zingare, comunità
Le parlate dei diversi gruppi zingari in Italia sono riconducibili al romanes (o lingua romani, romani čhib), una lingua ben definibile storicamente e strutturalmente, ma comprendente varietà dialettali così numerose da consigliare forse di parlare piuttosto di una famiglia di lingue, anche in virtù della loro diffusione sui cinque continenti. Proprio per la difficoltà di assegnare ai popoli zingari una collocazione geografica, in passato essi venivano spesso esclusi dal novero delle minoranze; e sono tuttora lasciati fuori dalla legge 482 del 1999 sulle ➔ minoranze linguistiche italiane (➔ legislazione linguistica).
In Italia sono presenti gruppi rom e sinti, con comunità che si distinguono per tre strati di presenza e integrazione:
(a) rom e sinti storicamente attestati sul territorio (nomadi o non) prima del XX secolo (le prime presenze risalgono al XV secolo);
(b) rom e sinti affluiti, per varie cause e con varie modalità, nel XX secolo fino alla seconda guerra mondiale;
(c) rom giunti a partire dagli anni Settanta del Novecento come profughi o in seguito all’apertura di frontiere (prima dalla Jugoslavia, poi da altri paesi ex-comunisti, soprattutto Romania e Albania).
Questi ultimi sono per lo più senza cittadinanza italiana e rientrano entro certi limiti nel più ampio fenomeno migratorio che ha investito l’Italia soprattutto negli ultimi due decenni del Novecento (➔ sociolinguistica).
Non è facile definire chi e quanti siano i rom e sinti presenti in Italia oggi: le stime disponibili vanno da un minimo di 80.000 a un massimo di 200.000 persone (cfr. Liégeois 1994). In assenza di statistiche occorre esser cauti perché non sempre è riconoscibile come zingaro chi sia in possesso di una cittadinanza straniera e non lo dichiari, o chi lo sia per evidente stile di vita, o sia di origine zingara ma integrato; o ancora chi sia assimilabile ad altre nazionalità a seguito della perdita della lingua (come i rudari).
Ciò premesso gli zingari in Italia si possono classificare come segue:
(a) gruppo storico: rom dell’Italia centro-meridionale; gli unici studi linguistici moderni sono sui rom abruzzesi e sui rom calabresi, che hanno dialetti poco diversi; ci sono attestazioni di comunità simili nelle altre regioni meridionali, almeno in passato;
(b) gruppo storico: sinti piemontesi, lombardi ed emiliani;
(c) gruppo storico: sinti del Nord-Est (gačkane, estrexarja, eftavagarja, kranarja, ecc.);
(d) gruppo intermedio: rom sloveni / havati / istriani;
(e) gruppo intermedio: vlax dell’Est europeo (kalderaša, lovara, ecc.), giunti a partire dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta del Novecento;
(f) gruppo recente: rom xoraxané (musulmani, prevalentemente dalla Bosnia);
(g) gruppo recente: altri gruppi balcanici (šiftari, čergari, ecc.).
Tralasciando di ripercorrere il cammino che portò in Europa gruppi indiani che conservarono l’uso di un dialetto medio-indiano (Kenrick 1995), la prima presenza in Italia di un consistente gruppo di zingari risale al 1422 (Colocci 1889: 55 segg.; Viaggio 1997: 18 segg.). Si tratta della Grande Banda del Duca Andrea, ricordata nelle cronache di Bologna, che arrivò il 7 agosto a Forlì, dove si fermò due giorni dicendosi diretta a Roma per impetrare il perdono del papa. Tale gruppo non lasciò altre tracce di sé, ma potrebbe essere lo stesso di cui è registrato un arrivo a Parigi nel 1427 (Vaux de Foletier 1978: 58 segg.).
