Comunità
Il termine 'comunità', derivato dal latino communis, appartiene al linguaggio corrente ma anche al linguaggio di molte discipline: con significati tecnici di non facile definizione è usato principalmente in antropologia e sociologia, ma anche per esempio in filosofia, nel diritto, nella scienza politica.Nelle scienze sociali il termine è usato in due significati. Nella sociologia classica esso serve a definire un tipo particolare di relazioni sociali poste alla base di collettività che coinvolgono l'individuo nella sua totalità: il termine evoca le piccole comunità di villaggio ma rimanda anche alla comunità nazionale, comprende la famiglia ma anche qualsiasi unità sociale in condizioni di alta integrazione; arriva infine a definire, in forma tipica, la società tradizionale che ha preceduto quella moderna. Nella sociologia contemporanea, invece, comunità è in genere sinonimo di comunità locale. La più autorevole proposta di questo dopoguerra di una teoria sistematica, The social system di Talcott Parsons, comprende il concetto di comunità solo per indicare quel tipo di collettività "i cui membri condividono un'area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere" (v. Parsons, 1951; tr. it., p. 97).
L'uso limitato al significato di comunità locale è oggi normale anche in antropologia, soprattutto in riferimento a comunità locali di piccole dimensioni e di cultura tradizionale; ma, tanto in antropologia quanto in sociologia, quando si passa allo studio di comunità locali non tradizionali e di più ampie dimensioni, sorgono problemi per gli aloni di significato che il termine si porta dietro, richiamando un tipo caratteristico di relazioni sociali (v. Arensberg, 1955 e 1963). Nonostante difficoltà evidenti come queste, ci sono resistenze ad abbandonare il termine, anche nel senso più generale e astratto. Significativo è al riguardo il caso dello stesso Parsons, che dopo aver escluso dal vocabolario della sociologia la parola, se non nel senso di comunità locale, in un'opera successiva torna a usarla. Ponendosi il problema di distinguere differenti sottosistemi della società, il sociologo americano definisce quello principale come una "comunità societaria" che ha come funzione l'integrazione; in tale sottosistema Parsons individua degli "obblighi di lealtà nei confronti della collettività societaria, sia per il complesso dei suoi membri, che per le varie categorie, diversificate per il loro status e ruolo, che si ritrovano all'interno della società" (v. Parsons, 1971; tr. it., p. 28), e vede la sua base nell'influenza, che consiste "nella capacità di ottenere le decisioni desiderate da parte di altre unità sociali senza offrire loro alcunché di valore in cambio o minacciarle di conseguenze deleterie [...] nel presupposto che le due parti abbiano un interesse specifico a rispettare l'interesse collettivo e la loro solidarietà" (ibid., p. 31).
Mostreremo in seguito che l'uso del termine comunità è problematico non solo per il fatto evidente che nella stessa parola si sovrappongono significati diversi, ma più in generale per difficoltà di precisazione concettuale e scarsa capacità euristica. Al punto che alcuni autori non si sono limitati a evitarne l'uso, ma in modo esplicito e argomentato hanno sostenuto la necessità di bandirlo dal vocabolario delle scienze sociali (v. Geiger, 1931). Tuttavia non solo incontriamo resistenze ad abbandonare del tutto il termine, specie nel senso di comunità locale, non solo alcuni teorici lo mantengono nei loro apparati interpretativi, non solo i sociologi quando parlano lo adoperano più spesso di quanto non credano e di quanto non scrivano, ma spesso si osserva che comunità è un termine che fa da ponte, pur con molte ambiguità, tra discorso sociologico e discorso corrente; ancora più significativamente, tra differenti scienze sociali.
Faremo un solo esempio significativo, sull'ultimo punto, relativo al vocabolario con il quale due studiosi contemporanei dell'organizzazione degli interessi tentano di gettare un ponte interpretativo fra scienza politica, economia e sociologia. Di fronte alla complessità degli schemi di regolazione progressivamente assunti dalle società sviluppate, Wolfgang Streeck e Philippe Schmitter provano a studiarli come combinazioni di modelli generali, identificati sulla base dell'istituzione centrale che ne incarna i distinti principî guida: comunità, mercato, Stato (ai quali aggiungeranno poi, per parte loro, l'associazione). I principî di funzionamento rispettivi sono la solidarietà spontanea, la competitività dispersa e il controllo gerarchico, che rimandano ai diversi ambiti della società, dell'economia, della politica. Questo schema interpretativo non solo attira l'attenzione sull'importanza delle relazioni comunitarie nella società contemporanea, ma in un certo senso trova nell'analisi della comunità - delle condizioni e dei processi che generano la solidarietà spontanea - lo specifico della sociologia (v. Streeck e Schmitter, 1985).
I riscontri e le osservazioni di questa premessa consentono di trovare un orientamento per il cammino che dobbiamo fare. In sostanza, possiamo dire che l'aspetto critico del concetto di comunità riguarda la sua capacità analitica, ma che i problemi che esso evoca continuano a essere importanti e difficili da abbandonare. Riprenderemo quindi in modo più dettagliato le questioni viste finora e lo faremo con riferimenti molto selettivi, cominciando dall'uso del concetto nella sociologia classica, e più precisamente a partire da Tönnies.
L'uso del concetto di comunità nelle scienze sociali risale, in forma definita, a Ferdinand Tönnies che alla fine del secolo scorso introduce la tipologia comunità-società (Gemeinschaft-Gesellschaft) come strumento fondamentale per la comprensione del cambiamento sociale. Tönnies è tuttavia solo uno degli esponenti di una variegata corrente di pensiero che con la "riscoperta della comunità" (l'espressione è di Nisbet: v., 1966) esprimevano una reazione all'età dell'illuminismo e dell'economia politica, influenzata dal pensiero romantico. Non era in discussione l'emergere di relazioni sociali più convenzionali, impersonali, basate sul calcolo, ma la diversa valutazione di questi caratteri, che venivano criticati nei loro effetti negativi, in riferimento a ciò che nel processo di trasformazione sembrava si stesse perdendo.
