Concentrazione industriale
L'espressione 'concentrazione industriale' o 'concentrazione di mercato' generalmente indica la percentuale delle vendite realizzate in un settore industriale o in un mercato dalle maggiori imprese del settore. Se, per esempio, le quattro principali imprese di un settore realizzano il 90% delle vendite, si suol dire che il mercato è 'altamente concentrato'.
La concentrazione industriale è un argomento che suscita molta attenzione nei dibattiti sulle misure governative da adottare nei confronti del monopolio. Anzi, fino a non molto tempo fa, il grado di concentrazione di un mercato, comunque misurato, era considerato un indice attendibile del suo particolare grado di competitività ovvero di monopolizzazione: un settore con un livello di concentrazione molto basso era considerato necessariamente molto competitivo, un settore molto concentrato un quasi monopolio e di due settori mediamente concentrati era considerato generalmente più competitivo quello con l'indice di concentrazione più basso.
Di recente queste convinzioni sono state sottoposte a una profonda revisione critica. Molti economisti ora considerano la concentrazione una condizione necessaria, ma non sufficiente, per l'instaurarsi di un regime di monopolio; l'altro fattore in gioco - anch'esso necessario ma non sufficiente - è la 'facilità di entrata', cui si attribuisce un ruolo secondo, per importanza, soltanto a quello della concentrazione. Per capire le ragioni di questa revisione critica è necessario riesaminare gran parte dell'analisi attinente al potere di monopolio.
In generale il termine 'concentrazione' indica la maggiore o minore distribuzione delle vendite o dei beni tra le imprese di un settore industriale o di un mercato: se la maggior parte dei beni o delle vendite è nelle mani di poche imprese, si parla di alta concentrazione, se, invece, né una né un piccolo numero di imprese detiene una quota preponderante di vendite o di beni, si dice che il mercato o il settore industriale è 'non concentrato' o che il suo livello di concentrazione è basso. Per misurare il grado di concentrazione si usa prevalentemente il four-firm concentration ratio ('rapporto di concentrazione delle quattro imprese') che è semplicemente la quota del valore complessivo delle vendite o dei beni di un determinato settore detenuta dalle quattro principali unità produttive di quel settore: se tale quota è pari all'80 o al 90% si considera il settore concentrato; lo si considera non concentrato se la quota è inferiore al 30%. Questa misura presenta evidentemente degli inconvenienti: basarla su quattro imprese e non, poniamo, su tre o sette è certamente arbitrario ed è facile immaginare dei casi in cui la scelta di questo numero influisce in maniera determinante sulla statistica della concentrazione così calcolata. Inoltre il calcolo trascura completamente la distribuzione per dimensione delle rimanenti imprese del settore, mentre che vi siano parecchie centinaia di piccolissime imprese o, invece, una sola altra impresa grande quasi come le altre quattro può fare, evidentemente, molta differenza. Infine, il four-firm concentration ratio non distingue tra le quattro imprese principali; viene cioè considerata soltanto la loro grandezza media e, quindi, vengono equiparati il caso in cui una grande impresa eclissa le altre tre e il caso in cui tutte e quattro approssimativamente si equivalgono. Per ovviare a questi inconvenienti, gli analisti oggi sono più propensi a utilizzare l'indice di Herfindahl-Hirschman, H, che è semplicemente la somma dei quadrati delle quote di mercato di ognuna delle imprese in questione. Nella situazione di monopolio perfetto, in cui cioè la quota dell'unica impresa è per definizione uguale all'unità, si ha H = 1² = 1; 1 è il valore massimo che l'indice può assumere. Nella situazione opposta, in cui un settore è costituito da un numero enorme di piccolissime imprese, il valore H sarà approssimativamente uguale a 0² + 0² +...+ 0² = 0. Questo indice tiene quindi conto di tutte le aziende operanti sul mercato e le 'pesa' secondo la rispettiva quota di mercato. Quindi questa misura non trascura neppure un'impresa del settore, per quanto piccola possa essere la sua quota di mercato, e non tratta arbitrariamente imprese di diverse dimensioni come se fossero di pari importanza. D'altra parte, elevando al quadrato i valori delle quote di mercato si finisce con l'esagerare sia il peso delle grandi imprese che l'irrilevanza delle piccole. Inoltre la stessa forma quadratica che definisce l'indice H è piuttosto arbitraria, per cui sono stati proposti diversi altri parametri, come il coefficiente di Gini.Sono attualmente disponibili statistiche sulla concentrazione industriale in vari paesi: quasi tutte sono basate sul four-firm concentration ratio, poche sull'indice di Herfindahl-Hirschman.
Non è affatto ovvio che l'alta concentrazione di un settore industriale conferisca sempre alle imprese in esso operanti il potere di mercato o monopolistico. La relazione tra concentrazione industriale e potere di mercato è difficilmente controllabile, non essendovi nelle opere di teoria economica una definizione di 'potere di mercato' comunemente accettata. Comunque, gli economisti che si occupano nella pratica di controllo monopolistico usano il termine 'potere di mercato' per riferirsi alla facoltà di un'impresa di imporre, per un considerevole arco di tempo e senza che i suoi clienti si rivolgano in massa alla concorrenza, un prezzo significativamente superiore a quello che prevarrebbe nel lungo periodo se il mercato fosse altamente competitivo. Questa ragionevole interpretazione del termine mette subito in evidenza il fatto che persino un'estrema concentrazione - con l'eccezione della situazione di monopolio perfetto - non produce necessariamente potere di mercato. Infatti, anche se un mercato è formato da due sole imprese molto grandi, finché entrambe insistono a comportarsi come rivali accaniti nessuna delle due giungerà a controllare il mercato: il tentativo dell'una di adottare prezzi superiori al prezzo di concorrenza verrà salutato dall'altra come un'opportunità per far incetta dei clienti dell'avversaria, mantenendo fissi i propri prezzi e restando a guardare i prezzi vistosamente alti della concorrente mettere in fuga i potenziali acquirenti.
