Si analizza la concertazione sotto il profilo istituzionale e giuridico rilevandone, oltre alla polivalenza semantica e funzionale, gli effetti sui sistemi politici, amministrativi e contrattuali. In particolare si mette in luce che la concertazione, in quanto metodo di governo/regolazione proteiforme e di recente emersione, ha avuto una rapida ascesa e momenti di forte declino, ma è suscettibile ancora di notevoli assestamenti prima di raggiungere una configurazione giuridica che consenta di riconoscerle una ponderata collocazione tra le istituzioni del diritto del lavoro di ieri e di oggi.
Concertazione è termine dalle ricche valenze semantiche non facilmente riconducibile ad un preciso istituto giuridico del diritto del lavoro e sindacale. In prima approssimazione si può usare un’espressione del tutto descrittiva e generica intendendo per concertazione il “coinvolgimento delle parti sociali” in decisioni volte direttamente o indirettamente a regolare fenomeni e relazioni riguardanti la sfera socio-economica di una comunità politica. Così descritta non è facile però distinguere in astratto la concertazione dalla contrattazione ai suoi vari livelli, fenomeno limitrofo ma sicuramente più definito, pur nelle sue varie manifestazioni, nonché destinatario di una regolazione esplicita e formale che in genere manca alla concertazione. E parimenti confinanti appaiono nozioni e prassi di “concertazione” e “partecipazione”, intesa quest’ultima come modalità di coinvolgimento anche delle parti sociali nelle decisioni socio-economiche riguardanti non solo la singola impresa ma anche più imprese (o altre organizzazioni) allocate in un determinato territorio. In recenti studi si riconduce la concertazione a «un metodo di formazione della volontà dei decisori pubblici che si atteggia come complementare e integrativo rispetto ai procedimenti formali regolati dalle Costituzioni scritte» (Quaranta, M., Concertazione sociale e regole del lavoro, Napoli, 2012, 12). Subito dopo si rileva però che il termine è diventato «anche ambiguo, dato l’uso non sempre appropriato o, addirittura, l’abuso che ormai se ne fa. Tant’è che a una vaga categoria di concertazione si riconducono … i modelli di partecipazione sindacale alla gestione delle pubbliche amministrazioni, previsti dai contratti collettivi del settore pubblico» (Quaranta, M., Concertazione sociale e regole del lavoro, cit., 14). Dall’ambiguità si potrebbe uscire restringendo il termine concertazione ai casi in cui vi sia un confronto triangolare che veda come protagonista, accanto ai tradizionali attori delle relazioni industriali, i governi centrali o locali e che determini uno «scambio politico» in regime di parità tra i soggetti consistente o in risorse materiali o simboliche o «in deleghe d’autorità o di responsabilità pubblica agli interessi organizzati per la realizzazione di politiche di intervento» (Quaranta, M., Concertazione sociale e regole del lavoro, cit., 15).
Queste precisazioni tornano molto utili. Ma appaiono indebitamente restringere significati e ambiti concettuali che al termine concertazione sono stati attribuiti non solo dagli studiosi ma anche dal diritto positivo. Il problema è che se, al contrario, si abbracciasse un metodo puramente giuspositivistico, la concertazione si ridurrebbe a ben poca cosa, essendovi un’esplicita disciplina di un istituto con tale denominazione soltanto in alcuni ambiti (in Italia solo nella legislazione regionale e nel lavoro nelle pubbliche amministrazioni: v. infra). Per cui mai come in questo caso è meglio non pretendere una rigorosa definizione della materia de iure condito, ma trattarla così come essa si è presentata nel dibattito giuridico, sindacale e politico negli ultimi trent’anni, non gravando il termine di una rigida valenza selettiva o prescrittiva. Dunque “concertazione” rinvia essenzialmente a prassi di relazioni sindacali diverse dalla contrattazione e dalla partecipazione in senso stretto che hanno conosciuto alterne vicende in Italia come in Europa e che ancora appaiono interessanti per le questioni giuridiche (ma anche extragiuridiche) che hanno posto e, in certa misura, pongono. Qui le analizzeremo nella visuale del diritto del lavoro che è tutt’altro che esaustiva, ma che, tra le possibili prospettive giuridiche, ha sicuramente preso più a cuore le questioni che riguardano la concertazione.
Proprio per questo non si può trascurare il lessico giuslavoristico emerso nel dibattito che intorno alla concertazione si è svolto soprattutto a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. In questo lessico può essere utile sin d’ora distinguere: la concertazione sociale, intesa genericamente come metodo di governo delle politiche economiche pubbliche con ricadute latamente sociali; la concertazione politica tra Governo centrale e parti sociali come essenza del modello neo-corporativo, che è un vero e proprio adattamento dei sistemi democratici a periodi di forte crisi economica; la concertazione “asimmetrica”, cioè un modello di relazione tra le parti sociali dove non vi è completa parità tra di esse; la concertazione “locale”, con cui si fa riferimento a varie prassi concertative tendenzialmente “triangolari” che riguardano solo parti del territorio nazionale (anche se al riguardo ben più ricca è la tipizzazione sociologica che distingue tra macro, meso e micro); la concertazione rituale, come modello relazionale essenzialmente formale e dalle scarse o nulle ricadute decisionali; la concertazione procedurale, come fase ben individuata di un processo negoziale che non sfocia o non può sfociare in un contratto collettivo.