Il tentativo di chiarimento concettuale e di costruzione tipologica di Tönnies muove dal linguaggio corrente, nel quale comunità e società sono caratteristicamente distinte. Così, si usa correntemente l'espressione comunità domestica, o comunità di vita, per indicare il matrimonio, mentre "società di vita sarebbe una contraddizione in termini"; il giovane "viene messo in guardia contro la cattiva società; ma parlare di 'cattiva comunità' è contrario al senso della lingua". Si parla di "comunità di luogo, di costume, di fede - ma [di] società di profitto, di viaggio, delle scienze". In sostanza, "ogni convivenza confidenziale, intima, esclusiva [...] viene intesa come vita in comunità; la società è invece il pubblico, è il mondo. In comunità con i suoi una persona si trova dalla nascita, legata a essi nel bene e nel male, mentre si va in società come in terra straniera" (v. Tönnies, 1887; tr. it., pp. 45-46).
Questi usi linguistici possono essere chiariti e meglio definiti in termini sociologici. Le "relazioni tra volontà umane" - afferma Tönnies (ibid., p. 45) - danno luogo ad "associazioni" che possono essere concepite "o come vita reale e organica - e questa è l'essenza della comunità - o come formazione ideale e meccanica - e questo è il concetto della società". La comunità deve quindi essere intesa "come un organismo vivente, e la società, invece, come un aggregato e prodotto meccanico" (p. 47). In base a questa distinzione, la comunità si definisce per rapporti sociali più direttamente connessi alla "vita vegetativa", ha dunque le sue radici nei rapporti di discendenza e si ritrova in associazioni più vicine a tali rapporti. La comunità di sangue, che si esprime in modo essenziale nei rapporti madre-bambino, uomo-donna come coniugi, e tra fratelli, è dunque la forma primaria di comunità, che trova la sua "unità e perfezione" nel rapporto padre-figli; ma si danno pure comunità di luogo e comunità di spirito. Ne risultano dunque tre forme originarie di comunità: la parentela, il vicinato, l'amicizia, e quest'ultima è "la forma propriamente umana e più elevata di comunità" (p. 57). I rapporti di amicizia hanno "in misura minima un carattere organico e intrinsecamente necessario: essi sono i meno istintivi, e sono condizionati dall'abitudine meno che i rapporti di vicinato"; essendo di natura mentale, "appaiono [...] fondati sul caso e sulla libera scelta" (p. 58). Il tratto sociale caratteristico della comunità, in tutte le sue forme, è la comprensione del fatto che è "un modo di sentire comune e reciproco, associativo, che costituisce la volontà propria di una comunità" (p. 62). Comprensione, nel senso di consensus, indica comunità di sentire e volontà spontanea di collaborazione. Essa è per sua natura non contrattuale e tacita, "perché il suo contenuto è inesprimibile, infinito, incomprensibile"; non può essere costruita, ma fiorisce "da germi dati, quando le [...] condizioni sono favorevoli" (p. 65). Differenti posizioni sociali all'interno della comunità sono definite come riconoscimento di particolari "dignità", di differenze di età, di forza e di saggezza. Il modo di sentire proprio della comunità è così indicato da termini come tenerezza, reverenza, benevolenza, rispetto.Partendo da questa matrice concettuale, Tönnies delinea successivamente l'articolazione delle forme comunitarie essenziali e uno schema interpretativo dello sviluppo storico, che qui ora interessano meno. È invece importante osservare che nella sua costruzione i concetti di comunità e società non sono separabili, dal momento che sono costruiti per opposizione, come elementi di un unico schema interpretativo. "La teoria della società - scrive Tönnies - muove dalla costruzione di una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono e abitano pacificamente l'uno accanto all'altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimangono legati nonostante tutte le separazioni. Di conseguenza, qui non si svolgono attività che possano derivare da un'unità a priori esistente necessariamente, e che quindi esprimano anche la volontà e lo spirito di questa unità nell'individuo, in quanto compiute per mezzo suo, realizzandosi tanto per gli associati con l'individuo quanto per l'individuo stesso. Piuttosto, in questo ambito ognuno sta per conto proprio e in uno stato di tensione contro tutti gli altri" (p. 83). Questo passo è importante perché troviamo qui i fondamenti della polarizzazione sui quali Tönnies costruisce i due tipi opposti; l'opposizione è osservata dal punto di vista della società, vale a dire, per Tönnies, dal punto di vista del cambiamento sociale: emancipazione dell'individuo rispetto a qualunque forma di aggregazione a lui precedente (in particolare la famiglia), carattere convenzionale e contrattuale di ogni rapporto, stato di tensione nelle relazioni interindividuali come situazione normale. Se questa opposizione esprime le tensioni alla base della modernizzazione, l'emergere dei caratteri societari tende anche a produrre, secondo Tönnies, divisione di interessi e conflitto endemico, difficoltà di adattamento personale, riduzione ad apparenza dei valori morali, sottomissione dei molti alla discrezionalità non più eticamente controllata dei pochi.
