Comunita
di Sergio Cotta
Comunità
sommario: 1. Introduzione. 2. Due significati principali del termine. 3. Alle origini dell'idea moderna di comunità. 4. La comunità e il pluralismo sociale. 5. Oltre il pluralismo? □ Bibliografia.
1. Introduzione
Comunità è parola che gode ormai di una notevole fortuna nella cultura del Novecento, soprattutto in quella degli ultimi decenni. Ciò è dovuto per una larga parte al lavoro della sociologia postcomtiana, la quale, con la sua analisi stratigrafica del tessuto sociale, ha messo in sicuro rilievo la presenza, e l'importanza, della comunità quale tipo di aggregato umano o quale livello di socialità. Invero, a datare dal 1887 - anno in cui apparve a Lipsia la prima delle otto edizioni di Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e società), la fondamentale opera di F. Tönnies - i sociologi hanno messo a fuoco, con crescente precisione analitica, le caratteristiche peculiari (strutturali, funzionali, comportamentistiche, affettive) della comunità. Questo rilevamento ha contribuito in maniera notevole, anche se non esclusiva, a favorire la liberazione della riflessione sulla società dalla semplificazione teorica (e dottrinaria) che, a partire dal contrattualismo politico, ne concentrava l'attenzione prevalentemente sullo Stato, quale forma assorbente della socialità, e sui suoi rapporti diretti con l'individuo.
Ma, in connessione o meno con le ricerche sociologiche, la parola è penetrata anche in un ambito d'indagine più vasto e meno tecnico, trasformandosi di conseguenza da termine di natura prevalentemente descrittiva e classificatoria in idea culturale. Questa trasposizione di campo è stata dovuta alla nascita di filosofie ‛comunitarie', per le quali la parola ha assunto il valore di cifra interpretativa dell'esistenza, designando una condizione essenziale (strutturale e/o storica) del vivere umano. Alle filosofie si sono aggiunte anche delle ideologie ‛comunitarie', aventi la finalità operativa di riorganizzare la convivenza sociopolitica sulla base della comunità. Qualunque sia stata o sia l'importanza di queste tendenze, non vi è dubbio che esse hanno contribuito a rendere popolare il termine, che è così diventato simbolo riassuntivo di atteggiamenti, aspirazioni e valutazioni oggi assai diffuse. È soprattutto in questa seconda direzione che verrà qui esaminata la comunità, cioè nella sua qualità di elemento significativo della costellazione di idee che contraddistingue culturalmente il nostro secolo.
2. Due significati principali del termine
Il fatto che il termine comunità ricorra in due contesti culturali diversi (quello sociologico e quello filosofico) permette di porre in luce due accezioni, connesse ma non coincidenti, che esso ha ricevuto. Per meglio rilevarle sarà opportuno riferirsi, in via preliminare, al significato comune del termine. Si consideri la definizione, assai generica e atecnica, che ne dà il noto Vocabulaire technique et critique de la philosophie del Lalande: ‟gruppo sociale caratterizzato dal fatto di vivere insieme, sulla base di beni comuni o di risorse che non sono di proprietà individuale". Il Lalande considera dunque tratti distintivi della comunità la ‛comunione dei beni' e la ‛convivenza'; il modello cui si è ispirato è quello delle comunità religiose (come egli stesso indica), ossia, per essere più precisi, delle convivenze locali organizzate (per conventi, ‛case', ecc.) in cui spesso si articolano gli ordini religiosi. Tuttavia la definizione non appare pienamente soddisfacente. Essa infatti risulta precisa solo se si intendono in senso stretto le espressioni ‛vivere insieme' e ‛beni comuni', altrimenti diventerebbe talmente generica da poter ricomprendere in sé qualsiasi altra forma di aggregato sociale: anche nello Stato si ‛vive insieme' e si hanno ‛beni comuni'! Il termine verrebbe così a perdere gran parte della sua proprietà semantica. D'altra parte, se s'intende la definizione in senso stretto, essa appare troppo limitativa, poiché pone l'accento in maniera esclusiva, o almeno eccessiva, sulla dimensione economica del gruppo: beni, risorse, tipo di proprietà.
Conviene, pertanto, volgersi a considerare l'uso comune e tradizionale del termine, dal quale ritengo possibile ricavare una delimitazione della comunità più precisa e pertinente di quella data dal Lalande. Nel linguaggio usuale vengono chiamate comunità due categorie di aggregati sociali: dei gruppi religiosi e dei gruppi etnico-nazionali. Si parla infatti correntemente così della comunità ebraica di Roma o di quella cattolica del Cairo, come di quella inglese di Firenze o di quella italiana di Brooklyn. In nessuna di queste categorie di gruppi si ritrovano necessariamente i due caratteri distintivi (intesi in senso stretto) indicati dal Lalande. Inoltre si potrebbe dubitare che sia legittimo considerare entrambi questi gruppi come comunità, data la indiscutibile differenza dei loro modi di formazione. Infatti i primi (i gruppi religiosi) traggono origine da un fatto personale, interiore e volontario (l'adesione a una fede), mentre l'origine dei secondi (i gruppi etnico-nazionali) è indipendente dalla volontà.
Ma nonostante questa diversità, e l'assenza dei caratteri indicati dal Lalande, ritengo che in entrambi i casi si possa parlare legittimamente di comunità, in virtù di tre elementi strutturali comuni, che hanno una rigorosa capacità definitoria. Infatti questi gruppi: a) sono separati e minoritari rispetto all'ambiente socio-culturale che li ingloba; b) hanno, per usare la terminologia di Durkheim, un ‛volume' ristretto; c) realizzano un notevole grado di intensità di integrazione (o ‟fusione parziale nel Noi", secondo la definizione di Gurvitch). I tre elementi indicati si completano e si chiariscono a vicenda e, grazie ad essi, la comunità risulta individuabile e circoscrivibile entro confini adeguatamente certi. In questo ambito, la convivenza e la comunione di beni appaiono delle variabili aggiuntive, che valgono a rafforzare gli elementi essenziali indicati e in particolar modo il terzo: l'integrazione.
Rispetto a questi caratteri elementari, impliciti nell'uso comune del termine, la sociologia è senza dubbio andata oltre. Da un lato non ha limitato la comunità ai due tipi di gruppo così denominati di solito. Dall'altro lato ne ha approfondito i caratteri strutturali e comportamentistici. Ma in sostanza non si è distaccata dal sentire comune, rispetto al quale si trova in un rapporto di continuità e non di distacco e, tanto meno, di opposizione. Ma qui mette conto di rilevare soprattutto un altro aspetto della questione, e cioè che, tanto nel linguaggio sociologico quanto in quello corrente, la comunità è definita in termini puramente fattuali e descrittivi. Il primo significato della comunità è dunque chiaramente ‛avalutativo'.
