; v. Powe jr., 1987, p. 384), può invece tendenzialmente realizzarsi nel settore radiotelevisivo, in conseguenza dell'intermediazione legislativa, in quanto (e fintanto che) non venga affermata a favore delle imprese radiotelevisive una garanzia altrettanto piena di quella riconosciuta alle imprese editrici di quotidiani. La realizzazione del diritto all'informazione nel settore radiotelevisivo è infatti meramente indiretta e consegue per l'appunto dalla previsione legislativa, a carico del gestore del mezzo radiotelevisivo, di determinati limiti modali e di contenuto nell'esternazione delle informazioni (obiettività, completezza, imparzialità, apertura alle diverse opinioni politiche, sociali e religiose: così l'art. 1, comma 2, della legge n. 223 del 1990), da cui, per converso, deriva l'inesistenza a favore dell'emittente radiotelevisiva di quella libertà di scelta sul 'se', sul 'come' e sul 'quando' informare il pubblico che è invece tipica dell'impresa editoriale giornalistica.
Tali limiti, essendo imposti all'emittente radiotelevisiva nell'interesse generale, non attribuiscono però all'indiretto beneficiario (e cioè all'utente) un diritto soggettivo giudizialmente azionabile nei confronti dell'impresa radiotelevisiva, con riferimento al (preteso) mancato rispetto, da parte di essa, di tali limiti modali (v., in tal senso, la consolidata giurisprudenza formatasi con riferimento alla RAI, riportata in Pace, 1983, pp. 278 ss.). Il mancato rispetto di tali obblighi e divieti potrà invece essere fatto valere nei confronti dell'emittente dal ministero concedente e/o dall'autorità preposta alla vigilanza del settore.Per converso appare evidente, dopo quanto detto, che da parte dell'impresa editrice di quotidiani o periodici sussiste soltanto un obbligo 'morale' per ciò che riguarda il rispetto dei principî di completezza, di imparzialità e di obiettività dell'informazione, anche se l'impresa editoriale giornalistica è indirettamente indotta a una 'certa' completezza, una 'certa' imparzialità e una 'certa' obiettività sia dall'interesse economico (in termini di remuneratività del capitale) connesso al miglioramento della qualità del prodotto, sia da quel minimo condizionamento che il fruitore del messaggio esercita di fatto sull'emittente (anche) nel processo di comunicazione di massa: proteste dei lettori ecc. (v. Schramm, 1975, pp. 904 s.). Alla stessa 'filosofia' dell'assoluta autonomia giornalistica (v. Powe, 1987, p. 383; v. Holsinger, 1991², pp. 534 ss.) si ricollega poi con pari evidenza il rifiuto, in via di principio, della possibile previsione legislativa di un diritto di accesso del terzo sulle pagine dei giornali e dei periodici (U.S. Supreme Court, in Miami Herald Publishing Co. vs. Tornillo, 418 U.S. 241, 1974).L'accesso del terzo è invece concepibile con riferimento alle trasmissioni radiotelevisive, ove queste vengano disciplinate come servizio pubblico (art. 6 della legge n. 103 del 1975) o comunque assoggettate a obblighi pubblicistici, come accade anche in sistemi essenzialmente privatistici.
