Comunità
Il termine viene dal latino communitas, derivato di communis, "che è comune a molti o a tutti, condiviso". Indica, in senso astratto, l'essere comune, la comunanza e, in particolare, un insieme di persone unite da relazioni o vincoli, che formano un tutto. Strettamente connesso alla presenza di valori condivisi, il concetto di comunità rinvia a un particolare tipo di legami sociali, che sono alla base di collettività coinvolgenti l'individuo nella sua totalità e che risultano dal rapporto primario detto 'a faccia a faccia', tale cioè da non richiedere alcun tipo di mediazione burocratica impersonale tra coloro che lo mettono in essere. Elaborata dalla sociologia classica per indicare qualsiasi genere di unità sociale in condizioni di alta integrazione, fino a definire il carattere tipico delle società tradizionali in contrapposizione alla società moderna, la nozione di comunità è oggi utilizzata anche nel senso più limitato di comunità locale o in riferimento a istituzioni particolari nate per scopi definiti, come le comunità terapeutiche, caratterizzate dall'obiettivo di favorire il libero svolgimento delle relazioni interpersonali, riducendo l'incidenza di stratificazioni gerarchiche e di rigidità burocratiche.
di Anna Laura Palazzo
I.
Comunità designa in senso lato alcune modalità generali, piuttosto che uno statuto specifico, della vita associata: indubbiamente in origine i primi gruppi umani, non diversamente dalle comunità animali, hanno realizzato forme di convivenza in relazione a necessità di sopravvivenza (comunità meccaniche), ricercando solo successivamente una radice e un fine comuni (comunità organiche). La prossimità spaziale, o vicinanza, tra uomini, che ne dovette costituire il collante più efficace, giocò un ruolo fondamentale anche in epoca relativamente recente.
Una comune base territoriale risulta essere condizione indispensabile per la produzione di rappresentazioni materiali attraverso le quali il gruppo si riconosca, celebri le proprie radici, si premunisca rispetto all'altro da sé (ciò di cui ha timore o curiosità) e infine esca rafforzato nella propria identità. Il 'luogo antropologico' è innanzitutto un luogo fisico; ma, ancora, il luogo è lo spazio in cui si concretizzano per ogni individuo i rapporti sociali di produzione; infine, il luogo è lo spazio fisico in cui si forgia ciò che è stato chiamato la socialità. Per contro, lo sradicamento dal luogo è non di rado motivo di espropriazione e alienazione culturale: le minoranze colpite periodicamente dalla persecuzione razziale e disperse dalla diaspora sono tuttora indotte a sublimare il proprio 'luogo comune' in forme astratte e simboliche, identificandolo con un patrimonio immateriale fatto di tradizioni orali e di atti rituali piuttosto che di rappresentazioni concrete, oppure a ricostituirlo idealmente altrove, nei territori percorsi, occupati e abitati dai progenitori. Il richiamo a un luogo comune agisce ancor oggi come prerogativa e potente catalizzatore dello statuto comunitario. Eppure, per quanto riguarda le fasi più remote dell'associazione umana, non è possibile rintracciare alcuna testimonianza di stanzialità: nel caso delle società nomadi del Paleolitico, comunità designa gruppi identificabili con qualche certezza, senza peraltro indicarne con precisione i territori di pertinenza; ma già per la fase neolitica, la corrispondenza tra sedi umane e gruppi provvisti di una fisionomia specifica propone una traslazione di quel concetto verso una dimensione più concreta, con riferimento ai territori occupati.
Ci si può chiedere se sia ancora legittima tale identificazione per fasi storiche più vicine alla nostra e più agevolmente indagabili. Al proposito è utile considerare le esperienze del passato che hanno alimentato l'ipotesi di lavoro, formulata negli anni Cinquanta dal gruppo di urbanisti riformatori del Movimento Comunità di A. Olivetti, di una vera e propria rifondazione della 'comunità organica' ispirata a un'ideale corrispondenza tra società urbana e città, tra civitas e urbs. L'analisi retrospettiva sulla spazialità della città medievale nella fase corrispondente all'indipendenza comunale li induceva a enfatizzare l'apporto della collettività intera alla costruzione delle proprie sedi, sulla base di una regolamentazione d'autorità. Tuttavia, il mito di società urbane interamente pacificate sotto il vessillo delle libertà comunali veniva assunto con cautela: gli urbanisti di Movimento Comunità erano ben consapevoli che, se i classici capisaldi della città medievale, la cattedrale e il palazzo pubblico, erano edificati generalmente con il denaro della cittadinanza sulla base di un progetto condiviso, contingenti motivi di divisione prevalevano sulla costruzione di un'etica sociale collettiva. Ciò a cui i sostenitori della comunità organica guardavano con interesse era piuttosto lo spirito che aveva animato il solidarismo dell'esperienza comunale a livello capillare e i suoi meccanismi di azione. La negazione di tale spirito era di fatto l'oggetto della critica serrata all'indirizzo delle iniziative recenti di pianificazione nelle aree della bonifica e della riforma agraria e nei quartieri di edilizia popolare. Nel concreto, le esperienze progettuali che erano maturate sull'onda di quelle riflessioni ponevano prioritariamente, per un'esperienza realmente comunitaria, la questione più generale di un limite dimensionale degli insediamenti di nuovo impianto e il tema, declinato alla scala locale, di moduli insediativi in grado di consentire la permanenza di consuetudini e legami di reciprocità radicati nella coscienza collettiva.
2.
In senso stretto, comunità designa un gruppo di individui la cui omogeneità risulta palese in virtù di vincoli di sangue (nuclei familiari ristretti e allargati), ovvero di impegni assunti e solennemente ratificati in nome di un'intenzione di vita o di un programma sociale. Con ogni evidenza, le modalità di accesso a comunità di questo tipo risultano generalmente subordinate a un'adesione totale e spesso definitiva a regole e pratiche di vita collettiva estremamente rigorose. Le vicende storiche del mondo occidentale sono state fortemente segnate dalla presenza di comunità ecclesiastiche e di ordini militari che ebbero il loro momento di maggiore fioritura nel Medioevo, di gruppi etnici alla ricerca di territori da colonizzare in cui riconoscersi e di sette religiose che, in diverse epoche, si separarono dalle chiese madri dando vita a esperienze totalizzanti. Più recentemente, le comunità hippy hanno abbracciato un ideale autarchico, senza divisioni di classi e di ruoli, ispirato a un mito di società premoderna. Il terreno comune di tali esperienze è la convinzione che la pienezza della realizzazione individuale possa perseguirsi soltanto all'interno di una dimensione collettiva che rigetta egoismi e logiche di accumulazione.
