Abstract
Il controllo delle concentrazioni è, insieme alla repressione delle intese restrittive della concorrenza e degli abusi di posizione dominante, parte essenziale di tutte le discipline antitrust vigenti nel modo industrializzato. La disciplina italiana, contenuta nella l. n. 287/1990, è largamente ispirata a quella europea, introdotta con il Reg. n. 4064/89, anche se tra i due sistemi sussistevano alcune differenze, per lo più limitate ad aspetti procedimentali. Con il Reg. 139/2004 la disciplina europea ha però subito modifiche anche di rilievo sostanziale, alle quali il legislatore italiano non ha ritenuto, fino ad oggi, di doversi conformare.
Il controllo delle concentrazioni è, insieme alla repressione delle intese restrittive della concorrenza e dei comportamenti anticoncorrenziali delle imprese dotate di rilevante potere di mercato (nel modello di diritto antitrust europeo – già ‘comunitario’ – sussunti nella categoria dell’abuso di posizione dominante), parte essenziale di qualunque disciplina antitrust vigente nel mondo industrializzato. All’origine dell’istituto vi è l’acquisizione, teorica e pratica, che anche dalla crescita ‘esterna’ delle imprese (cioè quella attuata mediante fusioni o acquisizioni di altre imprese) possa derivare, sotto più profili, un deterioramento del contesto concorrenziale.
Rispetto alle due fattispecie di illecito rappresentate dalle intese e dagli abusi, la disciplina delle concentrazioni presenta però diverse peculiarità. In particolare: i) non sussiste un divieto generale delle operazioni di concentrazione; ii) il controllo delle concentrazioni viene svolto in via preventiva, sulla base di una comunicazione obbligatoria delle progettate operazioni da parte delle imprese interessate (resta, ovviamente, possibile per l’autorità antitrust valutare ex post una concentrazione della quale sia stata omessa la comunicazione); iii) il controllo è riservato all’autorità antitrust, non prevedendosi un’applicazione della disciplina in sede giudiziaria; iv) solo le operazioni di concentrazione che superano una certa soglia dimensionale, che varia anche sensibilmente nei diversi ordinamenti, sono soggette al controllo; v) possibile esito conclusivo dell’esame può essere anche il divieto dell’operazione, ma questo non comporta mai un giudizio di illiceità della medesima e, meno che mai, l’irrogazione di sanzioni pecuniarie. Ne impedisce piuttosto la realizzazione (o, laddove l’operazione sia stata già realizzata, comporta l’obbligo di ritornare allo status quo ante).
Tali peculiarità evidenziano, come osservato in dottrina, un regime di favore per le concentrazioni, rispetto a quello repressivo riservato alle intese e agli abusi di posizione dominante (si vedano Ghezzi, F. - Olivieri, G., Diritto antitrust, Torino, 2013, 253 ss.). Alla base di tale scelta si pone la consolidata convinzione che la maggior parte delle concentrazioni miri a conseguire incrementi di efficienza ovvero risponda alla necessità di adeguare la scala delle imprese alle pressioni concorrenziali dei mercati; che, dunque, le concentrazioni, a differenza delle intese, generalmente incrementino la dinamica concorrenziale (Libertini, M., Diritto della concorrenza nell’Unione Europea, Milano, 2014, 345; in senso dubitativo, Osti, C., Diritto della concorrenza, Bologna, 2007, 160 s.; per un’analisi economica degli effetti delle concentrazioni, si vedano Motta M. - Polo, M., Antitrust. Economia e politica della concorrenza, Bologna, 2004, 165 ss.).
Il controllo delle concentrazioni è stato introdotto nell’ordinamento europeo con il Reg. n. 4064/1989, cioè dopo ben trentadue anni dalla sottoscrizione del Trattato di Roma, che invece conteneva ab origine le altre previsioni antitrust. La resistenza all’introduzione di tale controllo si spiega con l’intento di non pregiudicare la crescita dell’industria europea, ancora non sufficientemente competitiva nei confronti di quella d’oltre Atlantico, non meno che con l’avversione degli stati membri per quella che veniva avvertita come un’ingerenza nelle loro politiche industriali (si veda Arnaudo, L., Il controllo delle concentrazioni, in Frignani, A. - Bariatti, S., a cura di, Disciplina della concorrenza nella UE, in Tratt. dir. comm. Galgano, LXIV, Padova, 2012, 355 ss.). Peraltro, già prima dell’approvazione del Regolamento n. 4064/89, la Commissione si era misurata con le possibili ricadute anticoncorrenziali di talune operazioni, prospettando in un memorandum del 1965, ed effettivamente attuando, il loro trattamento sulla base dell’art. 86 del Trattato CEE (oggi 102 del TFUE). È appena il caso di ricordare che il Trattato di Parigi del 1951, istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), recava già, all’art. 66, una disciplina settoriale delle concentrazioni.
