Comunità
Il problema della c., nei suoi fondamenti teorici, è venuto assumendo nuova importanza, in rapporto sia alla crisi del tradizionale concetto di Stato, sia ai processi di globalizzazione. Come notava Z. Bauman, "oggi la comunità è considerata e ricercata come un riparo dalle maree montanti della turbolenza globale, maree originate di norma in luoghi remoti che nessuna località può controllare in prima persona" (2001, p. 138).
Gli esiti relativi alla tematica della c. saranno prospettati secondo tre esemplificative linee di pensiero: dal 'comunitarismo' anglo-americano, all'etica del discorso, all'ontologia della comunità decostruita.
Un rapido richiamo etimologico può essere utile per giustificare l'eterogenesi delle diverse linee di pensiero indicate.
L'espressione comunità può essere ricondotta a communitas e quindi a koinonia. Nel termine koinonia denotazione e connotazione convergono nel significare una unione (koinè), ove il singolo non ha un'esistenza indipendente dal tutto che la c. rappresenta, il suo destino è definito all'interno dello spazio di possibilità perimetrato dalla c. di appartenenza. La parola communitas, invece, può avere un significato divergente rispetto a koinonia se si tematizza in maniera radicale il connotato di munus nel suo collegamento a cum. Se, infatti, è il munus a unire, il significato della c. non starà tanto nell'appartenenza identitaria, quanto piuttosto nella reciprocità dell'obbligo donativo; la relazione comunitaria, dunque, è un 'dare-darsi'. Lo stesso cum viene ripensato non più come preposizione congiuntiva, semanticamente legata a koinon, quanto piuttosto come traccia dell'essere simultaneo 'fuori' delle singole ek-sistenze.
Non va infine dimenticato che, nel contesto linguistico euroamericano qui preso in considerazione, il termine tedesco Gemeinschaft si allontana dalla radice greca o latina: in Ge-mein-schaft è proprio il 'mio' a fare da radice tra il prefisso ge- (che qui ha valore collettivo) e il suffisso -schaft (che assolve funzione astrattiva e indica l'appartenenza alla stessa categoria o alla totalità).
Comunità: identità e appartenenza
L'interesse per la c., come nozione diversa da società o associazione, ha assunto rilevanza nel pensiero occidentale alla fine del 20° sec., soprattutto nell'ambito della filosofia morale e politica anglo-americana emancipatasi dalle istanze analitiche del non-cognitivismo etico. In questo ambito il pensiero della c. si è rapportato criticamente nei confronti di due pilastri della 'cultura politica' caratteristica di tale spazio culturale: l'utilitarismo e il liberalismo. Mentre il primo opererebbe con un concetto falso e inadeguato del bene, il secondo si disinteresserebbe del bene, abbandonandolo alle preferenze dei singoli e ipostatizzando la priorità del giusto: alla filosofia morale, così, sarebbe sottratto il suo oggetto più specifico (il bene) in vista di una nozione essenzialmente 'procedurale' e perciò formale del giusto (il formalismo, infatti, è l'ulteriore obiettivo critico di questo pensiero della c.). Il 'comunitarismo' condivide in parte la critica liberale all'utilitarismo, soprattutto nella forma che a essa ha dato J. Rawls. Agli occhi di Rawls - per il quale la premessa di ogni bene conseguibile individualmente o collettivamente è la giustizia come equità a fondamento di una società ben ordinata - l'utilitarismo, oltre a essere viziato di teleologismo, non riesce a dar conto della pluralità delle persone. Il modello di 'osservatore imparziale' dell'utilitarismo è l'individuo 'razionale', capace di una totale identificazione con i desideri altrui, che confida in un legislatore operante come imprenditore o come consumatore (rispettivamente, per massimizzare il profitto o la soddisfazione). Pertanto "la decisione corretta è essenzialmente una questione di amministrazione efficiente. Questa visione della cooperazione sociale è la conseguenza dell'estensione alla società del principio di scelta per un solo uomo, e successivamente della messa in opera di questa estensione, che comprime tutti gli individui in uno solo mediante gli atti immaginativi dell'osservatore imparziale simpatetico. L'utilitarismo non prende sul serio la distinzione tra persone" (Rawls 1971; trad. it. 1982, p. 40). Tuttavia, obietta M.J. Sandel, "se gli utilitaristi non riescono a prendere sul serio la nostra distinzione, la giustizia come equità non riesce a prendere sul serio la nostra appartenenza a una comunità" (Sandel 1982; trad. it. 1994, p. 190). E, soprattutto, una società può anche essere 'ben ordinata' senza essere c.: "Perché una società sia una comunità in [...] senso forte, la comunità deve essere costitutiva della comprensione di sé condivisa da parte dei partecipanti e incorporata nei loro accordi istituzionali, e non semplicemente di un attributo di alcuni di coloro che partecipano ai suoi piani di vita" (p. 190). Secondo C. Taylor l'obiettivo dell'utilitarismo è proprio quello di svuotare e respingere tutte le distinzioni qualitative "e di costruire tutti i progetti umani sullo stesso fondamento, rendendoli in tal modo suscettibili di una quantificazione e di un calcolo comuni sulla base di una 'moneta' comune" (Taylor 1989; trad. it. 1993, p. 38): tale comunanza, come quella dell'individualismo liberale, è solo frutto di artificio e di astrazione.