In modo assai diverso si presenta invece la comunità se si passa a considerare l'uso che vien fatto del termine nella cultura contemporanea non specialistica, nella quale esso assume infatti un forte connotato di valore. Questo passaggio, spesso inavvertito, dall'avalutativo al valutativo è avvenuto nell'ambito di una riflessione di natura politico- sociale, che talvolta si allarga a riflessione più generale sulle condizioni e manifestazioni di vita dell'uomo nel mondo. In questa prospettiva, la comunità viene considerata come una struttura sociale dell'esistenza, dotata di un valore immanente e fondamentale. In altri termini, è ritenuta un tipo associativo apprezzato favorevolmente di per sé, indipendentemente dalle realizzazioni socio-culturali di questa o quella comunità concreta. Ciò che si pregia nella comunità non è tanto, dunque, il contenuto o il risultato della sua attività, quanto, in primo luogo, il modo o la forma (in senso strutturale) di esistere, e quindi di agire, che essa di per sé esprime. Il modo di esistere, insomma, è assunto quale fondamento e garanzia della validità dei risultati dell'agire. Il riconoscimento del valore di questo modo di vita, immanente nella comunità come struttura dell'esistenza, costituisce il nucleo fondamentale comune alle varie dottrine e orientamenti comunitari. Siano essi di natura speculativa oppure ideologico-pratica, si prefiggono tutti l'intento di dare o ridare coscienza di tale valore. In questo contesto si ha dunque un secondo significato del termine, di natura chiaramente ‛valutativa'.
Cerchiamo ora di accertare in che cosa risieda, per i fautori del comunitarismo, il valore della comunità. In prima approssimazione, si può dire che essa venga riconosciuta come un ‛luogo' umano-ambientale nel quale i rapporti intersoggettivi sono diretti e familiari (face-to-face, come dicono i sociologi odierni), non labili né arbitrariamente mutevoli. Pertanto l'individuo, che vive nella rete di tali rapporti, è in grado di avvertirne facilmente il significato umanizzante e la decisiva importanza per la sua stessa esistenza di individuo situato. Ciò gli permette di vivere il rapporto con l'altro in maniera consapevole e responsabile. Sotto questo aspetto, peraltro, la comunità si distingue da una circoscrizione giuridica, organizzativo- amministrativa, nella quale i rapporti umani resterebbero puramente esteriori e formali. È assai significativo, al riguardo, che oggi si parli con tanta frequenza dell'importanza (e secondo taluni, anzi, della necessità), per gli individui o per le associazioni, di farsi comunità a livello della vita civile come di quella religiosa. Si dice, per esempio, che un quartiere o una parrocchia, un villaggio o un'università, deve farsi o riscoprirsi comunità. Questo ‛farsi', ‛riscoprirsi', ecc. viene inteso come un processo di maturazione personale, grazie al quale il mero dato fattuale del trovarsi situati (per nascita o per decisione propria) in una data località o ente amministrativo, e quindi in una rete di rapporti formali, viene superato o trasformato in un modo di vivere cosciente e responsabile la relazione con il prossimo.
Le posizioni comunitarie appaiono pertanto improntate, in prima istanza, a due atteggiamenti principali e interdipendenti. Da un lato, si ha insoddisfazione o diffidenza nei confronti delle istituzioni giuridico-organizzative, considerate meri fatti burocratici. Dall'altro lato, si ha la convinzione del valore che rapporti interpersonali diretti e stabili hanno per la costituzione della personalità umana.
Approfondiamo questi due punti. La diffidenza nei confronti delle istituzioni giuridiche si manifesta tanto nel caso in cui esse siano il prodotto della volontà dello Stato, di un potere cioè distante e non partecipato, quanto nel caso in cui siano il prodotto della volontà singola o contrattuale dell'individuo. In entrambi i casi, alla base di questa diffidenza sta dunque il rifiuto dell'idea che la volontà, dello Stato o del singolo, sia fonte e regola unica, o prioritaria, della socialità. Questa è considerata invece come un dato originario e condizionante, e perciò né dipendente, nel suo sorgere, dall'arbitrio della volontà, né interamente soggetta, nel suo svolgersi, a tale arbitrio. Le istituzioni appaiono accettabili solo quando siano l'espressione del manifestarsi della socialità, quando cioè perdono il loro carattere esterno e arbitrario: potestativo.
Si chiarisce così il secondo punto, che sotto il profilo logico è fondante: il valore umanizzante riconosciuto ai rapporti interpersonali. Il pensiero comunitario si rifiuta di concepire l'uomo come individuo autosufficiente o capace di autodeterminare se stesso e ogni proprio rapporto in base alla decisione pienamente autonoma della propria volontà. Al concetto di individuo, pertanto, il comunitarismo oppone e sostituisce quello di ‛persona', che presuppone la coesistenza con altre persone. I rapporti interpersonali hanno dunque valore umanizzante perché in essi l'uomo prende coscienza di ciò che effettivamente è, abbandonando la pretesa all'autosufficienza individualistica e superando la reale difettività dell'individuo nell'incontro e nella solidarietà con l'altro. Pertanto l'uomo è, o diventa, pienamente se stesso soltanto in una comunione interpersonale di vita.
In sintesi, il comunitarismo respinge tanto un'immagine dell'uomo e del suo ‛esser-nel-mondo' come pura individualità incondizionata nel suo essere e arbitrariamente libera nel suo operare, quanto un associazionismo puramente volontario-contrattuale di natura utilitaria e un societarismo formale ed esteriore stabilito dallo Stato e dalle istituzioni. A essi si oppone, in nome del realistico condizionamento sociale dell'uomo, del suo necessario riconoscersi, personale e non meramente utilitario, nel rapporto con l'altro.
Tuttavia questi caratteri non sono propri in maniera esclusiva del comunitarismo, e nemmeno del personalismo, cui il primo è spesso collegato strettamente. Ciò che lo contraddistingue è invece l'aver individuato nella comunità, a ragione o a torto, il luogo in cui questa immagine dell'uomo prende corpo e si fa reale. Nella comunità sarebbe possibile tanto il riscatto delle istituzioni dalla loro estraneità, quanto il superamento dell'individuo nella persona.
A questo punto si rivela peraltro un fatto significativo. A costituire il valore della comunità sono proprio gli elementi messi in luce nella sua definizione avalutativa e in particolare quella convivenza che prima avevamo visto presentarsi come una variabile sia pure importante. Tali elementi vengono assunti in toto e trasferiti sul piano del valore dalle correnti comunitarie. Queste pregiano infatti la comunità perché, in un modo o nell'altro, ritengono che proprio il ‛piccolo' gruppo, ove si realizzano rapporti di stabile integrazione e convivenza, sia il luogo privilegiato in cui anche la persona si realizza in maniera autentica. E si badi bene: quando si parla, come ho ricordato sopra, di ‛farsi comunità', ciò in definitiva non significa altro che prender coscienza del valore intrinseco della comunità rendendolo esplicito. Pertanto, per le correnti comunitarie è proprio la struttura della comunità a costituirne il valore, e quindi il significato valutativo che esse danno alla parola, lungi dal prescindere da quello avalutativo, lo presuppone.