Le definizioni e la teoria di Tönnies sono state influenzate dal pensiero di filosofi, giuristi, storici - contemporanei e precedenti - ai quali rivolgevano l'attenzione i fondatori della sociologia. Lo stesso Tönnies ricorda in modo particolare Marx, senza peraltro citarne esplicitamente i lavori più vicini alla problematica della comunità, vale a dire gli studi sulle società precapitalistiche (v. Marx e altri, 1970). Altro punto di riferimento essenziale è poi Henry J. Sumner Maine. All'autore di Ancient law, ma anche di Village communities in East and West, si deve infatti un'altra classica definizione del cambiamento sociale, basata sulla coppia status-contratto. La comparsa di rapporti giuridici basati sul libero contratto, che ne sostituiscono altri fondati su vincoli tradizionali, è generalizzata da Sumner Maine nell'idea di un cambiamento in questo senso dell'insieme dei rapporti sociali e dunque del tipo di società.L'impostazione di Tönnies, a sua volta, ha influito sul lavoro di altri studiosi, fra i quali ricordiamo in particolare Max Weber. L'importanza di Weber, per l'argomento di cui ci occupiamo, risiede non solo nel fatto che egli usa ampiamente il concetto di comunità, ma soprattutto nel fatto che lo inserisce all'interno di un sistema concettuale sociologico molto articolato. Il concetto di comunità è collocato al livello delle relazioni sociali, una categoria sociologica appena più complessa dell'agire sociale e a sua volta base per lo sviluppo di ulteriori categorie. È nota la tipologia weberiana dell'agire sociale dotato di senso, che è l'oggetto dell'analisi sociologica. Esso può essere determinato: a) in modo razionale rispetto allo scopo; b) in modo razionale rispetto al valore; c) affettivamente; d) tradizionalmente. Per relazione sociale Weber intende "un comportamento di più individui instaurato reciprocamente secondo il suo contenuto di senso, e orientato in conformità" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 23). Una relazione sociale è definita comunità "se, e nella misura in cui, la disposizione dell'agire sociale poggia [...] su una comune appartenenza, soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) dagli individui che ad essa partecipano". È invece definita associazione "se, e nella misura in cui, la disposizione dell'agire sociale poggia su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto al valore o allo scopo)" (ibid., p. 38). La coppia comunità-associazione richiama, per esplicita ammissione, la dicotomia di Tönnies, ma lo stesso Weber avverte che l'uso non è esattamente corrispondente.
In effetti, se osserviamo l'uso del concetto di comunità e le tipologie di comunità sviluppate da Weber, si avverte subito un maggior interesse alla combinazione dei tipi di relazione e alla varietà di forme intermedie tra le due polari. Esiste certo in Weber una maggiore consapevolezza metodologica, dovuta alla piena elaborazione del concetto di 'tipo ideale', relativo alla natura meramente strumentale e astratta di ogni concetto sociologico. Ma i suoi concetti e le sue tipologie sono anche espressi ed elaborati più chiaramente, in modo da prestarsi alla complicazione empirica. Così, "una comunità può riposare su ogni specie di fondamento affettivo o emotivo, o anche tradizionale - per esempio una confraternita ispirata, una relazione erotica, un rapporto di reverenza, una comunità 'nazionale', una truppa tenuta insieme da legami di cameratismo [...]. La grande maggioranza delle relazioni sociali ha però in parte il carattere di una comunità, e in parte il carattere di un'associazione. Una relazione sociale, per quanto sia razionale rispetto allo scopo, e freddamente creata per attuare un certo fine (ad esempio la clientela), può far nascere valori di sentimento che procedono oltre lo scopo arbitrariamente posto. In tal senso inclina [...] qualsiasi associazione che vada al di là dell'agire attuale di un'unione di scopo, che instauri quindi relazioni sociali di lunga durata tra le medesime persone, e che non sia fin dal principio limitata a particolari prestazioni oggettive: di questo genere sono, ad esempio, l'associazione nello stesso reparto dell'esercito, nella stessa classe scolastica, nello stesso ufficio, nella stessa officina. In modo analogo una relazione sociale, il cui senso normale sia quello di una comunità, può viceversa essere orientata [...] in maniera totalmente o parzialmente razionale rispetto allo scopo. Per esempio è molto diversa la misura in cui un gruppo familiare è, dai partecipanti, sentito come comunità oppure utilizzato come associazione" (p. 39).
Il ricorso al concetto di comunità è dunque in Weber più problematico; collocato al livello delle relazioni sociali, esso, pur individuando elementi della società tradizionale, non impegna immediatamente l'interpretazione complessiva di un tipo di società. Ne deriva un suo uso, per così dire, più freddo: in Weber i riferimenti alle comunità tradizionali non lasciano spazio a idealizzazioni di sorta; trattando del vicinato, per esempio, egli osserva che il vicino è il tipico prestatore di soccorso, e come tale "portatore della 'fratellanza' in un senso spogliato da ogni sentimentalismo, prevalentemente etico-economico" (p. 365). Ne deriva poi anche la possibilità di definire efficacemente oggetti difficili, in modi che possono anche sembrare delle contraddizioni in termini, come è il caso delle comunità economiche. Da notare, infine, che la tendenza a riferimenti più specializzati, e dunque parziali, del concetto è anche confermata dall'uso non casuale di differenti derivati della radice gemein, che per difficoltà di traduzione sono di solito appiattiti in italiano con l'unico termine comunità.Sullo sfondo dell'uso del concetto di comunità opposto a quello di associazione sta l'interpretazione che Weber dà del cambiamento sociale come processo di razionalizzazione. Processo di razionalizzazione significa l'emergere progressivo di orientamenti e azioni razionali nonché di strutture e fenomeni su questi fondati, come la burocrazia o il capitalismo moderno. Il problema profondo di Weber è quello del destino dell'uomo in un mondo tendenzialmente sempre più razionalizzato; da ciò una preoccupazione e un'attenzione costanti allo spazio dei valori, degli affetti e di tutto ciò che non è razionalizzabile, anche nella società moderna. È questa tensione a spingere verso la ricerca di concetti precisi e sfaccettati, capaci di differenziare e ricombinare, come sono appunto la tipologia dell'azione e i concetti da questa derivati.
I sociologi della comunità studiano il processo di modernizzazione, quel processo, cioè, attraverso il quale emerge progressivamente nel mondo la società contemporanea, con caratteri riconosciuti come storicamente peculiari. Per interpretare questo processo essi hanno prodotto schemi che spesso assumevano la forma di una coppia di tipi polari: potremmo ricordarne diversi, oltre quelli di Tönnies, Maine e Weber, più o meno simili ed efficaci. Questi schemi esprimono grandi visioni storico-analitiche e rimarranno a lungo fonti di ipotesi interpretative e serbatoi concettuali.