Più in generale, si configurano come comunità anche raggruppamenti costrittivi occasionali di uomini che espongono la propria vita al rischio, presso i quali il codice di convivenza diventa codice di sopravvivenza: in mare, in battaglia, nelle carceri e in altre situazioni estreme si istituiscono di necessità forme forti di solidarietà e di reciprocità. Talvolta, l'istituzione comunitaria raccoglie soltanto temporaneamente i propri membri. L'avvicendamento periodico nel solco di una tradizione non di rado secolare, controllata da rigidi dispositivi e protetta da sanzioni disciplinari, ne rappresenta il carattere saliente: valgano per tutti i casi dei campus universitari e dei collegi, particolarmente diffusi nei paesi anglosassoni, in cui si svolge l'intero ciclo di istruzione dei giovani, e quello a noi più vicino della leva obbligatoria. Nella fattispecie teorica di comunità intenzionali, ossia di associazioni volontarie, generalmente permanenti, di individui, emerge evidentemente la rilevanza delle pratiche comuni: fattori, questi, che, al di là di ogni possibile astrazione, determinano nel concreto peculiari modalità di occupazione e organizzazione territoriale. Le comunità a statuto specialistico, come quelle improntate a un ideale religioso o quelle, un tempo soggette a vincoli di convivenza assai più costrittivi, costituite dai militari di carriera, tendono in effetti a connotare in maniera forte le proprie sedi: nelle più antiche espressioni comunitarie dell'era cristiana, legate alla fondazione dell'istituzione monastica a opera di san Benedetto da Norcia, viene codificato un modello insediativo caratterizzato dalla compresenza di ambienti raccolti e privati per la contemplazione solitaria e di ambienti vasti per l'adempimento delle pratiche e dei rituali collettivi: la chiesa, la sala capitolare, il refettorio, il chiostro. La diffusione dei benedettini nei territori di tutta Europa si accompagna a una rinascita culturale e a un processo di sviluppo economico incentrato sulla messa a coltura di campagne abbandonate e improduttive, che raccoglie intorno ai monasteri varie figure di contadini a diverso titolo legati all'impresa. L'evoluzione nei secoli dell'istituzione viene segnata sul piano dell'organizzazione spaziale dalle realizzazioni esemplari - veri prototipi per gli insediamenti benedettini coevi - di Cassino (529), Cluny (981), Cîteaux (1098), che incarnano, rispettivamente, l'austerità della fase costitutiva della Regola, il risvolto mondano dell'apice della potenza monastica e l'esigenza di un rinnovo della spiritualità delle origini. La diffusione degli Ordini mendicanti, legata alle figure di san Francesco e san Domenico, è invece fenomeno prettamente urbano: le sedi conventuali si portano ai margini delle città medievali, divenute ormai protagoniste di un'economia basata sullo scambio. I nuovi centri di irradiazione di cultura e le sedi depositarie di un sapere pratico diventano, rispettivamente, le istituzioni universitarie e le corporazioni delle Arti e Mestieri, vere e proprie comunità di interessi favorite dalla concentrazione urbana.
Gli scenari comunitari dell'epoca della Controriforma (1545-63) sono contrassegnati dalla proliferazione di nuovi collegi e seminari: l'Ordine dei gesuiti, fondato nel 1534 da sant'Ignazio di Loyola, diffonde capillarmente, attraverso l'azione di insegnanti, predicatori e missionari, la propria rete in tutto il mondo. Nelle città si affermano varie iniziative di carità, prevalentemente promosse dalle istituzioni, ma non di rado da privati facoltosi mediante legato testamentario. Le strutture assistenziali trovano spesso collocazione in edifici costruiti ex novo, come è il caso dell'ospizio San Michele, fatto edificare a Roma nel 1693 da Innocenzo XII, in posizione periferica, probabilmente per ragioni di sicurezza sociale: si tratta di un complesso imponente, portato a completamento nell'arco di un intero secolo, organizzato intorno a una serie di ampi cortili e destinato a ospitare nelle distinte ali asili per il soggiorno di orfani e ragazzi abbandonati, di anziani, di nubili povere (zitelle), nonché delle strutture per la detenzione e la 'correzione' dei minori e delle donne colpevoli di reati (traviate). Alcune iniziative papali, come l'installazione di una manifattura per la lavorazione completa della lana e di una fabbrica di arazzi in cui trova occupazione una manodopera prevalentemente femminile, introducono le comunità di 'reclusi' alla dimensione produttiva, e tuttavia in un modo fondamentalmente regressivo: le condizioni di sfruttamento dei diversi gruppi, reciprocamente segregati e totalmente separati dalle pratiche virtuose di chi, per censo o per sorte, non conosce il marchio della coazione, lasciano supporre, dietro una forzata gratitudine verso l'istituzione benefattrice, profondo disagio e latenti conflittualità. Ma nei cortili del San Michele viene anche intrapresa un'iniziativa di avviamento professionale dei giovani alle diverse pratiche artigianali: esperienza, questa, di grande rilevanza sociale, poiché lo sviluppo di un'attività autonoma costituisce uno strumento per l'affrancamento individuale da una situazione di subalternità, una premessa necessaria per l'integrazione nel mondo esterno.
3.
La questione di risarcire l'uomo e la sua socialità attraverso diverse condizioni di vita e di lavoro emerge più esplicitamente dopo la rivoluzione industriale: le utopie sociali ottocentesche, pur insistendo sulla pienezza dell'esperienza umana, configurano ipotesi di comunità omogenee e contenute dimensionalmente, in cui l'individuo, liberato dall'assillo della miseria e affrancato dalla schiavitù dell'ignoranza, possa realizzarsi addestrandosi a sfruttare la macchina, nuova divinità della rivoluzione industriale, anziché subirne il dominio; la denuncia dell'alienazione e della separazione strutturale tra capitale e forza-lavoro costituisce lo sfondo delle proposte più radicali.