Per tracciare la storia di queste genti a partire da allora, occorre soprattutto rifarsi alla cronaca criminale o ai bandi che scacciano zingari e altri ‘asociali’ dai vari Stati. Col tempo le autorità in Italia, impotenti a cacciare i gruppi di rom e sinti, tendono ad allentare la tensione (in particolare nel XVIII secolo nello spirito dell’Illuminismo); tuttavia, come osserva ancora Viaggio (1997: 85), la sostanza non cambierà molto.
I dialetti della lingua romani possono così classificarsi:
(a) i dialetti dei gruppi rimasti in India (lamani, ḍom, ecc.);
(b) i dialetti dei nawar (dom) del Vicino e Medio Oriente e del Nordafrica;
(c) i dialetti dei boša armeni (lom), oggi estinti;
(d) i dialetti dei rom europei, suddivisibili in: (i) dialetti del gruppo balcanico-danubiano (due gruppi: vlax e non-vlax); (ii) dialetti del continuum sloveno-havato-istriano; (iii) dialetti sinti.
La fig. 1 rappresenta questa partizione.
Matras (2005) basa la classificazione su alcune isoglosse (➔ isoglossa) ma anche su connessioni storiche. Un primo grande confine isola il Sud-Est europeo, che a sua volta si divide in due aree a seconda della presenza di fenomeni di palatalizzazione. Gli altri dialetti (settentrionali) vengono classificati a seconda della condivisione di tratti come:
(a) s → h finale di sillaba: vas(t) → vah «mano»; kerés → čeréh «tu fai»;
(b) prestiti di verbi coi suffissi -in- ~ -isar-: rom abruzz. pinsin- ← it. pensare; kalderaš gindisar ← romeno gîndi;
(c) le forme per «questo» (kava ~ kada) e «quello» (kova ~ koda);
(d) la seconda persona singolare in -an- ~ -al (anche nel verbo «essere»: per «io sono, tu sei» si ha in sinto hom, hal, in xoraxano sem, san).
Nel XIX secolo in Italia la situazione appare delineata e stabile. I gruppi giunti dai Balcani nei primi anni della conquista turca, con le stesse ‘migrazioni’ che condussero nella nostra penisola le genti albanesi e slave, per il lungo isolamento si differenziarono rispetto all’origine, e nel Sud del Paese sono ora piuttosto omogenei fra loro e caratterizzati ormai solo da alcune connessioni coi dialetti dei Balcani. In particolare:
(a) mancano ➔ prestiti slavi e di altre lingue più settentrionali (tedesco), a esclusione di un paio nel dialetto abruzzese (tiš «tavolo» dal tedesco, e breg «montagna», che potrebbe essere serbocroato), forse dovuti a contatti più tardi;
(b) condividono con i dialetti havato-sloveni (ma con l’opposizione s ~ h) le forme del verbo «essere»: siñommë «io sono» (havato hínum), forma ignota sia ai dialetti sinti (som / hom), sia ai dialetti ‘danubiani’ (sem / sim);
(c) hanno un’evoluzione simile, con differenze regionali, dovute all’influenza dei dialetti italiani: perdita delle declinazioni nominali, una particolare evoluzione del sistema verbale, forme pronominali semplificate (cfr. Soravia 1977).
La scomparsa del romanes in Sicilia può essere dovuta ad assimilazione in un ambiente molto aperto all’assorbimento di culture diverse. Anche a Napoli l’ambiente cittadino può aver favorito nel tempo l’assimilazione linguistica.
Il Nord della penisola è interessato da una fascia di dialetti sinti testimoniata già nel XVIII secolo. La presenza di tali gruppi ha determinato una zona ‘vuota’ intermedia, che coincide anche con il confine linguistico nella divisione dei dialetti neolatini in Italia (➔ aree linguistiche; ➔ confine linguistico).