Tuttavia la complessità dei processi storici, le forme diverse e nuove che emergeranno dalla modernizzazione, così come la necessità di individuare gli ostacoli e i blocchi ricorrenti in contesti specifici, esasperano la difficoltà già segnalata di concettualizzare i tipi sociali "che stanno nel mezzo" o i problemi relativi alla permanenza di un tipo all'interno del tipo opposto, o infine il gioco fra condizioni originarie e scelte di trasformazione. Abbiamo visto questa tensione in Weber, ma la ritroviamo in Émile Durkheim, che qui conviene citare come studioso classico della comunità, anche se non usa questo termine con accezione tipica.
Anche Durkheim ricorre a una dicotomia, distinguendo fondamentalmente fra società basate sulla solidarietà meccanica e società basate sulla solidarietà organica. Il primo tipo di solidarietà è caratteristico di società segmentali e semplici, nelle quali il nesso che tiene uniti i segmenti è una cultura fortemente prescrittiva e repressiva; il secondo deriva dalla divisione del lavoro nella società moderna, che definisce funzioni interconnesse e dunque ruoli complementari. Ricordiamo Durkheim perché più di ogni altro ha insistito sulla necessità di considerare i rapporti fra le forme sociali che si succedono, piuttosto che la loro semplice opposizione: sulla necessità - si potrebbe dire - di ricercare lo spazio delle forme sociali precedenti in quelle più evolute. Questo è esplicito nella sua trattazione delle premesse non contrattuali del contratto, e in generale nel riconoscimento che la società non è possibile senza legami e premesse di ordine morale.
Sono dunque queste tensioni che metteranno in crisi il concetto di comunità, sia nel suo uso più generale, come concetto capace di individuare un tipo di società, sia nel suo uso più limitato e orientato, a livello dei tipi di relazioni sociali. Possiamo distinguere due conseguenze: la ricerca di strumenti formali di indagine più versatili e capaci di distinguere meglio nella variabilità concreta, e l'abbandono di una problematica complessiva della comunità per problematiche parziali, che fanno rivivere in modo nuovo e differenziato problemi in precedenza riferiti al concetto di comunità in generale. Prenderemo in esame la seconda conseguenza nel prossimo capitolo, mentre qui riferiremo del più noto sviluppo di strumenti analitici formali derivato dalla coppia comunità-società: lo schema delle pattern variables di Parsons.
Riflettendo sulla coppia comunità-società di Tönnies, alla luce anche delle rielaborazioni di Weber, Parsons individua le difficoltà di una semplice tipologia bipolare a comprendere situazioni differenziate. Costruendo il concetto di comunità (e in modo speculare quello di società), Tönnies aveva rilevato una quantità di caratteri che necessariamente si affiancavano l'uno all'altro nella definizione del tipo. In realtà, questi caratteri possono essere tenuti distinti e ridefiniti come variabili analitiche più sottili, con l'esito complessivo di ottenere uno strumento più versatile. Il punto di avvio di Parsons, sul piano empirico, fu la difficoltà di comprendere, con la semplice coppia comunità-società, le professioni e in particolare la professione medica. Elementi 'societari', come il carattere razionale e universalistico della scienza, si accompagnano in essa a orientamenti 'comunitari' verso il paziente, la cui salute il medico deve servire in modo disinteressato. All'interno delle professioni si devono poi poter comprendere le differenze fra quella medica e le altre, così come si deve dar conto delle differenze fra le professioni, i pubblici servizi e il mondo degli affari. Parsons finirà per stabilire - a un alto livello di astrazione - caratteri simili per i differenti ruoli delle diverse occupazioni, professionali e non, ma lo strumento che si sarà costruito gli consentirà anche di analizzare importanti differenze interne. Le differenze devono poter essere viste sia in riferimento alle relazioni sociali (per esempio, la relazione medico-paziente), in termini di aspettative di ruolo definite all'interno di un sistema sociale, sia anche con riferimento al sistema culturale e ai modelli normativi che questo prescrive, sia infine con riferimento al sistema della personalità, vale a dire ai bisogni e alle motivazioni dei soggetti.
Lo strumento elaborato è la tipologia dei "dilemmi di scelta" che si presentano all'individuo, ai quali questi fa fronte con modalità radicate nel processo di socializzazione e rafforzate dai meccanismi del controllo sociale. Esistono varie versioni dei dilemmi di scelta. Lo schema originario comprende cinque dilemmi, ovvero variabili strutturali (pattern variables). Nel seguire i propri schemi di interazione un individuo (o una collettività) può comportarsi secondo le seguenti alternative (v. Parsons, 1951; tr. it., pp. 65-74).
1. Affettività - neutralità affettiva, a seconda che scelga una gratificazione immediata o eserciti un autocontrollo in base a considerazioni più ampie sulle conseguenze del proprio comportamento.
2. Orientamento verso l'io - orientamento verso la collettività, e cioè il perseguimento del proprio interesse oppure la considerazione degli interessi collettivi dei gruppi ai quali si appartiene (questa variabile sarà poi tralasciata in studi successivi).
3. Universalismo - particolarismo, a seconda che si valutino o meno persone e relazioni sulla base di criteri generalizzati e standardizzati.
4. Acquisizione - ascrizione: la prima modalità riguarda le prestazioni di un soggetto, la seconda caratteri e rapporti basati su qualità e appartenenze date; nel primo caso è rilevante ciò che uno 'fa', nel secondo ciò che uno 'è'.
5. Specificità - diffusione: rispettivamente rapporti e aspettative di ruolo dal contenuto limitato oppure indefinito.
Allo stesso modo dei classici, Parsons utilizza la sua tipologia per interpretare il processo di modernizzazione sullo sfondo dell'idea generale di una tendenziale razionalizzazione dei comportamenti e delle strutture. Le pattern variables sono così entrate nel vocabolario corrente di questo tipo di studi, ma sono state anche criticate da diversi punti di vista: questo è avvenuto soprattutto in relazione a un loro uso meccanico, che non è in grado di riconoscere, per esempio, la persistenza dei particolarismi anche nelle strutture universalistiche del mondo moderno o l'importanza dell'ascrizione nella società acquisitiva. Lo stesso Parsons ha favorito un uso poco problematico dello strumento, specie quando, successivamente alla loro elaborazione, si sforzò di utilizzare le variabili strutturali nella costruzione di un modello funzionalista della società, fondato sulla definizione di imperativi funzionali del sistema. Forse anche per questo, nel linguaggio sociologico corrente le variabili vengono spesso usate senza riferimento all'insieme del quadro teorico nel quale sono nate. Esse rappresentano comunque la versione più moderna e sofisticata della coppia analitica comunità-società.