Innanzitutto si sbaglierebbe a ridurre la concertazione, almeno quella sociale e politica, nei confini italiani. La concertazione ha una genesi essenzialmente europea, se non mondiale, da collegare alle reazioni dei sistemi politici alle crisi economico-finanziarie degli anni ’60, ’70 e ’80 del secolo scorso. In un certo senso è la risposta socialdemocratica al primo emergere del pensiero e delle politiche neo-liberisti. Ed è una risposta forse dai tratti ambigui, ma all’insegna delle più grandi speranze di conciliare ripresa delle economie di mercato e democrazia, mantenendo in stretto raccordo i sistemi economici capitalisti con i sistemi politici incentrati su Welfare State pluralisti. A metà degli anni ’70 si è già alle prese con la doppia crisi delle economie occidentali, crisi energetica e crisi finanziaria degli Stati nazionali, prodromica agli sviluppi di poco successivi verso una nuova fase di progressiva globalizzazione dei mercati, enormemente accelerata dopo il crollo del muro di Berlino. Se si vuole conservare il Welfare State, appare indispensabile governare attentamente spesa pubblica e variabili macro-economiche anche, se non soprattutto, attraverso una rigorosa politica dei redditi. Il termine evoca interventi pubblici più o meno diretti, ma in effetti poco dice sui contenuti di tali politiche. Dall’equilibrio interno ad esse si possono avere effetti assai diversi sui sistemi sociali e politici. La concertazione, prima politica e poi sociale, nasce appunto perché in quella fase storica, in buona parte dell’Europa e anche fuori dai confini di quella che è all’epoca la CEE, le politiche dei redditi non possono definirsi – e in molti casi nemmeno le maggioranze politiche saldamente al governo lo vogliono – senza l’apporto diretto dei sindacati, ancora molto rappresentativi per numeri di iscritti o capacità di mobilitazione dei lavoratori. Si diffonde così la concertazione politica e sociale, spesso, ma non sempre, favorita da cd. “governi amici” (cioè pro labour); e comunque vissuta essenzialmente come un rilancio del “compromesso socialdemocratico” basato su una sinergia tra Welfare State ed economie di mercato, volto essenzialmente ad alleggerire il peso dell’uno sulle altre, ritenute ancora in grado di sviluppi tali da garantire performance economiche e sociali abbastanza equilibrate. È un rilancio all’insegna di un “riformismo” dalle tante incognite, con ricadute certe però sulla necessità di ridurre gli elementi di antagonismo e ingovernabilità dei vari sistemi socio-economici. Il modello neo-corporativo, come molti dicono, è più una suggestiva formula politica che un vero e proprio disegno giuridico-istituzionale; ma, a seconda delle sue realizzazioni, è in grado di influenzare – e influenzerà – profondamente l’evoluzione e gli equilibri socio-politici dei diversi paesi europei. Anche se questo non esclude il suo successivo appannamento pure dove ha funzionato al meglio (Olanda, Belgio, Svezia ad esempio). Oggi in molti paesi dell’Europa centrale e orientale, new comers per l’Unione europea, si registra comunque un “forte tripartitismo formale”, diversificato e talora parzialmente sostitutivo dei “sistemi di contrattazione collettiva settoriali poco sviluppati” (Commissione europea, Relazioni industriali in Europa 2012, Lussemburgo, 2013, 6) nonché soggetto a trasformazioni anche rapide (Commissione europea, Industrial Relations in Europe 2014, Lussemburgo, 2015, 25 ss.).
Quel che conta però ai nostri fini è che il modello neo-corporativo lascia visibili tracce nella costruzione dell’Unione europea, che avviene proprio negli anni ’80 con graduali sviluppi che arrivano sino al Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009. Il ruolo delle parti sociali si trova infatti riconosciuto a chiare lettere nei Trattati che fanno evolvere la Comunità economica nella Unione europea fino a giungere alla formulazione degli attuali artt. 152-155 TFUE, che istituzionalizzano, da un lato, il dialogo sociale e, dall’altro, un ruolo normativo delle parti sociali che si intreccia con processi decisionali attribuiti in prima istanza a decisori politici (M. Delfino, Note su Jobs Act, flexicurity e ordinamenti sovranazionali, in Dir. lav. merc., 2015, 407 ss.). Si tratta di un importante coinvolgimento delle parti sociali nei processi regolativi con ricadute socio-economiche, seppure negli ultimi anni poco praticato. Però occorre anche dire che tanto il dialogo sociale quanto la cd. contrattazione europea si differenziano molto dalla concertazione vera e propria, come accade ai figli rispetto alla madre (o al padre). Il dialogo sociale (art. 152) infatti sfuma verso la consultazione; mentre gli altri processi (art. 155) assomigliano di più alla contrattazione bilaterale. Sia chiaro: l’uno e l’altro possono confinare o sconfinare in prassi riconducibili a vere e proprie concertazioni se e quando siano coinvolti, formalmente o informalmente, soggetti politici. Però si sbaglierebbe a confondere gli istituti testualmente previsti dai Trattati Ue con la concertazione politica o sociale.
