albanese, comunità
Le varietà italo-albanesi (arbëresh) sono parlate in 50 comunità (di cui 41 sedi comunali), distribuite in Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia (fig. 2). Gruppi albanofoni emigrati da queste comunità sono presenti in diverse città italiane, fra cui Roma, Bari, Cosenza, Crotone e Palermo, oltre che negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile. Vi sono infine centri anticamente albanesi, alcuni dei quali conservano memoria dell’eredità culturale originaria, come, ad es., Monteparano (Taranto), Cervicati, Mongrassano, Rota Greca, San Lorenzo del Vallo (Cosenza), Gizzeria (Catanzaro).
Le colonie italo-albanesi dell’Italia meridionale si formarono dopo il 1468, anno della morte di Giorgio Castriota Scanderbeg, eroe della resistenza albanese contro gli ottomani, a seguito della migrazione di popolazioni dalla parte meridionale del territorio albanofono (Ciameria, Morea) per sfuggire all’impero turco. D’altro canto, la presenza di gruppi albanesi in Italia è documentata già per il XIII e XIV secolo; inoltre, nel XV secolo, Alfonso I d’Aragona aveva assegnato feudi ad alcuni condottieri albanesi in Puglia, Calabria e Sicilia, per l’aiuto militare ricevuto contro i baroni locali (Altimari 1986). I centri albanofoni rimasero fino alla metà del XVI secolo sotto il Patriarcato Bizantino di Ochrida, quando, con la Controriforma, furono sottoposti da Pio IV alle diocesi latine. Le comunità italo-albanesi mostrarono un dinamismo culturale e un’autocoscienza identitaria che le resero sedi privilegiate della cultura albanese (Faraco 1976; Altimari & Savoia 1994) e alimentarono un impegno civile di ispirazione illuministica che condusse personalità italo-albanesi (tra cui Francesco Crispi) a prendere parte al Risorgimento italiano. Nei primi decenni dell’Ottocento i gruppi intellettuali arbëreshë ripresero anche i temi fondamentali del nascente romanticismo europeo volti alla creazione dell’identità nazionale, a cui la lingua forniva il principale criterio di integrazione simbolica. A questo clima culturale si collega la nascente prospettiva storico-comparativa nell’indagine linguistica, nel cui quadro si colloca anche Franz Bopp, che stabilì sin dal 1854 l’appartenenza dell’albanese alla famiglia indoeuropea.
I nuovi interessi dell’indagine linguistica incoraggiarono gli autori arbëreshë a studiare la posizione dell’albanese in rapporto al greco, al latino e alla lingua pre-greca dei Pelasgi, al fine di provarne l’antichità e l’autonomia. L’illustrazione della specificità linguistica e culturale albanese affiora già nel Tesoro di notizie su de’ macedoni (1777) di Niccolò Chetta (originario di Contessa Entellina, Palermo), in cui l’autoctonia degli albanesi è provata tramite la comparazione di costumi, religione e lingua degli albanesi e dei macedoni, e mediante il ricorso all’etimologia (Mandalà 2003); tale specificità è poi preminente nelle opere di Vincenzo Dorsa, di Demetrio Camarda e di Girolamo De Rada. Quest’ultimo, la figura più rappresentativa del movimento romantico italo-albanese, con la sua opera seppe collegare «la giovane letteratura italo-albanese» alle grandi correnti europee (Altimari 2009: 19). Fu inoltre il fondatore del primo giornale albanese «L’Albanese d’Italia» nel 1848, e successivamente del «Fjamuri Arberit» (1883-1887). Nella sua produzione letteraria e grammaticale hanno rilievo particolare i Canti del Milosao (1836), esempio di una letteratura albanese rinnovata, sensibile ai modelli letterari colti (Altimari 1986), e la raccolta di canti popolari Rapsodie di un poema albanese (1866). Gli autori ricordati ebbero un ruolo importante nel movimento della Rilindja («Rinascita») albanese, cui concorsero insieme alle élites intellettuali albanesi, riunite nella Lega di Prizren (1878). La Rilindja ebbe il suo punto di arrivo nella fissazione di un alfabeto comune (nel Congresso panalbanese di Monastir, 1908) e nell’indipendenza dell’Albania a seguito della Prima guerra balcanica (1912) e della Conferenza di Londra (1912-13).