Questa impostazione del problema mostra pure come, in altri casi, un alto livello di concentrazione possa essere una fonte di preoccupazione senz'altro legittima, in quanto può permettere alle imprese di un settore di agire all'unisono, fissando, di comune accordo, prezzi che consentano alti profitti. In altri termini, la concentrazione favorisce la costituzione e l'operatività di un cartello. La ragione di ciò risiede nella natura stessa dei cartelli e nella loro tendenza ad andare in pezzi sia per circostanze sfavorevoli sia in caso di successo.
Il fatto è che ogni cartello rappresenta un problema di coordinazione estremamente difficile. Un gruppo di imprese a produzione multipla che intenda formare un cartello deve anzitutto fissare un insieme di prezzi traguardo - uno per ogni variante di ciascun prodotto - e quindi deve determinare il volume di produzione complessivo di ogni particolare variante (volume che, secondo le previsioni di mercato, consentirà tali prezzi). Infine deve stabilire, per ogni variante di ciascun prodotto, la quota di produzione da assegnare a ogni singola impresa. Ovviamente, l'interesse di ciascun membro del cartello è quello di massimizzare le proprie quote e di ridurre al minimo quelle degli altri membri. Le trattative iniziali per la formazione del cartello sono, perciò, particolarmente aspre e difficili e molte iniziative del genere muoiono sul nascere. Se poi un cartello riesce a costituirsi, ciò significa che le sue difficoltà sono appena incominciate; gli alti profitti dovuti al successo iniziale rappresentano per ogni membro un irresistibile impulso a ridurre i prezzi all'insaputa degli altri, per aumentare le proprie vendite a spese del cartello; d'altra parte, ogni membro sospetta che i suoi partners facciano la stessa cosa. Ciò può far naufragare l'impresa in breve tempo.Tutto questo si collega alla concentrazione nel senso che, se il mercato è assai poco concentrato, tali impedimenti alla costituzione e all'operatività del cartello risulteranno quasi certamente fatali. Soltanto in un settore la cui produzione sia in larghissima misura controllata da un piccolo numero di imprese le trattative, la necessaria coordinazione e la reciproca sorveglianza - che sola può garantire l'osservanza dei patti - saranno concretamente possibili.Pertanto la conclusione più diffusa nella letteratura specializzata è che la concentrazione può ingenerare potere di mercato in un settore industriale se facilita la formazione e la sopravvivenza di un cartello. Se ciò non accade, neppure un mercato molto concentrato consentirà l'adozione di prezzi significativamente al di sopra dei livelli competitivi per un lungo periodo. Questa considerazione è alla base della concezione, talvolta attribuita ai membri della Scuola di Chicago, secondo cui in un settore industriale sono sufficienti due partecipanti per dar luogo a un confronto competitivo. D'altra parte una bassa concentrazione è, di fatto, universalmente considerata una garanzia contro il potere di mercato: essa, infatti, rende la necessaria coordinazione pressoché impossibile.
Recentemente si è cercato di precisare le condizioni in cui settori industriali altamente concentrati possono nondimeno assicurare il confronto competitivo. Diverse fonti hanno contribuito alla conclusione che, anche là dove la concentrazione è alta, la competitività può essere garantita dalla facilità di entrata. Questa conclusione è stata suggerita, per esempio, da fonti governative come il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che ha pubblicato un documento - il Merger Guidelines - dove si afferma che il Dipartimento non si opporrà a un progetto di fusione di due grandi imprese - fusione che farà crescere in misura rilevante il tasso di concentrazione del relativo settore -, purché quest'ultimo si dimostri molto vulnerabile all'entrata.In sede accademica, che la facilità di entrata possa svolgere lo stesso ruolo della bassa concentrazione viene sottolineato dalla nuova teoria dei 'mercati accessibili' (v. Baumol, Panzar e Willig, 1982). È opportuno richiamare qui per sommi capi questa teoria che, oltre a chiarire le conseguenze della concentrazione, dice anche qualcosa sulle circostanze nelle quali è probabile che si verifichino alti livelli di concentrazione.
Un mercato è definito 'accessibile' se, in primo luogo, vi si può accedere con spese contenute, e cioè se i 'costi sommersi' (sunk costs) che occorre sostenere per inserirvisi non sono rilevanti: ciò significa che se, in seguito, l'entrata si rivela essere stata un errore, l'impresa può uscire rapidamente e facilmente dal mercato, collocando altrove l'investimento 'non sommerso'. In secondo luogo, tale entrata deve potersi attuare in tempi relativamente brevi: ciò è importante perché significa che il nuovo concorrente può sfruttare un'opportunità di profitto prima che le imprese del settore possano prendere delle contromisure. Ciò è più probabile che accada nei mercati dove si fa frequente ricorso a contratti a lungo termine (solitamente si tratta di mercati che contano, tra i compratori, diverse grandi imprese), in quanto tali contratti tra un nuovo concorrente e diversi grandi clienti possono proteggere il primo dalle contromisure delle imprese avversarie per tutta la durata del contratto.