Si obietterà, contro questa ricostruzione della 'libertà di informare' delle testate di periodici, che nella nostra giurisprudenza è ricorrente l'affermazione che la cronaca, per rientrare nella garanzia costituzionale della libertà di stampa (il cui esercizio, nei processi penali, costituisce la scriminante del reato di diffamazione a mezzo stampa: art. 595 del codice penale), oltre a essere veritiera, deve possedere il requisito della rispondenza all'interesse pubblico (nel senso che la notizia deve essere 'socialmente rilevante'). Tale tesi giurisprudenziale - che a prima vista potrebbe essere ricondotta alla concezione 'funzionale' del diritto-dovere di informare degli operatori dell'informazione (generalmente disattesa: v., per tutti, Paladin, 1987, p. 14; in favore di essa v. però Chiola, 1973, pp. 15 ss., e 1984, pp. 31 ss.) - non esplica, tuttavia, a ben vedere, conseguenze pregiudizievoli per la libertà di stampa, sotto il profilo di una (pretesa) sua funzionalizzazione pubblica. Tale specificazione, ricorrente anche nella giurisprudenza angloamericana, persegue infatti lo scopo di delimitare, in via puramente tendenziale, i fatti di cronaca, onde tutelare indirettamente la riservatezza individuale contro ingiustificate aggressioni (v. cap. 6); non serve quindi per caricare l'impresa giornalistica di 'compiti pubblici' che non le competono. (Per analoga interpretazione riduttiva dei 'compiti pubblici' di formazione della pubblica opinione, assegnati alla stampa dal Bundesverfassungsgericht nelle decisioni nn. 7 del 1959, 15 del 1966, 36 del 1967, 19 del 1979, ecc., v. Löffler e Ricker, 1986², p. 20; v. Karpen, 1989, p. 397; v. Tettinger, 1990, p. 122. A riprova della genericità di tali compiti pubblici, va del resto notato che anche la stampa scandalistica rientra, secondo il Bundesverfassungsgericht, nella garanzia costituzionale dell'art. 5 della Legge fondamentale della Rep. Fed. di Germania: decisione n. 25 del 1969). Va piuttosto aggiunto che legittimi controlli sulla carente obiettività e completezza sono invece quelli concretamente esercitati in Gran Bretagna dalla Press Complaints Commission (che nel 1990 ha sostituito il Press Council) e da analoghi organi di autodisciplina volontariamente istituiti negli Stati Uniti, in Canada, in Svezia ecc., intesi a garantire - pur senza incidere sulla proclamata libertà di stampa (le 'censure' di tali organi di disciplina hanno infatti carattere puramente morale) - sia i diritti dei terzi contro gli abusi della libertà, sia il generale interesse a essere più adeguatamente informati (v. Della Felice e Golini, 1976, pp. 527 ss.; v. Robertson, 1989⁶, pp. 273 ss.).
La ricostruzione fin qui svolta delle tendenze di fondo delle varie discipline contenutistiche dei mass media evita gli inconvenienti delle contrapposte interpretazioni (fortemente ideologizzate), che vorrebbero, le une, estendere anche al settore radiotelevisivo la piena garanzia della 'libertà di informare' e, le altre, estendere al settore della stampa i limiti modali e di contenuto ammissibili solo per il settore radiotelevisivo. Il riconoscimento di una situazione di libertà piena alle imprese editoriali giornalistiche, se risolve alcuni importanti problemi esterni (la libertà dell'impresa nei confronti dello Stato e dei terzi), non risolve però l'ulteriore problema dell'individuazione del reale titolare di tale diritto all'interno dell'impresa (v. Baldassarre, 1985, p. 113). Alla soluzione di questo ulteriore problema gli ordinamenti positivi, da oltre un secolo, hanno dato risposte articolate. Se infatti, ancora all'inizio del secolo, in coerenza con le ideologie allora dominanti, si riteneva che il diritto di stampa si risolvesse pressoché integralmente (all'esterno, come all'interno) nel diritto individuale del proprietario-editore, al quale competeva la determinazione dell'indirizzo politico del giornale nonché il potere di variarlo a suo arbitrio (v. Galizia, 1913, p. 98; v. Pinelli, 1981, pp. 217 ss.), va però ricordato che già la legge n. 2337 del 25 giugno 1865 aveva enunciato, in Italia, alcuni principî a tutela del diritto morale d'autore del giornalista: principî che perciò incrinavano tale semplicistica conclusione. Quanto agli ordinamenti liberaldemocratici contemporanei è poi addirittura ovvio che il riconosciuto diritto di libertà dell'impresa - da valere nei rapporti esterni - non pretenda minimamente di risolvere aprioristicamente i problemi concernenti la spettanza del cosiddetto 'potere di informare' all'interno dell'azienda.