È lecito dubitare che tanto la critica dell'individualismo, del volontarismo, del societarismo formale quanto il riconoscimento del condizionamento realistico dell'uomo (cui pure il comunitarismo fa riferimento), trovino il loro necessario, o almeno legittimo, sbocco nella considerazione della comunità come valore. Su questo nesso il comunitarismo, come vedremo in seguito, rimane spesso sfuggente, anche perché più che una teoria rigorosa è forse uno stato d'animo cui dà consistenza la sua carica polemica ed emotiva. Più che dimostrato, il valore della comunità è spesso perentoriamente asserito. Ma la diffusione di questo stato d'animo non può esser disconosciuta e quindi, prima di pronunziarsi su di esso, è necessario comprendere per quale via si sia giunti ad affermare il valore intrinseco della comunità. A tal fine occorre inoltrarsi sul terreno della storia delle idee.
3. Alle origini dell'idea moderna di comunità
Stabilire l'inizio di un qualsiasi itinerario di storia delle idee è difficile e sempre in qualche misura arbitrario. Nel nostro caso si potrebbe risalire assai a ritroso nel tempo, utilizzando, per esempio, l'indicazione fornita da La cité antique (1864) di Fustel de Coulanges. Si potrebbe cioè cercare un valido punto di riferimento per la moderna idea della comunità come valore nella polis greca o nella civitas romana. E con tanto maggior evidenza quanto più puntualmente si mettessero a confronto questi ‛piccoli' gruppi sociali - fortemente integrati nelle idee e nei costumi grazie anche a una religione nazionale o ‛politica' - con i ‛grandi' gruppi rappresentati dai regni e dagli imperi. Nella medesima direzione, ma per tempi posteriori, avviava già l'Histoire des républiques italiennes du Moyen-âge (1807-1818) di Sismondi, grande fautore delle piccole repubbliche e della loro federazione. Anche nelle ‛città' medievali e rinascimentali l'idea di comunità trova forse un suo importante antecedente, che conferma e rinnova quello classico. Si tratta infatti di centri di forte e stabile identificazione umana e culturale per l'intensa integrazione in essi dei cittadini; centri che si individuano nettamente all'interno di entità globali, tendenzialmente universali, quali la Respublica christianorum o l'Impero. Forse nessuno quanto Dante ha sentito il profondo compenetrarsi e completarsi della duplice fedeltà alla piccola e alla grande patria, il loro congiunto presentarsi come valori entrambi fondamentali.
Sarebbe probabilmente assai utile seguire queste tracce per mettere in luce l'intero retroterra culturale dell'odierna valorizzazione della comunità. Non a caso, nell'età in cui il comunitarismo si verrà formando, proprio i modelli che ho ricordato godranno di grande fortuna. Ma, prendendo le mosse così da lontano, il discorso si trasformerebbe mevitabilmente in una interpretazione generale della storia dell'Occidente, considerata sotto il profilo del rapporto fra l'individuo e l'ambiente istituzionale in cui ha agito. Sarà perciò più pertinente rifarsi a dati culturali più vicini a noi.
Tuttavia, tanto gli accenni fatti or ora quanto i significati rilevati nel cap. 2 ci forniscono un indicazione importante: il piccolo gruppo comunitario si definisce, in termini di fatto e di valore, in relazione dialettica col grande gruppo. Per il presente sguardo storico al nostro problema conviene allora prendere le mosse dall'affermarsi dello Stato moderno a tendenza unitario-nazionale. Esso si presenta come unificatore in senso centripeto a spese delle molteplici ‛piccole patrie' (contadine, borghigiane, cittadine), ciascuna individuata dalle sue usanze e dalle sue franchigie e autonomie statutarie; e anche a spese della senescente ‛grande patria' imperiale. È questo l'obiettivo perseguito con tenace gradualità dall'assolutismo regio, più o meno illuminato, in Francia, Spagna, Prussia, ecc. Quali che siano stati gli effettivi successi di tale politica (mai totali e non sempre grandi), lo Stato unitario si presenta tuttavia nel sec. XVIII quale la forma istituzionale più diffusa e più largamente accettata. Da Hobbes ai philosophes e ai riformatori dell'illuminismo, esso viene teorizzato e favorito come la forma moderna dello Stato, e quindi come espressione del progresso, di contro alla tradizionale struttura pluralistica e decentrata. Lo contraddistinguono vari elementi convergenti: la vastità del territorio, garanzia di sicurezza e di potenza politica ed economica; la (tendenziale) unità centralizzata dell'amministrazione e del comando; la unificazione giuridica e il monopolio legislativo; l'uniformizzazione dei costumi e delle idee, simboleggiata nel mito illuministico della capitale rischiaratrice (prima dello Stato moderno non si hanno vere e proprie capitali; una sola è certa, ma sul piano religioso: Roma).
Ma proprio mentre più visibilmente si viene affermando questo mortal God (come lo definì Hobbes), vi è chi ne avverte la radicale differenza da un altro modello politico-sociale, carico di un diverso valore: il ‛piccolo Stato', la respublica. Lo segnala lucidamente, in chiave storica, Montesquieu nelle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (Amsterdam 1734): la piccola respublica romana diviene potente per la perfetta integrazione fra istituzioni e costumi, fonte di solidarietà civica; ma è destinata a decadere allorché il suo ‛volume' si allargherà squilibrando il rapporto fra territorio e integrazione civica. Montesquieu riprende il tema e lo fissa in termini di teoria nell'Esprit des lois (Genève 1748), dando una compiuta definizione della democrazia nella sua ‛natura' e nel suo ‛principio' ovvero, come oggi si direbbe, nella sua tipicità struttural-funzionale. La democrazia (la vera respublica) è necessariamente un piccolo Stato, nel quale tanto il tipo delle istituzioni quanto il modo integrato di vivere dipendono dal principio coagulante del bene comune, da cui scaturisce quella vertu politica che è dedizione piena allo Stato e ne costituisce lo spirito animatore. E qui Montesquieu sottolinea di nuovo, ma con maggior precisione, il limite di questa forma politica, soggetta a una drammatica alternativa. Perfetta nella sua piccolezza, essa è destinata o a degenerare ingrandendosi, o a venir schiacciata se rimane se stessa; l'unica via d'uscita è quindi la federazione.
Fuorché nel nome, è qui già pienamente individuata la sostanza di quella che sarà poi definita la comunità: una entità sociale di piccolo ‛volume', in cui si realizza pienezza di vita etico-politica (la vertu) in un delicato ma essenziale corrispondersi dell'elemento materiale (la dimensione del territorio e della popolazione) e dell'elemento spirituale (l'integrazione tramite il bene comune). L'apporto di Montesquieu è di natura chiaramente sociologica; non inganni al riguardo il suo riferimento alla vertu: questa non è altro che il valore immanente alla struttura repubblicana, il suo senso fenomenologico. Ciò che egli individua, su base storico-strutturale, è un Idealtypus, per dirla con Max Weber, da cui esula ogni idea di proposta ideologica e di gerarchia valutativa: non a caso per lui la democrazia è confinata nell'antichità classica. L'ideale realistico di Montesquieu, sottostante alla sua classificazione scientifica delle forme di Stato, è caso mai un altro: lo Stato libero, la monarchia inglese o quella tradizionale francese, pluralistica e decentrata, che si oppongono entrambe allo Stato centralizzato. È un'indicazione che influirà nell'Ottocento sul rinnovato presentarsi dell'idea comunitaria.