I sinti del Nord dunque potrebbero essere stati presenti in Italia per diversi secoli, soprattutto i cosiddetti sinti piemontesi, interessati a un nomadismo oltre le Alpi in terra francese, i lombardi e gli emiliani-marchigiani nella pianura padana e adiacenze, nonché i sinti del Nord-est legati piuttosto al mondo germanico e forse di più recente immigrazione (va tenuta presente l’annessione al Regno d’Italia del Veneto nel 1866 e del Trentino-Alto Adige dopo la prima guerra mondiale). I loro dialetti presentano una parziale caduta delle declinazioni e una forte presenza di prestiti germanici, ma in alcuni tratti risultano fortemente conservativi e tutt’altro che impoveriti. Soprattutto sono assai vitali nell’uso quotidiano.
Verso la fine del XIX secolo il quadro cambia e appaiono nuovi gruppi dall’Est. Si tratta di una terza componente, per altro non omogenea, essenzialmente dall’area balcanica, che può risalire agli anni Venti e Trenta del Novecento: sono gruppi danubiani (kalderaša) e rom havati (o istriani) e sloveni. Tale immigrazione è continuata e in certi casi continua ancora oggi, completata da una serie di nuove componenti dalla ex-Jugoslavia, dall’Albania, dalla Bulgaria. Lovara, čurara, ecc. prima, poi xoraxané (ma in realtà gruppi diversi, musulmani e non) dalla Bosnia e dal Sud (čergari, šiftari, ecc.).
Linguisticamente questi gruppi sono raggruppabili in tre grandi insiemi (Soravia 2009):
(a) i gruppi ‘danubiani’, che cominciarono a mettersi in moto dopo l’abolizione della servitù della gleba nei Balcani alla fine del XIX secolo (Colocci 1889: 136-146). Provengono dalla Romania, dalla Russia, dall’Ungheria, e da altri paesi. I loro dialetti sono fortemente conservativi nella struttura morfologica, in quanto mantengono l’uso delle declinazioni nominali, un complesso sistema verbale e una grammatica in generale intatta; ma presentano un lessico ricco di prestiti romeni, ungheresi e slavi. Foneticamente mostrano notevoli fenomeni di palatalizzazione (per influenza del romeno, ma anche dello slavo), del tipo:
(1) kher > čher «casa»
(2) čhib > śib «lingua»
(3) tiro > čo «tuo»
(b) alcuni gruppi di rom (havati, sloveni, istriani), le cui parlate, caratterizzate da una marcata influenza lessicale slava, presentano, accanto a un conservatorismo morfologico per le declinazioni (forse per influenza del sistema slavo), evidenti innovazioni nel verbo (uso dell’infinito; futuro diversificato dal presente, ma di forma sintetica, ecc.), e mancano dell’articolo. Rari risultano i prestiti germanici;
(c) i ‘nuovi’ rom (giunti negli ultimi venti-trent’anni), il cui dialetto è simile a quello dei rom vlax, con diversi esiti fonologici, e soprattutto con un lessico privo di prestiti romeni, ma con molti lessemi slavi.
Non è possibile né utile determinare oggi (perché troppo fluida) la distribuzione territoriale di tali gruppi: essi si trovano disseminati ovunque, e non solo in sedi ‘vacanti’ tradizionalmente non occupate da rom e sinti dei primi due tipi (Sardegna, Sicilia, Toscana, Marche settentrionali, Umbria). Questi restano tuttora nelle antiche sedi, anche se è vero che i rom abruzzesi hanno mostrato una certa intraprendenza, con emigrazioni nella zona di Roma, ancor prima della seconda guerra mondiale, e oggi nel Nord (Bologna, Milano).
I rom e i sinti danno grande importanza alla propria lingua; essa è il centro della loro identità e l’elemento dominante nel riconoscersi per quello che sono. I repertori linguistici dei rom comprendono più codici (➔ repertorio linguistico), ma sarebbe troppo facile ascrivere il fatto solo a un motivo di utilità pratica o necessità. In realtà il rapporto tra i codici usati non è indifferente, non è mai paritario. Il concetto di diglossia (➔ bilinguismo e diglossia) va usato in relazione a contesti in cui il romanes è il codice meglio conosciuto, ma solo in ambito orale e familiare, mentre lingue di uso allargato (e scritto) sono (o erano) le lingue dei gagé, i ‘non-zingari’, che in Italia si definiscono come varietà di italiano. Tutto ciò aumenta il divario e l’ambiguità del sentimento del rom nei confronti delle proprie competenze linguistiche.