Sta di fatto che leggi e contratti collettivi (nazionali e aziendali), mentre attribuiscono tuttora al proprietario-editore la determinazione dell'indirizzo politico fondamentale, rimettono al direttore responsabile - nominato dal proprietario-editore e da lui revocabile - l'enucleazione delle corrispondenti direttive e la vigilanza sull'attuazione dell'uno e delle altre (v. Barendt, 1987, p. 71; v. Löffler e Ricker, 1986², pp. 242 ss.). Il diritto di liberamente informare, indubitabilmente spettante anche ai giornalisti, si esercita perciò avendo come punto di riferimento quella fondamentale determinazione e quelle direttive. I giornalisti non possono perciò subire coercizioni nella loro libertà d'opinione al di là di tali limiti. Conseguentemente spetta loro il diritto di risolvere il rapporto di lavoro, con diritto ad alcune indennità, sia in caso di sostanziale mutamento dell'indirizzo politico, sia in ipotesi di pregiudizio della loro dignità professionale (v. Auby e Ducos-Ader, 1982², p. 223; v. Löffler e Ricker, 1986², p. 205; v. Rivero, 1983³, pp. 213 s.; v. Santoni, 1983, pp. 225 ss.). Per converso il proprietario-editore ha il potere di licenziare, con effetto immediato, il giornalista che si ponga in contrasto con l'indirizzo della testata. (Per completezza si deve però ricordare che in questo quadro di massima si iscrivono sia il tentativo di estendere la titolarità del potere di determinazione dell'indirizzo politico al corpo redazionale, direttamente ovvero condizionando in misura maggiore o minore la nomina o la permanenza in carica del direttore responsabile - v. Auby e Ducos-Ader, 1982², pp. 232 ss.; v. Rivero, 1983³, pp. 214 ss. -, sia il tentativo di condizionare al previo assenso del corpo redazionale il potere del proprietario-editore di modificare unilateralmente il precedente indirizzo: v. Pace, 1983, pp. 42 ss., 56 ss. e 75 ss.).
È comunque indubitabile che, al giorno d'oggi, la libertà di informare dell'impresa editrice di quotidiani (quale percepibile all'esterno) costituisce la risultante dell'esercizio di tutta una serie di diritti individuali spettanti alle varie componenti, e quindi all'imprenditore (al quale non si può, ancora oggi, negare il diritto di valutare il 'rischio di impresa' anche sotto il profilo dei contenuti informativi del prodotto) non meno che al direttore e ai giornalisti (v. Barrelet, 1987², pp. 39 s. e 62 s.).Poiché, come detto, l'indirizzo politico della testata costituisce il punto di riferimento della libertà di informare dei giornalisti, è infine opportuno osservare come, sotto tale profilo, non vi sia nella sostanza una grande differenza tra giornalisti di un periodico scritto e giornalisti e programmisti di una testata radiotelevisiva, ancorché la relativa impresa eserciti un servizio pubblico, anche soltanto in senso meramente oggettivo (v. cap. 2). La differenza è un'altra: se da un lato l'indirizzo politico della testata radiotelevisiva che esercita un servizio pubblico sconta limiti modali e di contenuto che discendono dalla legge per il tramite della convenzione di concessione - talché né i responsabili del servizio pubblico, né i giornalisti e i programmisti possono dirsi 'signori della radio e della televisione' (Bundesverfassungsgericht, decisione n. 30 del 1971) -, dall'altro lato tale indirizzo politico-editoriale, proprio perché imposto dalla legge al fine di garantire, ma anche di pretendere, l'autonomia e la correttezza professionale nel rispetto di limiti modali, è meno suscettibile di modifiche unilaterali da parte dell'imprenditore, quand'anche vi sia mutamento nella persona fisica degli azionisti di maggioranza e degli amministratori. Invece, l'indirizzo politico dell'impresa editoriale giornalistica è più sensibile - allo stato attuale - alle mutevoli determinazioni imprenditoriali.