La legge antitrust italiana (l. 10.10.1990, n. 287), intervenuta in una fase già matura del diritto europeo, reca fin dall’inizio una disciplina delle concentrazioni, ricalcata su quella di cui al Reg. n. 4064/89.
Un’ultima notazione generale. Si è detto in dottrina che la disciplina delle concentrazioni esula dal disegno istituzionale antitrust, presentando aspetti di regolazione industriale (Grillo, M., Antitrust, in Rivista pol. econ.,2006, 328; ma si veda anche la considerazione conclusiva di Libertini, M., Diritto della concorrenza, cit., 386). È però anche vero che forse nessuno dei tre istituti essenziali del diritto antitrust al pari del controllo delle concentrazioni ha visto rispecchiata nella propria evoluzione quella delle concezioni di volta in volta dominanti nel campo dell’antitrust. La golden era del controllo delle concentrazioni negli Stati Uniti coincide, infatti, con il massimo fulgore del pensiero strutturalista, portato della cd. Scuola di Harvard dell’economia industriale (per il quale si veda Libertini, M., Diritto della concorrenza, cit., 23 s.), che segna anche l’epoca di maggiore attivismo nell’applicazione della disciplina antitrust in generale (approccio rispecchiantesi pienamente nelle DOJ Merger Guidelines emanate nel 1968). Le Guidelines del 1982 rispondono già ad un’esigenza di affinamento dell’analisi antitrust e prendono maggiormente in considerazione i possibili guadagni di efficienza delle concentrazioni, nonché il fenomeno delle economie di scala. Le successive Guidelines (da quelle del 1992 fino a quelle, attualmente utilizzate, del 2010) sposano il complesso approccio post-chicagoan che caratterizza l’attuale fase di analisi e applicazione del diritto antitrust,mettendo in campo, quale maggiore innovazione, l’attenzione per tutti i possibili profili di criticità concorrenziale delle concentrazioni, ivi inclusi i possibili effetti di coordinamento di una concentrazione (su evoluzione e caratteristiche del merger control nel diritto antitrust statunitense, si veda Hovenkamp, H., Federal Antitrust Policy. The Law of Competition and Its Practice, IV ed., St. Paul, 2011, 540 ss.).
A sua volta, anche il sistema europeo risente dell’approccio strutturalista che caratterizza una prima (lunga) fase della politica antitrust in tale sistema. Nel 2004, con il Reg. n. 139/2004 e le susseguenti linee guida della Commissione, emanate con riferimento alle concentrazioni orizzontali (Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni orizzontali a norma del regolamento del Consiglio relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese, in GU C/ 31 del 5.2.2004), non orizzontali (Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni non orizzontali a norma del regolamento del Consiglio relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese, in GU C 265 del 18.10.2008) eai criteri di competenza giurisdizionale (Comunicazione consolidata della Commissione sui criteri di competenza giurisdizionale a norma del regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese (2008/C 95/01), anche il diritto europeo si è volto ad un approccio più articolato. È stato così, sotto la denominazione di test SIEC (Significant Impedement of Effective Competetition),sostanzialmente combinato il test SLC (Substantial Lessening of Competition), utilizzato attualmente nell’ordinamento statunitense, con il vecchio test di dominanza, che era adottato nel Reg. n. 4064/89.
La legge italiana, specchio piuttosto fedele dell’impianto europeo dell’epoca in cui è stata approvata, è rimasta invece ancorata al test di dominanza, ignorando la modifica intervenuta in quel contesto e ciò nonostante, nei quasi venticinque anni di attività dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, anche la prassi antitrust italiana si sia evoluta di pari passo con quella europea (per una sintesi delle discrasie generatesi tra la l. n. 287/1990 e il Reg. n. 139/2004, si veda Mangione, G., Diritto antitrust: Concentrazioni, in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del Sole24 ore, V, Milano, 2007, 265).
Secondo l’art. 5 della l. n. 287/1990, si realizza un’operazione di concentrazione: a) nel caso di fusione tra due o più imprese; b) nel caso di assunzione del controllo di una o più imprese da parte di uno o più soggetti in posizione di controllo di almeno un'impresa ovvero di una o più imprese; c) nel caso di costituzione di un’impresa comune da parte di due o più imprese.