Il problema che diventa centrale, invece, è la posizione effettiva, concreta dell'io nei confronti dei propri fini (progetti, affetti, preferenze ecc.): l'io, secondo questo pensiero della c., non è indipendente e presupposto ai fini che si propone, bensì è costituito e, se si vuole, limitato dai suoi fini tanto da essere difficilmente distinguibile da essi. Tale problema interessa, in modo particolare, Sandel, il quale vede la posizione dell'io pericolosamente oscillante tra la totale indipendenza dai fini (i limiti sono assolutamente presupposti) e l'altrettanto totale indifferenziazione rispetto a essi (i limiti sono dissolti); queste due eventualità (teoriche) rappresentano due tipi corrispondenti di 'espropriazione' o 'spodestamento': nel primo caso il 'rimedio' è rappresentato dalla volontà, nel secondo dalla conoscenza (Sandel 1982; trad. it. 1994, pp. 70-71). Perciò Sandel conclude: "Per l'io la cui identità è costituita alla luce dei fini che sono già davanti a lui, la forza non sta tanto nel fare appello alla volontà quanto nel cercare la comprensione di sé. La questione rilevante non è quali fini scegliere, perché il problema che mi pongo è precisamente che la risposta a questa domanda è già stata data, quanto piuttosto chi sono, come faccio a distinguere in questo ammasso di fini possibili che cosa sono io da che cosa è mio. Qui, i limiti dell'io non sono pertinenze ma possibilità, i loro contorni non sono più evidenti di per sé, ma ancora da formare almeno in parte. Renderli chiari, e definire i limiti della mia identità è tutt'uno" (p. 72).
Il problema, dunque, non è deontologico (che cosa devo fare?) ma ontologico (chi sono?); non è costituito dalle condizioni necessarie a mettere in opera una prestazione di volontà per scegliere (tra i diversi possibili fini che l'io si può proporre) o per rivedere i progetti di vita, ma dalle condizioni necessarie a renderci consapevoli di 'dove' e 'cosa' siamo. Per Taylor, infatti, l'io è determinato 'spazialmente' (nel senso dell'orientamento all'interno di orizzonti di senso) dai "quadri di riferimento" (ossia distinzioni qualitative 'forti') al bene che "costituiscono lo sfondo esplicito o implicito dei nostri giudizi, delle nostre intuizioni e delle nostre reazioni" (Taylor 1989; trad. it. 1993, p. 42). Una distinzione importante in Taylor è quella tra 'beni convergenti' e 'beni condivisi' (shared): dove i primi lasciano i singoli nella loro individualità, i secondi, invece, hanno effetti fusionali (per es., la conversazione, l'amicizia ecc.) perché ricercati e coltivati come 'noi' (il 'noi' è il terreno comune a partire dal quale l'io si identifica). Di rilievo, poi, è la sua concezione degli 'iperbeni', "beni di livello superiore [...] che, oltre a essere incomparabilmente più importanti degli altri, rappresentano il punto di vista a partire dal quale gli altri beni vanno valutati, giudicati e scelti" (Taylor 1989; trad. it. 1993, p. 89). Questi sono 'beni' capaci di gerarchizzare (attraverso una valutazione di secondo grado) il complesso dei beni in vista dei quali si organizza il progetto di vita degli uomini; ma, accanto a questa funzione, gli iperbeni ne hanno un'altra, storicamente documentabile, che è quella di porre in crisi beni e valori preesistenti, e pertanto sono atti a fondare prospettive etiche 'intrinsecamente' conflittuali. Da quest'ultimo punto di vista gli iperbeni si dimostrerebbero anche fonte di "dilemmi morali spesso laceranti" (p. 93).