La teoria dimostra che, in una situazione di completa facilità di entrata (e di uscita), cioè in un mercato perfettamente 'accessibile', persino un settore altamente concentrato funzionerà, sotto ogni altro aspetto, come se fosse perfettamente competitivo. In particolare i profitti economici saranno nel lungo periodo nulli, l'inefficienza operativa sarà esclusa sia a livello della singola impresa che a livello dell'intero settore ed escluse saranno pure misure non competitive quali l'adozione di prezzi sleali e la sovvenzione interna (su cui ritorneremo); infine, eccettuato il caso dell'equilibrio di monopolio, i prezzi tenderanno a eguagliare i costi marginali. Per limiti di spazio in questo contesto non si può far altro che accennare al ragionamento che conduce alla dimostrazione di questi teoremi, altrove rigorosamente dedotti. I profitti eccessivi (sopracompetitivi) e gli sperperi dovuti all'inefficienza sono esclusi, in un mercato perfettamente accessibile, dal medesimo meccanismo. Infatti, prezzi e costi eccessivi permettono, ovviamente, a un nuovo concorrente, meno avido o meno sprecone, di praticare prezzi più bassi e tuttavia redditizi e quindi di sottrarre clienti a un'impresa le cui prestazioni lascino a desiderare dall'uno o dall'altro punto di vista. Dunque né costi né prezzi eccessivi possono persistere in un mercato perfettamente accessibile. Parimenti sono escluse la sovvenzione interna e l'adozione di prezzi sleali, espedienti che consentono a un'impresa di vendere certi prodotti a prezzi inferiori ai costi, riservandosi di aumentarne i prezzi in un secondo momento o rincarando subito altri prodotti, per controbilanciare le perdite. Dato che la perfetta accessibilità del mercato impedisce - come abbiamo appena visto - l'adozione di prezzi eccessivi, vengono di conseguenza a mancare la motivazione e gli strumenti per ricorrere a tali pratiche.
Le ragioni per cui la perfetta accessibilità di un mercato garantisce che i prezzi siano uguali ai costi marginali, in un settore dove operino almeno due imprese, sono più difficili da spiegare, ma anch'esse possono essere accennate. In sostanza, che un prezzo sia superiore al costo marginale significa che l'unità di prodotto marginale contribuisce a realizzare un profitto più alto di quello corrispondente al livello competitivo. Analogamente, che un prezzo sia inferiore al costo marginale significa che l'unità di prodotto marginale determina una perdita economica che deve essere compensata con la vendita di unità di prodotto di altro tipo a prezzi sopracompetitivi.
Nessuna delle due situazioni può durare a lungo in un mercato perfettamente accessibile, dove qualsiasi prezzo eccessivo offre l'opportunità di un'entrata redditizia.Queste proprietà dei mercati perfettamente accessibili costituiscono la base analitica per affermare che la libertà di entrata (di uscita) è sufficiente a garantire un comportamento competitivo persino in un settore industriale molto concentrato. La conclusione fondamentale, allora, è che, verosimilmente, un settore industriale funzionerà in modo competitivo o quando la sua concentrazione sarà molto bassa o quando l'entrarvi sarà molto facile o quando si verificheranno contemporaneamente entrambe le condizioni.
Si è soliti attribuire a Marx la predizione secondo cui le 'leggi del moto' del capitalismo avrebbero inesorabilmente portato a un progressivo aumento della concentrazione. Marx imputa questo processo al fatto che il saggio di profitto tenderebbe a calare, e ciò determinerebbe la scomparsa delle piccole imprese e l'espansione delle grandi, che cercherebbero di salvaguardare i propri profitti globali, facendo ricorso a economie di scala e ampliando la base degli investimenti (Il capitale, vol. III, parte III).
La previsione di Marx non è stata confermata dai fatti. Almeno nel caso degli Stati Uniti, i dati sulla concentrazione relativi al periodo 1900-1980 non forniscono alcuna prova di una prevalenza di aumenti nei rapporti di concentrazione. Per esempio, secondo uno studio di McCracken e Moore (v., 1973), la quota di valore aggiunto dai settori con rapporti di concentrazione superiori al 50% è scesa dal 33% circa del 1900 al 26% circa nel 1970; da allora vi sarebbe stata, secondo ricerche più recenti, un'ulteriore leggera flessione. Ciò conferma il giudizio espresso nel 1951 da M. A. Adelman, secondo cui "una qualsiasi tendenza in una qualsiasi direzione, ammesso che esista, non può che muoversi alla velocità di deriva dei ghiacci" (v. Adelman, 1951).Come si spiega questo imprevisto stato di cose? Per comprenderlo dobbiamo evidenziare i fattori che determinano il livello di concentrazione.