Abbiamo detto, poco sopra, che la crisi del concetto di comunità non ha significato l'abbandono di questioni che venivano poste attraverso il suo uso. La conservazione di tali questioni in problematiche differenziate, non necessariamente collegate, ma spesso con riferimenti comuni e fra loro intrecciate, non ha comportato però la ricomposizione unitaria, in un disegno evidente, degli esiti delle ricerche. Queste problematiche parziali possono trovarsi all'interno di quadri concettuali più ampi o configurarsi come teorie di medio raggio, possono costituirsi tagliando trasversalmente differenti ambiti teorici, come un modo nuovo di vederne particolari aspetti, possono rispondere a esigenze teoriche o essere sollecitate da questioni di ricerca empirica; in alcuni casi sono ben definite e isolabili, in altri sono più provvisorie e imprecise. In questo capitolo faremo tre esempi di quelle problematiche in cui, si potrebbe dire, si è dissolto il concetto di comunità.
1. Spesso ci si riferisce alla condizione dell'individuo nella società contemporanea dicendo che sperimenta una perdita di identità: è un modo di indicare una condizione di vita 'societaria', opposta a una precedente condizione di integrazione 'comunitaria'.
2. Un recente filone di ricerca ha studiato l'importanza, nell'economia contemporanea, di quella sua parte che non è istituzionalizzata in un sistema di azione autonomo e non viene dunque neppure contabilizzata: l'economia nascosta non di mercato segnala la sopravvivenza nella società moderna del principio di reciprocità.
3. La teoria della scelta razionale, ma anche lo studio dei processi di sviluppo economico, dei fenomeni organizzativi, delle relazioni interpersonali, in sociologia e in psicologia, hanno incontrato un tema comune che, reso esplicito, tende a far emergere una problematica autonoma: la fiducia come requisito che rende possibili relazioni e strutture sociali. Identità, reciprocità, fiducia sono parole che appartengono al vocabolario della comunità, ma che oggi sono usate senza riferimento al vecchio concetto. Svilupperemo qui di seguito questi tre temi evidenziandone la natura e i rapporti con il concetto di comunità.
Il termine identità - come quello di comunità - fa parte del linguaggio corrente e di quello di diverse discipline. Il suo uso nelle scienze sociali, e in particolare in sociologia, si è diffuso specie nell'ambito di studi teorici e di ricerche motivate da un problema classico: la difficoltà di adattamento dell'individuo a situazioni di incertezza e di variabilità tipiche dei contesti sociali moderni. Si tratta dunque di un problema che, in un modo o nell'altro, è stato affrontato in molti studi teorici della società contemporanea. D'altro canto, il concetto si presta anche a definire aspetti che non riguardano specificamente problemi di integrazione personale, ma modi di essere collettivi, rapporti interpersonali di particolare significato, come rivela l'uso dell'espressione 'identità collettiva'. Queste circostanze hanno favorito lo sviluppo di una riflessione sociologica sull'identità, che considera l'uso del concetto all'interno di differenti schemi teorici e valuta comparativamente i risultati e le potenzialità degli strumenti analitici. Si costituisce così una problematica dell'identità, che sostanzialmente riguarda i modi in cui gli individui definiscono la propria situazione e si collocano all'interno di un campo simbolico, tracciando dei confini; come essi stabiliscono modi di selezionare e ordinare le proprie preferenze; come mantengono nel tempo i confini e le differenze fra sé e il mondo, trovando il senso della continuità del proprio essere sociale. Questi aspetti possono essere considerati in relazione a costanti antropologiche, oppure analizzati in relazione alle specifiche tendenze alla complessità strutturale delle società contemporanee. Possono poi riguardare, come si è detto, processi individuali o soggetti collettivi (v. Sciolla, 1983).
Ai nostri fini importa osservare che il problema dell'identità riecheggia chiaramente problemi che già la coppia comunità-società a suo modo evocava. Si potrebbe anche essere tentati di dire che il concetto di identità, riferito alla condizione di integrazione dell'individuo nel contesto sociale, riprende una dimensione particolare del concetto di comunità. Ma il riferimento è solo allusivo e sostanzialmente scorretto. Ci siamo, anzi, imbattuti in un buon esempio di come il vecchio concetto di comunità, per lo meno nelle versioni più semplici, come quella di Tönnies, sia costituzionalmente incapace di affrontare, pur evocandoli, problemi moderni come quello dell'identità: il concetto di comunità, infatti, esclude per definizione che l'individuo possa porsi in modo autonomo rispetto al tutto organico del quale fa parte. Ciò significa, a rigore, che non si è perduta nessuna identità, perché la condizione esistenziale precedente, evocata dal concetto di comunità, per essere descritta non ha bisogno del concetto di identità.
La problematica dell'identità può essere connessa alla teoria della comunità in un altro senso, più metodologico. Il riferimento all'identità può infatti essere fatto valere come critica agli approcci utilitaristici, con la stessa intenzione, cioè, dalla quale era mosso il discorso sulla comunità, in una prospettiva in cui 'identità' è usato in opposizione a 'interesse'. In questi termini è stato per esempio possibile criticare le teorie utilitaristiche della politica, fondate sull'assunto che gli attori politici (chi va a votare, o i militanti di un partito) agiscano per perseguire determinati interessi. È però anche possibile pensare che l'azione politica sia essenzialmente orientata a fondare e a riconoscere come valide determinate immagini e prospettive di lungo periodo relative a possibili fini alternativi, ovvero che sia orientata a costituire e conservare specifiche identità collettive. Un'impostazione di questo genere, secondo la quale "per spiegare l'azione politica, a una logica dell'utilità va sostituita una logica dell'identificazione" (v. Pizzorno, 1983, p. 39), è in grado di rendere conto di tendenze empiriche che teorie utilitaristiche non sono in grado di spiegare, come per esempio le differenze fra partiti con le stesse basi di classe, o le lunghe persistenze di una geografia elettorale nonostante radicali cambiamenti delle strutture economiche e istituzionali.
