La comunione costituisce un istituto che fa parte della tradizione giuridica e gli effetti della elaborazione che ha ricevuto nel diritto romano classico si manifestano ancora oggi nelle teorie dottrinali. Viene esaminata la disciplina della comunione ordinaria prevista dal codice civile alla luce delle prassi applicative.
La comunione è disciplinata dagli artt. 1100-1116 c.c., sotto il capo intitolato Della comunione in generale, seguito dal capo intitolato Del condominio negli edifici.
La comunione disciplinata dagli artt. 1100-1116 c.c. viene definita “ordinaria” per distinguerla da altri istituti affini, ma dotati di una loro apposita disciplina, come avviene per la comunione ereditaria (art. 713 c.c.), per la comunione legale dei beni fra coniugi (artt. 159 e 177 ss. c.c.), per la comunione tacita familiare (art. 230 bis c.c.) e per la comunione a scopo di godimento, che si distingue dalle società (art. 2248 c.c.).
In base al suo modo di costituzione la comunione viene distinta anche in volontaria (quando ha origine da un atto di autonomia espresso dagli aventi diritto sul bene comune, come un contratto), incidentale (che invece viene ad essere indipendentemente dalla volontà degli aventi diritto, come avviene nella comunione ereditaria) e forzosa (nei casi in cui la legge prevede una situazione di contitolarità sul bene, come avviene per le parti comuni negli edifici condominiali).
In base al suo modo di scioglimento la comunione viene ancora distinta in libera (quando ciascun partecipante può chiederne, a sua discrezione, lo scioglimento) e vincolata (quando lo scioglimento non può avvenire se non si realizza un particolare termine o una particolare condizione).
Nel diritto romano classico il dominium costituiva un diritto individuale, assoluto ed esclusivo che esclude ogni possibilità di proprietà unica appartenente collettivamente a due o più persone. Ne derivava così una netta contrapposizione fra la communio iuris romani (concepita come concorso di diritti reali individuali e quindi dotata di un carattere essenzialmente individualistico) e la communio iuris germanici (avente invece un carattere collettivistico). Accogliendo la tesi secondo cui la comunione costituisce il concorso di diritti reali individuali, il codice napoleonico – concettualmente ostile verso ogni forma di collettività intermedia fra individuo e Stato – non aveva neanche dotato la comunione ordinaria di una propria disciplina generale, limitandosi a regolamentare l’ipotesi particolare della comproprietà dei muri e dei fossi posti sul confine di due proprietà immobiliari confinanti (artt. 653 ss.). Una disciplina sulla comunione era stata prevista invece nel previgente codice civile italiano del 1865.
Il codice civile attuale, al contrario del codice del 1865 (art. 675), non fa più specifico riferimento alla comunione dei beni e prevede testualmente che l’attuale disciplina normativa si applica sia alla proprietà che agli altri diritti reali. La comproprietà resta in ogni caso l’archetipo della comunione, come dimostra la maggior parte delle disposizioni dettate dagli artt. 1100 ss.
L’aspetto fondamentale dell’attuale disciplina normativa è costituito dalla contitolarità di uno stesso diritto reale, riguardo al quale una quota spetta a ciascun partecipante alla comunione (detto anche comunista), in una situazione che però viene considerata istituzionalmente transitoria, dato che ciascun partecipante può chiedere la divisione del diritto in comune. Infine, nella comunione ordinaria è assente l’autonomia patrimoniale dei beni che ne sono oggetto.
La dottrina è sempre stata divisa riguardo alla natura giuridica della comunione. La tesi prevalente nella dottrina più recente è quella secondo cui la comunione è costituita da una situazione in cui sussiste la contitolarità di una situazione soggettiva, caratterizzata dalla pluralità dei soggetti di fronte all’unità, anche transitoria, della situazione stessa (Pugliatti, S., La proprietà e le proprietà (con riguardo particolare alla proprietà terriera), in Id., La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, 157).
La disciplina sulla comunione trova applicazione quando la proprietà o un altro diritto reale spetta in comune a più persone, se il titolo o la legge non dispone diversamente.
Come si è già anticipato, in realtà la contitolarità del diritto di proprietà costituisce la principale ipotesi di comunione su cui è stata modellata l’intera normativa codicistica, anche se pure gli altri diritti reali possono spettare in comune a più soggetti.