Tornando all’Italia, anche da noi la concertazione si sposa con le politiche dei redditi. E, prima di essere messa in relazione al rinnovamento dello Stato sociale o all’incedere del neo-liberismo, va posta in relazione con una doppia crisi: della Repubblica parlamentare caratterizzata dalla democrazia “bloccata” (dal 1948 al 1992 i Presidenti del Consiglio italiani sono stati sempre espressi con il consenso determinante di un partito: la Democrazia cristiana. Dopo cambia tutto – con il superamento del sistema elettorale proporzionale e con l’affermazione del cd. bipolarismo, seppure dai tratti singolari – ma solo perché quel partito scompare e si frammenta in tanti altri partiti, di cui peraltro almeno uno è rimasto sempre determinante per la formazione del Governo) alla ricerca di una nuova legittimazione e di un sindacalismo che comincia ad avvertire l’esaurimento della forza antagonista espressa negli anni ’70 (Rusciano, M., Contratto collettivo e autonomia sindacale, Torino, 2003). Tanto la Repubblica “bloccata” quanto il sindacalismo confederale alla fine degli anni ’70 hanno urgente bisogno di razionalizzare politiche e criteri di funzionamento, se non vogliono avvitarsi in crisi pericolosissime per le loro stesse esistenze. La prima ha mantenuto al potere per anni i medesimi gruppi politici, economici e finanziari – perpetuando gli effetti di un boom economico in definitiva circoscritto a una decina d’anni (1955-1965) – grazie soprattutto ad un uso scriteriato della spesa pubblica, edificando un Welfare State tanto spendaccione quanto inefficace e iniquo. Il secondo – reduce da facili successi politici e contrattuali – avverte il fiato sul collo sia degli irrisolti squilibri socio-economici, con effetti drammatici in periodi di crisi soprattutto in alcune parti del paese (il Sud), sia di un’imprenditoria poco lungimirante per tante ragioni anche contrapposte (subalternità a logiche politiche, volatilità geopolitica, nanismo, ecc.), sia di una base sociale e culturale abituata al conflitto e al ribellismo, titillata da un terrorismo in armi e sempre meno incline a dar credito ad un sistema politico fortemente discusso sul piano tanto dell’efficacia quanto dell’etica pubblica.
A fatica e con grandi tormenti si affermano così anche in Italia prassi di concertazione sociale e politica soprattutto a partire dai primi anni ’80. Le tappe principali sono: 1983/1984 (protocollo Scotti e protocollo di San Valentino), 1992-1993 (protocollo Amato e Protocollo Ciampi, denominati da Gino Giugni “nuova carta costituzionale delle relazioni industriali”), 1996 (Accordo per il lavoro), 1998 (patto di Natale), 2002 (patto per l’Italia), 2007 (protocollo Welfare). Ma si va avanti con molte tortuosità, divisioni, diffidenze. Tutto è molto gracile, all’insegna di un pragmatismo che per certi versi è fattore di debolezza, ma per altri è anche un veicolo di impensabili innovazioni, spesso rimaste sulla carta o attuate con grandi carenze e squilibri. Permangono tra i sindacati e nel Paese forti opposizioni ideologiche. L’elemento positivo – che in una certa misura vale anche a sconfiggere i residui antagonismi – è però che le prassi concertative sono animate da un genuino “motore consensualistico” in un sistema politico e sindacale sempre più in deficit di consenso e coesione sociale (Zoppoli, L., Le fonti (dopo il Jobs Act): autonomia ed eteronomia a confronto, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 284/2015).
La concertazione consente di realizzare traguardi fondamentali, come l’ingresso dell’Italia nel sistema euro agli inizi del nuovo millennio, garantendo un consenso politico difficilmente raggiungibile altrimenti con i tempi richiesti dalle urgenze esterne.