Il salto sul terreno assiologico si compie con Rousseau. Anche per lui la democrazia è il ‛piccolo Stato'; ma questo ora assume il significato, non più di un tipo fra i vari tipi di società, bensì di modello perfetto. Nell'opera del ginevrino, e in particolare nel Contrat social (Amsterdam 1762), i caratteri indicati da Montesquieu vengono ripresi e assolutizzati. Il piccolo Stato diventa la ‛patria', il ‛tutto' compatto e indivisibile, soltanto nel quale l'individuo raggiunge pienezza di vita spossessandosi di sé. La dedizione al ‛tutto' della polis (la vertu montesquiviana) perde il suo carattere limitato e funzionale (etico-politico) per diventare virtù in senso assoluto, l'unica via etica alla liberazione dell'uomo, e perciò si corona di una ‛religione civile' che conferisce sacralità laica alla democrazia. Per Rousseau l'uomo non ha possibilità di libertà e salvezza dall'alienanazione che nella perfetta fusione degli individui nel ‛tutto' della comunità.
Il divario finale fra i due autori è netto e significativo. Per Montesquieu la democrazia è soltanto ‛una' struttura socio-politica, la quale non ha nulla a che fare con l'etica universale, che per lui consiste nell'amore del genere umano. Per Rousseau, invece, etica e politica si fondono, l'amore per il genere umano non ha senso e la comunità democratica costituisce l'orizzonte ultimo per l'uomo, malgrado il destino di ostilità esterna che essa fatalmente comporta. Comunque, non è difficile vedere che in questo dibattito a distanza sulla democrazia l'attuale idea di comunità viene preformata in maniera precisa. Da un lato i due autori, in sostanziale concordanza, ne hanno fornito un modello valido, ben individuato nei suoi fondamentali elementi strutturali e nella sua netta opposizione al grande Stato. Dall'altro lato, con la loro divergenza, hanno messo in luce le due accezioni del termine: quella avalutativa e quella valutativa.
Il modello montesquiviano-roussoviano sembra tuttavia aver breve fortuna a causa della rigida alternativa che impone fra piccolo e grande Stato. Ha certo forte incidenza sul costume e sulla retorica del periodo rivoluzionario: si pensi all'esaltazione della ‛virtù' repubblicana e della santità delle leggi patrie, alla religione civile e al concetto di ‛salute pubblica' esasperato fino al terrore. Ma quel modello non trova eco riguardo al ‛volume' e all'organizzazione della società politica. Bruciata l'esperienza della federazione, la rivoluzione riprende la via dell'ancien régime e del grande Stato accentrato e unitario portandone l'organizzazione alla perfezione, come ha mostrato Tocqueville. Il modello del piccolo Stato comunitario è respinto, e la comunità si dissolve nella nation, alla quale tuttavia vengono trasferiti di peso, trascurandone le differenze strutturali, i caratteri ideali della democrazia comunitaria di Rousseau. Alla simbologia e mitologia della nation viene attribuita la capacità, e il compito, di realizzare l'integrazione umano-affettiva (ma, in effetti, ideologica) dei concittadini con-nazionali.
La vivace polemica originata dal modello montesquiviano-roussoviano - se sia possibile la repubblica in un grande Stato - si estingue per esaurimento. Non a caso Constant lascerà inedita e incompiuta l'opera così intitolata, che mirava a dimostrare tale possibilità contro la tesi negativa, sostenuta ancora (e pour cause!) dal monarchico J. de Maistre nelle Considérations sur la France, del 1796. Il fatto che le monarchie trionfino, dopo la parentesi rivoluzionaria, non ha importanza poiché la loro durata non sarà lunga, e comunque ormai la differenza strutturale fra monarchia e repubblica è cancellata: resta solo una differenza di tradizioni. A trionfare, in realtà, è il grande Stato, quale che ne sia la forma istituzionale.
Ne offre il quadro più interessante ai nostri fini colui che ha visto nella Rivoluzione francese l'incarnazione dell'ideale di Rousseau, e li ha osteggiati entrambi, cioè Constant. Nel suo celebre Discours sur la liberté des anciens comparée à celle des modernes (1819) egli delinea infatti le ragioni ideali dello Stato moderno in netta contrapposizione alle ragioni della comunità. A render possibile il grande Stato è la capacità di iniziativa e di autogoverno degli individui, liberi di fare e disfare associazioni volontarie in base ai loro interessi (economici, culturali, religiosi, ecc.). Perciò, all'interno, lo Stato si fa garante dell'autonomia privata e, all'esterno, si apre con fiducia all'incontro del libero commercio fra individui, società, popoli. L'ampiezza del ‛volume' - apportatrice di sviluppo e di pace - prevale dunque sulla ristrettezza territoriale, fautrice di guerra; la mobilità e il dinamismo individuale sull'integrazione; la società aperta su quella chiusa, bollata da Constant con l'appellativo di ‛vasto convento'. Il bersaglio dichiarato è la polis antica, ma quello vero, e non meno aperto, è la democrazia comunitaria di Rousseau e dei suoi seguaci.
4. La comunità e il pluralismo sociale
L'indiscutibile trionfo del grande Stato, tanto nei fatti quanto nelle idee, non ha segnato la fine dell'ideale comunitario nell'età contemporanea. Anzi, per paradossale che ciò possa sembrare, gli ha dato maggior diffusione, indirizzandolo per una via più realistica, anche se a prezzo, spesso, di un minor rigore concettuale. Non si tratta ormai più di difenderlo o proporlo nella rigida alternativa tra piccolo e grande Stato, poiché le dimensioni della politica contemporanea hanno reso inattuale la repubblica comunitaria piccola e autosufficiente. Si tratta ora piuttosto d'inserire nel grande Stato la comunità, facendone la cellula-base dell'organizzazione di quello. In breve, sconfitta nella sua forma di modello statale alternativo, e abbandonata ogni pretesa alla autosufficienza, la comunità viene intesa quale principio di una articolazione interna della vita socio-politica del grande Stato, diversa da quella realizzata dal centralismo. È la via del pluralismo sociale, additata già da Montesquieu quale garanzia di libertà all'interno del suo modello di monarchia. Del resto, anche Constant (non immemore della esperienza svizzera) si era pronunciato in questo senso quando nel De l'esprit de conquête et de l'usurpation (1814) e soprattutto nel cap. 12 dei Principes de politique (1815) - riconosceva la realtà del ‟patriottismo di località" e l'importanza dei ‟luoghi che forniscono [...] ricordi e abitudini", e pertanto auspicava ‟molto federalismo" nell'amministrazione interna. E ormai entro questo quadro che l'idea di comunità si manifesta nell'arco di tempo che dall'Ottocento si estende fino a oggi.