La storia e la presenza delle comunità italo-albanesi furono discriminate dal nazionalismo ideologico che ispirò la scuola e la società italiana nel periodo postunitario e poi dalla politica di assimilazione linguistica del fascismo (Carrozza 1986; ➔ fascismo, lingua del; ➔ politica linguistica). Il riconoscimento ufficiale di quest’eredità culturale e linguistica nell’Italia repubblicana ebbe luogo solo con la legge 482/1999 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche (➔ minoranze linguistiche).
Peraltro, i centri e le parlate italo-albanesi hanno condiviso le vicende socio-economiche che interessarono le tradizioni linguistiche e culturali minoritarie negli anni ’50-’80 del Novecento, gli anni dei grandi fenomeni migratori e della diffusione dell’italiano. Nelle comunità albanesi le trasformazioni sociali e l’accresciuto benessere economico hanno determinato negli ultimi decenni una maggiore attenzione all’arbëresh come deposito di valori identitari; anche la menzionata legge 482 contribuì a rafforzare le funzioni d’uso dell’arbëresh.
A partire dagli anni ’50 del Novecento nacquero alcune riviste, fra cui «Sheizat», fondata da Ernest Koliqi, e, a seguito delle celebrazioni del V centenario della morte di Scanderbeg nel 1968, altre come «Zjarri», «Katundi Ynë», «Zëri i Arbëreshvet». Risalgono a questi anni le ricerche linguistiche di Giuseppe Gangale nella Calabria mediana, quelle sulla narrativa tradizionale di Luca Perrone, la creazione del Centro Internazionale di Studi Albanesi Rosolino Petrotta a Piana e dell’Istituto di Lingua e Letteratura albanese di Palermo. Dal 1974, l’Università della Calabria, ad opera inizialmente di Francesco Solano, assunse un ruolo di rilievo nel campo degli studi albanologici.
Gli indicatori più immediati dell’identità culturale arbëreshe sono l’uso stesso della parlata albanese e, pur con differenze nelle varie zone, la permanenza del rito religioso greco. La cultura tradizionale include la conoscenza di proverbi, racconti, ninne-nanne, terminologie relative agli strumenti di lavoro, ai manufatti tradizionali, alle piante e agli animali, ecc., in cui si esprimono modi di vita materiale e un’organizzazione sociale che riflettono un’economia rurale e un ambiente condivisi anche dalle comunità circostanti.
Nei villaggi arbëreshë la vita di relazione aveva al suo centro il vicinato (gjitonia), vissuto nelle piazzette dove si svolgevano attività di lavoro e interazione sociale. Per quanto riguarda l’abbigliamento, si può ricordare che il costume tradizionale femminile di gala ha mantenuto richiami al vestiario popolare balcanico: la sua ricca foggia comprende una camicia in cotone (linja), una gonna lunga in seta (kamizolla), il corpetto (xhipuni), una sopravveste (coha), la cintura con fibbia d’oro (brezi), il diadema (keza) (cfr. Mazzei 1993; Emmanuele 20072), come nel costume di Caraffa riprodotto nella litografia ottocentesca in fig. 1 (Mazzei 1993). La letteratura popolare italo-albanese e l’eredità di canti, rapsodie e danze di ascendenza balcanica rappresentano la coscienza della patria originaria e delle vicende che causarono la diaspora albanese (Altimari 1986).