L'io, dunque, in rapporto ai suoi fini, ai suoi piani di vita, alle sue concezioni del bene non sceglie, si scopre e, nello scoprirsi, si sa radicato e situato in uno "spazio comune" indisponibile e indipendente dalla sua capacità di trovarvi la propria collocazione. In tal senso alla c. è ascritta, da Sandel, una 'funzione costitutiva': "la comunità indica non solo ciò che [i membri di una società] hanno come concittadini ma anche ciò che essi sono, non una relazione che scelgono (come in un'associazione volontaria) ma un attaccamento che scoprono […] Potremmo definire questa concezione forte come una concezione costitutiva" (Sandel 1982; trad. it. 1994, p. 166).
Ontologia, consapevolezza e scoperta di sé sono i diversi modi di designare il problema dell'identità: "La mia identità è definita dagli impegni e dalle identificazioni che costituiscono il quadro o l'orizzonte entro il quale posso cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono o apprezzabile, che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere" (Taylor 1989; trad. it. 1993, p. 43). Lo spazio comune in cui l'identità è destinata a trovarsi è linguaggio: l'io, per Taylor, esiste soltanto all'interno di "reti di interlocuzione" che implicano un riferimento a una c. di interlocutori. La vita dell'io è sempre già un 'noi': è 'conversazione', nel senso più originario del termine, e "la definizione completa dell'identità di una persona, quindi, di solito comprende non solo la sua posizione sulle questioni morali o spirituali, ma anche un riferimento a una comunità" (p. 41). Se la conversazione è la vera posizione originaria al cui interno l'io scopre la propria identità, la 'narrazione' diventa la condizione di persistenza della stessa identità nel tempo della vita, l'unità dell'io, scrive A. MacIntyre, "risiede nell'unità di una narrazione che collega la nascita alla vita e alla morte" (MacIntyre 1981, 19842; trad. it. 1988, p. 246). Dalla "visione narrativa" dell'io deriva, secondo MacIntyre, che "la storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quella comunità da cui traggo la mia identità" (p. 264). La 'catastrofe' del moderno (che ha sconvolto il linguaggio della morale), introducendo la netta separazione tra 'fatto' e 'valore', tra 'essere' e 'dovere', ha fatto perdere il radicamento del concetto di uomo all'interno delle forme di vita sociale, nelle quali esso si manifesta come concetto funzionale fondamentale degli argomenti morali, capaci di orientare, come asserzioni empiriche, le azioni e la vita verso il 'buono'. Nella tradizione della filosofia morale premoderna, prima dell'adozione acritica del principio della cosiddetta fallacia naturalistica, l'uso del termine 'buono' ha di mira la funzione specifica di una cosa o di un'azione all'interno di un contesto ordinato teleologicamente. "Perciò definire buono qualcosa è fare un'asserzione empirica. All'interno di questa tradizione le asserzioni morali e assiologiche possono essere vere o false esattamente come tutte le asserzioni empiriche. Ma una volta che il concetto di funzioni o scopi umani essenziali scompare dalla morale, comincia a sembrare poco plausibile considerare i giudizi morali come asserzioni empiriche" (p. 79). Questo processo di defunzionalizzazione dell'uomo con la relativa perdita di riferimento alla 'vita buona' è la premessa necessaria alla 'invenzione' dell'individuo. L'individualismo e l'emotivismo moderni producono le due 'finzioni morali' dell'etica dei diritti umani o naturali e dell'utilità: la prima è finzione perché universalizza ed eternizza quanto è irrintracciabile nella storia occidentale premoderna e nelle storie non occidentali, la seconda lo è perché vorrebbe ridurre l'eterogeneità indomabile dei desideri umani a una somma che li rappresenti tutti.