Senza dubbio, nel complesso panorama delle idee contemporanee si parla spesso più di organizzazione pluralistica della società che non di comunità. E non di rado, soprattutto nell'Ottocento, i vari indirizzi pluralistici - autonomismo locale, regionalismo, federalismo, organicismo e cooperativismo socio-economico, ecc. - preferiscono contrapporsi in una puntigliosa rivendicazione della propria originalità, anziché riconoscere la matrice comune e i punti di convergenza. Tuttavia non è troppo difficile ritrovare, sotto la loro variegata terminologia, questa matrice comune, in cui si rinnova il precedente ideale comunitario, anche se il nome e una definizione puntuale di comunità sono spesso assenti soprattutto nell'Ottocento.
Tutti questi movimenti concordano, invero, nella critica della riduzione della struttura politica al rapporto diretto fra popolo e Stato: quello fonte sovrana di legittimazione, di delegazione potestativa e di controllo dell'attività puramente esecutiva di questo. A tale concezione si obietta, da una parte, di essere artificiale e formale; dall'altra di nascondere, sotto due entificazioni astratte, un effettivo rapporto potestativo inverso, per cui un forte potere statale, distante ed estraneo, domina una miriade di individui isolati e impotenti o massificati. Il pluralismo, d'altronde, non ritiene che, a dare concretezza e miglior equilibrio a tale rapporto politico, valga l'esistenza dei partiti, ormai stabilmente affermati a partire dall'Ottocento, anche se l'antica diffidenza nei loro confronti ogni tanto riaffiora. O troppo elitariamente ristretti, come quelli ottocenteschi, o troppo massificati, come quelli attuali, i partiti sono coinvolti nella critica di artificialità e di burocraticità rivolta dai pluralisti alla macchina statale, e pertanto vengono ritenuti incapaci di stabilire una effettiva mediazione fra gli individui e il vertice potestativo. Il pluralismo sociale non si accontenta della loro pluralità, e talora esplicitamente li contrasta, seguendo in questo più Rousseau che Montesquieu. Ciò che invece il pluralismo sottolinea, è la presenza effettiva e innegabile di centri di solidarietà e di autonomie, senza dubbio circoscritte e non esclusive, ma tuttavia necessarie quali mediazione fra popolo e Stato. Di questi centri intermedi si rivendica il valore poiché vengono considerati un insostituibile ‛luogo' umano di rapporti familiari e stabili.
Sulla base comune di quella critica, e di questa rivendicazione, fioriscono le varie tendenze che si possono raggruppare sotto il nome generico di pluralismo sociale. Ma assai diverso resta il modo in cui esse configurano quel ‛luogo' intermedio e la funzione che gli attribuiscono, poiché diverso è il sistema sociale globale in cui lo inseriscono. Questa è la ragione per cui non è possibile trovare in questi indirizzi socio-politici una definizione o un modello preciso della comunità quale si trova invece nella sociologia a partire da Tönnies. E tuttavia, per comprendere la fortuna dell'idea di comunità nel mondo contemporaneo, è decisiva proprio la varietà di caratteri e di funzioni che il pluralismo è venuto attribuendole. Al riguardo è opportuno osservare che, soprattutto nel Novecento, non è possibile distinguere nettamente le varie scuole pluralistiche, poiché le loro idee s'intrecciano e si combinano. Cercherò pertanto di presentarle secondo uno schema tematico che può dare, forse, una più ordinata rappresentazione della configurazione, sfaccettata e tuttavia non contraddittoria, assunta dalla comunità nella prospettiva pluralistica.
Il tema del radicamento storico
Nel Settecento si era fatto ricorso a un passato mitizzato per ricavarne un modello preciso di comunità. Ora si ricorre alla storia in maniera più sottile: per trarre dal suo stesso svolgersi la prova e la giustificazione dell'esperienza comunitaria. Senza dubbio nell'Ottocento (l'epoca delle nazionalità!) la storia è servita soprattutto a mettere in evidenza la grande individualità storica delle nazioni, di ciascuna sottolineando la unità (e non la pluralità) di cultura, indole, destino. Ma questa tendenza dominante non può far trascurare l'intrecciarsi ad essa, come in contrappunto, del motivo dell'incarnazione storica in individualità più raccolte, nella ‟ragione locale" per usare la felice espressione di J. Möser. Il radicamento nella propria terra, in tradizioni e costumi locali, familiari per consuetudine di vita, conferisce all'individuo un'identità reale e non effimera, che non può venir soffocata da un'artificiale uniformità senza attentare. alla libertà e al modo stesso di svolgersi della vita. Lungo questa traccia, il culto della storia permette di riscoprire il piccolo nucleo sociale originario e di esaltarne il contributo insostituibile a una società libera e vitale perché pluralistica.
Anche se le sue motivazioni di base sono culturali, il tema storico ha forti risonanze politiche, specie nell'Otto- cento, in opposizione all'invadente modello giacobinonapoleonico (in tutte le sue variazioni) del centralismo unitario. Ne offrono esempi il municipalismo e il federalismo italiano o tedesco; le dottrine pluralistiche dei monarchici francesi (dai tradizionalisti a Maurras) o del repubblicano Sorel; l'helvetismus da Mallet du Pan e Sismondi a Burckhardt. Nel Novecento si ricavano dalla storia ragioni di un pluralismo forse più culturale che politico. Di fronte al diffondersi di una cultura universalizzata sì, ma anche accusata di essere standardizzata e uniforme, e quindi artificiale e meramente tecnica, la storia vale a difendere la pluralità e l'originalità delle culture. Ma sarebbe arbitrario distinguere, nell'ambito del tema storico, un pluralismo politico di ieri e un pluralismo culturale di oggi. Nel ricorso alla storia, cultura e politica s'intrecciano: basti pensare alle risonanze politiche nell'opera di letterati come Mistral e Barrès o Montherlant e Giono, e alle motivazioni culturali della politica del federalismo dottrinale di un Brugmans e un De Rougemont.
Il tema della libertà
Il problema della libertà sembrava chiuso, nel primo Ottocento, con la sostituzione della sovranità popolare a quella regia. Ma già M.me de Staèl aveva messo in guardia (in nome della storia!) contro tale semplicismo con la famosa frase: ‟In Francia la libertà è antica; il dispotismo recente". La formulazione più lucida e fortunata della funzione di libertà del pluralismo è offerta, com'è noto, dalla Démocratie en Amérique (Paris 1835- 1840) di Tocqueville, nella quale viene riassunta e chiarita la fondamentale esperienza politica anglosassone. Grande o piccola, parlamentare o diretta, la democrazia è soggetta alla minaccia della tirannide popolare, contro la quale l'unica garanzia è il decentramento amministrativo. Un sistema articolato di self-government, che culmina nel federalismo, costituisce per Tocqueville l'unica alternativa a un dispotismo che rischia di essere più forte di quello del passato. Tanto più che non si tratta di difendere la libertà soltanto da un ‟potere immenso e tutelare", sia pure ‟mite" e ‟paterno", ma anche dall'oppressione di un'opinione pubblica massificata dal livellamento delle condizioni. Pertanto il pluralismo tocquevilliano non si arresta all'autogoverno locale: libertà religiosa, di stampa, d'iniziativa e di associazione gli conferiscono un carattere complesso e globale. Ma il fulcro della sua proposta politica resta l'autonomia negli affari locali, matrice (e speranza) di una democrazia libera e non tirannica.