Qualsiasi trattazione, ancorché rapida e sommaria, degli aspetti giuridici dei mass media non può concludersi senza un accenno alle tecniche generalmente utilizzate per salvaguardare quelli che, con formula generica ma efficace, sono chiamati i 'valori della persona umana'. L'incidenza sui quali - a ben vedere - è, per così dire, 'fisiologica' nelle comunicazioni di massa, sia nel momento dell'acquisizione dei dati informativi (fonici, iconici, letterari) necessari per la predisposizione del messaggio, sia nel momento della sua diffusione tra gli utenti. È perciò di tutta evidenza come anche nelle varie regolamentazioni giuridiche discusse in questa sede vengano in considerazione le due idee-forza di cui si è già parlato nel precedente capitolo, ancorché le 'parti', a seconda della situazione considerata, appaiano di volta in volta invertite. Infatti, mentre nella fase della diffusione del messaggio l'emittente usualmente si appella - a ragione o a torto, qui non interessa - al proprio diritto di 'liberamente' informare, laddove il pubblico pretenderebbe di essere 'doverosamente' informato, nella fase dell'acquisizione dei fatti l'emittente pretende di accedere alle fonti notiziali, laddove la fonte (nella generalità dei casi una persona fisica, nella sua veste privata o in quella di esercente pubbliche funzioni) afferma il suo diritto a scegliere 'se', 'come' e 'quando' concedere i dati. Le soluzioni che gli ordinamenti danno a questa prima serie di problemi sono però coerenti con quelle già discusse nel precedente capitolo. Come non esiste, né in Italia né altrove, un diritto del singolo a ottenere dati e informazioni da un organo o da un ente pubblico, se non là dove la legge lo consenta, e da un soggetto privato se non nei casi in cui, non sussistendo la libertà di quest'ultimo di (non) manifestare il proprio pensiero, il legislatore gli imponga di fornire al richiedente i dati a sua conoscenza, così nemmeno esiste un 'privilegio' del giornalista di accedere alle fonti con modalità diverse da quelle previste per i privati (v. Baldassarre, 1986, p. 589; v. Barendt, 1987, p. 108; v. Dogliotti, 1988, p. 105; v. Franklin e Anderson, 1990⁴, pp. 631 ss.; v. Holsinger, 1991², pp. 377 ss.; v. Löffler e Ricker, 1986², pp. 109 ss.; v. Martin, 1990, pp. 34 ss.; v. Pace, 1983, pp. 137 ss.; v. Münch, 1981², pp. 248 s.; cfr. J. Rivero, in Paladin, 1979, p. 89), anche se lo status di giornalista (implicando specifici doveri di correttezza professionale) può di fatto talvolta favorire l'accesso ad alcune fonti di natura pubblica, ad esempio quelle giudiziarie. Giuridicamente non esiste, però, alcun 'privilegio' del giornalista.
Del resto, è bensì vero che alcuni testi normativi ricomprendono, nella libertà di informare, "la libertà di cercare e di ricevere informazioni" (art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950, recepita in Italia con la legge n. 848 del 4 agosto 1955; art. 19, comma 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, recepito in Italia con la legge n. 881 del 25 ottobre 1977; art. 5, comma 1, della Legge fondamentale della Rep. Fed. di Germania; art. 20, comma 1 lett. d, della Costituzione spagnola, ecc.), ma questa libertà (del giornalista, così come del quisque de populo) viene costantemente riferita alle fonti 'generalmente accessibili', con il che il problema si risolve tornando a quanto già detto: si risolve, cioè, in concreto, nell'individuazione di specifici doveri legali di (consentire l'altrui) informazione, ovvero nell'apprendimento diretto di quei dati (contenuti in un articolo, in una radiocronaca ecc.) che costituiscono il 'risultato sociale' dell'esercizio dell'altrui libertà (attiva) di informare (v. Crisafulli, 1964, p. 291).
Non ricorrendo tali ipotesi, il giornalista (o l'impresa da cui esso dipende) dovrà 'negoziare' l'accesso alla fonte, che altrimenti gli sarebbe preclusa (ad esempio, è pacifico che dovrà ottenere il consenso per la ripresa radiotelevisiva integrale di uno spettacolo, i cui diritti di sfruttamento economico spettano all'organizzatore; si discute invece se la ripresa radiotelevisiva parziale di uno spettacolo sportivo - o la diffusione parziale di esso - debba comunque essere consentita in omaggio al diritto di cronaca, ammettendosi così un sia pur limitato diritto di accesso alla fonte come aspetto della libertà di informare).Con specifico riferimento alla tutela del privato, la barriera giuridica generalmente frapposta dagli ordinamenti contro gli abusi dei mezzi di comunicazione di massa è duplice: la prima corrisponde alla fase di acquisizione dei dati informativi (fonoregistrazioni, filmati, fotografie, documenti ecc.), la seconda alle modalità e ai contenuti del messaggio scritto o radiodiffuso.