Anche quando questo pensiero della c., come nel caso di Sandel, è ricavato soprattutto da una critica serrata al liberalismo (come concezione indifferente al bene e ai valori costitutivi dell'identità e della c.) - di cui Rawls (e, per alcuni aspetti, R. Dworkin) rappresenta l'applicazione più consona al contemporaneo - tale critica è inseparabile dal recupero più o meno esplicito dell'etica aristotelica. E tale recupero avviene tanto a livello di critica dell'approccio epistemologico alla sfera morale - attraverso la rivendicazione della specificità e peculiarità del ragionamento pratico come deliberazione-azione basata su un giudizio coinvolgente l'esperienza del proprio io - quanto a livello ontologico, dove la comunità del linguaggio valutativo (il riferimento al bene come ciò che ci accomuna) viene compresa come radice dell'identità personale. La vita buona non è soltanto il fine di una vita felice, ma costituisce anche il riferimento fondamentale per la definizione di uomo nella sua specificità.
Nei confronti dello Stato, in particolare, il pensiero comunitarista oscilla tra accettazione e sospetto. Accettazione, là dove lo Stato sia in grado di proporsi (al di là delle c. face to face, delle c. parziali, delle nazioni ecc.) esso stesso come c. fusa attorno al 'bene comune'; sospetto, invece, allorché lo Stato si configuri come strumento burocratizzato e neutrale (rispetto alla vita buona dei cittadini) di procedure di giustizia formale o di massimizzazione di utilità, nonché di problematiche (per i comunitaristi) libere scelte individuali o di dispotismo omologatore del naturale pluralismo delle c. e tutore di singoli atomizzati. Repubblicanesimo democratico (armonicistico) e patriottismo secondo MacIntyre, sono la dottrina e la virtù necessarie all'inclusione dello Stato nel novero delle comunità.
La visione comunitarista della c. presenta, dunque, una componente cognitivista forte, anzi primaria, del bene, e pertanto dell'etica, che impone il rigetto di ogni concezione naturalistica della morale, nonché il rifiuto della indeducibilità dei valori dai fatti. A tal proposito si potrebbe argomentare che il rimprovero riassunto nella formula humiana "fallacia naturalistica" sia esso stesso viziato di naturalismo perché inapplicabile al mondo dei valori, così come l'antropocentrismo, essenziale a questo mondo, non si adatta a quello delle scienze naturali. La sfera dell'essere e quella del dovere nella vita umana appaiono collegate in un orizzonte onto-teleologico all'interno del quale la relazione tra l'io e il bene è ridefinita in termini di 'funzione' (MacIntyre 1981, 19842; trad. it. 1988). La radicale problematizzazione della priorità del giusto sul bene ha, inoltre, una doppia funzione: il rifiuto tanto del convenzionalismo (la c. non si stipula) quanto dell'individualismo (l'identità di ciascuno è immersa e radicata in, nonché condizionata da, una c. costitutiva di valori, di senso, di strumenti e prestazioni di tipo semiotico e affettivo).
La critica più frequentemente avanzata all'ideologia comunitarista è quella di aver fatto compiere un passo indietro alla filosofia morale e politica riconducendola verso l'organicismo irrazionalista, di proporre un rifiuto reazionario della modernità e dei suoi valori individualisti e liberali, di privilegiare le appartenenze e i particolarismi conflittuali all'etica universale e pacificatrice della tradizione razionalistica occidentale (Pazé 2002). L'ultimo rilievo, in particolare, pone in evidenza il pericolo di convertire il 'multiculturalismo', necessario all'epoca della globalizzazione, in 'multicomunitarismo'; dove la comunità diventa una 'trincea fortificata' contro tutti i 'diversi' (Bauman 2001).