Negli ultimi anni tuttavia la concertazione politica in Italia appare del tutto impraticabile. La cattura del consenso nel sistema politico attualmente è affidato a dinamiche del tutto diverse. Si è infatti di recente efficacemente scritto «i governi che un tempo rischiavano di cadere per un annunciato sciopero generale, oggi non solo ridicolizzano la parola “concertazione”, ma trattano i sindacati come “enti inutili” da lasciare nel libro dei ricordi e dei nostalgici di un passato irripetibile» (Ugolini, B., Il mondo del lavoro e le sfide in campo, nel l’Unità del 30.4.2016). In poco meno di dieci anni evidentemente molto è cambiato. Cerchiamo di capire quando, dove e come.
Se è vero che la matrice primaria della concertazione sta nell’intreccio tra dinamiche politiche e sociali, la principale spiegazione dell’attuale declino della concertazione non può che rinvenirsi nei sistemi politici. Ma sarebbe superficiale limitarsi a dire che tutto dipende dal mutamento degli equilibri politici, caratterizzati in Italia (ma non solo) da un ventennio di egemonia di forze politiche esplicitamente ascritte alla destra pro business (governi Berlusconi). Infatti per un verso in Italia il centro-destra non ha affatto rinunciato a prassi concertative, pur tentando di derubricarle a “dialogo sociale” con evidenti suggestioni europeistiche soprattutto semantiche. Per l’altro le sorti della concertazione sono decisamente precipitate proprio a partire dal 2012, quando il centro-destra ha perso il suo ruolo di governo prima a favore di governi tecnici (Monti) e poi cedendo il passo a coalizioni che si richiamano al centro-sinistra (Letta, Renzi). Emblematico è stato il ruolo delle parti sociali nelle riforme del lavoro del 2012 e del 2015 (v. Zoppoli, A., Jobs Act e formante sindacale: quale ruolo per quale contrattazione collettiva?, in Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, Rusciano, M.-Zoppoli, L., a cura di, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, Collective Volumes, – 3/2014, 25 ss.).
Con sintesi quasi brutale, si può dire che la concertazione politica e sociale, nata per rafforzare “poteri deboli”, si è rivelata in effetti vittima di se stessa, essendo comunque un vaso di coccio tra vasi costruiti comunque, se non con il ferro, con materiali più resistenti. Di fatto almeno dal 2011 della concertazione politica non si avverte più la necessità proprio al fine di rafforzare il consenso politico-elettorale. Paradossalmente il centro-destra, forte di successi elettorali per certi versi sorprendenti e dovuti a coalizioni dalla scarsa compattezza sotto il profilo delle culture politiche (Forza Italia, Lega e AN sono movimenti per certi versi agli antipodi proprio per la concezione dei rapporti Stato/società civile), ha avuto necessità di non archiviare la concertazione sociale, ma l’ha argutamente coniugata con il suo principale collante politico: l’orientamento filo-imprenditoriale e l’anticomunismo. Ne è nata una concertazione quasi pregiudizialmente volta ad escludere il sindacato relativamente più consistente – la Cgil, che invero poco ha fatto per non farsi escludere – che si è potuta configurare come una concertazione “non paritaria”, cioè una concertazione in cui il Governo si è riservata l’ultima decisione senza vincolarsi del tutto alle intese raggiunte con le parti sociali. Appunto la “concertazione asimmetrica” nella quale è in linea di principio esclusa «la possibilità di una delega dal sistema politico a quello sindacale» (Treu, T., La concertazione sociale, in Dir. lav. merc., 2005, 34). Una concertazione in cui il sindacato doveva accettare un ruolo necessariamente subalterno. In effetti la “vincolatività” della concertazione costituisce un punto delicatissimo proprio sotto il profilo giuridico-istituzionale, discusso dalla dottrina, anche approfonditamente, negli anni ruggenti della concertazione politica. E risolta quasi da tutti sulla falsariga di una sentenza della Corte costituzionale del 1985 (n. 34), ritenuta una pietra miliare anche trent’anni dopo (Zoppoli, L., Contrattazione collettiva e Unità d’Italia, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 130/2011; Mazzotta, O., Contro la concertazione, in Una nuova Costituzione per il sistema di relazioni sindacali?, Zoppoli, L.-Zoppoli, A.-Delfino, M., a cura di, Napoli, 2014). Giudici costituzionali e dottrina maggioritaria concordano in effetti nell’escludere che la concertazione politica possa assumere, almeno a Costituzione formale invariata, una tale configurazione da vincolare il decisore politico, se per decisore politico si intende essenzialmente il legislatore. Le prassi concertative non possono vincolare il Parlamento che deve restare sovrano nella sua funzione di individuazione dell’interesse generale. Naturalmente nulla esclude – e molti studiosi lo hanno proposto – che le prassi concertative vengano espressamente disciplinate dal legislatore stesso e coordinate con il ruolo degli organi costituzionali attraverso cui si esprime la sovranità popolare. Proprio questo dibattito ha messo però in luce come la concertazione si sia affermata come uno dei canali informali per rafforzare la capacità decisionale dei Governi centrali esposta a smentite parlamentari proprio a causa delle modalità della loro legittimazione politico-elettorale (coalizioni deboli o intimamente soggette al ricatto di minoranze; sistemi elettorali che non “producono” maggioranze parlamentari solide; etc.). Se così è, non v’è dubbio che, pur non vincolando formalmente il Parlamento, i processi concertativi modificano il metodo di governo e coinvolgono le parti sociali sia nella responsabilità delle decisioni sia nella cattura del consenso politico-elettorale intorno alle decisioni assunte con la concertazione.