Il tema organicistico
Se il bersaglio di Tocqueville e dei suoi seguaci è l'astratta volontà popolare - che in realtà oscilla tra l'asservimento e l'onnipotenza massificante - per altri il bersaglio è l'astrattezza dell'ente popolo. Assunto a simbolo dell'unità dello Stato, esso è un puro nome che nasconde una realtà disorganica e conflittuale. Anche in questo caso la storia gioca la sua parte, prima di cedere il passo alla sociologia. Il Medioevo dei Comuni, delle corporazioni e dei ceti costituisce il punto di riferimento delle varie correnti, soprattutto cattoliche, che propongono la riorganizzazione dello Stato sulla base delle ‛società intermedie' di tipo familiare, municipale ed economico-produttivo. Si pensi, in Germania, al movimento sociale che da Müller, Görres, Vogelsang, Ketteler giunge, alla fine dell'Ottocento, alla fondazione del Volksverein (1890); in Francia, al primo Lamennais e poi al cattolicesimo sociale da De Melun a De Mun, La Tour du Pin, Harmel; in Italia, al Taparelli e poi al Toniolo e alla sua scuola; in Inghilterra, a taluni orientamenti di Chesterton. In queste tendenze il tema politico è presente nella critica alla teoria contrattualistica e a un parlamentarismo ritenuto individualistico e formale, ma resta nello sfondo. Centrale è invece la critica dell'industrialismo utilitaristico e del pauperismo che ne deriva, della dissociazione, ad opera del capitalismo, della solidarietà produttiva fra lavoratori e proprietari, con la conseguente divisione in classi in lotta fra loro. L'avversione allo Stato ‛giacobino-liberale' si fonde così con quella al socialismo. La risposta ad entrambi dovrebbe essere offerta da una società civile in cui l'esigenza della solidarietà nella produzione si esprime nel cooperativismo, nel mutualismo, nel corporativismo di stampo medievale e nell'autonomia delle società intermedie secondo il principio di sussidiarietà. Sul piano politico, la partecipazione al potere è affidata non tanto agli individui (perché risulterebbe fittizia) quanto ai corpi organici, mediante una loro rappresentanza non meramente elettoralistica.
L'organicismo di queste tendenze progressivamente si stempera e perde il suo sapore arcaico, grazie ad una esperienza più sciolta e diretta della vita delle autonomie locali, che finirà con l'avvicinare in maniera notevole taluni esponenti di queste tendenze (Sturzo e Maritain, per es.) alle idee di Tocqueville. Ma forte rimarrà l'impronta organicistica nel comunitarismo tecnologico di A. Olivetti.
Il tema antipotestativo
La diffidenza verso il potere centrale, comune in varia misura a tutte le correnti pluralistiche, raggiunge l'acme nel rifiuto anarchico di ogni potere e di ogni organizzazione gerarchica sia pure organica. Per l'anarchismo l'innegabile esigenza di socialità e fratellanza è soddisfatto soltanto da comunità autonome e autosufficienti di uomini liberi. In radicale opposizione alla proprietà privata e alla condizione disumana della fabbrica, la comunità anarchica si basa pertanto sulla proprietà comune, sull'identità di produttore e consumatore, sulla produzione artigianale e agricola. Un vincolo federale unisce liberamente le varie comunità in una sorta di società senza Stato, di cui sembrò costituire un modello in scala ridotta quella Fédération jurassienne, nella quale le idee di Proudhon, Bakunin e Kropotkin si innestarono successivamente sul ceppo della tradizione comunitaria e artigianale della Svizzera. Se Fourier considerò la comunità il prodotto organico dell'attrazione e della serialità caratterologica e simpatetica, per gli altri anarchici essa sorge per libera adesione dei suoi membri; in ogni caso non si limita ad un ente amministrativo, sia pur locale e familiare, né ad un'unità puramente produttiva, sia pur solidale. Vuol essere qualcosa di più e di più fondamentale: il luogo umano in cui le individualità, liberate da ogni vincolo esteriore, si espandono in un consapevole e consentito rapporto. Spogliata degli eccessi tipici dell'ideologia anarchica, questa idea anima talune correnti federaliste odierne sulle quali - da Dandieu a Marc - l'influenza di Proudhon è dominante.
Il tema giuridico
Nella sua ultima incarnazione storica, il diritto romano si presenta nell'Ottocento, da un lato come il diritto della sovrana volontà contrattuale e della assoluta proprietà individuale, dall'altro lato come il diritto dell'unitaria legge statale. Opera della codificazione napoleonica e della pandettistica tedesca, questa sua duplice versione individualistica e statalistica viene fatta oggetto di critiche sempre più serrate, particolarmente in Germania e poi in Francia e in Italia, in nome di quella idée du droit social, di cui Gurvitch (v., 1932) ha ricostruito le tappe nell'omonimo libro. Fulcro di questa opposizione è appunto la comunità, sia essa la Grundgesellschaft di Krause, o la Genossenschaft di Beseler e soprattutto di Gierke. Si tratta di una ‛totalità' circoscritta della quale gli individui sono parti, integrati fra loro dallo scopo e dalla funzione di essa. Il diritto nasce dall'interno stesso di questa socialità collaborativa: è dunque un fatto organico e nient'affatto esteriore, espressione di partecipazione vissuta e cosciente e non di imposizione di potere. Lo schema unitario della legge statale, come unica espressione del diritto, si rompe così nella pluralità degli ordinamenti giuridici aventi ciascuno una propria autonoma ragion d'essere. Nel nostro secolo questo pluralismo si colora di mutualismo proudhoniano in M. Léroy, di organicismo funzionale in M. Hauriou, di guild socialism in H. Laski, resta più tecnicamente distaccato in Santi Romano. Ma in ogni caso l'ideale comunitario trova la sua versione giuridica in queste dottrine che riconoscono l'originaria legittimità giuridica dei vari corpi sociali organizzati e duraturi, nei quali trovano stabilità normativa i rapporti fra i loro membri.
5. Oltre il pluralismo?
Il quadro tematico, qui sopra sbozzato per grandi linee, intendeva mostrare le principali sfaccettature presentate dall'idea di comunità nella sua multiforme contrapposizione allo Stato contemporaneo, sempre più vasto e unitariamente organizzato e programmato. Ma la molteplicità delle sfaccettature finisce più col diluire che col fissare l'essenza della comunità. Senza dubbio l'odierno federalismo dottrinale ha cercato di riassumere in sé, in maniera coerente, tutti i motivi ricordati: dall'incarnazione storica nelle tradizioni locali all'organicismo, dal decentramento tocquevilliano all'antistatalismo di Proudhon, al sociopluralismo giuridico. Ma, se in tal modo è riuscito a dare ampie e convincenti ragioni della propria Weltanschauung, non è tuttavia riuscito a presentarci un concetto netto e rigoroso di comunità.