Gli esperimenti realizzati, pur nelle loro diversità, toccano alcuni problemi fondamentali, quali la distribuzione e l'uso degli spazi verdi, destinati ovunque a separare gli abitati dagli stabilimenti e dagli impianti inquinanti, l'organizzazione del servizio scolastico, la realizzazione di attrezzature collettive, e infine l'invenzione di pratiche sociali e di rituali comuni per sacralizzare la fondazione recente e per favorire i processi di socializzazione. L'industriale R. Owen, dopo un primo tentativo di organizzare, nel 1816, una comunità per le famiglie dei dipendenti di un suo stabilimento in Scozia, fondò in America, nell'Indiana, la comunità a prevalenza rurale di New Harmony, gestendola dal 1825 al 1829. In termini spaziali, l'utopia, abitata da circa 1200 persone, consiste in un'ampia area rettangolare delimitata su tre lati da casette affiancate per famiglie di quattro componenti al massimo e, sull'altro lato, da dormitori per i bambini di età superiore ai 3 anni, affidati alle cure della comunità in grado di impartire loro un'educazione 'esente da vizi'. Gli edifici collettivi, circondati da giardini, sono collocati al centro di questa ampia corte; all'esterno, oltre la schiera delle abitazioni, si estendono le terre coltivate, e, a distanza, le lavanderie, il mattatoio e le fabbriche, schermate da cortine arboree. Tutti i membri della comunità devono essere economicamente in grado di accedere ai beni, prodotti sulla base di un'unità di misura degli scambi che è il lavoro umano.
Tra gli utopisti francesi, F.-M.-Ch. Fourier esercita un ruolo di primo piano nel configurare una proposta di comunità che, liberata dai contrasti e dalle competizioni della società contemporanea, evolva per gradi verso una forma più alta di 'armonia universale'. Il principio informatore, che appare proponibile soltanto all'interno di un sistema autoritario e coercitivo, risiede in un ideale di ordine e concentrazione: concentrazione degli sforzi in vista della realizzazione di un traguardo di assoluta libertà e concentrazione degli spazi con la costruzione, nella fase finale, di un unico edificio-città, il 'falansterio', che comprende abitazioni e servizi collettivi, a evitare la parcellizzazione eccessiva del costruito consentendo lo sviluppo di ampie zone a parco. Gli ambienti di uso collettivo, riuniti al centro del falansterio, sono raggiungibili attraverso una rue intérieure, che si sviluppa a livello del primo piano come una galleria coperta e chiusa da vetrate, addossata a un lato del fabbricato per tutta la sua altezza: è la medesima galleria a disimpegnare attraverso scale anche le abitazioni dei piani superiori, mentre al piano terreno frequenti passaggi carrabili mettono in comunicazione le aree verdi sui due lati della costruzione. Il progetto è accuratissimo in tutte le sue parti e dispone non soltanto di un piano economico, ma persino di uno studio sulla composizione auspicabile della popolazione residente. Il rigido determinismo dell'ipotesi di Fourier venne mitigato nella più importante e duratura tra le esperienze che vi si ispirarono, quella legata al nome di J.-B.-A. Godin. Nel 1859 egli diede vita a una comunità per circa 1500 persone, costituita dalle famiglie degli operai del suo stabilimento metallurgico nei pressi di Guise, nella Francia settentrionale. La localizzazione del 'familisterio' fu scelta con particolare attenzione alle condizioni ambientali, circondata da ampi spazi verdi e protetta da fumi, rumori e odori molesti delle fabbriche, dal corso del fiume Oise. L'edificio era articolato in tre blocchi a cortile comunicanti tra di loro, con lo spazio interno coperto a vetri con funzione di rue intérieure. Il complesso ospitava una nursery, un asilo per bambini e alcuni spacci gestiti dall'economato. Un teatro, una biblioteca, una lavanderia, una piscina e le scuole trovavano collocazione entro edifici disposti nello spazio circostante tenuto a parco. Grande significato ebbe per la collettività, nel 1880, la costituzione dei lavoratori in una cooperativa che partecipava agli utili ed era responsabilizzata alla gestione della fabbrica e dei servizi comuni. La ragione della lunga durata dell'utopia di Godin va senza dubbio attribuita alla realizzazione di una salda compagine sociale in cui si affiancano capitale, lavoro e ingegno, senza che la convivenza assuma fosche tinte costrittive: gli appartamenti, affacciati sia sul cortile comune sia sul parco circostante, godono di una notevole privacy e risultano aggregabili secondo le esigenze dei nuclei familiari. La presenza di servizi comuni alleggerisce notevolmente il peso del lavoro domestico. L'avvicendarsi delle generazioni, con la conseguente presenza negli alloggi di un'utenza non necessariamente legata all'attività della fabbrica, e le mutate condizioni dell'industria, esposta a spietati meccanismi concorrenziali a opera di altre imprese, indebolirono lo spirito comunitario e resero forzati e inautentici i momenti di socializzazione. Le utopie non conoscono la dimensione della durata: il loro tempo è situato in un eterno presente; l'equilibrio di una condizione non consiste nella sua stabilità sancita a priori, ma è piuttosto la conquista di ogni giorno. Il familisterio è sopravvissuto al suo fondatore sino al 1968, quando il tempo storico ha fatto valere le proprie ragioni. Nel 20° secolo, territori immensi come le campagne della Cina e dei paesi dell'Unione Sovietica sono stati ridisegnati da forme comunitarie di ispirazione socialista. Nel primo caso il collettivismo agrario, sollecitato dal 'partito', trovava nei villaggi presistenti un tessuto contadino in grado di gestire caso per caso la ridistribuzione delle terre sottratte ai latifondisti. I kolchoz sovietici vennero invece organizzati come villaggi autosufficienti, completi di servizi pubblici e di attrezzature collettive. La dimensione dell'appezzamento di proprietà statale in dotazione si aggirava normalmente intorno ai 6000 ettari: la struttura di gestione, detta collettivo, si sobbarcava le spese di noleggio del macchinario necessario alla produzione, corrispondeva allo Stato circa un terzo del raccolto e retribuiva i singoli agricoltori con un compenso in denaro e, talvolta, anche in natura, sulla base delle giornate effettivamente lavorate e del tipo di attività svolta. I kolchoziani disponevano inoltre di un orto per uso privato ed erano autorizzati a venderne le eccedenze sul libero mercato. Se pure vi fu mai uno spirito del kolchoz improntato a un ideale di condivisione, l'iniziativa individuale si espresse assai presto esclusivamente negli spazi di diretta pertinenza, trascurando l'impegno nella produzione dei beni comunitari: lo sfruttamento e la coercizione propri dell'organizzazione, che risultarono evidentemente inconciliabili con ogni ipotesi di comunità organica, dovevano decretare la sconfitta di un progetto che era imposto dall'alto.
4.
