Concentrazione e deconcentrazione demografica
In senso letterale l'espressione concentrazione demografica designa il fenomeno della convergenza e della crescita della popolazione nei centri di una regione geografica, sia essa una entità politico-amministrativa (provincia, regione istituzionale, nazione) o un territorio contrassegnato dalla combinazione omogenea di altri elementi (storia, caratteri fisici, dotazioni funzionali ecc.). In senso figurato, invece, la stessa espressione è utilizzata per segnalare il livello di urbanizzazione raggiunto dalla regione geografica, e dunque per definire l'organizzazione territoriale dell'insediamento e dello sviluppo socioeconomico avvenuto al suo interno.
La deconcentrazione demografica segnala i fenomeni opposti di declino demografico dei centri regionali; non necessariamente, come si vedrà, dei livelli di urbanizzazione, e tanto meno degli indicatori economici che li accompagnano.
La misura convenzionale della concentrazione demografica è costituita dal 'grado di concentrazione', che esprime, per le diverse classi dimensionali dei centri urbani, o per il loro insieme, la quota della popolazione in essi insediata sul totale della popolazione della regione. Alti livelli di concentrazione demografica sono, per es., quelli che raccolgono l'80% della popolazione regionale nelle classi dimensionali dei centri con più di 10.000 abitanti. Ciò si verifica per regioni di scala diversa, quali quella europea, del Nord-Est degli Stati Uniti, delle regioni del Nord e del Centro Italia, o delle regioni del Sud-Est asiatico. La presenza, all'interno della regione, di una o anche più aree metropolitane, oppure di città con popolazione che supera le 500.000 unità, è inoltre un indicatore che testimonia direttamente la concentrazione demografica.
Il grado, o il livello, di concentrazione è considerato in statistica come una misura del distanziamento o della disuguaglianza che si manifesta nella distribuzione di un fenomeno. Per rafforzare la rappresentazione di queste caratteristiche, questa disciplina propone sovente l'utilizzo del cosiddetto indice di concentrazione che rapporta le variabili utilizzate nel calcolo del grado di concentrazione regionale con quelle analoghe a scala nazionale. L'indice assumerà valore 1 quando il livello di concentrazione regionale sarà pari a quello nazionale; maggiore o minore di 1 quando la concentrazione regionale supera o non raggiunge quella nazionale.
Poiché la concentrazione demografica è un fenomeno che avviene nel tempo, un'altra misura significativa è quella della variazione demografica dei centri o delle classi di centri, espressa dalla variazione percentuale della loro popolazione tra due diverse date. L'indice di crescita allometrica, che rapporta la percentuale della variazione dei centri regionali con quella degli omologhi centri nazionali, offre infine una misura efficace della diversa velocità che contraddistingue la crescita della popolazione urbana nella regione considerata.
I dati che documentano la variazione della crescita della popolazione sono comunque espressione dei fattori endogeni ed esogeni della dinamica demografica. I primi sono costituiti dalla natalità e dalla mortalità, e dunque dal valore del saldo naturale. I secondi dai flussi di immigrazione e di emigrazione, e dunque dal saldo migratorio. La rilevazione della popolazione residente nelle unità amministrative o censuarie di una regione, unitamente alla dinamica dei saldi naturali e migratori positivi, costituisce un esercizio statistico speditivo per accertare la presenza di fenomeni di concentrazione demografica, e indirettamente la disponibilità locale delle risorse che assicurano la capacità produttiva e riproduttiva della popolazione.
Con questa procedura è possibile accertare come i ritmi più elevati di concentrazione della popolazione nei centri urbani si siano verificati a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, allorché si manifestarono in questi ambiti una decisa crescita delle attività manifatturiere e consistenti miglioramenti infrastrutturali, residenziali, dei servizi sociosanitari, assistenziali, ricreativi e culturali. In alcuni Paesi in via di sviluppo, in particolare, la diminuzione, seppur limitata, della povertà e del malessere sociale avvenuta in quegli anni, ha consentito l'innesco di tassi di crescita annui della popolazione del 3-4%, quasi esclusivamente concentrati nelle città. Questo valore è assai vicino al cosiddetto limite biologico, ossia al ritmo più elevato con cui può riprodursi una popolazione inurbata.
Per ottenere indicazioni analitiche più precise risulta indispensabile ricorrere ad altri indicatori costituiti dal reddito, dall'occupazione, dal livello di istruzione e dalla dinamica insediativa. Sulla base della combinazione e della correlazione spaziale di questi indicatori, la concentrazione demografica risulta capace di rapportarsi con le tematiche che attengono alla concentrazione dello sviluppo e di designare tipologie regionali tra loro assai differenziate, quali quelle di 'centro' e di 'periferia' regionale, di 'Nord e Sud del mondo', di Paesi 'avanzati', 'in via di sviluppo' e arretrati o 'sottosviluppati'.