Con riferimento all'economia contemporanea si è posto di recente un problema empirico, che ha interessanti dimensioni teoriche: quello di valutare l'economia che sfugge alla contabilità nazionale. Il problema ha presto assunto risvolti teorici perché la valutazione in questione richiede una definizione preliminare di ciò che deve essere contato. In alcuni casi la scelta è facile (l'evasione fiscale, per esempio), ma in altri ci si imbatte nella sopravvivenza, all'interno dell'economia moderna, di relazioni economiche di tipo tradizionale, basate su regole di produzione e di allocazione non specificamente economiche: la produzione di beni e servizi in famiglia, le produzioni per l'autoconsumo di un gruppo di amici, i servizi volontari, e così via. La questione è complicata dal fatto che spesso aspetti formali e aspetti informali dell'economia sono intrecciati fra loro in relazioni dalle strutture complesse, come è il caso, per esempio, della produzione per il mercato su base familiare.In termini di teoria dello sviluppo si riscontra allora che il processo di differenziazione strutturale dell'economia all'interno del sistema sociale è meno avanzato di quanto la teoria stessa non faccia prevedere. Una forte spinta verso processi economici informali può oggi apparire, per motivi che possono essere analizzati, anche come una tendenza alla dedifferenziazione strutturale, alla ricomparsa di ruoli meno specifici e di relazioni più particolaristiche (v. Gallino, 1982). Sembra dunque di osservare il ritorno di aspetti della comunità nel punto più imprevedibile: l'economia. Anche in questo caso, tuttavia, impegnare il concetto di comunità è rischioso, perché introduce nell'analisi elementi riferiti a un modello complessivo che, come tale, non corrisponde certamente alla realtà.
Dovendo lavorare con strumenti più sottili, torna certo utile, per classificare diversi aspetti del processo, lo schema delle pattern variables: minore specificità, maggiore particolarismo nelle relazioni economiche. In generale, però, anche la definizione sociologica del problema e il modo di affrontarlo devono trovare una forma che non impacci l'analisi e consenta di progredire. Data questa situazione, un modo utile di procedere consiste nel collocare la problematica a livello dei meccanismi di regolazione dell'azione economica, individuando tipologie che comprendano il meccanismo della reciprocità, nel senso dato a questo termine da Karl Polanyi. Questo meccanismo riguarda le relazioni il cui contenuto economico non è esplicitato e valutato dagli attori come tale, e che sono regolate da norme culturalmente sancite. L'antropologo Marshall D. Sahlins distingue due forme fondamentali di reciprocità: la reciprocità generalizzata - che vige all'interno di ristrette cerchie parentali e implica prestazioni reciproche diffuse, non definite nelle quantità e nei tempi della restituzione - e la reciprocità bilanciata, valida in cerchie più allargate come il villaggio e la tribù, che implica rigide definizioni dei tempi e dei modi della restituzione, con relative sanzioni. Alternativo alla reciprocità è il meccanismo del mercato, che negli schemi della reciprocità è definito come reciprocità negativa. La reciprocità stabilisce schemi di relazioni che si mantengono nel tempo; il mercato, che regola l'economia attraverso la formazione dei prezzi, nella sua forma pura definisce relazioni che si esauriscono con il compimento di un solo atto. Mentre una teoria semplice dello sviluppo suppone una progressiva erosione dell'area della reciprocità da parte della regolazione di mercato, la ricerca recente mostra, al di là della questione dell'economia informale e in termini generali, la necessità di considerare l'articolazione di più meccanismi regolativi, compreso quello della reciprocità, per comprendere i processi di istituzionalizzazione e di stabilizzazione dell'economia (per un'applicazione di questa prospettiva nello studio di una comunità locale, v. Bagnasco e Trigilia, 1984). Anche 'fiducia' è una parola del vocabolario corrente legata al concetto di comunità e presente in molte teorie sociologiche e psicologiche. Essa rimanda a contenuti incerti e sfuggenti, che toccano però aspetti essenziali del vivere sociale e pertanto non possono essere evitati neppure da quei modelli teorici che si formano all'insegna di una rigorosa autolimitazione di campo e sono orientati a esiti formali, come è il caso della teoria della scelta razionale. Riferimenti espliciti al tema della fiducia si trovano all'interno di grandi schemi teorici della società, come quelli di Parsons o di Niklas Luhmann, ma si incontrano anche in economia, dove, per esempio, Fred Hirsch definisce la fiducia come la condizione in cui sono presenti aspettative di reciprocità sul lungo periodo, e in ultima analisi come "bene pubblico", vantaggioso per l'insieme dei partecipanti al mercato; si trovano anche nelle moderne teorie organizzative dell'impresa, dove si valuta la diminuzione dei costi di transazione quando le parti "possono fidarsi l'una dell'altra" e non si comportano in modo opportunistico (v. Butler, 1982; tr. it., p. 323); nella scienza politica e nella sociologia politica, infine, li si ritrova in numerose ricerche sulle aspettative dei cittadini. In sintesi, in particolare per gli usi della sociologia, la fiducia può essere definita come "un'aspettativa di esperienze con valenze positive per l'attore, maturata sotto condizioni di incertezza ma in presenza di un carico cognitivo e/o emotivo tale da permettere di superare la soglia della mera speranza" (v. Mutti, 1987, p. 230). Possiamo dunque distinguere nel concetto fra dimensioni cognitive, relative alla completezza e correttezza della comunicazione, e normative, relative alla possibilità che vengano rispettate norme esplicite o implicite. La fiducia può poi essere considerata a livello delle relazioni interpersonali, o come proprietà di un sistema sociale. L'esito della fiducia è spesso visto come disponibilità a giochi cooperativi. L'uso del concetto nei differenti ambiti teorici e gli enunciati che a tale uso sono collegati determinano il formarsi di una problematica dello stesso tipo di quella, già vista, dell'identità. Le due problematiche, del resto, hanno importanti punti di contatto.