Ci si può domandare se, di fatto, sia mai possibile la comunità organica. Si è visto che rappresentazioni di comunità allargate si danno più frequentemente sul terreno della sociologia, dell'antropologia e della letteratura che su quello della storia, che risulta spesso causa del loro fallimento: appare pertanto opportuno indagare i costrutti teorici a favore della nozione di comunità in rapporto ad altre associazioni di individui, con riferimento alle società occidentali contemporanee. S.J. Mandelbaum (1994) propone il ricorso alla forma del mito, sia come artificio retorico fortemente radicato nell'immaginario collettivo e costitutivamente non suscettibile di verifica storica, sia come strumento di indagine delle strutture e forme di accordo che regolano i meccanismi delle comunità. Adesione senza costrizione alle regole di convivenza, solidarietà, istanza di partecipazione alla vita collettiva all'interno di una pur codificata divisione di ruoli, ne sarebbero, nell'ipotesi di comunità perfetta, pacificata e integrata, i comuni corollari. Un primo mito, definito individualistico, insiste sulla primogenitura di un diritto su base individuale rispetto a qualunque forma di consorzio umano. Esso alimenta il genere epico, i racconti forgiati sulla dimensione eroica dei protagonisti di patti, di rituali di fondazione di città e comunità, la civitas. L'associazione volontaria tra uomini forti è regolata da un contratto sociale tra individui naturalmente 'morali'. Un secondo mito, sostenuto dall'ipotesi dell'innatismo della condizione sociale, impegna i componenti di quella che viene da Mandelbaum definita la 'comunità profonda' in una visione olistica e integrata del loro posto nell'universo, della loro storia e cultura, e del significato dell'esperienza personale. Non sono, questi, caratteri esclusivi di società periferiche, primitive, appartate dal villaggio globale. Anche entro civiltà complesse si costituiscono gruppi di coesione sulla base di profonde e vaste obbligazioni reciproche, in nome di un codice che ha una propria sacralità: tipicamente, nelle società protestanti, dove il capitalismo ha uno sfondo etico, la tradizione filantropica del volontariato e la precoce costituzione delle unioni sindacali e dei circoli socialisti, insieme a forme di associazionismo più recenti e circoscritte per estensione e azione - associazioni di vicinato e chiese suburbane -, tendono a proporsi come entità morali totalmente inclusive. Nell'ambito di un consenso ampio, nessuno detta in maniera esclusiva i requisiti della pratica virtuosa. Ciò nondimeno, le comunità profonde sono segnate da una divisione morale del lavoro: il vaglio dei valori e l'amministrazione del rito sono appannaggio di un gruppo circoscritto di persone designate in relazione alla casta e al censo nel passato, come i pontefici massimi della tradizione latina, oppure in base ai caratteri precipui della loro preparazione e formazione culturale nella fase attuale. L'accesso alla vita comunitaria, generalmente regolato da complessi rituali di iniziazione, viene sottoposto a un vaglio severo da parte di una élite dotata dei poteri di censura e di espulsione. All'interno del mito individualistico, centrato sull'integrità e sulla razionalità dell'Io, le scelte collettive esprimono, seppure con una inevitabile mediazione, preferenze personali. Il mito delle comunità profonde insiste piuttosto sull'estensione e sulla coerenza dell'ordine morale: essere 'razionale' significa inserirsi in quell'ordine e rispettarlo. Lungi dall'essere antitetici, tali scenari interpretativi sono da sempre impiegati in modi complementari: i due miti si relazionano in maniera complessa e inaspettata, sostenendosi reciprocamente.
Già nella Grecia classica, la tragedia ha drammatizzato con intento didascalico il contrasto tra l'isolata ed eroica volontà di affermazione individuale, al di là dei confini di ciò che è dato sapere o potere, e le ragioni prudenti e sommesse della tradizione incarnate dal Coro. La ribellione al Fato vi è rappresentata generalmente come un atto di superbia imperdonabile. L'insistenza del tema, a dispetto di orientamenti filosofici incentrati sull'etica e sul principio di responsabilità individuale, testimonia di un sacrificio della razionalità dell'Io sull'altare di un ordine sociale evidentemente più garantito se fondato sui tradizionali valori di continuità dell''impalcato' civile. Le moderne società di matrice occidentale, secondo Mandelbaum, risultano meglio inquadrabili all'interno di un terzo mito, quello delle 'comunità morali aperte', in cui l'individuo partecipa contemporaneamente a diverse esperienze comunitarie, non reciprocamente esclusive. Presso queste comunità, un principio di tolleranza nei riguardi dei requisiti di ammissione/esclusione, o più semplicemente, una consuetudine di indifferenza, è contemporaneamente il traguardo, la cifra e il costo di una sorta di inevitabile caduta di tensione. Il denso tessuto di comunità sovrapposte che appare attraverso questa rappresentazione è segnato continuamente da articolazioni, stratificazioni e ricomposizioni di idealità astratte e di interessi concreti, secondo logiche frammentarie estranee alle chiavi interpretative più consuete. Anche in Italia, con la dissoluzione di alcuni tradizionali fattori di aggregazione sociale, come i partiti politici, sempre più frequentemente si fa riferimento a una nozione come quella di 'società di minoranze', le quali esprimono domande di comportamenti istituzionali diversificati in grado di fornire regole per il confronto e il contemperamento di interessi contrapposti. Il rischio di una siffatta interpretazione di comunità, che è probabilmente la più moderna e calzante, è lo slittamento di un significato all'origine assai rigoroso in termini di globalità dell'esperienza verso prospettive più riduttive, che al limite introducono forme di solidarietà legate ad accordi parziali. È significativo a questo proposito che del termine comunità si siano appropriati, dal secondo dopoguerra, il linguaggio economico, quello politico e quello giuridico, con riferimento a concetti e strumenti circoscritti entro il loro campo di azione: nell'ambito delle istituzioni e degli organismi internazionali, comunità è termine abusato e finisce talvolta per assolvere un ambiguo ruolo di mediazione retorica tra potere e cittadino.
di Mario Picchi
I.