In quest'ottica la concentrazione demografica assume la valenza di espressione figurata e pone il problema della sua corretta interpretazione. L'apparato logico più accreditato riconduce la genesi e la dinamica dei processi di concentrazione della popolazione alla capacità di alcune attività (come pure di alcune imprese) di configurarsi come 'esportatrici' e dunque di assicurare al territorio in cui sono insediate alti volumi di produzione, elevate dinamiche occupazionali e spiccati dinamismi tecnici e tecnologici. A fronte dell'esistenza di queste condizioni, è facile constatare come le attività di base, o di esportazione, siano responsabili di innumerevoli ricadute positive, costituite dall'attivazione di investimenti, anche esterni, nelle filiere produttive e di servizio poste a monte, a valle e a lato delle stesse attività; dal reinvestimento locale di buona parte del reddito prodotto; dalla formazione di un tessuto di imprese 'residenziali' destinate a corredare il tessuto produttivo e a soddisfare la domanda locale; dalla formazione di una concentrazione demografica di notevole rilievo.
Questo processo virtuoso risulterebbe sostenuto nel tempo da due effetti: quello del moltiplicatore e quello della indivisibilità spaziale del processo di sviluppo locale. Il primo si misura a partire dalla crescita generata dalle unità di lavoro impegnate nel settore di esportazione. Si dimostra infatti come ognuna di esse induca una crescita di almeno due unità nel settore residenziale e dei servizi, e di almeno altre due nei settori creati con il reinvestimento del reddito. Si prova, di conseguenza, come ognuna di esse implichi l'aggiunta di almeno cinque nuovi nuclei familiari, che a loro volta contribuiranno a garantire la continuità e la replicabilità del processo di sviluppo locale intrapreso. Il secondo è invece connesso con l'affermazione di forze o movimenti centripeti e centrifughi di natura geografica/territoriale. I movimenti centripeti sono espressi dal richiamo di forza lavoro che le spinte propulsive locali manifestano a raggi estesi per migliaia di chilometri, quelli centrifughi sono invece espressi dal decentramento della crescita locale a raggi circoscritti nell'ordine di soli 50 o 100 km attorno alla località sede delle imprese di base. La diversa portata delle forze attrattive e diffusive sarebbe così responsabile della formazione di poli, di aree o di agglomerati di crescita concentrati. Al loro interno le relazioni dirette, indirette e indotte tra gli attori impegnati nel processo, e tra questi ultimi e le risorse disponibili, genererebbero la formazione di un milieu locale capace non solo di alimentare e cumulare il processo di sviluppo, ma di innovarlo e di perpetuare la sua continuità. Ciò vale anche in presenza di cambiamenti nelle condizioni strutturali dell'economia quali sono, per es., la progressiva riduzione dei differenziali salariali o della produttività del lavoro tra le regioni.
Mentre nelle regioni periferiche e in via di sviluppo dell'economia mondiale prevalgono i fenomeni di concentrazione demografica e di rafforzamento dei processi cumulativi, in quelle dell'economia 'centrale' la prima segna il passo. Negli ultimi decenni, infatti, le conurbazioni nordamericane, europee, giapponesi e di qualche altro Paese asiatico hanno fatto registrare la perdita di quasi un terzo della loro popolazione, per la caduta sia del movimento naturale sia di quello migratorio. Il fenomeno venne inizialmente tematizzato come 'controurbanizzazione', definita come un processo di deconcentrazione della popolazione urbana che implica il passaggio da uno stato di maggior concentrazione a uno di minor concentrazione, con una conseguente riduzione dell'eterogeneità tra urbano e rurale, in termini sia di differenziazione delle strutture territoriali sia di stili di vita. Più precisamente, esso si spiega come una correlazione inversa fra tassi di crescita demografica e dimensione dei centri.
Più recentemente questa interpretazione piuttosto radicale è stata confutata da quelle che considerano la crescita demografica dei centri minori come espressione di una dilatazione, o di un salto di scala geografica, delle aree urbane fuori dai loro confini tradizionali, con la formazione di estesi organismi urbani incardinati sulle città madri, in cui prevale l'insediamento di attività ad alto profilo tecnico, tecnologico, direzionale, di orientamento e di direzione finanziaria.
L'indiscutibile concentrazione demografica e urbana si esprimerebbe solo con nuove forme e modelli insediativi quali sono la 'suburbanizzazione', la 'periurbanizzazione', la 'rururbanizzazione', che a loro volta richiamano la formazione di grandi ed estese metropoli regionali in alternativa alle più ristrette e compatte aree metropolitane monocentriche o policentriche del passato o che ancora persistono nei nostri modelli culturali o interpretativi.