Nella comunione, le quote dei partecipanti si presumono eguali e il concorso dei partecipanti sia nei vantaggi che nei pesi della comunione sono proporzionati alle rispettive quote di ciascuno.
Principio cardine della disciplina sulla comunione (e anche di quella sul condominio negli edifici, per il rinvio previsto dall’art. 1139 c.c.) è quello dettato dall’art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, col solo limite essenziale che non ne alteri la destinazione e che non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; ma l’uso riconosciuto dall’art. 1102 c.c. a ciascun partecipante alla comunione non consiste solo in quello, inteso in senso stretto, di mero utilizzo del bene senza apportare mutamenti ad esso, perché comprende, invece, pure la possibilità di apportare – a proprie esclusive spese e senza richiedere il contributo degli altri partecipanti – al bene oggetto del diritto tutte le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa. Non è consentito però al partecipante estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.
Ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa entro i limiti della sua quota (art. 1103 c.c.).
Al diritto di disporre del diritto comune corrispondono vari obblighi in capo al partecipante, che deve contribuire alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune, oltre alle ulteriori spese deliberate dalla maggioranza, salva solo la facoltà di liberarsene mediante la rinunzia al suo diritto, ma la rinunzia non giova al partecipante che abbia, anche solo in modo tacito, approvato la spesa; il cessionario del partecipante, infine, è tenuto in solido col cedente a pagare i contributi da quest’ultimo dovuti e non versati (art. 1104 c.c.).
L’amministrazione della cosa comune compete a tutti i partecipanti (art. 1105 c.c.) che devono quindi decidere in maniera congiunta, ma non è richiesta sempre l’unanimità dei consensi per qualsiasi decisione: per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni devono essere approvate dalla maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, e sono obbligatorie per la minoranza dissenziente, ma, affinché siano valide le deliberazioni della maggioranza, tutti i partecipanti devono essere stati preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione.
Qualora non vengano presi i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si formi una maggioranza oppure la deliberazione adottata non venga eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria, che provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore.
Può anche essere formato un regolamento e nominato un amministratore della comunione (art. 1106 c.c.); infatti sempre con la maggioranza dei partecipanti calcolata secondo il valore delle loro quote può essere deliberato un regolamento relativo all’ordinaria amministrazione e per il miglior godimento della cosa comune, così come può essere nominato un amministratore, determinandone i poteri e gli obblighi, mediante la delega di uno oppure più partecipanti o anche di un estraneo alla comunione. Ciascuno dei partecipanti alla comunione è legittimato in ogni tempo a proporre agli altri la modifica del regolamento, che deve essere approvata con la stessa maggioranza con cui è stato deliberato il testo da modificare, ma il regolamento della comunione può essere sempre impugnato davanti all’autorità giudiziaria da ciascuno dei partecipanti dissenzienti, entro trenta giorni dalla deliberazione con cui la maggioranza l’ha approvato, mentre per gli assenti il termine per l’impugnazione decorre dal giorno in cui è stata loro comunicata la deliberazione, e, sulle impugnazioni proposte, l’autorità giudiziaria deve decidere con una unica sentenza; in mancanza di impugnazione proposta entro i termini indicati, il regolamento ha effetto anche per gli eredi e gli aventi causa dei partecipanti (art. 1107 c.c.).
L’assemblea può deliberare anche su altre questioni, oltre che sulla nomina di un amministratore (art. 1108 c.c.). Infatti con la maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune, si possono deliberare tutte le innovazioni dirette al miglioramento della cosa oppure a renderne più comodo o redditizio il godimento, a condizione che esse non pregiudichino il godimento di qualcuno dei partecipanti (e quindi è proibito anche il pregiudizio di uno solo di loro) e non importino una spesa eccessivamente gravosa; e con la stessa maggioranza si possono approvare pure tutti gli atti che eccedano l’ordinaria amministrazione, sempre che non risultino pregiudizievoli per l’interesse di qualcuno dei partecipanti. È invece necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni; questa parte della disposizione viene costantemente applicata con notevole frequenza anche nel settore condominiale, sempre in virtù del rinvio previsto dall’art. 1139 c.c.
Infine, è consentito deliberare l’ipoteca con la maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune, ma solo nel caso che ciò abbia lo scopo di garantire la restituzione delle somme mutuate per la ricostruzione o per il miglioramento della cosa comune.