Comunità e comunicazione
Con la 'svolta linguistica' della filosofia - caratterizzante gli esiti più innovativi del pensiero occidentale del 20° sec., da M. Heidegger a L. Wittgenstein a Ch.S. Peirce a H.G. Gadamer - la c., nel pensiero che a tale svolta si ricollega, appare costituita non più di soli corpi ma soprattutto di voci linguisticamente articolate; non caratterizzata dall'organicità, ma dalla comunicazione; non fusa nella sim-patia e nell'identità, ma costituita sulle leggi dell'argomentazione; non coesa attorno a beni e forme di vita, ma ordinata in base alla giustizia. Ogni tentazione irrazionalistica o decisionistica appare fugata proprio perché l'argomentazione ripristina nella c. la funzione normativa della ragione che il contratto, con i suoi connotati convenzionalistici e fattualistici, non riesce più a sostenere. L'appartenenza alla c., stabilita dalla partecipazione a tale razionalità, si configura in senso universalistico, essendo la razionalità propria di ogni discorso argomentativo. Pertanto, la c. si presenta come c. dei parlanti, condivisione di un logos senza barbarie. L'etica della comunicazione o del discorso che ripropone la c. (della comunicazione) come a priori, al pari della visione dei comunitaristi, appare, dunque, come cognitivistica e postconvenzionalistica, ma, a differenza di quella e nel solco della tradizione kantiana, si presenta al contempo come formalistica e universalistica, indifferente, perciò, ai beni, pur fondamentali per le diverse forme di vita, nessuna delle quali, tuttavia, può essere privilegiata o emarginata. Problema non marginale di tale etica resta quello del suo costitutivo connotato deontologico (indifferenza alla felicità come finalità di una vita buona) che renderebbe difficile, nella sua assoluta purezza da ogni contenuto o valore materiale, una macroetica all'altezza delle responsabilità globali dell'uomo nell'epoca postconvenzionalistica. Per macroetica si deve intendere un'etica non limitata al microambito (famiglia, matrimonio, vicinato) né al mesoambito (nazione, Stato e politiche connesse), ma estesa al macroambito del pianeta, la cui finitezza e vulnerabilità, rivelatesi nel compimento della modernità, impongono contenuti prescrittivi relativamente agli scopi e alle conseguenze (anche secondarie) delle azioni.
Nel pensiero di K.O. Apel un ruolo centrale gioca la critica al solipsismo o individualismo metodico (come si sarebbe sviluppato nella filosofia moderna da Cartesio a E. Husserl). Tale espressione stigmatizza la visione dicotomica tra la realtà costitutivamente sociale dell'uomo e la sua presunta essenza di soggetto pensante e conoscente, dove la prima viene deproblematizzata come mero dato empirico e completamente risolta, o astratta, nella soggettività autonoma dell'io autocosciente. Apel vuole rettificare la 'filosofia della coscienza' con l'ausilio del linguistic turn: il linguaggio in uso dentro una c. diventa, così, la necessaria condizione di possibilità di ogni conoscenza valida. Pertanto, la validità della formazione del giudizio e della volontà non può essere più compresa come prestazione costitutiva della coscienza individuale, ma soltanto sul presupposto trascendentale logico di una c. della comunicazione. "'Uno da solo' non può 'seguire una regola' (Wittgenstein), dunque 'pensare'; nel far questo si deve necessariamente presupporre o Dio o 'il gioco linguistico trascendentale'" (Apel 1973; trad. it. 1977, p. 234). L'essere-conoscente dell'uomo, secondo Apel, è essenzialmente co-soggetto, da sempre coinvolto nella ricerca di un consenso soltanto co-operativamente conseguibile: ciò che tale essere anticipa, pertanto, non è una semplice c. di parlanti, bensì una c. del discorso argomentativo che presuppone la validità universale delle sue regole. È impossibile, perciò, pensare e decidere in maniera significativa (dotata di un senso condivisibile) senza riconoscere, almeno implicitamente, le regole dell'argomentazione come le regole, appunto, di una c. della comunicazione.
La c. degli scienziati e dei filosofi, dunque, è soltanto pars pro toto. L'autosacrificio dell'egoismo dell'individuo, che Peirce considerava necessario perché, in una sorta di 'socialismo scientifico', la verità poteva e doveva appartenere all'intera c. degli scienziati, assume per Apel una portata generale: essa riguarda la c. potenzialmente universale degli argomentanti: "i membri della comunità della comunicazione ([...] tutti gli esseri pensanti) sono, a mio avviso, obbligati anche a tener conto di tutte le pretese virtuali di tutti i membri virtuali - vale a dire di tutti i 'bisogni' umani in quanto essi potrebbero porre pretese al prossimo" (Apel 1973; trad. it. 1977, pp. 259-60).