Quello di comunità terapeutica è uno dei concetti più controversi delle scienze sociali. Anche la definizione 'terapeutica' è complessa e opinabile, per le implicazioni che ha con i processi pedagogici, i modelli antropologici e le concezioni sociopolitiche e filosofico-spirituali che sono alla base delle diverse proposte di percorsi comunitari. In termini molto generali, per comunità terapeutica s'intende un gruppo di persone che condividono idee, interessi, obiettivi, legati alla promozione del singolo e al suo reinserimento sociale. Idealmente la comunità terapeutica dovrebbe fornire ai suoi ospiti la possibilità di realizzare nel modo più autentico la propria esistenza, permettendo loro di acquisire la capacità di compiere scelte sempre più libere e responsabili attraverso il continuo e aperto confronto con gli altri. Essa è, in sostanza, una microsocietà che presenta i problemi e le tensioni della vita quotidiana. La funzione terapeutica è svolta anche e soprattutto dal gruppo, dall'ambiente e dalla vita di relazione che vi si svolge. L'individuo rimane il protagonista cosciente e responsabile della propria esistenza: è lui, come davanti a uno specchio, ad analizzare i propri comportamenti per modificarli.In Italia, a partire dalla metà degli anni Settanta, si sono moltiplicate le esperienze di comunità, indirizzate in particolare ai tossicodipendenti e quasi tutte promosse dal privato sociale, poche dai servizi pubblici; inferiore è invece il numero delle comunità che si rivolgono a persone con altri problemi (alcolisti, pazienti psichiatrici, malati incurabili ecc.). La difficoltà di classificare le esperienze si riferisce, dunque, soprattutto alle comunità per tossicodipendenti. Accanto a sommarie distinzioni (chiuse/aperte, rigide/permissive, proprie/improprie, democratiche/gerarchiche), tipologie più accurate sono state tracciate da studiosi e gruppi di ricerca. Per es., L. Cancrini (1983) distingue tra comunità 'esplicitamente' e 'implicitamente' terapeutiche. Fra le prime, si collocano strutture che puntano al rientro della persona nella società e individuano lo strumento per conseguirlo nella soluzione dei nodi problematici della vita del soggetto e, sovente, anche dei componenti il nucleo familiare. Di conseguenza, elaborano un progetto di vita rispettoso dell'equilibrio e dell'autonomia dell'individuo, favorendo il distacco dalla comunità in tempi brevi.
Tra le comunità del secondo tipo, si situano quelle che non prevedono programmi terapeutici strutturati, si avvalgono di un numero ridotto di operatori con qualifiche professionali e si propongono come luogo alternativo di vita, imponendo, in alcuni casi, un'adesione totale alla nuova realtà.Seguendo gli indirizzi del gruppo di lavoro di C. Kaneklin e ispirandosi alle proposte di R. Hinshelwood e J. Bergeret, M. Corulli e A. Gilardi (1991) distinguono quattro tipi di comunità: quelle centrate sulla trasmissione, che tendono all'imposizione di un modello e sono caratterizzate da una rigida pedagogia e da una forte gerarchia; le comunità volte alla comprensione clinica, in cui opera un alto numero di professionisti che considerano quali strumenti fondamentali, accanto alla vita comunitaria, le diverse terapie individuali e di gruppo; le comunità orientate alla comprensione umana, a carattere familiare, di piccole dimensioni; infine le comunità di accoglienza, ispirate a modelli di matrice ideologica o religiosa, dove gli operatori sono in maggioranza ex tossicodipendenti e il gruppo offre un notevole sostegno di identificazione. Questa tipizzazione prevede differenze anche notevoli in relazione agli obiettivi pedagogici, all'immagine dell'utente e della tossicodipendenza, agli strumenti utilizzati. Come modelli si possono via via chiamare in causa il convento, la vita militare, la famiglia patriarcale, la famiglia cameratesca, il luogo organizzato di vita e formazione.
Una ricerca della Fondazione Labos (1994) ha invece identificato tre prevalenti strategie di intervento: a) la strategia operativa di base: le comunità (la maggioranza in Italia) si fondano su un lavoro di équipe con al centro la predisposizione del piano terapeutico, i rapporti con i servizi pubblici per le tossicodipendenze, la cura degli aspetti burocratici; b) la strategia educativa centrata sul lavoro: nelle comunità sono presenti numerosi psicologi, educatori-animatori, volontari e persone prive di qualifica che sostengono le attività lavorative - generalmente cooperative artigianali e di servizi - o di studio; c) la strategia specialistica orientata all'intervento psicoterapeutico, con approccio tecnico-specialistico e la presenza dominante di operatori formati nelle professioni sociali e sanitarie tradizionali.Le scelte dei responsabili delle comunità (alcuni rifiutano la definizione 'terapeutica' e adottano la semplice denominazione 'comunità di vita' o 'di accoglienza') confermano la difficoltà di distinzioni rigide e di classificazione di ciascuna esperienza in uno o l'altro dei tipi o sottotipi formulati dai ricercatori.
2.
Molto articolato e non riconducibile a una genealogia lineare è lo sviluppo storico delle comunità terapeutiche, che possono definirsi il risultato dell'incontro tra il desiderio di una vita ricca di spiritualità, il sogno di una società alternativa - dalle utopie dell'Illuminismo ai kibbutz israeliani - e l'approccio non segregativo alla malattia mentale (Cancrini 1983).
Il concetto di comunità terapeutica potrebbe farsi risalire addirittura alla setta giudaica degli esseni. Lo storico Filone d'Alessandria testimonia come circa 2000 anni fa, sulle rive del mar Morto, alcuni 'terapeuti' si occupassero di anime dominate da infermità legate a "piaceri e appetiti, paure e dolori, avidità e pazzia". In seguito, le prime comunità cristiane, con la pubblica confessione di colpe e deviazioni e, soprattutto, con la solidarietà, la condivisione dei beni e il mutuo aiuto, mostrarono un modo alternativo di vivere i rapporti umani. Analoghi obiettivi si posero le comunità monastiche, ricorrendo agli stessi strumenti.