É prevista non solo l’impugnazione del regolamento dall’art. 1107 c.c., ma anche l’impugnazione delle deliberazioni della maggioranza nei seguenti casi (art. 1109 c.c.): a) per le delibere relative agli atti di ordinaria amministrazione, quando la deliberazione comporta un grave pregiudizio alla cosa comune; b) quando è mancata la preventiva informazione sull’oggetto della deliberazione, come richiesto dall’art. 1105, co. 3, c.c.; c) quando la deliberazione che ha per oggetto innovazioni oppure altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione viene approvata in violazione della maggioranza disposta dall’art. 1108, co. 1, c.c. oppure risulta pregiudizievole per l’interesse di qualcuno dei partecipanti.
Il termine per proporre l’impugnazione è sempre di trenta giorni dall’approvazione della delibera e, per gli assenti, il termine decorre dal giorno in cui la deliberazione è stata loro comunicata.
Vi è di nuovo una disposizione di carattere eminentemente processuale: la delibera impugnata è di per sé esecutiva ma, in pendenza del giudizio, è possibile chiedere all’autorità giudiziaria di ordinare la sospensione del provvedimento deliberato.
Sempre con riguardo alla gestione del bene comune si prevede che ha diritto al rimborso il partecipante quando, in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell’amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune (art. 1110 c.c.).
Ma il legislatore, pur ammettendo la possibilità che un bene si trovi in comunione, non predilige questa situazione, che viene invece considerata preferibilmente transitoria perché limita la circolazione dei beni e, infatti, l’art. 1111 c.c. stabilisce che ciascuno dei partecipanti può sempre azionare la domanda di scioglimento della comunione e l’autorità giudiziaria può stabilire una congrua dilazione, che comunque non deve essere superiore a cinque anni, soltanto nel caso in cui l’immediato scioglimento possa pregiudicare gli interessi degli altri. Nello stesso senso il patto di restare in comunione per un tempo non maggiore di dieci anni è valido e ha effetto anche per gli aventi causa dai partecipanti, ma, se è stato stipulato per un termine maggiore, questo si riduce automaticamente a dieci anni; in ogni caso, quando gravi circostanze lo richiedono, l’autorità giudiziaria può ordinare lo scioglimento della comunione prima del tempo convenuto.
Ovviamente rileva anche la natura del bene in comunione e infatti si prevede che lo scioglimento della comunione non possa essere chiesto quando si tratta di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso a cui sono destinate (art. 1112 c.c.); questo è il caso che si verifica, tra l’altro, nell’ipotesi del condominio negli edifici, in cui sussiste la comunione forzosa delle parti comuni che sono necessarie per l’utilizzo e il godimento delle unità immobiliari di proprietà esclusiva.
A proposito della procedura di divisione viene previsto (art. 1113 c.c.) che i creditori e gli aventi causa da un partecipante possono intervenire, a proprie spese, nella divisione, ma non possono impugnare la divisione già eseguita, a meno che abbiano notificato un’opposizione in epoca anteriore alla divisione stessa e salvo sempre ad essi l’esperimento dell’azione revocatoria o dell’azione surrogatoria. Quando la divisione ha per oggetto beni immobili, l’opposizione dei creditori e degli aventi causa da un partecipante dev’essere trascritta prima della trascrizione dell’atto di divisione e, se si tratta di divisione giudiziale, prima della trascrizione della relativa domanda. Inoltre devono essere chiamati a intervenire, affinché la divisione abbia effetto nei loro confronti, i creditori iscritti e coloro che hanno acquistato diritti sull’immobile in virtù di atti soggetti a trascrizione e trascritti prima della trascrizione dell’atto di divisione o della trascrizione della domanda di divisione giudiziale; e nessuna ragione di prelevamento in natura per crediti nascenti dalla comunione può essere opposta contro i creditori iscritti e coloro che hanno acquistato diritti sull’immobile in virtù di atti soggetti a trascrizione e trascritti, con esclusione delle ragioni di prelevamento nascenti da titolo anteriore alla comunione medesima oppure da collazione.
È ammessa (art. 1114 c.c.) la divisione in natura, quando la cosa può essere comodamente divisa in parti corrispondenti alle quote dei partecipanti.