La legge ha poi cura di indicare alcune esclusioni, precisando che non costituisce concentrazione l’assunzione temporanea (per un periodo massimo di ventiquattro mesi) del controllo da parte di una banca o un istituto finanziario a scopo di collocamento sul mercato delle quote di partecipazione. Il comma 3, infine, precisa che «Le operazioni aventi quale oggetto o effetto principale il coordinamento del comportamento di imprese indipendenti non danno luogo ad una concentrazione». Nel complesso, la definizione ricalca ampiamente quella di cui al par. 3, n. 1, del regolamento europeo (a sua volta emendata nel passaggio tra il regolamento del 1989 e quello del 2004).
Requisito necessario perché si abbia una concentrazione è un cambiamento duraturo nella struttura del controllo di una o più imprese precedentemente indipendenti (da quelle che ne assumono il controllo). La precedente indipendenza delle imprese delle quali si assuma il controllo sembrerebbe requisito ovvio, dato che se un’impresa è già controllata da un’altra mutamenti meramente interni alla permanente situazione di controllo non dovrebbero avere alcun impatto sulla concorrenza. In realtà, nei primissimi anni di attività (fino al 1995), l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ritenne che ogni variazione delle relazioni di controllo, anche nell’ambito di un medesimo gruppo, dovessero rilevare quali concentrazioni, con conseguente obbligo di comunicazione (si veda Raffaelli, E.A., Aspetti evolutivi della nozione di concentrazione, in Rabitti Bedogni, C. - Barucci, P., a cura di, 20 anni di antitrust. L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato,Torino, 2010, 610 s.). Forse l’approccio dell’Autorità era in ciò eccessivamente rigido, ma non v’è dubbio che, almeno in talune ipotesi, anche mutamenti nell’ambito di una relazione di controllo esistente potrebbero essere concorrenzialmente non irrilevanti (si veda, in proposito, Libertini, M., Diritto della concorrenza, cit., 348).
Il riferimento alla fusione non presenta difficoltà interpretative. Esso abbraccia, ovviamente, sia la fusione in senso proprio, sia quella per incorporazione.
Discussa è la riconducibilità alla categoria dell’ipotesi (comunque rara) di cd. fusione di fatto, che si riscontrerebbe quando delle imprese, pur rimanendo giuridicamente distinte e indipendenti l’una dall’altra, attuano una gestione comune delle proprie attività, fino ad apparire come un’unica entità economica (si vedano Fattori, P. - Todino, M., La disciplina della concorrenza in Italia, II ed., Bologna,2010, 252). In qualche caso, anche la scissione può determinare risultati di ‘fusione parziale’ (si veda Libertini, M., Diritto della concorrenza, cit., 349).
L’ipotesi più complessa di concentrazione è quella che riguarda l’assunzione del controllo. Il fenomeno viene definito dall’art. 7 della l. n. 287/1990 in termini sostanzialmente analoghi all’art. 3, par. 2, del Reg. n. 139/2004/CE. La norma fa in primo luogo riferimento alle forme del controllo societario, rinviando all’art. 2359 c.c., con le note categorie del controllo interno di diritto o di fatto e del controllo contrattuale. Richiama poi, in via riassuntiva, la “possibilità di esercitare un’influenza determinante sulle attività di un’impresa” e aggiunge una articolata (e ridondante) esemplificazione, che vorrebbe abbracciare ogni possibile ipotesi in cui possa darsi controllo, esclusivo o congiunto, di fatto o di diritto, diretto o indiretto di un’impresa (per un’accurata analisi delle ipotesi di controllo, si veda Libertini, M., Diritto della concorrenza, cit., 350 ss.). In realtà, centrale (e sufficiente) appare il riferimento all’esercizio (potenziale) di un’influenza determinante sulle attività di un’impresa, cioè alla possibilità di influenzare, in maniera duratura, le scelte concorrenziali di un soggetto imprenditoriale.
Come si è accennato, il controllo può essere esclusivo o congiunto e si ritiene che anche il passaggio dall’una all’altra situazione costituisca concentrazione, soggetta all’obbligo di comunicazione. Particolarmente ampia l’area del controllo congiunto, che non comprende solamente i casi di effettiva condivisione delle decisioni gestorie (l’esempio canonico è quello della società partecipata da due soci con il 50% ciascuno), ma ogni ipotesi in cui soggetti che non dispongono di diritti in misura sufficiente da poter assumere individualmente decisioni gestorie siano tuttavia in grado di condizionare, al limite impedendole, le scelte gestorie della maggioranza (ad es., minoranza di blocco, attribuzione di diritti di veto, diritti di nomina degli organi gestori non proporzionali alla quota detenuta, ecc., ecc.). Nessun controllo si ha, invece, in quelle situazioni in cui, in una società, le maggioranze si aggregano transitoriamente su singole scelte della politica societaria (shifting majorities).