Uno dei riflessi ‘neutri’ di tale situazione è la mancanza di una concezione puristica, che ha permesso di sviluppare senza remore l’uso di prestiti. Se la norma astratta di uno standard linguistico è rassicurante e garante dell’ordine sociale, e inoltre permette una comunicazione allargata, tale concezione favorisce però solo chi ne sia consapevole, e conosca lo standard. Il rom invece accetta tutte le varietà in nome della comunicazione allargata, ottenuta attraverso la conoscenza e l’uso di quante più possibili varianti. La lingua dei rom non può definirsi povera o meno complessa di una lingua ‘di cultura’, scritta e di lunga tradizione letteraria e scientifica. La ricchezza di una lingua è una questione di bisogni linguistici: crescendo questi, la lingua si adegua. I prestiti, l’utilizzo di ➔ calchi e l’uso libero di moduli derivativi favoriscono la proliferazione di ➔ sinonimi nelle parlate dei rom e sinti (Soravia & Fochi 1995):
(4) skrivin / hramosar / pišin / šrajvar / sejvar «scrivere»
(5) denkar / tinkar / mislisar / pinsin / gindisar / d-goǧi «pensare»
(6) dukh / doš / tuga / žalija / lajda / nafélë / patnija «dolore»
(7) nasvalimos / namburibé / boljka / naslapen / nasálimo «malattia»
(8) kamimós / radošti / ljubáv / kamlipén / kamipé «amore»
Tra i sedentari è meno evidente la ‘gelosia’ della propria lingua. Così tra i xoraxané sedentari la lingua si insegna senza problemi, mentre tra i sinti la ritrosia è ossessiva e rivela un vero orrore dell’ibridazione. Tra i rom abruzzesi semisedentari la lingua ricompare o come elemento di coesione del gruppo o come fattore criptico di difesa per non farsi capire.
La vitalità dei dialetti romanes parlati in Italia va ovviamente correlata alla vitalità riscontrabile più in generale per quei dialetti parlati anche fuori dai confini (sinto-piemontese in Francia e dialetti dei gruppi vlax e balcanici in varie aree anche extraeuropee).
Per i rom abruzzesi la conoscenza e l’uso della lingua si va affievolendo nelle nuove generazioni. In passato nelle scuole si sono fatti tentativi di valorizzazione, ma in generale oggi sono meno in atto sperimentazioni di tale tipo.
Quanto ai rom calabresi, si può ritenere che la lingua sia estinta e comunque non più in uso da parte delle giovani generazioni, benché la Regione Calabria abbia tentato di tutelarne l’esistenza con una legge apposita.
I sinti piemontesi sono stati oggetto di studio e la lingua è ancora abbastanza viva; ciò non vale per i sinti lombardi ed emiliani che tendono a non trasmettere alle giovani generazioni l’uso della loro lingua.
Diversa la situazione per i sinti del Nord-Est (estrexarja, eftavagarja, ecc.) dove l’uso della lingua, molto esclusivo e gelosamente protetto dagli estranei, sembra vitale. Quanto ai rom havati (o istriani) e sloveni, sparpagliati in varie zone prevalentemente tra Veneto e Lombardia, la lingua non sembra in pericolo di estinzione ed è di uso comune e tramandata alle giovani generazioni.
Le parlate vlax (lovara, kalderaš, ecc.) e xoraxané sono molto vitali, anche in rapporto alla loro ‘internazionalizzazione’.
In generale non esiste una politica in Italia che favorisca concretamente l’uso delle lingue zingare, anche se alcune legislazioni regionali parlano di tutela delle lingue minoritarie facendo riferimento anche al romanes. Pochi gli strumenti per lo studio e pochi i sussidi didattici. Quasi nulli gli spazi nei media.