Sotto questo profilo, il tentativo più coerente resta ancora quello ottocentesco di Tönnies, che (è bene non dimenticarlo) non nasconde il suo significato valutativo, malgrado lo sforzo di obiettività sociologica. Nella presentazione di Tönnies la comunità, quale ‟vita reale e organica", si oppone alla società, ‟formazione ideale e meccanica" (v. Tönnies, 1887, I, intr., È 1). Perciò i membri della prima sono ‟essenzialmente legati nonostante tutte le separazioni", mentre quelli della seconda sono ‟essenzialmente separati nonostante tutti i legami" (ibid., I, 2, È 19). La natura vitalistica della comunità ne plasma le strutture (cultura, sistema potestativo, proprietà, lavoro, insediamento), caratterizzandole per la forte capacità di identificare e integrare i membri della comunità e di ottenerne la consentita partecipazione. La comunità si configura entro la categoria del ‛ricevere' anziché entro quella del ‛creare'; è animata da una ‟volontà essenziale" (Wesenwille), immanente al gruppo, che non si dissolve nella societaria ‟volontà arbitraria" (Küwille) dei singoli (ibid., II, 1).
La tesi di Tönnies conserva ancora oggi grande interesse, ma soprattutto per il forte senso di opposizione (di nuovo attuale) al mondo della dispersione nella mobilità, nella fabbrilità, nell'artificiale, nell'interesse particolare. Ma il modello di comunità ch'egli vorrebbe opporre alla dispersione, è inadeguato allo scopo perché viziato da un arcaismo ruralistico-artigianale e da un naturalismo vitalistico che lo rendono irrealizzabile e parziale. D'altra parte la sociologia successiva, pur richiamandosi sempre a Tönnies, ne ha frantumato il modello. La sociologia anglosassone ha riscontrato una forte tendenza comunitaria anche nella società industriale - diversificata nelle attività e negli insediamenti, pluriculturale e talora multirazziale - ma ha messo in luce la pluralità di forme e modi comunitari. D'altro canto la sociologia europea, più sensibile alle influenze filosofiche, soprattutto con Gurvitch, non considera più la comunità come un ‛tipo' di gruppo, bensì come una manifestazione della socialità, un livello medio di fusione parziale nel Noi, che si può riscontrare all'interno dei vari gruppi e delle varie società globali. Par difficile negare che, in entrambe queste direzioni sociologiche, la comunità perda quel rigore tipologico che Tönnies aveva cercato di darle in armonia con le tendenze organicistiche del suo secolo.
Pertanto, in qualunque prospettiva la si consideri - politica o sociologica -, sembra proprio che la comunità sia chiusa in un dilemma senza uscita. O viene definita con sufficiente rigore, e allora si rivela una realtà arcaica, valida per l'etnologia o per le civilità rurali ma non per l'oggi. Oppure aderisce alla realtà attuale, e allora si sottrae a una concettualizzazione specifica, palesandosi come una tendenza e non come una struttura definita.
A meno che non resti in una genericità che le toglie ogni significato, come avviene in maniera emblematica nel New Leviathan di Collingwood (v., 1942), ove la distinzione fra comunità e società è ripresa, ma in pratica annullata. Per Collingwood, infatti, la seconda è solo una specificazione della prima, definita genericamente come ‟uno stato di cose in cui un certo numero di esseri umani si divide qualcosa o ne è partecipe" (20.12). Ogni società è dunque sempre una comunità (20.3), mentre non è vero l'inverso. In tal senso, la comunità ovviamente perde tutti i caratteri e le funzioni che di solito i suoi sostenitori le attribuiscono.
In verità le ideologie comunitarie del Novecento hanno tentato di darle consistenza teorica e insieme attualità. Si può dire anzi che, se nell'Ottocento l'idea di comunità era avvolta in un alone di nostalgia per il passato mondo della stabilità e dei rapporti consueti e duraturi, nel Novecento si è voluto presentarla come proiettata invece nell'avvenire. Si è parlato, infatti, soprattutto negli anni trenta del nostro secolo, di ‟rivoluzione comunitaria" (Mounier) o, in termini non molto dissimili, di ‟rivoluzione federalista" (Dandieu, Aron, Marc).
Ma anche in questa prospettiva gli sforzi per stabilire con precisione che cosa sia la comunità non portano grandi frutti. Si prenda, per esempio, Humanisme intégral (Paris 1936) di Maritain, ove il termine ricorre con sottolineata frequenza. Ebbene, sul piano politico, non si va oltre le classiche nozioni tomiste di comunità e di bene comune, riferite tanto allo Stato quanto alla comunità in senso proprio; sul piano economico si rinnova soltanto la richiesta di riconoscimento e di autonomia per sindacati, cooperative e corporazioni. Sarebbe ingiusto accusare Maritain di indeterminatezza, poiché egli intendeva indicare una prospettiva di ripensamento culturale e non un programma d'azione. Questo era invece negli intenti di Mounier. Ma sebbene questi abbia tentato più volte di precisare le strutture della comunità - per esempio in Révolution personnaliste et communautaire (Paris 1934, cap. 1) o in Manifeste au service du personnalisme (Paris 1936, cap. 2) - non si può dire che sia giunto a risultati originali e precisi. Da un lato Mounier ripropone in termini meno tecnici la tipologia sociologica di Gurvitch, secondo la quale la comunità è una forma della socialità del Noi. Dall'altro lato, cercando di andare oltre la sociologia, definisce la comunità ‟come persona di persone", ossia come il gruppo in cui, spezzata la crosta dell'anonimato, ciascuno si riconosce nell'intimità di un rapporto personale (io-tu) e riporta ogni ‟terzo" a tale rapporto. L'influenza di Buber è qui evidente. Ma su questa base non riesce a coagularsi un vero e proprio programma politico.
Si potrebbe tuttavia osservare che le rivoluzioni non hanno bisogno, per sorgere, di concetti rigorosi o di programmi ingegneristici, come quello progettato analiticamente da A. Olivetti nel suo L'ordine politico delle comunità (Roma 1946). Hanno bisogno di miti, come ha mostrato Sorel, capaci di esprimere l'attualità, e tale potrebbe essere appunto la comunità. Ma la rivoluzione comunitaria in che cosa consiste? Malgrado i toni più moderni, malgrado la polemica con l'Ottocento, essa è ferma proprio all'eredità di un certo pluralismo ottocentesco: né capitalismo borghese, né collettivismo marxista; né individualismo, né statalismo. Si propone dunque una terza via, come scriveva Mounier, nell'attesa che diventi una terza forza. È significativo, al riguardo, che nei comunitarismi di varia osservanza si trovino tracce consistenti sia della polemica antiliberale dei tradizionalisti (si pensi all'influenza di L. Bloy), sia della polemica antibolscevica di socialisti libertari delusi della rivoluzione russa (si pensi a Berdjaev).
Ma la terza via comunitaria non si è sviluppata. E infatti Mounier - che negli anni trenta aveva strettamente unito il tema comunitario e quello personalista, facendone l'endiade-base della sua azione politica - nel dopoguerra non insisterà più sul primo tema, mantenendo e approfondendo invece il secondo. Al personalismo - abbandonata l'idea della terza via - affida ormai, in maniera prevalente, il compito di animare o orientare la propria azione politica.