La prima si risolve nel considerare illeciti tutti quei servizi giornalistici o programmi radiotelevisivi che si fondino su dati materialmente acquisiti in violazione dell'altrui 'riservatezza' (ovvero - sotto un profilo costituzionale - in violazione dell'altrui libertà della persona fisica, del domicilio, delle comunicazioni riservate ecc.: artt. 13, 14, 15 della Costituzione italiana; I, IV, V emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, ecc.), nonché in violazione degli altri diritti personali o reali spettanti al terzo (ripresa visiva o sonora dell'altrui vita privata, indebitamente effettuata nell'altrui dimora; cognizione indebita di corrispondenza diretta ad altri; cognizione fraudolenta del contenuto di conversazioni telefoniche o telegrafiche; arbitraria rivelazione del contenuto di conversazioni telegrafiche o telefoniche; furto e appropriazione indebita di documenti contenenti indagini riservate sulla vita privata di un lavoratore; impossessamento dei medesimi a seguito di estorsione ecc.); la seconda considera illeciti tutti quei servizi giornalistici o programmi radiotelevisivi che, pur basandosi su dati informativi lecitamente acquisiti, ne effettuino un'utilizzazione indebita (pubblicazione dell'immagine altrui senza il consenso dell'interessato; diffusione di fatti privati, privi di rilevanza sociale; rappresentazione infedele di una persona con attribuzione alla medesima di caratteri, qualità, aspetti inesistenti o diversi da quelli reali ovvero con l'omissione di aspetti propri della medesima ecc.) ovvero un'utilizzazione specificamente lesiva dell'onore (pubblicazione autorizzata dell'immagine altrui, ma con modalità tali da pregiudicarne il decoro o la reputazione; lesione dell'altrui reputazione in maniera generica oppure mediante l'attribuzione di un determinato fatto non vero, oppure mediante l'attribuzione, con modalità di per sé diffamatorie, di un fatto vero ecc.).
A questa seconda 'barriera' si ispira l'orientamento giurisprudenziale, affermatosi in Italia e all'estero, che da un lato pretende dal giornalista la 'forma civile' dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione e, dall'altro, richiede che le notizie siano di 'interesse pubblico' (sulla formula "fair comment on a matter of public interest" v. Barendt, 1987, pp. 178 ss.; v. Matsui, 1990, p. 13; per il nostro ordinamento cfr. Corte di cassazione, I sezione civile, sentenza n. 5259 del 1984; v. Nuvolone, 1971, pp. 53 ss.), conseguentemente negando la garanzia costituzionale della libertà d'informazione alle notizie che non abbiano rilevanza sociale (la semplice libertà di parola è perciò considerata 'non prevalente' rispetto alla tutela della riservatezza). La tutela della privacy e, indirettamente, dell'onore e della reputazione viene perciò perseguita non mediante la precisa individuazione dei limiti della libertà d'informazione (come sarebbe corretto) bensì conferendo al giudice il potere discrezionale di distinguere le notizie di pubblico interesse dalle altre (il che lascia perplessi).L'approfondimento di questa complessa problematica esula dall'ambito di questo articolo. Merita tuttavia di essere sottolineato che la costruzione di un unitario 'diritto alla riservatezza' (la Corte di cassazione italiana, nella sentenza n. 2129 del 1975, ha individuato tale diritto nelle manifestazioni della vita di relazione di carattere intimo, che si svolgono in un "domicilio ideale", non necessariamente riconducibile alle mura domestiche e alla corrispondenza), propugnato in Italia e in Francia da numerosi studiosi confortati da svariate decisioni (v. Dogliotti, 1988, pp. 83 ss.), è lungi dall'essere condivisa, per quanto riguarda l'efficacia di tale diritto nei rapporti con i privati, proprio nell'ordinamento - quello statunitense - che per primo ha affrontato e risolto i problemi della tutela della privacy nei confronti degli organi pubblici (v. Warren e Brandeis, 1890, pp. 193 ss.; cfr. altresì le decisioni della U.S. Supreme Court, in Grinswold vs. Connecticut, 381 U.S. 479, 1965, sulla liceità dell'uso di anticoncezionali da parte di coppie sposate, e in Roe vs. Wade, 410 U.S. 113, 1973, sulla liceità dell'aborto). Ciò si spiega facilmente: una pari estensione della tutela costituzionale della privacy nei confronti dei privati si risolverebbe, infatti, automaticamente nella corrispondente restrizione della libertà di parola e di stampa e, conseguentemente, del diritto costituzionale dei privati di liberamente informare.