Le danze arbëreshe, dette valle, legate alle celebrazioni della Pasqua e ad altre occasioni di festa, sono eseguite dalle donne disposte in semicerchio e accompagnate da canti di contenuto epico, che narrano la resistenza contro i turchi, storie di amore e di morte. Il più famoso di questi canti epici, il Canto di Scanderbeg, cantato il martedì di Pasqua, rievoca il terzo assedio turco della città di Kroja. Molto popolari sono la rapsodia di Costantino il piccolo, nota in Albania come la ballata di Ago Ymeri, il cui tema è il riconoscimento del marito dopo molti anni; e quella di Costantino e Garentina, una rapsodia diffusa nella penisola balcanica, registrata nelle raccolte dei folkloristi ottocenteschi, le cui suggestioni hanno ispirato la prima letteratura romantica europea.
Le varietà albanesi discendono dai dialetti indoeuropei di tipo illirico parlati anticamente nell’area adriatica della penisola balcanica (Demiraj 1988; Pellegrini 1995). Al loro interno si distinguono le varietà gheghe, parlate nella parte settentrionale del territorio albanofono, nel Kosovo e nella Macedonia, e le varietà tosche, parlate nelle zone meridionali, incluse la lingua standard, le varietà albanesi parlate in Grecia e nell’Italia meridionale (Demiraj 1988; Solano 19882; Savoia 1994). Qui di seguito sono esaminati alcuni aspetti della grammatica albanese tenendo conto delle parlate arbëreshe.
Il paradigma nominale include il caso nominativo (1) a., l’accusativo (1) b., l’obliquo (funzione di dativo / genitivo) (1) c., e l’ablativo, limitato ad alcuni contesti sintattici. I suffissi flessivi marcano insieme al caso il numero e la definitezza (articolo posposto). Nell’esempio (1) sono illustrate le flessioni di caso-definitezza relative al femminile vaz «ragazza» e al maschile trimm «ragazzo» nella varietà di Greci: -a / -i corrispondono al nominativo singolare definito, -an / -in all’accusativo singolare definito, -ǝs / -it all’obliquo singolare definito:
(1) a. nominativo ɛrθ vaz-a / trimm-i ≪venne la ragazza / il ragazzo≫
b. accusativo pɛ vaz-an / trimm-in ≪vidi la ragazza / il ragazzo≫
c. obliquo ja ðɛ vaz-ǝs / trimm-it ≪glielo detti alla ragazza al ragazzo≫
L’aggettivo si accorda con il nome in genere e numero, e (salvo alcune sottoclassi) è preceduto da una particella determinativa, accordata anche in caso, come negli esempi (2) a., (2) b. e (2) c. di Greci, con l’aggettivo mað «grande»:
(2) a. nominativo vaz-a a mað-a / trimm-i i maθ
b. accusativo vaz-an a mað-a / trimm-in a maθ
c. oblique vaz-ǝs a mað-a / trimm-it a maθ
Le varietà albanesi sono lingue a soggetto nullo, nelle quali cioè la frase è ben formata anche se non c’è un soggetto lessicale espresso, come in (3) a. (➔ soggetto). Il sistema pronominale include forme clitiche oggettive, che, come quelle romanze, si collocano prima del verbo flesso, come in (3) a., eccetto all’imperativo positivo, in (3) b., dove si collocano alla destra del verbo; all’imperativo negativo, in (3) c., il clitico si inserisce fra la negazione e il verbo:
(3) a. e hap ≪lo / la apro≫
b. hap-e ≪apri-lo≫
c. mɔs e hap ≪non aprirlo≫ (lett.: ≪non lo apri≫)
La flessione del verbo registra il tempo, il modo, la diatesi, la persona e il numero. Le forme di terza persona singolare e plurale di mbulɔɲ «copro» della varietà di Civita nell’esempio (4) esemplificano l’attivo in (4) a. e il medio-riflessivo in (4) b.; quest’ultimo presenta flessioni specializzate al presente e all’imperfetto. Il perfetto medio-riflessivo combina il clitico u «si» con la forma perfettiva del verbo:
(4) a. attivo
presente imperfetto perfetto
mbulɔn mbulɔɲ mbulɔj
mbulɔjin mbulɔjin mbuluan
b. medio-riflessivo
presente imperfetto perfetto
mbulɔhet mbulɔhej u mbulua
mbulɔhen mbulɔhʃin u mbuluan
Nella maggior parte delle varietà italo-albanesi, nelle formazioni aspettuali con il participio, l’ausiliare kam «avere» caratterizza i costrutti transitivi, intransitivi (5) a. e b., e medio-riflessivi (5) c., dove si combina con il clitico riflessivo u, come illustrato dai dati di Civit a; nelle varietà d’Albania e in alcune arbëreshe, come quella di Carfizzi, compare kam nei costrutti transitivi e intransitivi (5) d. ed e., e jam «essere» nel medio-riflessivo (5) f.:
(5) Civita
a. e kiʃa mbuluar («lo avevo coperto»)
b. kiʃa dal («ero [lett. avevo] uscito»)
c. u kiʃa mbuluar (« mi ero [lett. avevo] coperto»)
Carfizzi
d. e kɔm dziua («lo ho svegliato»)
e. kɔm arðu («sono [lett. ho] venuto»)
f. jɔm dziua («sono svegliato»; «sono stato svegliato / mi sono svegliato»)
Le varietà arbëreshe, come quelle tosche, mancano di una forma verbale di infinito. Nelle frasi subordinate che nelle lingue romanze o germaniche hanno l’infinito, il verbo ha forma finita, introdotta dalla particella tə (Part) come negli esempi della parlata di Firmo in (6) a. e b.:
(6) a. furnɔva tə haja
«ho finito di mangiare» (lett. «finii Part mangiavo»)
b. dua t e mbulɔɲ
«voglio coprirlo» (lett. «voglio Part lo copro»)
Alcune caratteristiche morfosintattiche delle varietà albanesi sono condivise da altre lingue balcaniche (Banfi 1985). L’articolo posposto appare in rumeno: cfr. om / om-ul «uomo / uomo-il», e in lingue slave come il macedone, cfr. dete / dete-to «bambino / bambino-il». La declinazione a tre casi con coincidenza del dativo e del genitivo caratterizza anche il neogreco e il rumeno. Il ricorso a verbi di forma finita nelle frasi dipendenti esaminata in (6) caratterizza il neogreco, il bulgaro, il rumeno, il serbo.
La classificazione delle varietà arbëreshe deve tener conto del fatto che la loro attuale distribuzione geografica non coincide con quella originaria; inoltre, esse sono il risultato di una successiva frammentazione territoriale delle comunità e di fenomeni di contatto con le varietà romanze. Comunque alcune caratteristiche permettono di separare gruppi di dialetti. Ad es., sottogruppi di dialetti sono differenziati dagli esiti dei nessi consonante + l originari (fig. 2; da Solano 1979): conservano i nessi, anche se con soluzioni fonetiche diverse, le varietà siciliane, catanzaresi, lucane e di Casalvecchio e S. Marzano: cfr., ad es., [ˈkʎɛva] «fui», [fʎə:] «dormo» a S. Paolo; compare un esito palatale di *l originaria nella maggior parte delle varietà di area cosentina, come, ad es., in [pjak] «vecchio», [ˈkjumʃti] «il latte» a S. Benedetto; in alcune parlate molisane la palatalizzazione è limitata al contesto k, g-, per cui [blɛ] «compro» e [i plak] «vecchio» contrastano con [ˈcumʃti] «il latte», [ˈɟuri] «il ginocchio» (Ururi). Vi sono infine fenomeni che distinguono l’insieme delle varietà arbëreshe da quelle d’Albania, come nel caso dell’espressione del futuro, che mentre nelle varietà d’Albania è generalmente realizzato dal costrutto do «volere» -të- verbo flesso, nelle varietà arbëreshe ha due forme (es. 7, Montecilfone; Solano 1988), di cui una, in (7) a., è introdotta dal verbo modale kam «avere», l’altra, in (7) b., da dua / do «volere»:
(7) a. ka t a bəɲ «lo farò» («lo ho da fare»)
b. do t a bəɲ «lo farò» («lo voglio fare»)