La Riforma protestante, reagendo a un certo affievolimento della testimonianza cristiana, propose un ritorno allo stile di vita comunitario della Chiesa primitiva. In questo spirito va inquadrata l'organizzazione per la 'rinascita spirituale dell'umanità', sorta a Oxford nel 1860. I membri degli Oxford groups (noti anche come Associazione cristiana del 1° secolo e poi, dal 1900, come Riarmo morale) si incontravano più volte alla settimana per commentare la Bibbia, confessarsi pubblicamente e promettersi reciprocamente maggiore onestà. Alcuni di loro erano ex alcolisti. E alcolisti furono, negli anni Trenta del 20° secolo, i fondatori, negli Stati Uniti, degli Alcolisti anonimi, il gruppo di autoaiuto oggi più diffuso nel mondo, che si pone l'obiettivo di condividere l'impegno di mantenere la sobrietà.Tra la fine del 18° secolo e gli inizi del 19°, si erano nel frattempo affermate in Europa esperienze di trattamento alternativo dei malati di mente: con Ph. Pinel in Francia, con W. Take in Inghilterra e nel villaggio di Gheel presso Anversa, in Belgio. L'elaborazione teorica, dopo l'esperienza di una terapia ambientale tentata da H.S. Sullivan e K. Menninger, fu tuttavia messa a punto solo dopo la Seconda guerra mondiale, come reazione al potere esercitato sui pazienti psichiatrici mediante la reclusione. Nel 1946 T. Main, partecipando alla riorganizzazione dell'Istituto psichiatrico di Northfield, in Inghilterra, coniò l'espressione comunità terapeutica, e lo psichiatra scozzese M. Jones ne introdusse la pratica in vari ospedali, tra cui lo Henderson di Londra. In questo modello, il paziente era coinvolto direttamente nell'organizzazione dell'ospedale e nei processi decisionali relativi alla sua terapia, interagendo con gli altri in un quadro relazionale che riduceva fortemente il divario di potere tra operatore e paziente. Living-learning può essere definito, per Jones, il principio che anima la comunità: vivere imparando dall'esperienza. Anziché essere recettori passivi, come nelle istituzioni tradizionali, gli ospiti diventano partecipi e responsabili, acquisendo la consapevolezza dei propri sentimenti, desideri, pensieri e comportamenti (Jones 1982).
Con obiettivi analoghi B. Bettelheim fondò, negli anni Cinquanta, le prime comunità per bambini e adolescenti gravemente disturbati (Orthogenic school di Chicago) e C. Saunders creò le prime comunità per malati terminali di cancro, coinvolgendo pazienti, familiari e personale sociosanitario in una ricerca costante del significato della vita e della morte (St. Christopher hospice di Londra). In campo psichiatrico vanno ricordati, in Italia, i percorsi comunitari sperimentati, in particolare, da F. Basaglia a Gorizia negli anni Sessanta, caratterizzati dalla grande attenzione a che il paziente non si estraniasse dalla vita sociale.
Per quanto riguarda gli alcolisti e i tossicodipendenti, la prima comunità venne fondata nel 1958 in California da un gruppo di ex membri degli Alcolisti anonimi. In un sistema relazionale verticistico e autoritario, il gruppo Synanon offrì ospitalità anche a giovani che intendevano liberarsi dalla droga. Il modello di Ch. Dederich non prevedeva tuttavia il reinserimento sociale: il soggiorno era a tempo indeterminato e il programma terapeutico si fondava sulla rieducazione basata su premi e punizioni. Il tossicodipendente era considerato un essere passivo, irresponsabile, che occorreva affrancare da quanto soffocava le sue emozioni, riabituandolo a piangere, ridere, urlare, e occorreva umiliare per renderlo orgoglioso e punire per responsabilizzarlo.
Nel 1962, sulla costa orientale degli Stati Uniti, un gruppo di operatori provenienti da Synanon, tra i quali lo psichiatra D. Casriel, e di ex tossicodipendenti creò il Daytop Village. La comunità newyorchese si poneva per la prima volta l'obiettivo del completo reinserimento sociale dell'ospite, evitando la cristallizzazione dei ruoli e rendendo più elastica la gerarchia.
Da questi modelli, e dagli insegnamenti di Jones, sono sorte anche in Europa, nonché in America Latina, Africa e Asia, numerose comunità per tossicodipendenti, estremamente differenziate tra loro per dimensioni, sistemi di conduzione, obiettivi primari e scelta degli ospiti. Come è possibile dedurre anche dall'esperienza italiana, esistono comunità terapeutiche per persone travolte dalla droga, per chi ha mantenuto buone relazioni sociali e affettive nonostante l'abuso di sostanze, per soli uomini o per sole donne, per coppie sposate, per lavoratori adulti, per adolescenti in età scolare, per persone con disturbi psichiatrici. Né va dimenticato che con il nome di comunità terapeutiche sono designate anche esperienze assolutamente non residenziali, come i Club per alcolisti in trattamento, fondati dallo psichiatra croato V. Hudolin e attivi oggi in gran numero, in particolare nel Triveneto.
A differenza di altri paesi, dove l'apporto della psichiatria è stato determinante, in Italia gran parte del movimento delle comunità terapeutiche ha trovato le sue radici nei valori, nello stile e nella filosofia di vita del volontariato, e nel concetto di autoaiuto. La dimensione del volontariato assicura condivisione, solidarietà, gratuità, accoglienza, espresse in forme varie: di anticipazione, integrazione e stimolo alle istituzioni per rispondere ai nuovi bisogni sociali; di azione politica e promozione di iniziative volte a garantire la tutela e la dignità delle persone più fragili. L'uomo in quanto persona è al centro delle attività del volontariato: chiunque, in qualsiasi condizione sociale, è dotato di risorse e di capacità e va pertanto aiutato a riconoscerle, a farle proprie e a esprimerle. Il concetto di autoaiuto si basa sull'idea di aiutare il soggetto ad aiutare sé stesso. In sintesi, si tratta di ascoltare ciò che egli vuole comunicare; di condividere i suoi problemi e sentimenti senza emettere giudizi di sorta; di favorirne la presa di coscienza delle difficoltà e della loro natura; di lasciare che egli decida liberamente ciò che è consono alla sua situazione; infine, se necessario, di appoggiarlo nella sua scelta (De Dominicis 1997). Su questi elementi, alcune comunità terapeutiche hanno innestato esperienze psicopedagogiche elaborate in proprio o sperimentate altrove. La Federazione italiana delle comunità terapeutiche, i cui programmi si ispirano a un comune progetto formativo, ha in un primo tempo elaborato e adattato alla situazione italiana alcuni principi del Daytop Village e successivamente ha arricchito le proprie proposte. Il Centro italiano di solidarietà di Roma si è avvalso, in particolare, della collaborazione di Jones, mettendo a frutto la sua teoria dell'apprendimento sociale o 'in azione'. Altri incontri fecondi si sono rivelati quello con l'approccio centrato sulla persona formulato da C. Rogers, che considera gli operatori agenti di cambiamento nella promozione della libertà di esplorazione, empatia, accettazione e rispetto di sé e degli altri, e quello con H. Bridger e l'esperienza delle dinamiche organizzative del londinese Tavistock institute, per l'apertura alle letture psicoanalitiche degli interventi. Altri strumenti utilizzati sono la logoterapia di V.E. Frankl, lo psicodramma di J. Levy Moreno, il lavoro sui processi emozionali di D. Casriel, la bioenergetica ecc. (De Dominicis 1997). Negli anni Novanta del 20°secolo, gli operatori del settore pubblico e del privato sociale sono stati invitati dal governo italiano a formulare un codice deontologico relativo anche alle comunità terapeutiche. Le linee guida prevedono il pieno riconoscimento dei diritti di ogni individuo inserito nei programmi di comunità; escludono qualsiasi forma di minaccia o coercizione fisica, psichica e morale; garantiscono in ogni momento la volontarietà dell'accesso e della permanenza nella struttura. Le comunità devono inoltre promuovere la dignità della persona quale valore prioritario, perseguendo il raggiungimento da parte degli ospiti di uno stato di maturità e di autonomia psicofisica ed emotiva; hanno il compito di prevedere progetti specifici di reinserimento sociale e comunque sono tenute a fare in modo che il tempo di residenza in comunità non sia superiore alle reali necessità dell'utente; infine, curano l'aggiornamento periodico degli operatori e rendono pubbliche metodologie di intervento, definizione del progetto e valutazione dei risultati.