Un settore industriale diventa più concentrato o in seguito a esplicite decisioni di quanti vi operano o in risposta a pressioni esercitate dal mercato. Gli imprenditori possono cercare di aumentare la concentrazione del proprio settore di attività mirando ad acquisire potere di mercato e a guadagnare profitti di monopolio; d'altra parte l'attuazione di economie di scala, dati i costi che l'operazione comporta, può avviare un processo di concentrazione, anche non perseguito intenzionalmente.Come si è visto, al di sotto di un certo grado, piuttosto elevato, di concentrazione, il tentativo di formare un cartello e, quindi, di acquisire un duraturo potere di mercato, è probabile che fallisca. Per questo motivo alcune imprese possono sentirsi attratte dall'idea di sfruttare ogni promettente opportunità di incrementare la concentrazione. Comunemente si ritiene che i due espedienti adottati a questo scopo siano la 'predazione' e la 'sovvenzione interna'. La predazione consiste, secondo la definizione usuale, nell'adozione, da parte di un'impresa, di una linea di condotta - come la riduzione dei propri prezzi - che, pur comportando un certo sacrificio dei profitti, riesce, nello stesso tempo, a impedire a qualche concorrente attuale di continuare a operare sul mercato e a qualche concorrente potenziale di entrarvi. L'obiettivo, naturalmente, è quello di aprire la strada a futuri profitti di monopolio, impossibili senza ridurre il numero dei concorrenti attuali o potenziali. L'effettiva frequenza e la probabilità di successo di simili tentativi sono, nella letteratura, argomenti controversi.
Assai minore, invece, è il disaccordo circa la sovvenzione interna: gli economisti, divergendo su questo punto dall'opinione della gran parte dei non addetti ai lavori, generalmente non la ritengono una possibile fonte di concentrazione. Si parla di sovvenzione interna quando una impresa a produzione multipla vende alcuni suoi prodotti a un prezzo troppo basso per garantire entrate sufficienti a coprire i relativi costi marginali (cioè i costi corrispondenti all'aumento dei costi totali sostenuti dall'impresa per poter offrire quei prodotti) e quindi rincara alcuni altri suoi prodotti per compensare il deficit derivante dalle vendite a basso prezzo. In particolari circostanze questa linea di azione può avere un senso per l'azienda; non lo ha, certamente, come misura anticompetitiva, a meno che non ci si proponga con essa di allontanare concorrenti dal mercato, nel qual caso, però, più che di sovvenzione interna si tratterebbe di predazione.In ogni caso, dovrebbe ormai esser chiaro, in base alla discussione precedente, che la facilità di entrata vanifica ogni tentativo di concentrazione a fini monopolistici. In un mercato accessibile un tentativo del genere si risolve in un inutile sacrificio di profitti, in quanto gli utili di monopolio attesi, che rappresentano l'unica ragionevole spiegazione di una tale linea d'azione, non potranno mai essere realizzati. Ogni tentativo dell'aspirante monopolista di riscuotere il premio per un atto di predazione provocherà soltanto il ritorno sul mercato - magari soltanto temporaneo - di outsiders, bramosi di partecipare ai guadagni di monopolio.
Dove la monopolizzazione è esclusa dalla facilità di entrata o da altri impedimenti, la concentrazione può nondimeno essere stimolata da economie di scala e di raggio d'azione. Si parla di 'economie di scala' quando all'incremento della produzione corrisponde un incremento del costo totale percentualmente inferiore. Il concetto di 'economie di raggio d'azione' è più recente e si riferisce alla riduzione dei costi che una singola impresa può realizzare diversificando la propria produzione. Per esempio, un'impresa può produrre un milione di automobili e 200.000 autotreni all'anno con una spesa inferiore alla somma dei costi sostenuti da due imprese specializzate, che producano, rispettivamente, un milione di automobili e 200.000 autotreni.
Dovrebbe ormai essere chiaro che quando un settore industriale offre l'opportunità di conseguire economie di scala e di raggio d'azione - che sono due modi, fra altri, di incrementare i propri profitti riducendo le spese - le imprese che vi operano cercheranno di ingrandirsi onde poter beneficiare di tali meccanismi. Ma anche nel caso che le imprese non assumano deliberatamente un'iniziativa del genere, può essere lo stesso meccanismo di mercato a imporre loro questa linea d'azione: infatti un'impresa che tralasci di perseguire queste economie corre il rischio di venir soppiantata da un'impresa rivale, che, avendo invece deciso di realizzarle, potrà contare su costi e prezzi inferiori.
In un mercato perfettamente accessibile questa tendenza è costante. Come abbiamo visto, l'estrema facilità di entrata esclude ogni forma di inefficienza, comprese quelle imputabili a una struttura del settore scarsamente aggiornata sotto il profilo tecnologico. Parlare di economie di scala e di raggio d'azione equivale a dire che il settore in questione opera più efficacemente se è formato da un piccolo numero di imprese relativamente grandi piuttosto che da molte piccole imprese. Ciò implica che, se il mercato è accessibile, un settore industriale dove sia possibile realizzare economie di scala e di raggio d'azione non potrà continuare a basarsi sulla piccola impresa.
Così, in un mercato accessibile, la 'mano invisibile' può imporre un alto livello di concentrazione, abbiano o meno le intenzioni degli operatori una qualche parte in questo processo; non vi svolgerà alcun ruolo, invece, la monopolizzazione; anzi, nel caso in questione, le forze che rendono accessibile il mercato impediranno che l'alto livello di concentrazione conduca a un qualsiasi comportamento monopolistico o conferisca potere di mercato a un qualsiasi operatore.