Le comunità arbëreshe presentano un insieme di fenomeni di mistilinguismo, di prestito, di convergenza e di ibridazione linguistica dovuti all’antica e prolungata situazione di bilinguismo fra albanese e dialetto romanzo (Savoia 2008; ➔ bilinguismo e diglossia; ➔ mistilinguismo). In particolare, il lessico delle varietà arbëreshe include un sottoinsieme di basi lessicali romanze. I dati in Birken-Silverman (2000) circa l’uso dell’arbëresh in 23 paesi albanesi della Valle del Crati (CS) riportano percentuali di prestiti che variano da un minimo del 19.5% del lessico ad un massimo del 30.9%. Le sfere più interessate dai prestiti sono naturalmente quelle meno legate alla cultura tradizionale, come il commercio, l’artigianato, l’edilizia, con valori che arrivano a superare il 70% del lessico. Generalmente i prestiti dalle varietà romanze si combinano con morfologia flessiva arbëreshe: il prestito appare quindi un meccanismo che concorre alla vitalità del sistema linguistico piuttosto che una spia di un suo indebolimento. I verbi hanno la normale flessione arbëreshe, sia di persona / modo / tempo, sia di diatesi; i nomi hanno la flessione di definitezza / caso; i prestiti aggettivali sono privi di articolo preposto e hanno una flessione invariabile -u. Nella parlata di Casalvecchio si ha per esempio: rəpətsɔɲ «rammendo», rambəkɔham «mi arrampico», məlun-i / məlun-ətə «melone-masch. / meloni-masch. pl.», iʃt kruðu / avtu «è crudo/a, alto/a».
Stimare la consistenza dell’uso dell’albanese nelle comunità arbëreshe non è molto facile, in quanto sono disponibili solo inchieste parziali e, dall’avvento della Repubblica, non si sono più fatti censimenti in merito. Secondo dati del 1966 (Gambarara 1980), il 70% degli abitanti della maggior parte delle comunità parlava arbëresh, mentre il restante 30% era italofono o dialettofono. L’indagine di Birken-Silverman (2000) attesta che in un’area conservativa come la Valle del Crati avevano conoscenza dell’arbëresh, negli anni 1989-92, il 78% dei parlanti.
Attualmente, si può calcolare che i residenti nelle comunità arbëreshe siano circa 100.000, di cui il 60%-70% conosce l’arbëresh, anche se all’interno di condizioni di bilinguismo generalizzato. Indagini recenti mirate in singole località rilevano situazioni molto differenziate: dai dati di Perta (2004), per quanto basati sull’autovalutazione, risulta che, sui campioni di parlanti presi in considerazione, hanno competenza attiva dell’arbëresh il 61% a Ururi e il 59% a Portocannone, ma solo l’11% a Campomarino. In tutt’e tre le località la conoscenza della parlata locale è inoltre generalizzata presso gli anziani, ma cala presso le giovani generazioni.
In relazione ai criteri UNESCO per la valutazione della vitalità e del rischio delle lingue, l’arbëresh può comunque essere riportato a un quadro del genere: la maggioranza dei parlanti delle comunità conosce l’arbëresh; la maggior parte delle famiglie lo usa in molti domini; l’arbëresh, anche se con un ruolo secondario, compare in quasi tutti i domini ed è usato anche nei nuovi media; vi sono grammatiche, descrizioni e una tradizione letteraria in arbëresh, e sono disponibili lessici, testi e giornali arbëreshë e materiali audio e video. Inoltre l’arbëresh è riconosciuto nella scuola, è tutelato dalla legge 482 ed è ammesso nell’amministrazione; e la popolazione considera importante conservare l’arbëresh. Il grado di vitalità dell’arbëresh va quindi considerato nel complesso sufficiente.
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