Di qui la preferenza, in quell'ordinamento, per la più duttile tesi che individua, a livello di legislazione statale (non quindi federale), la garanzia della privacy, nei suoi rapporti con i mass media privati, in una serie di quattro specifiche azioni per danni causate da: a) intrusione nell'altrui solitudine fisica e mentale; b) diffusione di fatti privati; c) pubblicità ingannevole dell'altrui identità; d) appropriazione dell'altrui nome e dell'altrui aspetto per trarne un vantaggio (v. Pember, 1987⁴, pp. 212 ss.; v. Holsinger, 1991², pp. 198 ss.).In una linea di meditato bilanciamento dei contrapposti valori si inscrivono altresì tanto la dottrina e la giurisprudenza tedesche, che danno una lettura restrittiva della stessa norma costituzionale - art. 2, comma 1 della Legge fondamentale della Rep. Fed. di Germania - che, garantendo "il libero sviluppo della personalità", è stata ivi ritenuta la base della privacy (v. Münch, 1981², p. 116), quanto la dottrina italiana, allorché su un piano generale contesta la riconducibilità all'art. 2 della Costituzione - che tutela i "diritti inviolabili dell'uomo" - di fattispecie diverse da quelle espressamente riconosciute nella Costituzione, con conseguente restrizione dei diritti costituzionali espressamente riconosciuti, sui quali tali 'nuovi' diritti costituzionali verrebbero surrettiziamente a incidere (v. Barile, 1991⁶, pp. 579 ss.; v. Pace, 1990², pp. 4 ss.; v. Paladin, 1991, pp. 571 s.), e su un piano specifico tenta di ricondurre la tutela di un aspetto del diritto alla riservatezza (il cosiddetto 'diritto all'identità personale') nei limiti costituzionali della tutela della dignità umana e della possibilità di vietare false espressioni del pensiero (artt. 3 e 21 della Costituzione). Il che consente di non pregiudicare oltre misura la libertà di informare (v. Pace, 1983, pp. 23 ss.).
Una seconda e conclusiva osservazione riguarda la tutela del singolo contro le offese al proprio onore e alla propria reputazione. A tal proposito meritano di essere sottolineate alcune differenze esistenti tra i vari ordinamenti. Ad esempio, mentre in Italia e in Gran Bretagna, nei processi civili originati da lesioni all'onore o alla reputazione commesse a mezzo della stampa o della radiotelevisione, il danneggiato ha l'onere di provare il fatto lesivo limitandosi a depositare il testo dell'articolo o la registrazione del programma, laddove il convenuto (giornalista o impresa giornalistica) ha l'onere di dimostrare che la notizia presenta un interesse pubblico e che i fatti su cui essa si basa sono veri, o comunque deve provare la serietà e la diligenza dei riscontri effettuati (v. Barendt, 1987, pp. 178 ss.; v. Gray, 1990, p. 464; cfr. Corte di cassazione, I sezione civile, sentenza n. 5259 del 1984), per contro negli Stati Uniti (e, talora, in Germania: v. Baldassarre, 1986, pp. 595 s.; v. Barendt, 1987, p. 187) è il danneggiato che deve provare sia la falsità del fatto disonorante, sia il dolo o, quanto meno, la colpa del convenuto (v. Gray, 1990, pp. 466 s.; v. Holsinger, 1991², pp. 106 ss.; cfr. New York Times vs. Sullivan, 376 U.S. 254, 1964). Il contenuto dell'onere della prova non è, infatti, sempre il medesimo, dovendosi differenziare a seconda che il danneggiato sia un private individual oppure sia un pubblico ufficiale o una public figure (vale a dire una persona che abbia assunto un ruolo influente nella società, il quale, se consente alla public figure di avvalersi più facilmente dei media, la espone però al rischio di