È evidente che le assonanze del concetto di fiducia con quello di comunità sono radicate nelle caratteristiche di stabilità delle aspettative intersoggettive, nelle dimensioni non razionali dell'azione, nei legami non contrattuali fra le persone, che appartengono appunto ai due mondi concettuali. Resta il fatto che per capire i caratteri e le condizioni della fiducia nella società contemporanea abbiamo bisogno di una teoria della società, non della teoria della comunità. Il riferimento classico più ricco per la riflessione sulla fiducia è certamente Georg Simmel. Il suo progetto scientifico mirava alla comprensione delle condizioni che rendono possibile la società, nonostante tendenze alla complessità strutturale e alla dissociazione individuale. Per questo progetto egli ha cercato forme costanti di relazione, mettendo a fuoco microstrutture sociali, come le coppie e le triadi, e studiando fenomeni come la fiducia, l'amicizia, la fedeltà, o anche la menzogna e il conflitto, e mostrando di questi ultimi gli effetti di stabilizzazione oltre che di rottura. Si può dunque considerare Simmel - come fa Nisbet - anche un sociologo della comunità, ma egli non insiste né sulla parola né nel tentativo di costruirne un modello complessivo: le forme invarianti che individua appartengono alla 'società' contemporanea quanto alla 'comunità', e non sono specifiche della seconda.
La comunità di luogo, della quale parlava Tönnies, si ritrova nel concetto di comunità locale, cioè nell'accezione più diffusa in sociologia e in antropologia. Naturalmente, anche in riferimento all'analisi di fenomeni sociali localizzati si pongono gli stessi problemi nell'uso del concetto di comunità che abbiamo già visto. Identità, reciprocità, fiducia - i termini delle nuove problematiche - sembrano facilmente definire fenomeni di corto raggio territoriale. Lo studio localizzato di questi fenomeni, che di per sé non sono locali, costituisce allora un primo e significativo campo di ricerca empirica, che rientra fra quelli solitamente definiti 'studi di comunità'. Tuttavia, se l'analisi delle relazioni sociali chiama in causa variabili di contesto che incidono sul loro modo di essere, gli studi in questione tendono a scivolare verso quelli che sono più propriamente i tradizionali studi sulla comunità locale. Si tratta di quel filone di ricerca che ha per oggetto la struttura delle società locali, considerate nel loro insieme come totalità sociali significative.
Anche questa prospettiva è un'eredità della vecchia problematica della comunità, sostanzialmente ridefinita. La prospettiva della totalità sociale deriva infatti dall'idea di insieme organico, propria della comunità. Gli studi sulla comunità locale possono mantenere (nei limiti che vedremo) l'intenzione di costruire modelli sociali complessivi, ma escludendo (giusta le cose dette finora) immagini organiciste della società locale. Ciò pone una serie di questioni dal punto di vista metodologico, la prima e più banale delle quali è quella dei confini: in una società moderna gli attori della più piccola comunità sono inseriti in reti di relazioni esterne (economiche, politiche, culturali) che tendono a superare la comunità locale, in quanto contesto significativo di interazione. E tuttavia si può andare da un minimo di significato della comunità locale per la definizione dell'interazione sociale a interazioni ricche e complesse centrate su un asse territoriale di organizzazione sociale. Questo richiama una seconda questione: quella delle dimensioni. Le aspettative e le strategie dei soggetti su base territoriale, così come le relazioni di fiducia e di reciprocità, sono con più probabilità componenti del quadro sociale di una piccola comunità. D'altro canto, la città è da sempre considerata il luogo tipico della società, della separazione, della moltiplicazione dei ruoli, della crisi di identità: studiare la città è di fatto studiare la società. E tuttavia, se l'oggetto urbano appare così complesso e frammentato da sollecitare studi focalizzati su aspetti differenziati e molto particolari, quando proviamo a tracciare il profilo sociologico di una città - o consideriamo certi fenomeni in connessione con certe caratteristiche della società locale - facciamo lo stesso genere di operazione di quando ricostruiamo la struttura di una piccola comunità; anche se, così facendo, ci allontaniamo ancora di più dalle premesse comunitarie dell'analisi localizzata e abbiamo bisogno di altri strumenti.
Gli studi di comunità sono stati spesso compresi fra gli studi sociografici (v. Jahoda e altri, 1933). 'Sociografia' è il nome della disciplina che segna l'emergere della ricerca empirica in sociologia, con diversi temi, metodologie e interessi conoscitivi. Gli studi sociografici si caratterizzano come studi clinici di sintesi, interessati all'insieme dei rapporti sociali di una situazione concreta, secondo un'intenzione (più simile a quella della storia) che avvicina sociologi e antropologi. A ciò si associa la tendenza a utilizzare, a seconda delle necessità, strumenti di analisi delle diverse specializzazioni disciplinari delle scienze sociali e a usare insieme, a seconda dei casi, più tecniche di ricerca: l'uso e il trattamento di statistiche come l'osservazione partecipante, l'analisi del contenuto di documenti come la survey o le storie di vita. Gli studi di comunità sono quel particolare tipo di studi sociografici che inseriscono l'osservazione clinica orientata a un determinato problema nel contesto di un ambito sociale territoriale. Il riferimento territoriale può andare dall'esame delle connessioni fra un insieme di fatti sotto osservazione e alcuni aspetti di una società locale ritenuti pertinenti, sino alla ricostruzione di un modello semplificato della struttura sociale localizzata. Per esemplificare questo secondo tipo di indagine non si può non fare riferimento alle ricerche che Robert S. e Helen M. Lynd (v., 1929) realizzarono a Muncie (una città di medie dimensioni dell'Indiana, da loro chiamata Middletown), per l'influenza che esse esercitarono sui lavori sociologici successivi.