In tal guisa la concertazione asimmetrica lascia libero il Governo sulle decisioni ultime, ma svaluta enormemente le parti sociali che ne sono coinvolte assumendosi in prima persona la responsabilità di decisioni di cui non possono garantire l’attuazione. Insomma lo scambio diventa profondamente diseguale proprio negli effetti sui sistemi politici e sindacali. Rafforza enormemente il Governo, che può avvalersene o no, ma comunque ha acquisito il consenso di (almeno alcuni) soggetti sociali; indebolisce però le parti sociali: quelle firmatarie, perché devono difendere le scelte effettuate nella dialettica con i sindacati non firmatari e perché, se non si ottengono tutti gli effetti auspicati (e mai si ottengono), ne saranno enormemente danneggiate; quelle non firmatarie, perché escluse comunque dall’esercizio di potere regolativo. Diverso sarebbe forse se la concertazione politica si svolgesse con qualche crisma di formalità, diretto a rendere trasparenti le posizioni e a misurare con chiarezza consensi e dissensi. Ma di un rafforzamento istituzionale della concertazione non si è mai più parlato nel nuovo millennio: e anzi il centro-destra – con il Libro bianco del 2001 – ha subito esplicitamente escluso qualunque intervento diretto ad accertare la rappresentatività dei sindacati dei lavoratori.
Sotto questo aspetto le stagioni di governo del centro-destra hanno indubbiamente dato un notevole contributo a snaturare la concertazione, rendendola funzionale al mero rafforzamento della legittimazione delle decisioni delle coalizioni al Governo. In effetti il patto per l’Italia è servito a varare una importantissima riforma del lavoro – realizzata con la l. 5.2.2003, n. 30 e il conseguente d.lgs. 10.9.2003, n. 276 – che ha condizionato enormemente l’azione dei Governi per almeno 7/8 anni, deteriorato ulteriormente la qualità dei mercati del lavoro italiani (tanto da richiedere con urgenza le riforme del 2012 e del 2015), e diviso e indebolito i sindacati dei lavoratori rafforzando il sistema delle imprese, ma disarticolandone al contempo, come si vedrà meglio tra breve, il sistema rappresentativo.
Tra il 2001 e il 2016 si sono poi sperimentati tutt’altri canali per rafforzare le maggioranze di Governo, canali sui quali non si può certo qui soffermarsi (sistemi elettorali; leaderismo in crescita esponenziale; spettacolarizzazione dilagante della politica, etc.). Basti dire però che nella comunicazione politica e giornalistica la concertazione da asimmetrica si è rapidamente trasformata in un inutile rituale, diretto a rallentare le decisioni governative: e pour cause visto che nella nuova visione, pure se portasse ad accordi, non inciderebbe realmente sulle scelte finali. L’ironia della sorte però è che tutto il sistema sindacale – grazie anche alla lunga e assai visibile stagione della concertazione politica – resta nell’opinione pubblica fortemente assimilato al sistema politico, quasi non distinguendosi l’appartenenza alle due “caste” (talora occorre dire, con fondate ragioni: v. Cassese, S., Discorso critico sul diritto del lavoro, in Dir. lav. merc., 2014, n. 1). Per cui, in stagioni dominate dall’“anti-politica”, per catturare consensi elettorali appare assai più proficuo stigmatizzare il sindacato in quanto pachidermico animale del passato ostile ad ogni innovazione anziché coinvolgerlo, seppur blandamente, in processi decisionali. Non può dunque stupire se la “sala verde” di Montecitorio – una volta mitica proprio perché vi si si svolgeva la concertazione governo-sindacati – verrà sempre più adibita ad altri usi.
Tra le ricadute più significative della concertazione politica vi sono le modifiche che, grazie ad essa, sono state via via introdotte nel sistema di contrattazione collettiva italiano, caratterizzato come si sa da un alto grado di informalità, ma anche da dinamiche interessanti e fluide nei rapporti con le fonti legislative e con l’articolazione della regolazione collettiva ai vari possibili livelli.
In effetti per realizzare delle vere e proprie politiche dei redditi la concertazione politica ha sempre ambito a fungere da fonte di indirizzi e regole per i restanti livelli della contrattazione. Essendosi tradotta spesso in protocolli governo/sindacati o anche in accordi interconfederali firmati dalle principali confederazioni, la concertazione ha molto influenzato procedure, articolazione e contenuti sia della legislazione sia della contrattazione collettiva.