La c. 'presupposta' dall'etica del discorso è, tuttavia, una c. ideale in "contraddizione dialettica", sostiene Apel, con quella reale in cui ciascun argomentante è di fatto inserito. Da tale contraddizione si determina la teleologia che contenutizza, in senso universalistico, il formalismo deontologico (in sé universale) della stessa etica, come responsabilità di ciascuno in vista di un bene ultimo: "in primo luogo, ciò che deve essere in questione in ogni agire è l'assicurazione della sopravvivenza del genere umano come sopravvivenza della comunità reale della comunicazione; in secondo luogo, è in questione la realizzazione della comunità ideale della comunicazione entro quella reale. La prima meta è la condizione necessaria della seconda; e la seconda dà alla prima il suo senso [...]. In altre parole, la strategia della sopravvivenza riceve il suo significato attraverso una strategia a lungo termine dell'emancipazione" (p. 265).
L'etica del discorso, di cui Apel è il filosofo più cospicuo, incontra, a partire dai primi anni Settanta del 20° sec., un partner di rilievo in J. Habermas. Già a partire da Wahrheitstheorien (1973) fino a Theorie des kommunikativen Handelns (1981), egli prende posizione contro il non-cognitivismo con la tesi della 'capacità di verità' delle questioni pratiche che, pertanto, risultano suscettibili di decisione razionale, sfuggendo tuttavia agli 'errori' generati dai tentativi ontologici e naturalistici di ridurre pretese di giustezza a pretese di verità. Ferme restando le differenze inaggirabili fra la logica del discorso teoretico e quella del discorso pratico, esse non autorizzano, per Habermas, l'esclusione di quest'ultima dall'ambito della razionalità: le questioni pratiche possono venir decise 'a ragione' dalla coazione del miglior argomento e il risultato di un discorso pratico può venire motivato razionalmente come prodotto di una 'volontà razionale' (critica al decisionismo irrazionalistico) e luogo di un consenso fondato e giustificato. Ciò che accomuna la posizione di Habermas a quella di Apel è la convinzione di poter conseguire, attraverso l'etica del discorso, "il tentativo di riformulare la teoria morale kantiana, in relazione alla questione della fondazione delle norme, attraverso le categorie della teoria della comunicazione" (Habermas 1986; trad. it. 1990, p. 59).
Tale etica, a carattere deontologico, cognitivistico, formalistico e universalistico, si basa, per Habermas, su quattro pretese di validità del discorso stesso: comprensibilità (correttezza delle espressioni simboliche), verità (del contenuto preposizionale o dei suoi presupposti), veridicità (sincerità degli intendimenti espressi), esattezza (Richtigkeit o giustezza normativa dell'atto linguistico eseguito), pretese che, pur convalidando 'presupposti' e 'risultati' della comunicazione, non ne costituiscono, tuttavia, la base trascendentale, bensì si presentano come condizioni aprioristiche e inevitabili di una comunicazione finalizzata all'intesa. Tale etica si basa inoltre sul procedimento dell'argomentazione morale fondata sul principio "che possono pretendere validità solo quelle norme che potrebbero trovare il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti ad un discorso pratico" che, da un lato, sostituisce proceduralmente l'imperativo ipotetico, e, dall'altro, lo abbassa normativamente a principio di universalizzazione, che assume il ruolo di una regola dell'argomentazione nei discorsi pratici. Secondo tale principio "nelle norme valide devono poter essere accettati senza costrizione, da parte di tutti, i risultati e le conseguenze secondarie che derivano da una loro universale osservanza per il soddisfacimento degli interessi di ciascuno" (Habermas 1983; trad. it. 1985, p. 49).
Ciò che invece differenzia Habermas da Apel è, soprattutto, la rinuncia a ogni pretesa di fondazione ultima dei discorsi tanto teoretici quanto pratici. Lo stesso principio di universalizzazione viene fondato "attraverso due passi": dapprima, lo si fonda come regola, partendo dal contenuto dei presupposti pragmatici dell'argomentazione in genere, in rapporto con l'esplicazione del senso delle rivendicazioni normative di validità; successivamente, per provarne la validità universale che oltrepassa la prospettiva di una determinata civiltà, lo si fonda "sulla dimostrazione trascendental-pragmatica dei presupposti universali e necessari dell'argomentazione. Ma a questi argomenti non si può più attribuire il significato aprioristico di una deduzione trascendentale [...] essi fondano semplicemente il fatto che non esistono alternative possibili al 'nostro' tipo di argomentazioni. Pertanto anche l'etica del discorso [...] si fonda semplicemente su ricostruzioni ipotetiche ex post, per le quali dobbiamo cercare conferme plausibili" (Habermas 1983; trad. it. 1985, p. 49, pp. 123-24).