Per quanto riguarda le obbligazioni solidali dei partecipanti (art. 1115 c.c.) si prevede che ciascun partecipante può esigere che siano estinte le obbligazioni in solido contratte per la cosa comune, che siano scadute o che scadano entro l’anno dalla domanda di divisione; la somma per estinguere le obbligazioni deve essere prelevata dal prezzo di vendita della cosa comune, e, se la divisione ha luogo in natura, si procede alla vendita di una congrua frazione della cosa, salvo diverso accordo tra i condividenti; e, quando un partecipante ha pagato il debito in solido e non ha ottenuto rimborso, concorre nella divisione per una maggiore quota corrispondente al suo diritto verso gli altri condividenti.
Viene infine previsto (art. 1116 c.c.) che alla divisione delle cose comuni trovano applicazione le norme sulla divisione dell’eredità (artt. 713-768 c.c.), che non si pongano in contrasto con quelle specificamente stabilite per la divisione della comunione.
Seppure in misura inferiore rispetto ad altri istituti giuridici ed in particolare all’affine settore condominiale, sono comunque frequenti gli interventi della giurisprudenza in materia di comunione riferiti alle situazioni che si riscontrano con maggiore assiduità nella prassi applicativa delle norme.
La comunione è regolata dalla legge senza alcun richiamo agli usi (Cass., 12.1.1953, n. 58).
Riguardo alle differenze fra la comunione a scopo di godimento disciplinata dall’art. 2248 c.c. e la società, la prima postula una situazione di contitolarità e si caratterizza per il fatto che oggetto del godimento è il bene comune, mentre nella società rileva l’esercizio in comune di una attività svolta a fine di lucro da più soggetti per l’esercizio della quale non è necessaria alcuna comunione di beni, che sono solo lo strumento attraverso il quale essa si costituisce ed opera (Cass., 1.4.2004, n. 6361).
Nel caso di comproprietà di una azienda alberghiera, il suo sfruttamento direttamente da parte dei comproprietari, che non si limitino a darla in affitto a terzi per goderne la rendita, dà luogo ad una attività necessariamente imprenditoriale e quindi comporta la costituzione di una società (Cass., 10.11.1992, n. 12087).
Nel giudizio che ha per oggetto la condanna alla demolizione di un immobile, devono essere citati tutti i comproprietari pro indiviso del fabbricato, perché una sentenza di demolizione pronunciata soltanto nei confronti di alcuni di loro sarebbe priva di utilità (Cass., 17.4.2001, n. 5603).
L’assemblea dei partecipanti alla comunione non dispone del potere di determinare in via provvisoria le quote di contribuzione di ciascun comunista alle spese comuni, dal momento che la misura della contribuzione, qualora non sia stabilita dal titolo, è determinata direttamente dall’art. 1101 c.c. in misura paritaria (Cass., 20.5.2011, n. 11264).
La previsione dettata dall’art. 1102 c.c. è applicabile anche alla comunione ereditaria (Cass., 23.7.1979, n. 4408).
L’uso paritetico della cosa comune, che va tutelato, deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell’utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta essi ne potrebbero fare (Cass., 27.2.2007, n. 4617).
La nozione di pari uso della cosa comune cui fa riferimento l’art. 1102 c.c. non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione per un suo fine particolare, con la conseguente possibilità di ritrarre dal bene una utilità specifica aggiuntiva rispetto a quelle che vengono ricavate dagli altri, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri (Cass., 5.10.2009, n. 21256). Di conseguenza, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata ad essa da uno di loro si deve ritenere legittima, dal momento che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei partecipanti è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto (Cass., 12.3.2007, n. 5753); invece lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri non è riconducibile alla facoltà di ciascun condomino di trarre dal bene comune la più intesa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo (Cass., 24.6.2008, n. 17208), tranne che nel caso in cui vi sia uno specifico accordo concluso da tutti i titolari del diritto (Cass., 14.10.1998, n. 10175).
L’utilizzo esclusivo del bene comune che viene esercitato senza il consenso degli altri aventi diritto, ai quali resta precluso l’uso anche potenziale del bene, determina un danno in re ipsa che può essere quantificato in base ai frutti civili che l’autore della violazione ha tratto dal bene (Cass., 28.9.2016, n. 19215).
Nel caso in cui, per la natura del bene o per qualunque altra circostanza, non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., i comproprietari possono deliberarne l’uso indiretto, ma indipendentemente da ciò, qualora la cosa comune sia potenzialmente fruttifera, il comproprietario che abbia goduto da solo dell’intero bene in assenza di un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti deve corrispondere loro, a titolo di ristoro, i frutti civili con riferimento ai prezzi di mercato, che, con riguardo al caso di un immobile, possono essere individuati nei canoni di locazione (Cass., 5.9.2013, n. 20394).