di Giancarlo Urbinati
La medicina di comunità è, secondo la definizione ufficiale dell'organismo nazionale che riunisce i cultori di questa nuova disciplina specialistica, "il movimento scientifico-professionale emerso dai concetti della sanità pubblica, per il quale è centrale l'idea che i fattori principali che determinano la salute della comunità si trovano all'interno della comunità stessa, vale a dire nelle sue componenti sociali, culturali, biologiche e nel suo ambiente, sia quello naturale sia quello artificiale, costruito dall'uomo". Occorre allora precisare cosa si intenda, sotto questo specifico profilo, per comunità, al fine di definire gli ambiti di interesse della disciplina medica che di essa si occupa, e di fissare i limiti che la separano dalla medicina generale e specialistica, dall'igiene e dalla sanità pubblica. Se si considera la comunità come un gruppo specifico di persone che vivono in un'area geografica definita, hanno una cultura comune, sono organizzate in una struttura sociale e palesano una certa consapevolezza della loro identità come gruppo, è chiaro che i compiti del medico di comunità verrebbero ad assommare in sé quelli generalmente affidati al medico generale o agli specialisti nelle differenti branche della medicina. Nelle società moderne, infatti, le persone raramente appartengono a una singola, distinta comunità, ma fanno parte di diverse comunità, basate su variabili quali il lavoro, i contatti sociali, gli interessi nel tempo libero, e altre ancora. In realtà, al medico di comunità, la cui figura fu per la prima volta istituita in Gran Bretagna agli inizi degli anni Settanta, non sono affidati compiti di natura clinica, ma piuttosto di programmazione, organizzazione e coordinamento dei servizi sanitari a livello di popolazione. Obiettivo primario della sua azione è infatti la salute della popolazione o di gruppi di popolazione, e non più soltanto quella degli individui considerati singolarmente. Vigilare sullo stato di salute della popolazione, identificare i problemi, proporre le soluzioni, gestire l'uso delle risorse da impiegare per il miglioramento dell'efficienza e dell'efficacia dei servizi, sono alcuni dei principali compiti della medicina di comunità e degli specialisti che di essa si occupano.
L'obiettivo della salute può essere perseguito in modi diversi, che si identificano fondamentalmente nella promozione della salute stessa e nella prevenzione delle malattie e delle loro complicanze. La differenza principale tra la promozione della salute e la prevenzione nei suoi vari gradi (primaria, secondaria e terziaria) risiede nella definizione dello scopo: mentre la seconda cerca di evitare uno stato negativo, la prima mira al mantenimento o al raggiungimento di uno stato positivo, cioè l'equilibrio tra benessere fisico, psicologico e sociale. È evidente che queste attività possono riguardare anche il singolo individuo oppure la famiglia (la quale rappresenta il nucleo elementare di più vaste e complesse aggregazioni sociali, ed è pertanto essa stessa una comunità in embrione), ma vantaggi concreti in termini di sanità pubblica possono ottenersi soltanto se esse vengono indirizzate all'intera popolazione o a particolari gruppi di essa. La prevenzione primaria, per es., vale a dire quella prevenzione che mira a prevenire la comparsa delle malattie, può utilizzare due strategie generali: una rivolta ai soli soggetti ad alto rischio, l'altra diretta all'intera popolazione, indipendentemente dalla conoscenza della posizione che i singoli individui occupano nella curva di distribuzione del rischio. Con l'impiego della strategia 'dell'alto rischio' è certamente possibile evitare il verificarsi di eventi morbosi altamente probabili, questi tuttavia sono piuttosto scarsi dal punto di vista quantitativo, dal momento che relativamente pochi sono i soggetti il cui rischio è molto elevato e che si collocano pertanto all'estremo destro della curva; risultati assai più consistenti si ottengono, al contrario, adottando la strategia 'di popolazione', in quanto la massima parte dei futuri eventi morbosi si genera nella parte centrale della curva stessa, ovvero laddove il livello del rischio è senza dubbio più basso, ma il numero degli individui è di gran lunga maggiore. La strategia ottimale è, di conseguenza, quella che integra una visione che potremmo definire clinica della prevenzione con una visione, sicuramente più proficua, di tipo comunitario. All'interno della promozione della salute vanno poi identificate due componenti, la protezione della salute e l'educazione sanitaria. La protezione della salute si realizza attraverso una serie di controlli legali e amministrativi, di regole e procedure, di codici di autoregolamentazione, diretti a influenzare i cambiamenti economici, sociali e ambientali in una direzione favorevole alla salute (Barbuti et al. 1994); si tratta peraltro di interventi che, pur avendo un notevole impatto sulla salute, sono sottratti al potere decisionale della comunità, essendo delegati al Parlamento e alle autorità centrali o locali, e possono essere quindi stimolati solo indirettamente dalla volontà popolare. L'educazione sanitaria è lo strumento indispensabile per completare l'opera di promozione della salute. Essa mira a influenzare, a tutti i livelli, conoscenze, atteggiamenti e comportamenti ed eventualmente a modificarli, se errati o comunque non adeguati all'obiettivo primario del mantenimento o del miglioramento della salute.