essere più facilmente esposta a critiche: Curtis Publ. vs. Butts, 388 U.S. 130, 1967; Gertz vs. Robert Welch Inc., 418 U.S. 323, 1974). Mentre il primo ha l'onere di provare la mera negligenza del giornalista nella diffusione della notizia falsa, i secondi devono addirittura dimostrare la ricorrenza del dolo o della colpa grave al fine di ottenere la condanna del giornalista (o dell'impresa da cui egli dipende) al risarcimento dei danni subiti (compensatory damages).La condanna ai punitive damages (prevista anche nel nostro ordinamento, per la sola stampa, dall'art. 12 della legge n. 47 dell'8 febbraio 1948, forse perché sotto il profilo diffamatorio lo scritto è stato ritenuto più pericoloso della parola: Corte costituzionale, sentenza n. 168 del 1982) richiede invece, in ogni caso, la prova dell'esistenza del dolo o quantomeno della colpa grave, trattandosi di una vera e propria 'sanzione civile' (che può ascendere a cifre astronomiche, quanto più importante sia l'impresa giornalistica coinvolta). Deve comunque aggiungersi che negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania le opinioni e i giudizi, per quanto diffamatori, godono di una maggiore tutela rispetto alla notizia in sé e per sé diffamatoria (v. Barendt, 1987, pp. 178 ss.; v. Gray, 1990, p. 470; la tesi opposta è sostenuta in Italia da C. Chiola: v., 1990, p. 11).
Se la scelta favorevole alla libertà di informazione implica, negli Stati Uniti, un elevato costo sociale per l'onore e per la reputazione, non sempre giustificato (è il caso delle public figures), deve per contro osservarsi che i limiti tuttora operanti, ad esempio in Italia e in Spagna, contro la possibilità dell'imputato di eccepire la verità del fatto (exceptio veritatis) nei processi penali per diffamazione (quando il giornalista non riesca a dimostrare che il fatto disonorante rivestiva interesse per il pubblico: Corte costituzionale, sentenza n. 175 del 1971), si risolvono obiettivamente in una maggior tutela dell'onore e della reputazione: una maggior tutela che viene però giuridicamente giustificata sulla base della (discutibile) distinzione tra libertà di informazione (attinente doverosamente ad argomenti di pubblico interesse e solo a tale condizione non soggetta all'esclusione della prova liberatoria dell'exceptio veritatis: art. 461 del Codice penale spagnolo, art. 596 del Codice penale italiano) e libertà di espressione del quisque de populo (per dubbi sulla validità di tale distinzione: v. Barendt, 1987, pp. 182 e 188; v. Mantovani, 1973, pp. 90 ss.; v. Muñoz Machado, 1988, pp. 39 ss.).
La maggior garanzia attribuita dagli ordinamenti europei alla tutela dell'onore è, del resto, confermata dalla disciplina del diritto di rettifica che, mentre è generalmente accettata in Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna ecc. (essa consiste, com'è noto, nell'obbligatoria pubblicazione o diffusione - da parte, rispettivamente, dello stesso periodico o della stessa testata radiotelevisiva - di un testo con il quale il danneggiato oppone la 'sua' verità dei fatti alla pregiudizievole narrazione degli stessi fatti in precedenza diffusa), non è invece conosciuta negli Stati Uniti d'America, se non nella forma della 'ritrattazione' (retraction), autonomamente redatta e pubblicata dalla testata giornalistica o radiotelevisiva al solo scopo di escludere o, comunque, limitare la (altrimenti) probabile condanna al risarcimento dei danni (v. Holsinger, 1991², pp. 105 ss.).
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