Inoltre, quando la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l’uso comune si può realizzare, oltre che in maniera indiretta (Cass., 18.1.1982, n. 312), mediante un avvicendamento con un uso turnario da parte dei comproprietari (Cass., 12.12.2017, n. 29747).
L’uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l’utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., rientri fra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l’utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri (Cass., 14.6.2015, n. 14694).
In tema di accessione, il consenso alla costruzione eseguita da uno dei comproprietari del suolo, manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro diritto reale, preclude l’esercizio dello ius tollendi e, qualora tale diritto non venga o non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sostenute per l’edificazione dell’opera (Cass., S.U., 16.2 2016, n. 3873).
L’installazione, nel muro di confine comune, di un meccanismo fotocellulare per l’apertura automatica del cancello inserito nel muro, non sporgente all’interno del fondo prospiciente il lato opposto del muro stesso, non viola l’art. 1102 c.c. perché configura un utilizzo più intenso della cosa comune secondo la sua naturale destinazione (Cass., 21.10.2009, n. 22341).
L’atto di disposizione del fondo comune, consistente nella costituzione di un diritto di servitù su di esso, richiede il consenso di tutti i partecipanti alla comunione (Cass., 29.3.1994, n. 3083).
Fra le spese contemplate dall’art. 1104 c.c., solo quelle per la conservazione della cosa comune costituiscono obligationes propter rem (Cass., 29.9.2011, n. 19893).
I comproprietari di una unità immobiliare che fa parte di un edificio in condominio sono tenuti in solido, nei confronti del condominio stesso, al pagamento degli oneri condominiali (Cass., 21.10.2011, n 21907).
La rinunzia abdicativa della quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comunisti, costituisce una donazione indiretta, senza che sia necessaria la forma dell’atto pubblico (Cass., 25.2.2015, n. 3819).
Il diritto al rimborso pro quota delle spese necessarie per consentire il godimento del bene comune spetta al partecipante alla comunione che le abbia anticipate per gli altri (Cass., 24.11.1998, n. 11892).
A differenza di quanto statuito in materia di condominio, gli artt. 1105 e 1108 c.c. non prevedono la costituzione formale dell’assemblea, ma semplicemente la decisione a maggioranza dei partecipanti e pertanto si deve ritenere regolarmente costituita e capace di deliberare la riunione dei partecipanti alla comunione con la presenza dell’amministratore per decidere su oggetti di comune interesse (Cass., 27.10.2000, n. 14162). Infatti, l’assemblea dei partecipanti alla comunione ordinaria è validamente costituita mediante qualunque forma di convocazione, purché sia idonea allo scopo, proprio in quanto non sono previste particolari formalità (Cass., 12.12.2017, n. 29747).
E di nuovo a differenza di quanto prevede l’art. 1131, co. 1, c.c., in materia di condominio, l’amministratore della comunione non può agire in rappresentanza dei partecipanti contro uno dei comunisti, qualora tale potere non gli sia stato attribuito nella delega a cui fa riferimento l’art. 1106, co. 2, c.c., che prevede la determinazione dei poteri delegati (Cass., 21.2.2014, n. 4209).
I comproprietari che abbiano gestito insieme il bene comune, senza distinzioni di ruolo o ambiti diversi di attività, sono obbligati a rendere il conto al comproprietario non gestore e a restituirgli la sua quota di frutti in regime di solidarietà passiva, essendo unitaria sia la causa obligandi, sia la res debita (Cass., 2.3.2015, n. 4162).