In un sistema economico, quindi, le tendenze alla concentrazione possono dipendere da due fattori: l'efficacia dei tentativi di monopolizzazione e la spinta a rendere più adeguate le dimensioni dell'impresa in funzione di economie di scala e di raggio d'azione. Quanto più il sistema economico è competitivo o accessibile, tanto più risulterà prevalente il secondo fattore. Che il progresso tecnologico abbia richiesto imprese sempre più grandi per raggiungere la massima efficienza è un'opinione largamente diffusa. Certamente è questa l'opinione che ci si forma leggendo Marx, il quale ipotizza che il tasso di profitto tenda a diminuire a causa dell'aumento progressivo del rapporto fra capitale costante e capitale variabile, cioè del rapporto capitale/lavoro. È vero che agli albori della rivoluzione industriale le imprese erano, per la maggior parte, molto piccole, se giudicate secondo gli standard odierni, e che, con la comparsa delle ferrovie, le dimensioni tipiche - nonché quelle ottimali - delle imprese aumentarono di colpo sensibilmente. Tuttavia non esiste una ragione immutabile per cui le trasformazioni tecnologiche debbano sempre indurre un aumento delle dimensioni delle imprese; di fatto le cose sono andate anche diversamente. L'invenzione dell'automobile portò con sé anche quella degli autotreni, i quali hanno assorbito una quota rilevante del trasporto di merci precedentemente affidato alle ferrovie. Ora, le imprese di trasporto su strada sono molto più piccole di quelle ferroviarie, e la ragione appare ovvia: le prime, infatti, non richiedono il forte investimento di capitali che la ferrovia, con le sue grandi indivisibilità, impone. Di conseguenza, la ferrovia offre solitamente l'opportunità di realizzare economie di scala per una gamma di prestazioni molto più ampia, e quindi le sue dimensioni ottimali sono di gran lunga maggiori di quelle di un'impresa di trasporti su strada. Esistono molti altri esempi dello stesso fenomeno, casi in cui la trasformazione tecnologica determina effettivamente una riduzione anziché un aumento delle dimensioni ottimali delle imprese. Ciò vale, per esempio, per le moderne imprese del settore dell'elettronica. Il fatto che il baricentro dell'economia statunitense, in risposta a nuovi schemi di vantaggio comparato determinati dalla trasformazione tecnologica, si sia spostato dall'industria pesante all'elettronica ha senza dubbio contribuito a un incremento della quota del PNL attribuibile alle piccole imprese.
L'analisi dei fattori che, in una situazione di competitività o accessibilità, determinano l'effettiva struttura del mercato lascia prevedere che la grandezza media dell'impresa e, quindi, il grado di concentrazione seguano più o meno da vicino l'evoluzione delle dimensioni ottimali delle imprese. Quando gli sviluppi tecnologici provocano una crescita delle dimensioni ottimali possiamo attenderci che la concentrazione di un settore industriale tipico aumenti; viceversa la concentrazione diminuirà nel caso che l'innovazione tecnologica determini una riduzione delle dimensioni ottimali. Non c'è alcuna ragione di ritenere che tali sviluppi avvengano sempre nella stessa direzione o che avvengano simultaneamente nella stessa direzione in tutti i settori o anche solo nella maggior parte. Questa sembra essere la spiegazione più plausibile dell'assenza, indicata dai dati, di una qualsiasi chiara tendenza nell'andamento della concentrazione.
Tra le virtù attribuite all'organizzazione di un settore industriale più o meno prossimo allo stato di competizione perfetta vi sono il decentramento delle decisioni e la loro determinazione da parte del meccanismo di mercato. Non occorre ripetere qui la ben nota analisi della teoria della competizione perfetta, secondo cui i prezzi non possono essere influenzati dalle decisioni di un qualche singolo decision-maker e tutte le imprese e tutti i consumatori rispondono ai prezzi in un modo che rende trasparente il mercato facendo sì che l'offerta globale eguagli la domanda globale. Come sappiamo, almeno in teoria, i prezzi porteranno le decisioni di produttori e consumatori, fra loro non coordinate, a conformarsi ai requisiti dell'ottimo paretiano. Si tratta, chiaramente, di decentramento nella sua forma estrema: la produzione e lo scambio non soltanto non rientrano in una pianificazione centralizzata ma, in sostanza, si determinano a prescindere dalle decisioni deliberate e coscienti di qualsiasi gruppo di individui. Benché non pianificati, non guidati e decentrati, produzione e scambio riescono a raggiungere risultati concordi con i requisiti dell'efficienza economica.Si potrebbe pensare che la concentrazione industriale cambi tutto ciò, ed è plausibile che talvolta effettivamente lo faccia. Probabilmente il caso limite è quello di un cartello che, come abbiamo visto, può avere successo solo in un settore industriale con alto livello di concentrazione. Per realizzare il proprio scopo - ottenere profitti di monopolio - coloro che controllano gli accordi di cartello esercitano una vera e propria pianificazione centrale. Come in un sistema economico diretto dal centro, a ciascuna delle imprese partecipanti viene assegnato un ben determinato volume di produzione; inoltre è probabile che se ne limitino in vario modo anche altri ambiti decisionali e operativi, onde poter facilmente verificare che tutte le imprese rispettino le decisioni della direzione del cartello e prevenire azioni fraudolente che possano compromettere gli accordi di cartello. Com'è ben noto, il fatto che il cartello riesca a imporre, in un settore industriale, la combinazione monopolistica prezzo-produzione determina, con ogni probabilità, una significativa riduzione del benessere economico. Tanto per cominciare ci si può aspettare che il volume di produzione sia assai inferiore al livello richiesto dall'ottimo paretiano.