Essere comunità. - Un ruolo diverso gioca la c. nel pensiero della fine della razionalità operativa e della filosofia, dove 'fine' non significa cessazione o estinzione, bensì indica l'occasione di pensare, nel congedo dell'epoca (nel tempo non puntuale della fine), lo spazio che, non indagato, è involontariamente indicato e disegnato dai loro confini. Tale posizione appare di notevole apertura su tutto l'impensato della razionalità e del discorso filosofico. In questa prospettiva la c., pensata dopo l'umanesimo e al di là dell'umano, è intesa come ciò che riguarda costitutivamente l'esistenza (prima e al di là del logocentrismo), e non soltanto l'essere-uomo legato al fondamento metafisico della soggettività cosciente, autonoma e assoluta.
Secondo J.-L. Nancy la c. deve essere pensata come il problema cruciale dell'ontologia, in particolare deve essere pensato fino in fondo il 'con'. Tale prefisso indicherebbe l'essenza dell'essere in quanto co-esistenza; l'essere è essere-con, ma non nel senso che il 'con' si aggiunge all'essere, quanto, piuttosto, "nell'essere-con è il 'con' a fare l'essere", senza aggiungersi a esso perché il 'con' è "al cuore dell'essere"; il 'con' indica che il cuore dell'essere è rapporto e non assoluto, e che l'esistenza è 'insieme' (Nancy 1996; trad. it. 2001). L'espressione 'insieme', nella sua funzione avverbiale che indica la modalità del verbo, non va intesa come un insieme collettivo né fusionale, ma soltanto come un insieme temporale; 'insieme' è la simultaneità che espone l'essere-insieme, non l'essere come insieme. Tale simultaneità è, inoltre, la simultaneità dell'aver-luogo nello spazio, partagé, del ritrarsi dell'essere: è "la distinzione dei luoghi presi insieme" (p. 85). Se 'insieme' è "struttura assolutamente originaria", il partagé (con una semantica che va dal dividere, spartire, al fare e prendere parte) è modalità fondamentale dell'esistenza che determina il rapporto come 'fra' che singolarizza, senza individuare né accomunare (nel senso delle fusioni olistiche o delle collazioni insiemistiche). La singolarità, dunque, finita nella sua esposizione e in comparizione, lascia pensare la c. proprio in virtù della 'comunicazione', se intesa non come un metter-fuori volontaristico del 'soggetto', ma come esser-comunicante in quanto fuori-di-sé', ossia predicamento trascendentale dell'essere. La singolarità, pertanto, non va confusa con l'individuo, perché "come individuo sono chiuso ad ogni comunità, e non sarebbe eccessivo dire che l'individuo [...] è infinito. Il suo limite, in fondo, non lo concerne - lo circonda soltanto [...]. L'individuazione stacca entità chiuse da un fondo informe" (Nancy 19902; trad. it. 19952, p. 64): l'individuo è 'opera' come la comunità impossibile.
Sulla base di tali premesse si deve leggere l'affermazione di Nancy secondo la quale la c. andrebbe pensata come "l'essere estatico dell'essere stesso" (p. 28). Più precisamente estasi e c. sono ciascuna il 'luogo' dell'altra, secondo quella che Nancy chiama una 'topologia atopica': la 'arealità' di una c., ossia la sua perimetrazione come area e spazio formato, non è localizzazione territoriale ma arealità di un'estasi; mentre la forma di un'estasi (la festa, l'orgia, la rivoluzione, gli amanti) è quella di una comunità.
