tabarchina, comunità
Il tabarchino è un dialetto ligure parlato da circa 10.000 persone nell’Arcipelago Sulcitano a sud ovest della Sardegna: a Carloforte, centro dell’isola di San Pietro, e a Calasetta, su Sant’Antioco.
Il nome della parlata risale a quello dell’isola tunisina di Tabarca, dove dalla metà del XVI secolo era stanziata una comunità di corallari e commercianti liguri. Sfruttando uno statuto di extraterritorialità e i rapporti con le reggenze barbaresche, la famiglia genovese Lomellini mantenne il possesso dell’isola fino al 1741, quando mutate condizioni politiche portarono all’occupazione di Tabarca da parte tunisina. Parte della popolazione aveva intanto già fondato Carloforte (1738); dei tabarchini rimasti in Tunisia, fatti schiavi, molti furono trasferiti ad Algeri e da qui, riscattati nel 1769, si trasferirono in Spagna sull’isolotto di Nueva Tabarca presso Alicante; altri fondarono nel 1770 Calasetta; altri ancora rimasero in Tunisia assumendo lo status di minoranza linguistico-religiosa.
Il tabarchino si estinse in Spagna ai primi del Novecento ed ebbe in Tunisia, ancora dopo l’instaurazione del protettorato francese (1883), ruolo di lingua commerciale e delle relazioni interetniche: già prima dell’indipendenza (1956) però, i membri della comunità di Tunisi erano dispersi o avevano optato per la naturalizzazione francese. Oggi il tabarchino è parlato solo in Sardegna e la sua vitalità appare legata a fattori diversi.
La specializzazione economica della comunità (pesca, navigazione, commercio, viticoltura) implicò, accanto ai legami con Genova, un sentimento di distacco rispetto al retroterra sardo, tuttora esistente malgrado la riconversione delle località in senso turistico. La funzionalità nei rapporti con l’esterno (nel XIX sec. anche con Tunisi, meta di una consistente emigrazione) si associò quindi al ruolo che ancora si riconosce all’idioma nella costruzione dell’identità locale, insieme a tradizioni storiche, cultura materiale e altri elementi di specificità. I rapporti con la Liguria durante e dopo la fase tunisina spiegano anche la ‘modernità’ del tabarchino: gli elementi principali di differenziazione dal genovese, come la velarizzazione di [a] tonica, non rappresentano arcaismi, ma l’originaria matrice rivierasca del dialetto (Tabarca fu popolata da coloni della zona tra Genova e Savona).
Tutti i tratti del genovese documentati a partire dai primi del XIX secolo sono comunque presenti anche in tabarchino, dalla caduta di [r] intervocalica al passaggio [ŋn] > [ŋ] (Toso 2004b). Anche il lessico (Toso 2004a) è orientato sul genovese moderno: all’interno di esso spiccano i prestiti diretti dall’arabo (limitati), dal francese e dal siciliano (legati questi all’immigrazione ottocentesca di pescatori e tonnarotti), e una componente sarda legata per lo più all’ambito agricolo, soprattutto a Calasetta. Per il resto il sardo, non essendo di fatto diffuso presso le due comunità, non ha influito a fondo sulle strutture del tabarchino: la conoscenza del campidanese da parte dei tabarchini è eccezionale, e i sardi che dall’isola maggiore si trasferiscono a Carloforte e Calasetta apprendono per lo più il tabarchino.
L’originalità di tale situazione è legata al forte senso di appartenenza comunitaria e di lealtà linguistica, al punto che il tabarchino è la varietà locale maggiormente praticata in Sardegna in rapporto al territorio tradizionalmente implicato. Secondo un’inchiesta del 1998, a Carloforte parlava tabarchino l’87% degli adulti e il 72% dei ragazzi in età scolare, e a Calasetta rispettivamente il 65% e il 62% (Sitzia 1998). Per la sola Carloforte, dati recenti (Oppo 2007) rivelano una competenza attiva del tabarchino dell’86,7% e passiva per il restante 13,3%; parla tabarchino l’88,9% degli uomini, l’82,2% delle donne e l’84% dei giovani sotto i 34 anni; e il 63,8% dei giovani usa il tabarchino coi genitori (un altro 10,6% in alternanza con l’italiano).
Pur offrendo una ricca tradizione orale, il tabarchino non ha dato luogo a usi letterari significativi, ma vanta un’importante produzione canora la cui esecuzione collettiva rappresenta un momento importante di socializzazione. Poesia e prosa hanno comunque conosciuto un certo sviluppo soprattutto dopo l’adozione, nel corso di assemblee pubbliche (2002), di un’ortografia unificata che ha anche consentito agli insegnanti locali di elaborare strumenti per l’impiego del tabarchino nell’insegnamento. Esistono inoltre una grammatica del tabarchino (frutto anch’essa di elaborazione collettiva) e dei dizionari, e l’idioma è usato nella toponomastica ed è ammesso per statuto nelle riunioni dei consigli comunali.
Tipico esempio di minoranza linguistica storica e caso eccezionale di uso prevalente della varietà eteroglotta, il tabarchino, pur protetto in base alla legge regionale 26/1997, non è riconosciuto come lingua minoritaria dalla legge 482/1999 (➔ minoranze linguistiche; ➔ legislazione linguistica). Tale assurdo è aggravato dal fatto che solo Carloforte e Calasetta risultano per tale motivo esclusi in Sardegna dalla tutela nazionale. Ciò non sembra tuttavia pregiudicare la vitalità e la tenuta del tabarchino come lingua della comunità locale: nondimeno, la differenza di trattamento istituzionale rispetto ad altri contesti minoritari, e al sardo in particolare, potrebbe alla lunga avere ripercussioni sugli equilibri linguistici di una comunità di ridotte dimensioni e priva di una ‘lingua tetto’ di riferimento.
Oppo, Anna (a cura di) (2007), Le lingue dei sardi. Una ricerca sociolinguistica, Cagliari, Riproduzione Centro stampa Regione Sardegna.
Sitzia, Paola (1998), Le comunità tabarchine della Sardegna meridionale: un’indagine sociolinguistica, Cagliari, Condaghes.
Toso, Fiorenzo (2004a), Dizionario etimologico storico tabarchino, Recco, Le Mani, vol. 1º.
Toso, Fiorenzo (2004b), Il tabarchino. Strutture, evoluzione storica, aspetti sociolinguistici, in Paciotto, Carla & Toso, Fiorenzo, Il bilinguismo tra conservazione e minaccia. Esempi e presupposti per interventi di politica linguistica e di educazione bilingue, a cura di A. Carli, Milano, Franco Angeli, pp. 21-232.