Probabilmente, però, i cartelli provocano effetti considerevolmente più dannosi, per l'efficienza economica, di quelli che possiamo attenderci da un puro monopolio. Un monopolio ha un forte incentivo a perseguire l'efficienza interna: mantenere il costo di produzione di un certo insieme di prodotti (quale che sia) il più basso possibile. Invece, a causa del margine di indipendenza reciproca di cui continuano a godere i suoi membri e dei loro contrastanti interessi, un'efficienza del genere rappresenta un traguardo irraggiungibile per un cartello. Possiamo chiarire questo punto con un esempio. Se due imprese si fondono per formare un monopolio, la direzione dell'impresa risultante ridurrà, molto probabilmente, la produzione e lo farà, verosimilmente, chiudendo i suoi impianti meno efficienti, non importa se appartenenti all'una o all'altra delle due imprese originarie. Invece, con la costituzione di un cartello, tutte le imprese partecipanti possono aspettarsi la richiesta di ridurre in qualche misura la propria produzione. Dato che ogni impresa partecipa al cartello volontariamente, a nessuna può essere chiesto di sopportare una restrizione troppo gravosa della produzione, neppure a un'impresa i cui impianti produttivi siano decisamente obsoleti e inefficienti. In altri termini, è probabile che sia una fusione sia la formazione di un cartello comportino una riduzione monopolistica della produzione; dalla prima, però, possiamo anche attenderci una concomitante ricerca della massima efficienza interna, mentre il secondo si dimostrerà particolarmente poco incline a realizzare persino questo limitato obiettivo.
Sono dunque questi i modi in cui la concentrazione di un settore industriale può - anche nel caso in cui il processo decisionale sia molto decentrato - ridurre o addirittura annullare del tutto l'efficacia di quei meccanismi di mercato che operano a favore dell'efficienza economica. Comunque questo non è l'unico scenario possibile; la concentrazione lascia un certo spazio di manovra per un decentramento ben funzionante: in primo luogo all'interno dell'impresa stessa, in secondo luogo - in determinate circostanze - nell'intero settore industriale.
Poiché un settore industriale altamente concentrato è, per definizione, caratterizzato dalla presenza di grandi imprese, è probabile che ne contenga alcune costrette ad affrontare problemi di coordinazione interna. Un'organizzazione industriale con impianti sparsi in tutto il mondo e impegnata a realizzare una considerevole gamma di prodotti (alcuni complementari, altri reciprocamente competitivi), si trova ad affrontare problemi di 'politica interna' talvolta di enorme rilevanza. Una divisione che produca inputs per un'altra divisione della stessa organizzazione deve pianificare i propri flussi produttivi in modo che corrispondano alle esigenze dell'altra in quanto acquirente dei suoi prodotti. Se due divisioni realizzano prodotti reciprocamente competitivi, le decisioni che massimizzano i profitti dell'una, presa singolarmente, possono non coincidere con quelle che fornirebbero il massimo contributo al benessere dell'organizzazione nel suo complesso.
In breve, i meccanismi di gestione di una simile grande impresa, articolata in più divisioni, sono, in scala ridotta, esattamente gli stessi che vigono nell'intero sistema economico. In entrambi i casi essi possono assumere le forme più svariate, dalla rigida e restrittiva pianificazione centrale a un considerevole grado di decentramento 'tipo-mercato' (per una trattazione veramente illuminante di tali problemi, v. Williamson, 1985). Degno di nota è il fatto che, proprio mentre i paesi del blocco sovietico e la Cina si andavano convincendo dell'opportunità di incominciare a fare assegnamento sul meccanismo di mercato, diverse grosse imprese siano giunte a un'analoga conclusione a proposito del modo più efficace di condurre i propri affari interni.
Se un'impresa opta per il decentramento, il grado di autonomia concesso alle sue divisioni può variare in misura rilevante. Talvolta questa autonomia può essere abbastanza limitata: due divisioni, per esempio, vengono incoraggiate a ricercare un accordo e a coordinare le proprie politiche, ma le loro decisioni devono essere poi approvate dalla direzione centrale. All'estremo opposto (di massima autonomia) una divisione X, acquirente dei prodotti di una seconda divisione Y, appartenente alla stessa impresa, può essere autorizzata a cercare liberamente un fornitore di prodotti migliori e meno cari al di fuori dell'impresa. Contemporaneamente, la divisione Y, produttrice degli inputs necessari alla divisione X, può essere lasciata libera di cercarsi compratori indipendenti sul libero mercato e forse persino di vendere i propri prodotti ai concorrenti dell'impresa cui appartiene. Ma non basta: qualcosa di simile a un vero e proprio meccanismo dei prezzi viene talvolta impiegato nei rapporti commerciali tra divisioni della stessa impresa e non solo nelle transazioni con l'esterno. I prezzi adottati nelle transazioni interne sono detti 'prezzi di trasferimento' e possono venire determinati in trattative 'fra estranei', dove le parti (le divisioni dell'impresa) interessate agiscono come decision-makers indipendenti, perseguendo i propri interessi come se stessero operando autonomamente in un libero mercato. Talvolta le interdipendenze tra divisioni possono persino essere considerate, e conseguentemente affrontate, come esternalità generate dalle azioni della singola divisione. In economia, come sappiamo, si è giunti alla conclusione secondo cui gli adeguamenti di prezzo (spese di Pigou) costituiscono un mezzo ottimale per affrontare tali esternalità. I prezzi di trasferimento possono essere trattati in modo simile, sottoponendo i prezzi raggiunti attraverso le trattative tra divisioni a modifiche decise dalla direzione centrale dell'impresa, ma limitando tali modifiche al solo controllo delle esternalità.