Anche in materia di controllo esclusivo sono emerse ipotesi, di valutazione piuttosto complessa, in cui soci che pure detenevano quote minoritarie in una società sono stati, tuttavia, ritenuti in posizione di controllo (si veda, ad es., il provvedimento dell’Agcm, 4.12.2006, n. 16173, Assicurazioni Generali/Toro Assicurazioni). La verità è che, come è stato rilevato in dottrina (Libertini, M., Diritto della concorrenza, cit., 353), «la determinazione dei confini del ‘controllo azionario di fatto’ costituisce … un punto critico della disciplina delle concentrazioni, che riduce il livello di certezza auspicabile in questo campo».
Il trattamento delle imprese comuni scaturisce dal combinato disposto dei commi 1, lett. c), e 3 dell’art. 5 della l. n. 287/1990. Il primo afferma aversi una concentrazione «quando due o più imprese procedono, attraverso la costituzione di una nuova società, alla costituzione di un'impresa comune»; il secondo esclude che diano luogo ad una concentrazione «Le operazioni aventi quale oggetto o effetto principale il coordinamento del comportamento di imprese indipendenti». Per le legge italiana, si pone dunque ancora la netta alternativa tra imprese comuni concentrative e cooperative, conformemente al disegno delineato nel Reg. 4064/89, che, però, con la modifica del 2004, è stato emendato. L’affermazione per cui la costituzione di un’impresa comune di carattere cooperativo non può mai essere considerata una concentrazione è stata, infatti, eliminata. Come rilevato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (segnalazione AS988, 2.10.2012, Proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza anno 2013), la difformità così generatasi tra la nostra legge ed il diritto comunitario fa sì che, «allo statoattuale, la costituzione della medesima impresa comune full-function, configurabile come concentrazione secondo i parametri adottati dalla Commissione, potrebbe essere, viceversa, qualificata come una joint venture cooperativa e non darebbe luogo ad una operazione di concentrazione ai sensi dell’articolo 5, comma 3, della legge 287/90». L’Autorità segnala le difficoltà che ciò comporta, sia per l’intralcio che crea ai ‘meccanismi di rinvio’ previsti dal regolamento n. 139/2004 che, in deroga alla regola del fatturato, permettono di riallocare la competenza sulla valutazione di un’operazione di concentrazione, sia per la possibilità che si generino disparità di trattamento delle joint ventures tra imprese comuni di dimensione nazionale o europea e invita (finora invano) il legislatore italiano a rimediare.
È appena il caso di ricordare che un’impresa è full functional (cioè ‘a pieno titolo’)quando i) disponga di risorse tecniche, finanziarie, organizzative, che le consentano di operare senza dipendere dalle controllanti; ii) operi in larga prevalenza sul mercato e non esclusivamente in favore delle imprese controllanti; iii) la sua attività abbia carattere duraturo (si veda la Comunicazione consolidata della Commissione, cit., par. 91 ss.).
L’obbligo di comunicare preventivamente all’Autorità un’operazione di concentrazione sussiste o meno a seconda dell’ultimo fatturato annuo realizzato dalle imprese interessate nel mercato nazionale. Secondo quanto previsto dall’art. 16 della l. n. 287/1990, come modificato dall'art. 5 bis del d.l. 24.1.2012, n. 1 (conv. in l. 24.3.2012, n. 27) «qualora il fatturato totale realizzato a livello nazionale dall'insieme delle imprese interessate sia superiore a cinquecento miliardi di lire [attualmente: 489 mln di euro], e qualora il fatturato totale realizzato a livello nazionale dall'impresa di cui è prevista l'acquisizione sia superiore a cinquanta miliardi di lire [attualmente: 49 mln di euro]».Da rilevare che la ricordata modifica ha reso necessaria la coesistenza dei due requisiti dimensionali, che prima erano alternativi, con ciò riducendo in misura rilevante il numero delle operazioni soggette a comunicazione (e a controllo). Non devono essere comunicate le operazioni di acquisizione o di fusione per incorporazione di imprese di nazionalità estera che risultino prive, direttamente o attraverso imprese controllate, di fatturato in Italia al momento dell'acquisizione e nei tre anni precedenti (a meno che, a seguito della concentrazione, l'impresa inizi a realizzare un fatturato in Italia). Le costituzioni di imprese comuni e le fusioni in cui almeno una delle imprese partecipanti è estera non devono essere comunicate se la parte estera risulta priva di fatturato in Italia al momento dell'operazione e nei tre anni precedenti (a meno che, a seguito della concentrazione, l'impresa che ne risulta svolgerà attività economica sul mercato italiano).