La compravendita di un bene in comunione predisposta per la partecipazione di tutti i comproprietari, ma stipulata da uno solo di essi, si deve considerare inefficace riguardo all’intera cosa venduta e il contratto è nullo nel caso in cui risulti da esso che il negozio sia stato concordemente inteso come vendita unitaria e le parti abbiano convenuto la stipula nel comune presupposto dell’adesione di tutti i contitolari della comunione (Cass., 15.5.1998, n. 4902; Cass., 9.1.2004, n. 155). Riguardo alla promessa di vendita di un bene in comunione, di norma essa è considerata dalle parti come riferita al bene inteso come un unicum inscindibile e non come somma delle singole quote che fanno capo a ciascun comproprietario; e per questo motivo l’unico documento predisposto per tale negozio, salvo che venga redatto in modo da farne risultare la volontà di scomposizione in più contratti preliminari secondo i quali ciascun comproprietario si impegna a vendere solo la propria quota al promissario acquirente, costituisce una unica parte complessa e le dichiarazioni di volere vendere dei singoli comproprietari si fondono in una unica volontà negoziale, con la conseguenza che, in caso di mancanza o di invalidità di una di tali dichiarazioni, non si forma validamente la volontà di una delle parti del contratto preliminare e viene esclusa, così, la possibilità per il promissario acquirente di ottenere la sentenza costitutiva prevista dall’art. 2932 c.c. nei confronti dei comproprietari promittenti (Cass., 12.2.2014, n. 3213).
In caso di locazione di immobile in comproprietà indivisa, invece, vale il principio per cui ciascuno dei comproprietari dispone, in difetto di prova contraria, di pari poteri gestori e l’eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra comproprietari, mentre non può essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di chi è apparso agire per tutti (Cass., 2.2.2016, n. 1986); di conseguenza ciascun condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l’immobile in comunione (Cass., 18.7.2008, n. 19929), e con riguardo al procedimento di rilascio per finita locazione ciascun comproprietario dell’immobile locato può agire in giudizio, trattandosi di atto di ordinaria amministrazione della cosa comune per il quale si deve presumere sussistente il consenso degli altri comproprietari o, quantomeno, della maggioranza dei partecipanti alla comunione, con la conseguenza che non ricorre la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti e il fatto che – ai sensi dell’art. 34 l. 27.7.1978, n. 392 – il conduttore abbia diritto a una indennità per la perdita dell’avviamento non incide neppure sulla qualificazione della proposizione dell’azione come attività eccedente l’ordinaria amministrazione (Cass., 17.9.2013, n. 21153).
È anche possibile, per i comproprietari, nominare un amministratore estraneo al loro gruppo che si occupi della gestione del bene oggetto della locazione e abbia la rappresentanza anche processuale della comunione nei confronti dei terzi (Cass., 17.7.2002, n. 10394).
Nella locazione di una cosa comune da parte di uno dei comproprietari, in caso di gestione non rappresentativa il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore ed esigere dal conduttore la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di comproprietà indivisa (Cass., S.U., 4.7.2012, n. 11135).
Il regolamento che ha per oggetto l’ordinaria amministrazione e il miglior godimento della cosa comune non ha natura contrattuale, perché costituisce espressione delle attribuzioni dell’assemblea, e come tale, seppure venga approvato da tutti i partecipanti alla comunione, può essere modificato dalla sola maggioranza dei comunisti; mentre ha natura di contratto plurisoggettivo, che richiede l’approvazione e la modifica col consenso unanime dei comunisti, il regolamento che esorbiti dalla potestà di gestione delle cose comuni attribuita all’assemblea (Cass., 4.6.2010, n. 13632).
Solo i partecipanti alla comunione hanno la facoltà di impugnare il regolamento (Cass., 9.11.1971, n. 3157).
La costituzione di ipoteca prevista dall’art. 1108, co. 3, c.c. trova applicazione anche in ipotesi di comunione derivante dalla successione per causa di morte (Cass., 9.10.2012, n. 17216).