Questo dissolversi anche della ‛rivoluzione comunitaria' mette in luce un secondo dilemma, che s'incardina su quello già segnalato. Infatti, o il comunitarismo si atteggia a programma politico, e allora si risolve in un decentralismo più o meno accentuato, nel quale la comunità non si distingue in modo netto da entità locali o produttive o professionali; o si volge alla riflessione filosofica, e allora si dissolve nel personalismo, nel quale peraltro la comunità diventa una forma transpersonale e interiore di vita e d'incontro con l'altro, perdendo ogni dimensione sociologico-istituzionale.
Nella prima direzione portano le tendenze ricordate in questo capitolo e nel precedente. Ma anche (è interessante notarlo) il tentativo più recente e suggestivo di rinnovare la tesi di Tönnies, utilizzando in qualche misura la prospettiva psicoanalitica: quello di E. Kahler in The tower and the abyss (London 1958). Secondo Kahler la comunità è il gruppo ancestrale, che precede la formazione delle personalità, ne determina gli strati inconsci fondamentali e, grazie a questi, agisce su di esse dall'interno, richiamandole all'origine comune. La società (o collettività, com'egli preferisce chiamarla) si richiama invece ai fini comuni e perciò agisce dall'esterno. Ma Kahler è consapevole che la comunità, se prevalesse, potrebbe soffocare la personalità e quindi la libertà. Perciò è favorevole a una corretta osmosi fra comunità e collettività, come quella del passato quando le seconde scaturivano dalle prime e non le dominavano o soffocavano come oggi avviene. Tuttavia, lasciate cadere le comunità ancestrali (pre- o subindividuali) per la loro arcaicità, egli non sa proporre in loro sostituzione che delle vaghe ‛comunità di lavoro', ossia, utopia a parte, dei corpi intermedi.
La direzione della dissoluzione del comunitarismo nel personalismo è segnata, direttamente o indirettamente, da pensatori come Buber, Guardini, Berdjaev, Jaspers. Il senso intimo del personalismo mounieriano (che, non dimentichiamolo, è a sfondo politico) è stato presentato da P. Ricoeur nei seguenti termini: una pedagogia della vita comunitaria legata al destarsi della persona. Dei personalisti filosofi sopra ricordati si potrebbe invece dire che il rapporto comunitario è il frutto dell'io che diventa cosciente di sé come persona. Non è facile stabilire che cosa si debba intendere per ‛persona', tante ne sono le varianti; forse si potrebbe dire che è pienezza di vita del soggetto raggiunta nel riconoscimento della difettività originaria dell'io e quindi del necessario incontro con l'altro. Perciò il rapporto comunitario (e non la comunità!) è frutto della persona, e non viceversa (v. personalismo).
Non si può tuttavia non osservare che lo spostamento della priorità (logica e ontologica) dalla comunità alla persona ha conseguenze decisive. Si consideri per esempio la significativa posizione di Berdjaev, nella quale il nesso consueto tra comunità e persona è chiaramente rovesciato. In De l'esclavage et de la liberté de l'homme (cap. 1) egli scrive: ‟l'uomo è persona soltanto nella misura in cui è riuscito a trionfare sulla determinatezza del gruppo sociale". Non è dunque la comunità data, l'entità storico-sociologica in cui si è incarnati, a costituire la persona o a permetterne il destarsi; è vero il contrario: è il destarsi alla coscienza personale che permette l'instaurarsi del rapporto comunitario. Perciò Berdjaev preferisce parlare di comunitarismo anziché di comunità: la differenza terminologica non è marginale, ma esprime l'esigenza (da lui sottolineata più volte) di non coinvolgere il destino della persona in quello di una collettività oggettiva e naturalistica.
Si potrebbe allora dire che il personalismo filosofico stabilisce una sorta di spartiacque nel flusso delle correnti comunitarie, che finora ci si erano presentate continue o almeno confluenti. Lungo un versante scorrono le concezioni e valorizzazioni della comunità come dato oggettivo e circoscritto (in termini storici e/o naturalistico-organici). Sull'altro versante scorrono le concezioni e valorizzazioni del comunitarismo quale attività personale di relazione.
Ma a proposito di questa seconda tendenza è lecito dubitare che sia ancora possibile parlare di comunità in senso proprio. Ci conferma in tale dubbio Berdjaev, per il quale due soli tipi di comunità sono accettabili: quella che si apre ad abbracciare tutta l'umanità e quella che sorge dall'incontro personale io-tu (ibid., cap. 3, § 2b). E ancora più illuminante è la posizione di Jaspers in Vernunft und Existenz (lez. III). Vi si dice infatti che la comunità umana (a differenza di quella animale) ‟non si attua con immediatezza, ma è condizionata dal riferimento a un'altra realtà, da comuni e chiari scopi del mondo, dal riferimento alla verità, dal riferimento a Dio".
La comunità di cui qui si parla non è definita dunque dall'immediatezza del rapporto consueto bensì dal riferimento alla trascendenza del mondo, della verità, di Dio; non è circoscritta da un ambiente o da una cultura, ma si apre alla comunicazione universale. Ma allora ci troviamo di fronte a una realtà assai simile alla ‟società aperta", contrapposta da Bergson, nelle Deux sources de la morale et de la religion (1932), a quella ‟società chiusa" che presenta tutti i caratteri della comunità oggettivata e ricevuta. Il rovesciamento di senso (e di valore) della medesima parola ‛comunità' non potrebbe essere più completo: dal chiuso all'aperto, da una vita e cultura circoscritte a una esistenza destinata alla comunicazione universale nella comunione della verità. Un tale rovesciamento non deve stupire troppo, perché è dovuto al mutamento del livello di osservazione: la comunità chiusa è colta al livello storico-sociologico; la comunità aperta, invece, al livello ontologico. Ma il rovesciamento, se non è incomprensibile, resta tuttavia radicale. Malgrado il termine comune, non si parla più della stessa realtà.
Dovremmo allora concludere che la valorizzazione della comunità in senso proprio, del ‛piccolo gruppo' storico-sociologico, è solo una mistificazione perché si attribuisce il valore di ciò che le è strutturalmente opposto? Sarebbe andare troppo oltre, dimenticando la realtà dei condizionamenti ambientali dell'esistenza. Trascurarli significherebbe ricadere in quell'astrattismo razionalistico contro cui è insorto realisticamente, e con ragione, il comunitarismo. Significherebbe anche ignorare tanto la funzione di libertà del pluralismo quanto il significato umano delle relazioni affettive di intimità e di simpatia, cui gli ambienti raccolti danno luogo come ha indicato Scheler. Ma, ammesso tutto ciò, sarebbe un errore ancor più grave privilegiare di per sé la comunità ambientale, considerandola il luogo fondamentale dell'umanizzazione, alla stregua di Rousseau o di talune tendenze giovanili del mondo d'oggi. Significherebbe dimenticare la vocazione all'universale incontro degli uomini, vocazione che è inscritta nella struttura ontologica del soggetto.
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