Concentrandoci su quest’ultima, può dirsi che gli accordi del 1983 e del 1992-93 sono stati fondamentali per ricondurre il robusto e disomogeneo sistema di contrattazione collettiva italiano verso alcuni principi d’ordine incentrati sul contratto nazionale e su una assai controllata apertura a livelli di contrattazione decentrata, essenzialmente aziendale. Ne è derivata una significativa apertura verso la flessibilizzazione di importanti istituti dei rapporti di lavoro (salari e tipologia contrattuale in primis) addirittura attraverso la valorizzazione della regolazione collettiva (la cd. flessibilità contrattata). Gli accordi di concertazione degli anni ’80 e ’90 hanno invece influito ben poco su due aspetti: a) una maggiore formalizzazione del diritto sindacale italiano, salvo per quanto riguarda il lavoro pubblico e l’introduzione delle rappresentanze sindacali unitarie agli inizi degli anni ’90; b) l’evoluzione del sistema di relazioni industriali dal suo classico baricentro conflittuale ad uno più partecipativo. Anzi per certi versi la concertazione ha avuto l’effetto di interrompere i tentativi di unificazione delle principali centrali sindacali avviati negli anni ’70 e di riaccrescere anche il livello di conflittualità endosindacale.
Gli aspetti più innovativi delle tendenze concertative sui sistemi contrattuali si sono però registrati alla metà degli anni ’90 con la cd. programmazione negoziata, che ha valorizzato la concertazione finalizzata a promuovere politiche di sviluppo locale molto calibrate su ambiti territoriali delimitati e sul coinvolgimento degli enti e delle parti sociali di livello locale (v. art. 2, co. 203, lett. d l. 23.12.1996, n. 662 e delibera Cipe del 21.3.1997). Qui si può sostenere che addirittura emerge una nuova funzione giuridica della concertazione/contrattazione cioè quella di intrecciare in modo biunivoco sviluppo e regolazione del lavoro. Vero è che forti sono i condizionamenti a monte (per le risorse pubbliche con cui finanziare patti e contratti di sviluppo) e a valle (per le inefficienze implementative dei tanti soggetti coinvolti, privati e pubblici) e che, a distanza di tempo, non molte risultano le esperienze concluse positivamente. Però la concertazione locale, pur risentendo di una drastica riduzione dei finanziamenti pubblici destinati a politiche economiche territoriali, ha lasciato circuiti ancora molto attivi e ha consentito di sperimentare buone pratiche che rimangono per tanti aspetti vitali. Resta da verificare quanto tali esperienze possano sopravvivere alle tendenze neocentralistiche emerse già dieci anni fa e in via di indubbio rafforzamento in questi anni.
Poco sintonica si è invece rivelata la concertazione con la promozione di una contrattazione aziendale che non fosse interamente rispettosa di criteri, procedure e contenuti fissati a livello centrale. Pur avendo previsto margini di contrattazione decentrata, non va infatti trascurato che la concertazione nasce allo scopo precipuo di tenere sotto controllo le dinamiche retributive e regolative dei sistemi contrattuali. È dunque lo strumento meno adatto per relazioni industriali atomizzate. Questa funzione ha probabilmente attratto governo e maggioranza delle forze sociali fino a quando sembrava necessario governare centralmente la (de)regolazione flessibile del lavoro, essendovi un forte timore che a livello aziendale si affermassero linee opposte. Con la crisi economica del 2008 questo orientamento si è progressivamente trasformato, ribaltandosi in molti casi. Il centro propulsore delle flessibilità necessarie ad incrementare la produttività del lavoro pare diventata la dimensione aziendale, insofferente a vincoli centralistici.
Non va trascurato però che, anche tra gli economisti non radicali, non mancano voci dissenzienti, che ritengono invece salutare per il sistema produttivo non abbandonare una qualche forma di macroconcertazione (v. Fadda, S., Ripensare il ruolo dell’azione sindacale, in nt. ISRIL n. 14/2016, www.isril.it).
Parallelamente a questi sviluppi, gli anni che vanno dal 2001 ad oggi vedono emergere un altro significato del termine “concertazione” legato a dinamiche relazionali interne alle istituzioni pubbliche. In effetti la revisione costituzionale del 2001 determina un riequilibrio del sistema politico-amministrativo con indubbia valorizzazione della dimensione regionale. Le regioni soprattutto vedono, seppur problematicamente, ampliarsi molto le proprie competenze legislative e amministrative con una parziale costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà. Le nuove norme costituzionali non brillano per chiarezza, costringendo istituzioni e interpreti a difficili operazioni ricostruttive per non far deflagrare i possibili conflitti di competenza proprio tra Stato e regioni. Si afferma il principio della leale collaborazione tra istituzioni, un principio che va riferito soprattutto ai soggetti pubblici ma che, laddove gli intrecci tra competenze riguardino anche i soggetti sociali, può comportare anche il coinvolgimento delle parti sociali con un più o meno inopinato sostegno a prassi concertative. In tal modo la sussidiarietà verticale si coniuga con la sussidiarietà orizzontale. In effetti è proprio negli statuti e nella legislazione regionali che si rinviene un’ampia gamma di regole riguardanti la concertazione nell’azione politica e amministrativa in ambito locale.