I vari dialetti elencati sopra sono documentati in modo sommario e in genere insufficiente, a eccezione dei dialetti vlax e xoraxané. Esiste una vasta bibliografia non italiana per le varietà parlate in vari paesi: per es., il kalderaš è ben descritto in Svezia, nei paesi dell’Est europeo, nelle Americhe, ecc., in cui esistono anche traduzioni bibliche, sussidi scolastici, raccolte di racconti, discografia; e l’idioma è parlato da diversi milioni di persone.
Solo da pochi anni si trovano rom e sinti che scrivono. Grammatiche e dizionari, e/o studi sulla lingua, trascrizioni di testi, ecc., erano appannaggio di studiosi gagé, non zingari. Ora esistono lavori pubblicati da zingari anche in Italia. Più in particolare si tratta di raccolte di poesie o di racconti. Come produzione letteraria moderna tuttavia va ricordato che Matéo Maximoff, forse il più noto romanziere rom, scriveva in francese o in tedesco.
Tra i nuovi giovani scrittori, per l’Italia, va segnalato il caso di Bruno Morelli che ha scritto un bel lavoro sulla lingua e tradizioni dei rom abruzzesi, con molti testi in lingua originale e traduzione (cfr. Morelli & Soravia 1998). È un caso pressoché unico, se si eccettuano alcune raccolte di poesie. Sta tuttavia nascendo un movimento di intellettuali rom e sinti che sempre più cerca di risolvere i problemi connessi con il passaggio a una cultura scritta; il che pone in primo piano i problemi della mancanza di una ortografia unificata e della scelta del dialetto da usare.
Di tutto ciò si trova puntualmente riflessa la storia, anche oltre la situazione italiana, nelle 35 annate di «Lacio Drom», la rivista del Centro Studi Zingari di Roma (chiuso nel 2000), che è doveroso ricordare per validità e ricchezza di documentazione.
Colocci, Adriano (1889), Gli Zingari. Storia di un popolo errante, Torino, Loescher (rist. anast. Bologna, Forni, 1971).
Kenrick, Donald (1995), Zingari. Dall’India al Mediterraneo. La migrazione degli zingari, Roma, Anicia.
Liégeois, Jean-Pierre (a cura di) (1994), Roma, Tsiganes, voyageurs, Strasbourg, Éd. du Conseil de l’Europe (trad. it. Rom, Sinti, Kalé ... Zingari e viaggianti in Europa, Roma, Lacio Drom, 1995).
Matras, Yaron (2005), The classification of Romani dialects: a geographic-historical perspective, in General and applied Romani linguistics. Proceedings from the 6th international conference on Romani linguistics, edited by B. Schrammel, D.W. Halwachs & G. Ambrosch (Graz, September 12-14, 2002), München, Lincom Europa, pp. 7-22.
Morelli, Bruno & Soravia, Giulio (1998), I Pativ Mengr. La lingua e le tradizioni dei Rom abruzzesi, Roma, Centro Studi Zingari.
Soravia, Giulio (1977), Dialetti degli zingari italiani, in Profilo dei dialetti italiani, a cura di M. Cortelazzo, [poi] di A. Zamboni, Pisa, Pacini, 23 voll., vol. 22º.
Soravia, Giulio (2009), Manuale di lingua romani, Bologna, Bonomo.
Soravia, Giulio & Fochi, Camillo (1995), Vocabolario sinottico delle lingue zingare parlate in Italia, Roma, Centro Studi Zingari - Istituto di glottologia.
Vaux de Foletier, François de (1978), Mille anni di storia degli Zingari, Milano, Jaca Book (ed. orig. Mille ans d’histoire des Tsiganes, Paris, Fayard, 1970).
Viaggio, Giorgio (1997), Storia degli Zingari in Italia, Roma, Anicia.