Tuttavia è difficile distinguere se l'ambito originario di questo tipo di studi, ai suoi inizi, sia da considerarsi sociologico o antropologico. La prefazione a Middletown, considerato oggi un classico della sociologia, fu scritta dall'antropologo Clark Wissler, noto per le sue ricerche sugli indiani dell'America settentrionale; in quella occasione egli definì Middletown "un tentativo sperimentale di affrontare lo studio di una comunità americana secondo i metodi dell'antropologia sociale". Una prima indagine fu svolta dai Lynd all'inizio degli anni venti, ma i risultati furono pubblicati solo nel 1929, dopo un lungo lavoro di sistemazione. L'impianto teorico era molto semplice, ma efficace; la ricerca dei dati partiva dalla rilevazione di sei azioni fondamentali: guadagnarsi da vivere, farsi una casa, educare i figli, impiegare il tempo libero, impegnarsi in pratiche religiose, impegnarsi in pratiche comunitarie. Orientati da questo schema, e attraverso una paziente raccolta diretta di dati e informazioni, i ricercatori stesero alla fine un rapporto che metteva gli Americani di fronte a un'immagine di se stessi assai diversa da quelle ideologiche dell'American dream. A distanza di un decennio i ricercatori tornarono a Middletown, che stava uscendo dalla grande depressione dei primi anni trenta. Il secondo rapporto mise in luce con maggiore efficacia le dinamiche di classe e fu più attento ai fenomeni di potere, ma confermò una sostanziale stabilità sociale e culturale (v. Lynd e Lynd, 1937).
Scegliere una città di medie dimensioni per capire aspetti importanti della società americana fu certo una scelta felice, seguita poi da altri ricercatori (v., in particolare, Warner e Lunt, 1941 e 1942). È invece un equivoco pensare che una situazione del genere sia una 'media' della situazione americana: non si tratta infatti di differenze quantitative, a seconda delle dimensioni delle città, ma di differenze qualitative. Da questo punto di vista, un'eventuale teoria delle comunità locali dovrebbe poter fornire modelli formali di comunità, al di là della variabilità concreta che è oggetto degli studi clinici. Un tentativo interessante in questa direzione possono essere considerati gli studi sul potere nella comunità, terreno comune per sociologi e politologi. Iniziati con le ricerche di Floyd A. Hunter (v., 1953) e di Robert A. Dahl (v., 1961), questi studi si propongono di individuare le relazioni esistenti fra tre categorie di variabili: 1) le caratteristiche di base della comunità (demografiche, economiche, ecc.); 2) le caratteristiche della leadership e della struttura dei processi decisionali; 3) le decisioni concrete prese (v. Clark, 1968, p. 16). I tipi di strutture decisionali (variabili del tipo 2) esprimono in sintesi i modelli politici della comunità locale: si definiscono così strutture monolitiche, polilitiche, pluralistiche, a partecipazione di massa (ibid. p. 37). Questi studi costituiscono un insieme distinto all'interno degli studi di comunità, e riescono a esprimere proposizioni formali sui fenomeni politici locali, generalizzando attraverso la comparazione di molte ricerche. Tuttavia è evidente che questo può avvenire solo a costo di una radicale semplificazione della realtà presa in considerazione, e dunque su immagini povere delle comunità studiate; procedere in questa direzione significa muoversi lungo il cammino generalmente battuto dalla ricerca empirica, allontanandosi dalla sociografia.
L'avvio del processo di sviluppo (per l'Italia, v. Anfossi e altri, 1959; v. Pizzorno, 1960) e, più di recente, i cambiamenti tecnologici e di mercato che hanno mutato la geografia dell'economia hanno sollecitato ricerche sui rapporti economia-società a livello locale; esempi di questo tipo di studi sono: in Inghilterra la ricerca di Ray E. Pahl (v., 1984) sulla vita quotidiana e le strategie familiari nell'isola di Sheppey; in Italia gli studi locali sullo sviluppo dell'economia di piccola impresa (v. Ardigò e Donati, 1976; v. Bagnasco e Trigilia, 1984); in Francia la ricerca di Bernard Ganne (v., 1983) sulla crisi dei vecchi insediamenti industriali e la differenziazione del tessuto produttivo ad Annonay, nell'Ardèche. Anche queste ricerche sono spesso orientate da interessi centrati su specifici problemi, esterni alla problematica della comunità in senso stretto.
Un cammino non molto diverso hanno seguito anche le ricerche specificamente antropologiche. Da quando gli interessi degli antropologi si sono risolutamente orientati allo studio empirico delle società occidentali contemporanee (v. Arensberg, 1955) sono state svolte ricerche locali su aspetti specifici come la famiglia, l'economia, la politica (v. Blok, 1974; v. Boissevain, 1974; v. Davis, 1977). I rapporti con gli studi politologici ed economici, e la vicinanza di interessi fra sociologi e antropologi, hanno fornito strumenti aggiornati alla ricerca localizzata e contribuito a che gli studi di comunità non fossero relegati in un'area indistinta di studi semplicemente descrittivi.
Di recente, specie in Inghilterra, ci si è interrogati sul rinnovamento degli studi di comunità e sul ritorno di interesse per lo studio empirico del vicinato, delle reti di relazione, delle relazioni di amicizia, di quei fenomeni cioè di per sé non locali, che appartengono alle nuove problematiche teoriche della comunità (v. Bulmer, 1985). Osservare che tali fenomeni debbono essere studiati senza ipostatizzare lo spazio, non significa però che lo studio dell'organizzazione spaziale della società debba essere abbandonato. Queste discussioni, come i problemi e le differenziazioni degli studi di comunità che abbiamo segnalato, piuttosto che segni di crisi sono invece indicatori di vitalità. (V. anche Integrazione sociale; Solidarietà).
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