L'Occidente è la nostalgia di una c. che non c'è mai stata e, in esso, la modernità è il progetto di una c. impossibile; di ciò il comunismo è la testimonianza estrema. Se si vuole 'fare opera' della c. si produce la c. di morti. "Comunità: né opera da produrre, né comunione perduta, ma lo spazio stesso, e lo spaziamento dell'esperienza del fuori, del fuori-di sé", e ciò perché "la comunità non può appartenere alla sfera dell'opera. Non la si produce, se ne fa l'esperienza (o meglio l'esperienza di essa ci fa) come esperienza della finitezza" (Nancy 19902; trad. it. 19952, p. 49). Essa sempre e da sempre è "al di qua o al di là dell'opera, ciò che si ritrae dall'opera, ciò che non ha più a che fare né con la produzione né con il compimento, ma incontra l'interruzione, la frammentazione, la sospensione. La comunità è fatta delldelle singolarità e della sospensione che gli esseri singolari sono" (p. 71). La c., infine, non è neanche 'degli uomini' a esclusione di altri esistenti. La c. désceuvrée, che, per Nancy, è quella, ancora impensata, dell'esistenza, dunque, non è né perduta né deve venire, essa è, piuttosto, "ciò che ci accade [...] a partire dalla società", intesa proprio come Gesellschaft. Essa "ci è data con l'essere e come l'essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile […] La comunità ci è data - o noi siamo dati e abbandonati secondo la comunità: non è un'opera da fare, ma un dono da rinnovare, da comunicare" (pp. 78-79).
La donatività come stigma della c. trova un ascolto particolarmente attento nei contributi al tema di R. Esposito. A suo avviso, infatti, l'attuale inadeguatezza di tutti i paradigmi interpretativi della c. (dalla sociologia tönniesiana e, anche, weberiana, al neocomunitarismo nordamericano, alle etiche della comunicazione) risiede nell'aver sovrapposto alla semantica della c. quelle della soggettività, della sostanza, della proprietà, dell'appartenenza e, perciò, nell'aver assunto c. e nichilismo come termini irriducibilmente opposti, lasciando in tal modo impensata la comunità (Esposito 1998). "Tutte queste concezioni sono unite dal presupposto irriflesso che la comunità sia una 'proprietà' dei soggetti che accomuna: un attributo, una determinazione, un predicato che li qualifica come appartenenti a uno stesso insieme. O anche una 'sostanza' prodotta dalla loro unione. In ogni caso essa è concepita come una qualità che si aggiunge alla loro natura di soggetti, facendone soggetti anche di comunità" (Esposito 1998, p. x).
Un'aporia, pertanto, inficerebbe tutte le definizioni che ancorano la c. a una semantica del proprium, della proprietà, sia pure collettiva: ciò che è comune, ossia, secondo Esposito, 'improprio', 'non privato', 'non particolare', viene pensato soltanto a partire dal suo opposto speculare, il proprio. "Che ci si debba appropriare del nostro comune (per comunismi e comunitarismi), o comunicare il nostro proprio (per le etiche comunicative), il prodotto non cambia: la comunità resta legata a doppio filo alla semantica del proprium [...] è comune ciò che unisce in un'unica identità la proprietà - etnica, territoriale, spirituale - di ciascuno dei suoi membri. Essi hanno in comune il loro proprio; sono i proprietari del loro comune" (pp. xi-xii). Procedendo in tal modo si opera, a giudizio di Esposito, una significativa riduzione della complessità semantica di communitas, mettendo in ombra la derivazione etimologica del lemma, oltre che dal prefisso cum-, dal sostantivo munus, il cui valore di fondo rinvia al significato di dovere, di debito, di doverosità, più intensa perché non biunivoca, non sinallagmatica, ma interamente fondata sulla gratitudine verso qualcuno e risolta nell'atto transitivo del dare. La semantica del munus coincide con quella della perdita, dello spossessamento, della depropriazione; ma essa si rivela, ancor più radicalmente, una semantica della relazione o, meglio, della compensazione, della restituzione, tra l'obbligato (il munis) e il destinatario della riconoscenza. È dunque il munus, ossia un dovuto, una cessione, una privazione, a 'correlare' in un rapporto comunitario che assume la forma della donazione reciproca. Ne consegue, in Esposito come peraltro in S. Weil, che la c. è sempre 'impropria', nel senso che essa è c. di debiti e di obbligati, non di diritti soggettivi e di persone titolari di diritti propri. Ciò comporta un ulteriore spostamento del baricentro della c. dall'avere (comune o in comune) all'essere-comune, all'essere-relazione, all'inter-esse, come costitutiva esposizione al non-identico, al fuori-di-sé; come estasi (Hin-aus-stehen) e come offerta: la relazione che ci fa essere non accade secondo modalità acquisitive ma deiettive.
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