Nulla dice la legge italiana sul fatturato da considerare e sui criteri per il suo calcolo. L’Autorità generalmente si attiene ai criteri indicati nella già citata Comunicazione consolidata della Commissione sui criteri di competenza giurisdizionale, del 10.7.2007 (sui quali si veda Libertini, M., Diritto della concorrenza, cit., 364 ss.). Per fatturato totale si intendono, pertanto, gli importi ricavati dalla vendita di prodotti e dalla prestazione di servizi, realizzati nell'ultimo esercizio sul mercato italiano, al netto dei resi e degli sconti, nonché delle imposte direttamente connesse con la vendita di prodotti e la prestazione di servizi (un particolare criterio è dettato dall'arti. 16, co. 2, della legge per il calcolo del fatturato degli istituti bancari e finanziari e delle compagnie di assicurazione).
Per l’impresa o le imprese acquisende è computato il solo fatturato che riguarda le imprese o parti di impresa oggetto dell'operazione, mentre per l’acquirente è valutato l’intero fatturato del gruppo.
Al superamento delle soglie previste dal Reg. n. 139/2004, la competenza al controllo cessa di essere dell’autorità nazionale e passa in esclusiva, salvo quanto vedremo appresso, alla Commissione. In particolare, il par. 2 dell’art. 1 del Regolamento, detta un sistema complesso di determinazione della rilevanza di un’operazione ai fini del controllo, organizzato secondo un criterio principale ed uno subordinato alla sua mancata ricorrenza, a seconda che il fatturato totale realizzato a livello mondiale dall'insieme delle imprese interessate sia superiore a 5 miliardi di euro ovvero, almeno a 2,5 miliardi di euro. Nel primo caso, è anche necessario che il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle imprese interessate sia superiore a 250 milioni di euro, ma la soglia non è comunque rilevante se ciascuna delle imprese interessate realizza oltre i due terzi del suo fatturato totale nella UE all'interno di un solo e medesimo Stato membro. Nel secondo caso, è anche necessario che in ciascuno di almeno tre Stati membri, il fatturato totale realizzato dall'insieme delle imprese interessate sia superiore a 100 milioni di euro, che in ciascuno di almeno dei detti Stati membri il fatturato totale realizzato individualmente da almeno due delle imprese interessate sia superiore a 25 milioni di euro e che il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle imprese interessate è superiore a 100 milioni di euro, ma sempre se ciascuna delle imprese interessate non realizzi oltre i due terzi del suo fatturato totale europeo all'interno di un solo e medesimo Stato membro.
Anche nel caso in cui le dimensione dell’operazione sono europee, le parti, ai sensi dell’art. 4, par. 4 del Regolamento, possono, prima della sua notifica, chiedere motivatamente alla Commissione di affidarne la valutazione all’autorità di uno stato membro quando l’operazione «può incidere in misura significativa sulla concorrenza in un mercato all'interno di uno Stato membro che presenta tutte le caratteristiche di un mercato distinto».
All’opposto, secondo l’art. 22, par. 1, del Regolamento, uno o più Stati membri possono chiedere alla Commissione di esaminare qualsiasi concentrazione, anche di dimensione non europea, se questa «incide sul commercio fra Stati membri e rischia di incidere in misura significativa sulla concorrenza nel territorio dello Stato o degli Stati membri che presentano la richiesta».
Come già accennato, per effetto del Reg. n. 139/2004, il testdi valutazione delle concentrazioni ha subito una sensibile modifica, passandosi dalla considerazione esclusiva del rischio di costituzione o rafforzamento di una posizione dominante (testdi dominanza) al cd. testSIEC (Significant Impediment of Effective Competition), che combina la valutazione a tutto campo dei possibili effetti concorrenziali di una concentrazione, caratteristica dello statunitense SLC, con il vecchio test di dominanza. L’accertamento di un rischio di costituzione o rafforzamento della posizione di dominanza è adesso condizione sufficiente per ritenere critica l’operazione, ma non è più condizione necessaria. La Commissione è infatti tenuta a valutare, più ampiamente, la possibilità che l’operazione ostacoli «in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato» (art. 2, par. 3, Reg. n. 139/2004), il che può avvenire attraverso la generazione di due ordini di effetti: quelli definiti unilaterali e quelli definiti di coordinamento (si veda Commissione, Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni orizzontali, cit.). Sotto il primo aspetto, è ovvio che il tipico effetto unilaterale è, appunto, la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante da parte dell’impresa risultante dalla concentrazione. La nuova disciplina prende però in considerazione anche i possibili effetti unilaterali in un mercato oligopolistico. Si tratta di ipotesi in cui, senza darsi luogo alla creazione di una posizione dominante collettiva, a causa della maggiore concentrazione del mercato e la riduzione delle alternative disponibili per i consumatori si verifichi un innalzamento dei prezzi, che non sia frutto di collusione (è l’ipotesi di oligopolio non collusivo contemplata nel par. 25 dei citati Orientamenti; si vedano Fattori, P. - Todino, M., La disciplina della concorrenza, cit., 299 ss.; Osti C., Diritto della concorrenza, cit., 187 s.). Si può osservare che, mentre nell’ipotesi di creazione di una posizione dominate il deterioramento del quadro concorrenziale è diretta responsabilità delle imprese interessate dalla concentrazione (che se ne avvantaggiano), nel caso della creazione di un oligopolio non collusivo ciò che viene all’osservazione è un assetto complessivo del mercato, del quale possono avvantaggiarsi anche imprese esterne alla concentrazione.