E nemmeno va trascurato che, in questa stessa direzione, la concertazione forma anche oggetto di nuove proposte (Piano del lavoro Cgil del 2013) ed interessanti esperienze collegate a nuove politiche pubbliche incentrate sui territori capaci non di rado di innovative iniziative sul piano del welfare non solo aziendale.
Immaginare però positivi sviluppi delle variegate esperienze di concertazione locale è difficile se non maturano le condizioni per un inedito intervento legislativo nazionale che fornisca una cornice generale ai rapporti tra sistemi di regolazione centrale e locale, unilaterale e negoziata, fondata su legittimazione ascendente o discendente. Al riguardo occorrerebbe almeno meglio definire i criteri di legittimazione formale dei soggetti regolatori, specie delle forze sociali portatrici degli interessi delle imprese e dei lavoratori, e i limiti invalicabili costituiti da tutele universalistiche che non possono subire differenziazioni in ragione di particolarismi di alcun genere, ivi compresi quelli territoriali.
In definitiva pare che le sorti della concertazione politica siano legate a dinamiche essenzialmente politiche mentre quelle della concertazione locale risentano grandemente della dialettica centro/periferia. Sennonché, tornando a guardare agli scenari complessivi, si deve constatare che il sistema politico nazionale appare più che mai improntato a caratteristiche tali da escludere un rilancio della concertazione politica, affermandosi sempre più scelte di “disintermediazione” non solo sociale ma anche politica. Mentre i rapporti centro/periferia vengono affrontati sia a livello costituzionale sia a livello di nuove regole del sistema sindacale in modo distonico rispetto a qualsiasi sostegno a prassi efficaci di concertazione locale. Le caratteristiche degli ordinamenti in fieri appaiono essenzialmente due: una forte centralizzazione istituzionale coniugata con un rafforzamento dei poteri regolativi del governo centrale (v. la riforma costituzionale approvata in seconda lettura alla Camera nell’aprile 2016); una progressiva destrutturazione del sistema contrattuale da incentrarsi sempre più sulla contrattazione aziendale (v. le linee di intervento legislativo annunciate dal Governo con il documento economico finanziario del 2016).
Soprattutto appare opinabile la scelta di privilegiare il livello di contrattazione aziendale rispetto a quello territoriale anche laddove il secondo appare proficuamente praticato. Ci si priva così di un importante strumento di governo di mercati locali, contemplato anche nella normativa dell’Unione europea, specie in considerazione delle difficoltà nel calibrare adeguatamente sulle specificità territoriali le politiche di sviluppo socio-economico. Se così dovesse essere, la concertazione locale avrà un futuro sempre più complicato insieme al principio di sussidiarietà orizzontale ove praticato attraverso il coinvolgimento delle forze sociali.
In attesa degli assestamenti che condizionano la concertazione politica, sociale e locale, anche le altre forme, più limitate, di concertazione, non se la passano al meglio. In particolare la concertazione – prevista, pur con diversità di disciplina, da tutti i contratti nazionali di comparto per il lavoro pubblico dalla fine dagli anni ’90 (Contrattazione 1. Profili generali; Contrattazione 2. Struttura) – risulta confinata dal 2009 in una sorta di limbo. Il d.lgs. 30.3.2001 n. 165 (art. 5, co. 2, modificato prima dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150 e poi dal d.l. 6.7.2012, n. 95, conv. con mod. dalla l. 7.8.2012, n. 135) esclude che si possano praticare modelli relazionali diversi dall’informazione «per le determinazioni relative all’organizzazione» e dall’esame congiunto «per le misure riguardanti i rapporti di lavoro», sempreché siano previste dai contratti nazionali di comparto. Dubbio è però che tali contratti siano quelli preesistenti alla riforma del 2009, nei quali tra l’altro la tipologia «esame congiunto» non compare se non in quanto riconducibile alla concertazione. Per una chiarificazione, in assenza di nuovi interventi legislativi, occorre dunque attendere i nuovi contratti nazionali di comparto, bloccati per ragioni economico-finanziarie dal 2010. Nella contrattazione nazionale ante 2010 la procedura di concertazione dava comunque vita ad una relazione bilaterale di tipo paranegoziale, attivabile su richiesta delle organizzazioni sindacali e da concludere entro termini definiti (30 giorni in genere), che riguardava essenzialmente o materie che non potevano essere oggetto di contrattazione o materie sulle quali non si formava il consenso negoziale, ma rispetto alle quali si verificava una positiva convergenza tra le parti a confronto. Tutta da verificare era anche l’efficacia giuridica della concertazione, prevedendosi solo in alcuni casi la vincolatività «per le parti» degli impegni concertati (v. ad es. art. 7 del contratto di comparto delle università). Comunque dagli accordi concertativi non può non scaturire quanto meno un deterrente verso iniziative regolative unilaterali che disattendano i contenuti della concertazione.