Ciò che la precedente discussione ha dimostrato è che persino un alto livello di concentrazione non è incompatibile con un sostanziale grado di decentramento all'interno delle singole imprese. Al contrario, poiché gli alti livelli di concentrazione sono necessariamente associati alla presenza di grandi imprese - normalmente afflitte da problemi di gestione ed esposte al rischio dell'ossificazione burocratica -, il decentramento costituisce la naturale soluzione dei primi e l'antidoto naturale per la seconda.Comunque gli analisti, parlando di 'mano invisibile', di solito non pensano tanto al decentramento all'interno della singola impresa quanto, piuttosto, alla coordinazione delle decisioni dei molti consumatori che insieme formano il sistema economico di un paese. Anche in questo caso, come vedremo, la concentrazione non è incompatibile con il decentramento.
L'accessibilità del mercato gioca ancora una volta, per forza di cose, un ruolo chiave nel consentire anche a settori concentrati di raggiungere l'efficienza in un'economia decentrata. Come abbiamo visto, dove i mercati non sono accessibili, la concentrazione può condurre all'inefficienza e incidere negativamente sul benessere economico, sia attraverso un comportamento monopolistico sia attraverso il fallimento delle misure tese a minimizzare i costi della combinazione di prodotti risultante.In un mercato accessibile deve verificarsi esattamente l'opposto, perché, in tal caso, anche se le imprese sono grandi e poche, la possibilità di entrata ripristina la forza del meccanismo di mercato e costringe le imprese ad agire secondo l'ottimo paretiano, come se si trovassero in un regime di concorrenza perfetta. Come abbiamo visto, sottoposte alle pressioni indotte dall'accessibilità del mercato, le imprese non possono realizzare profitti eccessivi: esse devono operare efficientemente e, purché vi siano due o tre fornitori per ogni prodotto, i prezzi finiranno con l'eguagliare i costi marginali. Tutto ciò - è importante sottolinearlo - non è il frutto di decisioni consapevoli, ma il risultato del funzionamento automatico e impersonale del meccanismo di mercato. In altre parole, anche in presenza di un alto livello di concentrazione, l'accessibilità del mercato garantisce che il decentramento dei processi decisionali porti ancora, sia pure a lunga scadenza, a risultati ottimali.La conclusione è chiara: la concentrazione solo talvolta sarà compatibile con il conseguimento dell'ottimizzazione attraverso il decentramento delle decisioni. Ma l'analisi non si limita a suggerirci questa conclusione: ci permette anche di determinare con precisione, almeno in teoria, in quali circostanze il decentramento promuoverà (o non promuoverà) gli interessi della comunità, anche quando i livelli di concentrazione sono alti.
Pur ammettendo la possibilità che la concentrazione non sia sempre dannosa per la società, potrebbe sembrare auspicabile, se non altro per prevenire eventuali effetti nocivi, cercare di impedirla in ogni modo. Una tale incondizionata presa di posizione, fondata sul presupposto secondo cui tutto ciò che accresce il numero delle imprese aumenta la competitività e, di conseguenza, promuove il benessere della comunità, è oggi meno diffusa di una volta tra gli economisti.
Attualmente prevale un giudizio più complesso: si concorda sul fatto che in alcuni casi la concentrazione debba essere senz'altro contrastata, ma si ritiene anche che, in altre circostanze, i costi per prevenirla possano superare, anche di molto, i benefici attesi; questo principalmente per due ragioni.In primo luogo, dov'è possibile realizzare significative economie di scala e di raggio d'azione, adottare misure per imporre una proliferazione delle piccole imprese e per scoraggiare la presenza delle grandi imprese equivale a rinunciare a tali economie. I costi, di conseguenza, saranno maggiori di quelli resi possibili da queste ultime e, come al solito, saranno i consumatori a risentirne negativamente. Se questo è il frutto di una politica di prevenzione della concentrazione, allora l'obiettivo di una tale politica diventa piuttosto discutibile.
L'altra ragione per cui talvolta non è troppo opportuno destinare delle risorse alla prevenzione della concentrazione è valida soltanto nel caso di mercati molto accessibili. In tal caso, come abbiamo visto, persino settori industriali molto concentrati agiranno automaticamente nel pubblico interesse, non per bontà d'animo degli imprenditori, ma perché la concorrenza potenziale non lascia a costoro alcuna scelta. In questa situazione tutte le inefficienze e tutti i costi che l'intervento pubblico può comportare sono assolutamente senza senso e ingiustificabili, dal momento che anche senza l'imposizione di controlli da parte delle autorità il comportamento delle imprese e dei settori industriali sarà del tutto compatibile con gli interessi della collettività.