La valutazione degli effetti unilaterali procede, dunque, attraverso l’analisi del grado di concentrazione del mercato rilevante e del suo incremento a seguito dell’operazione (con l’utilizzazione prioritaria dell’indice denominato HHI, secondo il quale si sommano i quadrati delle quote di mercato di tutte le imprese che operano nel mercato rilevante), dell’incremento delle quote di mercato delle imprese interessate, delle caratteristiche del mercato rilevante e del quadro concorrenziale, attuale o potenziale, del numero, delle dimensioni, delle caratteristiche dei concorrenti, del countervailing power delle controparti, dei loro switching costs,ecc., ecc.
Quanto agli effetti di coordinamento, secondo quanto indicato dalla Commissione (Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni orizzontali, cit.,par. 39), «La struttura di alcuni mercati può essere tale che le imprese considererebbero possibile, economicamente razionale, e quindi preferibile, adottare in modo duraturo un comportamento sul mercato che miri a vendere a prezzi superiori. Una concentrazione in un mercato già concentrato può ostacolare in modo significativo una concorrenza effettiva, creando o rafforzando una posizione dominante collettiva, perché accresce la probabilità che le imprese riescano a coordinare il loro comportamento e ad aumentare i prezzi, senza dover concludere un accordo o ricorrere a una pratica concordata ai sensi dell'articolo 81 del trattato CE. Una concentrazione può anche rendere il coordinamento più facile, più stabile o più efficace per imprese che già si coordinavano prima della concentrazione, sia rendendo più forte il coordinamento, sia permettendo alle imprese di coordinarsi su prezzi ancora più elevati».
Come si è detto, alla luce dell’immutata lettera dell’art. 6, co. 1, della l. n. 287/1990, il controllo delle concentrazioni in Italia resta vincolato al vecchio test di dominanza (che però, a rigore, non dovrebbe risultare pregiudizievole per la possibilità di ritenere rilevante anche la creazione o il rafforzamento di una posizione dominante collettiva). Il che ha costretto in qualche caso l’Autorità a forzare in una cornice vecchia, quella del test di dominanza, gli esiti di un’indagine che, in realtà, si prestava ad essere pienamente inquadrata nel test SIEC (esemplare, in tal senso, il provv. n. 2368, del 19.06.2012, Unipol Gruppo Finanziario/Unipol Assicurazioni-Premafin Finanziaria-Fondiaria SAI-Milano Assicurazioni).
Con la ricordata segnalazione AS988 del 2.10.2012, l’Autorità ha invitato (anche qui, finora vanamente) Parlamento e Governo a modificare la norma, rendendola conforme al testo europeo.
Le concentrazioni non orizzontali (verticali e conglomerali) godono da qualche tempo di rinnovata attenzione. La Commissione ne ha fatto oggetto nel 2008 di una apposita comunicazione (Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni non orizzontali, cit.). I test di valutazione che le riguardano sono in parte differenti da quello utilizzato per le concentrazioni orizzontali. In particolare, il rischio che può discendere da esse è principalmente quello della generazione di effetti di foreclosure. Per quanto riguarda le concentrazioni verticali, l’acquisto del controllo su un’impresa che opera, a monte o a valle, nella stessa filiera produttiva o commerciale, può facilitare, laddove l’impresa acquirente sia dotata di un rilevante potere di mercato, la creazione di barriere all’ingresso a potenziali concorrenti o la messa in atto di pratiche escludenti verso concorrenti attuali (oltre a potere, anche qui, favorire la creazione di un oligopolio collusivo). Per quanto riguarda le concentrazioni conglomerali, esse possono avere rilevanza quando riguardino imprese che operano su mercati distinti, ma contigui (può trattarsi di una contiguità tecnica, economica o commerciale). Il rischio concorrenziale derivante dalla concentrazione potrebbe sussistere laddove l’impresa acquirente sia dotata di un cospicuo potere di mercato e la concentrazione le consenta di incrementare la gamma dei prodotti offerti (cd. effetto portfolio) ovvero di porre in essere strategie escludenti facendo leva nel mercato dominato. Anche qui, una complessiva crescita di dimensioni di imprese integrate può approdare ad una struttura di mercato che agevoli la collusione.