Intesa come si è appena detto, la concertazione non esiste come istituto a carattere generale nel lavoro privato. Non si può però del tutto escludere che, cacciata dalla finestra (cioè dai livelli macro e meso), la concertazione nel lavoro privato possa rientrare dalla porta come uno dei tanti possibili moduli attraverso cui le imprese interessate, singolarmente o in forma aggregata, potrebbero dar vita a prassi partecipative dirette a qualche forma fluida di regolazione collettiva dei rapporti di lavoro che, pur coinvolgendo i sindacati, non segua l’unico percorso della contrattazione collettiva e non ricalchi modelli più strutturati e rigidi di partecipazione. In fondo, come si è pur brevemente visto, come per la contrattazione collettiva anche le vie della concertazione sono infinite.
Artt. 152-155 TFUE; art. 39 Cost.; art. 2, co. 223, lett. d) della l. 23.12.1996 n. 662; art. 5, co. 2, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, modificato dall’art. 34 d.lgs. 27.10.2009 n. 150 e dall’art. 2, co. 17, d.l. 6.7.2012, n. 95, conv. con mod. dalla l. 7.8.2012, n. 135.
AA.VV., Parlamento e concertazione, in Argomenti dir.lav., 1999, 4; Commissione europea, Relazioni industriali in Europa 2012, Lussemburgo, 2013; Carinci, F., La concertazione, in Conflitto, concertazione e partecipazione, Lunardon, F., a cura di, Padova, 2011, 911; Carrieri, M., L’altalena della concertazione. Patti e accordi italiani in prospettiva europea, Roma, 2008; Carrieri, M.-Mattei, A., Teoria e prassi della concertazione e della contrattazione a livello territoriale, in Quad. rass. sind., 2015, n. 2, 7; Caruso, B., Ascesa e crisi della concertazione asimmetrica, in Dir. lav. merc., 2005, 13 ss.; Cella, G.P., Difficoltà crescenti per le relazioni industriali europee e italiane, in Stat. merc., 2012, 29 ss.; Crouch, C., Relazioni industriali nella storia politica europea, Roma, 1996; Bellardi, L., Il declino della concertazione, in I quaderni della Commissione, 2015, n. 5, 37 ss. (e in Studi in memoria di Giovanni Garofalo, 2015, I, 103 ss.); De Felice, A., Potere locale e metodo concertativo tra i due secoli. Cronaca di una bruciante illusione, in Riv. giur. lav., 2015, I, 79 ss.; Martone, M., Governo dell’economia e azione sindacale, Padova, 2006; Mattei, A., “Laboratorio trentino”: strumenti per il lavoro e il welfare nel contesto territoriale, in Riv. giur. lav., 2015, I, 127 ss.; Mazzotta, O., Contro la concertazione, in Una nuova Costituzione per il sistema di relazioni sindacali?, Zoppoli, L.- Zoppoli, A.-Delfino, M., a cura di, Napoli, 2014; Pessi, R., Osservazioni sulla democrazia neo-corporata (a proposito di un libro di Francesco Galgano), in Valori e “regole” costituzionali, Pessi, R., Roma, 2009, 79 ss.; Quaranta, M., Concertazione sociale e regole del lavoro, Napoli, 2012; Regalia, I., Oltre la contrattazione di secondo livello. Note sulla concertazione a livello locale, in Riv. giur. lav., 2015, I, 97 ss.; Rusciano, M., Contratto collettivo e autonomia sindacale, Torino, 2003; Sateriale, G., Il Piano del lavoro: nuove pratiche di concertazione territoriale, in Riv. giur. lav., 2015, I, 15 ss.; Sinopoli, F., Tra corporativismi vecchi e nuovi: la via (sempre più stretta) dell’azione sindacale, in Il lavoro dopo il Novecento. Da produttori ad attori sociali, Gramolati, A.-Mari, G., a cura di, Firenze, 2016, 439 ss.; Treu, T., La concertazione sociale, in Dir. lav. mer., 2005, 29 ss.; Trojsi, A., Le fonti del diritto del lavoro tra Stato e Regioni, Torino, 2013; Zoppoli, L., Impresa, lavoro e Unione europea, Milano, 2006; Zoppoli, L., Istituzioni e negoziazioni territoriali: un’analisi della strumentazione giuridica, in Riv. giur. lav., 2015, I, 29 ss.; Zoppoli, L., Prospettive e proposte per nuove relazioni sindacali a livello territoriale, in Quad. rass. sind., 2015, n. 2, 13.