Riguardo alle spese necessarie per la conservazione delle cose comuni l’art. 1110 c.c. (anche in questo caso, al contrario del successivo art. 1134 dettato per il condominio) non richiede che i lavori siano anche urgenti e quindi il partecipante alla comunione che, in caso di trascuranza dell’amministratore oppure degli altri compartecipi, le abbia sostenute ha diritto al rimborso alla sola condizione di avere precedentemente interpellato, o almeno preventivamente avvisato, gli altri partecipanti o l’amministratore, dato che, unicamente in caso di inattività di questi ultimi, egli può procedere agli esborsi e poi pretenderne il rimborso, incombendo su di lui l’onere della prova sia della trascuranza che della necessità dei lavori (Cass., 3.8.2001, n. 10738). Ma non di tutte le spese può essere richiesto il rimborso dal comproprietario che le anticipa, in quanto, stante la diversità di funzione e fondamento delle spese per la conservazione e delle spese per il godimento delle parti comuni, nel caso di trascuranza degli altri comunisti il comproprietario che le abbia anticipate ha diritto al rimborso esclusivamente delle spese di conservazione a cui fa riferimento l’art. 1110 c.c., e non pure di quelle relative al godimento, fra le quali rientrano le spese relative all’uso e alla manutenzione dell’impianto di riscaldamento (Cass., 18.9.2013, n. 21392); le spese per la conservazione della cosa sono quelle necessarie per il mantenimento della sua integrità, che comprendono gli interventi necessari affinché il bene sia idoneo alla destinazione alla quale è obiettivamente adibito oppure sono indispensabili per assicurare il servizio comune, in quanto incidono sulla sua esistenza o permanenza del bene che altrimenti verrebbero meno, e possono consistere anche nella sostituzione di elementi costitutivi indispensabili per il funzionamento della cosa, come nel caso di parti inservibili dell’impianto di riscaldamento che altrimenti non è in grado di funzionare (Cass., 9.9.2013, n. 20652).
Per lo scioglimento della comunione e la divisione della proprietà immobiliare è necessario l’atto scritto secondo la previsione dell’art. 1350, n. 11, c.c. (Cass., 28.2.1984, n. 1428).
L’atto di divisione, non producendo effetti traslativi, ha carattere solo dichiarativo (Cass., 19.4.2006, n. 9041).
Dal momento che le disposizioni sulla indivisibilità assumono, rispetto alla normale divisibilità dei beni, carattere di eccezionalità, la sussistenza delle situazioni limitative da esse previste deve essere accertata con rigore, perché deve essere comunque assicurata la salvaguardia del diritto di ciascun compartecipe ad ottenere lo scioglimento della comunione e l’assegnazione in natura della sua parte (Cass., 7.4.1987, n. 3353).
La disposizione prevista dall’art. 1112 c.c. trova applicazione esclusivamente nel caso in cui si pervenga allo scioglimento della comunione per via giudiziale (Cass., 29.3.2006, n. 7274).
I creditori iscritti e gli aventi causa da un partecipante alla comunione non sono parti nel giudizio di divisione, potendo solo intervenire in essa per vigilare sul corretto svolgimento del procedimento di divisione oppure proporre opposizione alla divisione non ancora eseguita a seguito di giudizio a cui non abbiano partecipato, senza avere alcun potere dispositivo, in quanto non condividenti (Cass., 9.11.2012, n. 19529).
Il concetto di comoda divisibilità di un immobile a cui fa riferimento l’art. 720 c.c. presuppone che il frazionamento del bene sia attuabile mediante determinazione di quote concrete suscettibili di autonomo e libero godimento che si possano formare senza dover affrontare problemi tecnici eccessivamente costosi; esso presuppone, inoltre, che la divisione non incida sull’originaria destinazione del bene e non comporti un sensibile deprezzamento del valore delle singole quote rapportate proporzionalmente al valore dell’intero, tenuto conto della normale destinazione ed utilizzazione del bene stesso (Cass., 30.7.2004, n. 14540).
Il meccanismo di ricalcolo delle quote previsto dall’art. 1115, co. 3, c.c. opera al momento della divisione, a condizione che non siano ancora estinte le obbligazioni in solido dei comproprietari nei confronti di terzi, contratte per la cosa comune, scadute o scadenti entro l’anno dalla domanda di divisione (Cass., 11.9.2013, n. 20841).
Il principio di omogeneità delle porzioni, dettato dall’art. 727 c.c., trova applicazione anche per la comunione ordinaria, postulando che la comunione abbia ad oggetto una pluralità di beni di diversa qualità (Cass., 19.11.2013, n. 25946).
La prescrizione del diritto dei comunisti ai frutti a loro dovuti dal comproprietario utilizzatore del bene comune decorre soltanto dal momento della divisione, vale a dire dal momento in cui si deve rendere il conto (Cass., 11.8.2015, n. 16700).
Nella comunione il comproprietario che sia nel possesso del bene comune può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso e, se già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, deve estendere tale possesso in termini di esclusività, a tal fine occorrendo che goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, mentre non si può considerare sufficiente la mera astensione dall’uso della cosa comune degli altri partecipanti (Cass., 2.9.2015, n. 17457).
Fonti normative
Artt. 874-875, 879, 1110-1116 c.c.; art. 784-791 bis c.p.c.
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