Nel valutare una concentrazione che presenti rischi per la concorrenza, le autorità antitrust devono operare un bilanciamento con i possibili guadagni di efficienza. In particolare, la Commissione afferma (Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni orizzontali, cit., par. 77 ss.) che, a tale scopo, devono esistere prove sufficienti che «l’'incremento di efficienza generato dalla concentrazione probabilmente accrescerà la possibilità e l'incentivo dell'impresa risultante dalla concentrazione a comportarsi in modo pro-concorrenziale a vantaggio dei consumatori, controbilanciando gli effetti negativi per la concorrenza che l'operazione potrebbe altrimenti produrre». Tali incrementi di efficienza, considerevoli e tempestivi, devono andare a beneficio dei consumatori, e possono consistere in riduzioni dei prezzi, per effetto della riduzione dei costi variabili o marginali, o anche nella possibilità di usufruire di prodotti o servizi nuovi o migliorati.
Con scelta che non si sottrae a perplessità (si veda Osti, C., Diritto della concorrenza, cit., 203 s.), il diritto delle concentrazioni contempla tra le esimenti la circostanza che l’impresa della quale viene acquisito il controllo si trovi in una situazione di crisi irreversibile. Si tratta della cd. failing firm defense, elaborata già nel diritto statunitense (si veda Hovenkamp, H, Federal Antitrust Policy, cit., 600). Le valutazioni che, nella prassi europea, sono state ritenute necessarie per autorizzare sotto tale titolo una concentrazione che sarebbe altrimenti da vietare sono: a) in mancanza della concentrazione, l’impresa acquisenda uscirà in tempi brevi dal mercato; b) non esistono possibilità alternative, che siano meno restrittive della concorrenza; c) in ogni caso, le quote di mercato dell’impresa in crisi passerebbero all’acquirente. La prassi comunitaria ha fatti registrare qualche caso di applicazione di tale impostazione (si vedano Fattori, P. - Todino, M., La disciplina della concorrenza, cit., 315 ss.), mentre l’Autorità non ha avuto modo di misurarsi con essa. Nell’unico importante caso in cui l’argomento della crisi avrebbe potuto essere oggetto di attenzione, quello dell’operazione Alitalia, il legislatore ha preferito intervenire direttamente, varando, con il d.l. 28.8.2008, n. 134, recante «Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi» conv. con modif. dall’art. 1, l. 27.10.2008, n. 166 (si veda provv. Agcm, 3.12.2008, n. 19248, CAI/Alitalia-AirOne).
Non di rado, la piena riuscita di una concentrazione richiede l’adozione di impegni tra le parti, che siano limitativi della concorrenza. L’esempio canonico è quello dei patti di non concorrenza, atti ad evitare che l’impresa acquirente venga privata dell’avviamento. Si tratta, dunque, sul piano della fattispecie, di intese restrittive della concorrenza, giustificate in chiave di accessorietà alla concentrazione. Tali restrizioni vengono perciò generalmente anch’esse comunicate all’autorità chiamata a valutare la concentrazione. L’art. 6, par. 1, lett. b) e 8, par. 2, del Reg. n. 4064/1989 precisava che ladecisione della Commissione riguardava anche «le restrizioni accessorie direttamente connesse alla realizzazione della concentrazione e ad essa necessarie». Con il Reg. n. 139/2004 (Considerando 21), si precisa che la Commissione non è tenuta a valutare autonomamente le restrizioni accessorie (naturalmente, laddove esse siano realmente collegate alla concentrazione e indispensabili alla sua realizzazione). Con ciò, si è tradotta nel testo una prassi già consolidata della Commissione. Neanche nella prassi dell’Autorità tali restrizioni, laddove presenti, sono fatte oggetto di autonoma valutazione. Normalmente, nel deliberare l’autorizzazione dell’operazione, l’Autorità precisa che i patti comunicati «sono accessori alla presente operazione nei soli limiti sopra descritti e … l’Autorità si riserva di valutare, laddove ne sussistano i presupposti, i suddetti accordi che si realizzino oltre il tempo e la portata materiale ivi indicate» (si veda ad es., provv. 5.3.2014, n. 24828, Società Cattolica di Assicurazione/FATA assicurazione danni).