Si è detto che tra i più importanti compiti affidati al medico di comunità vi è quello dell'identificazione dei problemi sanitari della popolazione a lui affidata; a questo fine egli si serve soprattutto delle tecniche epidemiologiche, che a loro volta hanno quale principale strumento la statistica. L'epidemiologia permette non solo di conoscere la quantità di malattia e la sua distribuzione nella popolazione, ma anche i suoi determinanti e la sua storia naturale, cioè la sua normale evoluzione al di fuori di ogni intervento atto a modificarla. Oltre a fornire le dimensioni del problema, essa consente anche di rimuovere, ove possibile, i fattori causali e concausali che ne hanno provocato o facilitato la comparsa. Gli aspetti quantitativi hanno grande importanza per definire le priorità di intervento, in quanto le risorse finanziarie e le tecniche disponibili sono, e certamente saranno sempre, insufficienti a rispondere in modo completo alla domanda. Non sempre è facile stabilire quali sono, in una determinata comunità, i problemi più pressanti e più gravi, ma a questo fine ci si può basare su tutta una serie di 'indicatori di salute': per ogni patologia sono infatti disponibili i dati sulla mortalità, sulla morbosità incidente (relativi, cioè, alla comparsa delle forme sintomatiche di malattia) e sulla inabilità. Mentre per la mortalità esistono sistemi di rilevazione sistematica sufficientemente affidabili e accurati, per la morbosità e l'inabilità tali sistemi mancano, per cui occorre basarsi su fonti di informazione indiretta (per es., l'andamento dei ricoveri ospedalieri o delle visite eseguite presso i medici di base, le giornate di assenza dal lavoro per malattia ecc.), oppure sui dati di indagini appositamente programmate (screening). La definizione della priorità di intervento sanitario in una determinata comunità richiede comunque la valutazione contemporanea di più indicatori di malattia. Una volta stabilite queste priorità, i relativi problemi andranno affrontati suggerendo alle autorità, sia locali sia centrali, i mezzi più opportuni per la loro soluzione e coordinando le varie attività di intervento richieste in ogni specifico caso. Un altro aspetto, non meno importante, della salute comunitaria è quello dei rapporti tra possibili cause (fattori di rischio) e comparsa di malattia, e anche in questo caso l'apporto dell'epidemiologia è risultato fondamentale, in quanto ha consentito di spiegare una sufficiente quota di una determinata malattia nella comunità, o di fornire una giustificazione delle variazioni di frequenza di una stessa malattia in comunità differenti, così da ipotizzare una relazione causale tra fattori e malattia. Un tempo, il problema fondamentale della medicina era costituito dalle malattie infettive, che fornivano il principale contributo alla mortalità e alla morbosità, e che, in particolari circostanze, esplodevano in forma epidemica violenta in certe aree e popolazioni, oppure continuavano a mietere vittime in forma endemica in altre. Oggi il quadro è completamente mutato, almeno nei paesi industrializzati, e l'attenzione si è spostata sulle malattie non trasmissibili, le cosiddette malattie cronicodegenerative (tra cui in primo luogo le patologie cardiovascolari e i tumori maligni), che sono responsabili di oltre i quattro quinti di tutti i decessi e impegnano la maggior parte delle risorse a disposizione della sanità. Conseguentemente, è cambiato il ruolo del medico di comunità, cui spetta un compito di primaria importanza, di coordinamento delle attività preventive e di indirizzo nella lotta contro queste affezioni, che hanno assunto il carattere di vera e propria epidemia.
La prevenzione delle malattie infettive spetta infatti al servizio di igiene e sanità pubblica delle Aziende sanitarie locali (ASL), che la attua mediante le vaccinazioni obbligatorie; il compito di identificare e correggere tutte le situazioni di pericolosità biologica, fisica e chimica degli ambienti di lavoro è devoluto a un apposito servizio di prevenzione e sicurezza istituito presso le stesse ASL, mentre la tutela ambientale, più in generale, è affidata, per quanto riguarda le competenze di ordine sanitario, ad agenzie regionali, articolate in dipartimenti provinciali e servizi territoriali. Se per la profilassi delle malattie infettive e di quelle legate all'attività lavorativa esistono organismi istituzionalmente preposti, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda la prevenzione delle malattie cronicodegenerative. In questo campo, il medico di comunità assume un ruolo davvero essenziale. Egli promuove e coordina iniziative dirette all'identificazione dei soggetti ad alto rischio e dei malati ignorati perché asintomatici; propone linee guida per modificare gli stili di vita incongrui, che costituiscono i maggiori determinanti di queste patologie, sfruttando anche il carattere polipredittivo di alcuni dei principali fattori di rischio; si fa promotore di programmi di educazione sanitaria da realizzare a ogni livello; collabora all'elaborazione di materiale informativo ed educativo, e ne favorisce la più ampia diffusione; cerca di raggiungere con il messaggio e l'azione l'intera popolazione, anche attraverso il coinvolgimento dei medici di famiglia, delle altre figure professionali operanti nel settore sociosanitario, di riconosciuti leader di opinione e dei membri di tutti i centri di aggregazione sociale esistenti nella comunità (a carattere culturale, ricreativo, religioso, politico, assistenziale); opera per la riconversione dei servizi sanitari esistenti, così da estenderne l'attività dall'ambito puramente o prevalentemente curativo a quello della diagnosi precoce e della vera e propria prevenzione primaria; utilizza o predispone gli strumenti, epidemiologici e di altro tipo, per la valutazione continua degli effetti dell'intervento preventivo, anche in termini economici (analisi di minimizzazione dei costi, costi/efficacia, costi/benefici, costi/utilità). Complessivamente, l'azione del medico di comunità deve mirare alla creazione e alla realizzazione, in stretta collaborazione con le istituzioni locali, di un modello d'intervento di costo accettabile, riproducibile ed eventualmente esportabile in realtà consimili.
In questo quadro, i confini tra medicina di comunità, igiene pubblica e medicina preventiva appaiono molto sfumati, tanto che si tende oggi a far confluire queste varie discipline specialistiche in un'unica area, identificabile con la medicina di sanità pubblica (public health, secondo la denominazione anglosassone). Anche se è vero che è la società a essere malata e a produrre malattia, non va tuttavia dimenticato che essa è costituita da individui, per cui l'approccio individuale dovrà a un certo punto, ed entro determinati limiti, essere preso in considerazione. Per modificare il mosaico costituito dalla società, non si potrà prescindere dal modificare anche i singoli componenti, le tessere di tale mosaico. Che ciò debba essere fatto di volta in volta, per esigenze umane o tecnico-organizzative, a livello individuale o con interventi collettivi, non ha infatti grande rilevanza, a condizione che gli obiettivi proposti vengano raggiunti. Il successo di questa complessa azione dipende in larghissima misura dall'opera del medico di comunità e costituisce una delle più importanti sfide cui questa relativamente nuova disciplina è chiamata a rispondere.
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