Se, infine, non solo sono possibili economie di scala e di raggio d'azione, ma, inoltre, il mercato è accessibile, l'intervento diventa doppiamente sconsigliabile. Date queste due condizioni, infatti, una qualche forma di concorrenza atomistica può persistere soltanto se l'azione competitiva delle imprese più grandi ed efficienti viene implacabilmente frenata da un intervento governativo. Il mantenimento di una tale configurazione atomistica comporterà, ovviamente, un costo enorme, in termini di efficienza, mentre, per quel che riguarda la competitività, non aggiungerà alcun beneficio a quelli che l'accessibilità del mercato offre in ogni caso, senza richiedere la presenza di una moltitudine di imprese.
Ma, allora, quali sono le misure politiche più opportune nei confronti della concentrazione? In primo luogo, se l'analisi precedente è valida, nei casi caratterizzati simultaneamente dall'accessibilità del mercato e da economie di scala e di raggio d'azione, non c'è miglior politica della mancanza di politica. Bisogna, cioè, lasciare che il mercato funzioni autonomamente: in tal modo la collettività può godere dei benefici derivanti da un impiego efficiente delle risorse economiche nonché dal mantenimento di prezzi competitivi e dall'assenza di sfruttamento monopolistico.
In secondo luogo, se il mercato all'inizio non è accessibile, ma vi sono gli strumenti per renderlo tale - per esempio, eliminando le barriere artificiali all'entrata - tali misure dovrebbero esser prese in seria considerazione. Dopotutto, un singolo provvedimento che fosse in grado di esimere definitivamente la pubblica autorità dal dover intervenire in continuazione sarebbe assai utile.
Il terzo caso è quello in cui quasi tutte le attività di un settore sono compatibili con i requisiti di accessibilità del mercato, ma esistono 'sacche' di costi sommersi inevitabili che impediscono l'uscita (e, di conseguenza, anche l'entrata). In queste circostanze può essere opportuno isolare e far gravare sullo Stato gli investimenti sommersi e lasciare le rimanenti attività del settore al controllo del mercato. Un esempio plausibile di questa situazione è fornito dal settore dei trasporti di merci su strada. Un'impresa di autotrasporti, ovviamente, può facilmente uscire, subendo una piccola perdita, da un qualsiasi mercato geograficamente delimitato; questo fatto, insieme alla disponibilità di contratti fra tali imprese e le imprese di spedizione facilita l'entrata. Tuttavia il trasporto su strada richiede investimenti per le autostrade, che sono chiaramente investimenti sommersi. È quindi opportuno che le autostrade siano possedute e gestite dal settore pubblico, in modo da garantire l'uguaglianza di accesso a tutti gli operatori.
La quarta possibilità è che non vi siano rilevanti economie di scala e di raggio d'azione, e che l'accessibilità del mercato non sia una prospettiva realistica. In tal caso un intervento volto a impedire fusioni o altre iniziative suscettibili di aumentare la concentrazione può essere del tutto appropriato. Questo, quindi, è l'unico tipo di situazione in cui il tradizionale modello di politica antimonopolistica conserva una sia pur minima ragion d'essere. In effetti, in situazioni del genere, vi è un motivo in più per diffidare delle iniziative private che accrescono la concentrazione: queste infatti, in assenza di economie di scala e di raggio d'azione, sono verosimilmente finalizzate alla realizzazione di profitti di monopolio, dato che, secondo la nostra ipotesi, in questo caso le più elevate dimensioni dovute alla concentrazione non consentono di ridurre i costi mediante un aumento dell'efficienza.Infine, se vi sono economie di scala e di raggio d'azione, ma è irrealizzabile un mercato accessibile, può essere opportuno non ostacolare la concentrazione, per permettere alle imprese di conseguire, espandendosi, una maggiore efficienza. In tal caso, però, come garanzia che i prezzi non raggiungano livelli tali da rappresentare uno sfruttamento del consumatore, può essere opportuno che l'autorità pubblica intervenga nella regolamentazione dei prezzi del settore. A tale proposito si è parlato di una regola aurea per i funzionari statali: operare come vicari del mercato concorrenziale o accessibile (che nel caso in esame si è supposto irrealizzabile). Costoro, in altri termini, devono costringere le imprese ad agire come se il mercato fosse accessibile: loro compito è, quindi, impedire che i prezzi si discostino da quelli che si determinerebbero in un mercato accessibile ed è bene che, per quanto concerne i prezzi, il loro intervento si limiti a ciò.
Nonostante quel che abbiamo appreso dagli studi sulla concentrazione in anni recenti, le nostre precedenti conoscenze sono in larga misura ancora valide. Ciò che la ricerca ha mostrato è che la concentrazione è un fenomeno più ricco e più complesso di quanto si sospettasse. Ciò, a sua volta, implica che le misure da adottare nei suoi confronti devono essere ben più sottili e flessibili di quelle che una volta si consideravano adatte allo scopo. Questa è la lezione principale che si può trarre dai più recenti approcci all'analisi del fenomeno. (V. anche Impresa e società; Industria; Monopolio e politiche antimonopolistiche; Oligopolio).
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