Come già precisato, il procedimento di controllo di un’operazione di concentrazione viene avviato sulla base della comunicazione preventiva di essa da parte delle imprese interessate. Quanto alla preventività della notifica, dopo ampio dibattito, si è giunti a ritenere che è preventiva la comunicazione che sia effettuata prima del closing, ossia il momento della esecuzione dell’operazione (si vedano, sul punto, Fattori, P. - Todino, M., La disciplina della concorrenza, cit., 267). Fa eccezione, per espressa previsione del co. 5 dell’art. 16, l. n. 287/1990, la comunicazione delle offerte pubbliche di acquisto, che deve essere effettuata contestualmente alla comunicazione alla Consob.
Quanto alla scansione del procedimento, il legislatore italiano ha assegnato all’Autorità trenta giorni per decidere se avviare un’istruttoria e, nel caso essa si determini in tal senso, quarantacinque per concluderla. In realtà, di fronte ad operazioni troppo complesse per essere valutate in tempi tanto stretti, l’Autorità riesce generalmente ad ampliare (sia pure entro limiti di ragionevolezza) la durata della fase preistruttoria, sfruttando la previsione del co. 7 dell’art. 16, l. n. 287/1990, che consente di avviare l’istruttoria anche successivamente laddove «le informazioni fornite dalle imprese con la comunicazione risultino gravemente inesatte, incomplete o non veritiere». Si consideri che, a differenza che nel diritto comunitario, non è prevista nella disciplina italiana, nelle more dell’esame da parte dell’Autorità, l’obbligatoria sospensione dell’operazione di concentrazione (standstill obligation). L’Autorità può comunque disporla nel corso del procedimento. Nella prassi, le imprese comunque attendono generalmente la clearance prima di eseguire l’operazione, magari sottoscrivendo contratti, ma con l’accortezza di inserirvi una condizione sospensiva.
Una concentrazione può essere autorizzata (ma, secondo Cons. St., 21.3.2005, n. 1113, in De Vita, M., Il diritto della concorrenza nella giurisprudenza, Torino, 2009, 212 s., il riferimento ad una ‘autorizzazione’ è improprio) senza neppure avviare un’istruttoria, anche semplicemente con un meccanismo di silenzio-assenso. Laddove un’istruttoria sia avviata, essa si può concludere con la clearance o con un divieto di realizzare l’operazione. In realtà, l’autorità antitrust solo in rari casi giunge al divieto tout court l’operazione. Nella maggior parte delle ipotesi problematiche, il rimedio imposto dall’autorità è l’adozione, ai sensi dell’art. 18, co. 3, l. n. 287/1990, di accorgimenti ritenuti idonei a diminuire l’impatto anticoncorrenziale dell’operazione. Viene equi in evidenza la distinzione tra rimedi strutturali e rimedi comportamentali. Laddove possibile, le autorità antitrust preferiscono i primi, che, a differenza dei secondi, non richiedono un continuo monitoraggio successivo. Una caso piuttosto significativo di autorizzazione con impegni è quello di cui al provv. 18.9.2007, n. 17283, Unicredito Italiano/Capitalia, con il quale la clearance dell’importante fusione bancaria fu condizionata alla dismissione di un cospicuo numero di sportelli nelle varie zone in cui il nuovo soggetto avrebbe operato.
L. 10.10.1990, n. 287 (Norme a tutela della concorrenza e del mercato); Reg. n. 4064/1989/CEE, 21.12.1989, relativo al controllo delle operazioni di concentrazione tra imprese; Reg. n. 139/2004/CE del Consiglio, 20.1.2004, relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese (‘regolamento comunitario sulle concentrazioni’).
Arnaudo, L., Il controllo delle concentrazioni, in Frignani, A. - Bariatti, S., a cura di, Disciplina della concorrenza nella UE, in Tratt. dir. comm. Galgano, LXIV, Padova, 2012; De Vita, M., Il diritto della concorrenza nella giurisprudenza, Torino, 2009; Fattori, P. - Todino, M., La disciplina della concorrenza in Italia, Bologna, II ed., 2010; Ghezzi, F. - Olivieri, G., Diritto antitrust, Torino, 2013; Grillo, M., Antitrust, in Riv. pol. econ. 2006, 325; Hovenkamp, H., Federal Antitrust Policy. The Law of Competition and Its Practice, IV ed., St. Paul (MN), 2011. Libertini, M., Diritto della concorrenza dell’Unione Europea, Milano, 2014; Mangione, G., Diritto antitrust: Concentrazioni, in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del Sole24 ore, V, Milano, 2007, 265; Motta, M. - Polo, M., Antitrust. Economia e politica della concorrenza, Bologna, 2004; Osti, C., Diritto della concorrenza, Bologna, 2007; Raffaelli, E. A., Aspetti evolutivi della nozione di concentrazione, in Rabitti Bedogni, C. - Barucci, P., a cura di, 20 anni di antitrust. L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato,Torino, 2010, 601.