Concetti e metodi ippocratici
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il metodo ippocratico è un sistema di ragionamento che parte dall’osservazione dei segni del corpo per comprenderne le modalità di funzionamento o i suoi difetti. Il corpo non è, per Ippocrate, un sistema chiuso, ma interagisce costantemente con l’ambiente che lo circonda; pertanto il medico deve essere anche acuto osservatore della natura.
Il metodo ippocratico è sostanzialmente basato sulla ricerca delle cause di malattia. Per comprenderle, il medico ha a disposizione procedimenti sensoriali e processi dell’intelletto: in primo luogo gli possono essere utili i cinque sensi. Se la salute e la malattia si ascrivono all’ordine delle cose naturali, esse devono possedere caratteri percepibili attraverso la vista, l’udito, il tatto, il gusto, l’odorato.
L’osservazione è un atto intellettuale e selettivo; non basta registrare i fenomeni del corpo così come essi sembrano accadere, ma il medico deve organizzare i dati della sensazione attraverso il ragionamento (logos). Solo il logos consente di attribuire ai segni che il corpo emette un significato ed un ordine che sfugga alla mancanza di leggi che governa il caso; questo significato e questo ordine rendono i fenomeni segni (semeia), comprensibili solo al medico.
Egli, come suggeriscono i trattati sulle Epidemie (scritti tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C.), utilizzerà i suoi sensi in base alla loro capacità di trasmettere informazioni su quanto va accadendo all’interno del corpo, in una dimensione che è preclusa all’indagine medica: “È impegnativo condurre il corpo sotto l’indagine. La vista, l’udito, il naso, il tatto, la lingua, il ragionamento accerta” (Epidemie, VI, 8, 17). Il segno colma l’ignoranza del reale stato interno del corpo: lo studio anatomico, inteso come metodo scientifico e non come mero risultato di osservazioni casuali, non è infatti praticato dal medico ippocratico. La vista precede tutti gli altri sensi: vedere il colorito dell’ammalato, dei suoi occhi, delle sue secrezioni, il grado di umidità della sua pelle, il modo in cui tiene le mani, osservarne i tremori e gli spasmi, significa incamerare dati che saranno utili nella costruzione della storia della malattia (historia come osservazione, Epidemie, I, 10).
A questi dati il medico aggiunge quello che è capace di percepire attraverso il toccare il corpo dell’ammalato; il suo grado di calore, di freddezza o di umidità; la reazione alla palpazione del ventre; la consistenza degli escreti del corpo, feci, vomito e urine che, provenendo dal suo interno, sono testimoni privilegiati dello squilibrio umorale. Un eccesso di viscosità o di fluidità testimonia la condizione degli umori nella dimensione dell’invisibile. L’olfatto e il gusto si aggiungono a questa valutazione sensoriale; escreti che emanano un cattivo odore sono in genere giudicati segno prognostico negativo, indici di “corruzione” interna; la variazione del sapore delle urine che acquisiscono una anomala dolcezza, specie se associata a un eccessivo fluire, è indice del diabete, appunto il male dell’urina “che scorre”. Infine, l’udito fornisce dati di diversa natura; da un lato, è possibile ascoltare i rumori del corpo, percependone innaturali variazioni (per esempio, suoni polmonari o suoni “ventrali”, come quelli prodotti dall’idrope – oggi ascite –, cioè presenza di liquido anomalo nell’addome). Dall’altro, attraverso l’udito il medico acquisisce l’unica conoscenza che i maestri e i testi non sono in grado di fornire, quella sul vissuto di malattia, che può venire solo dall’ascolto delle narrazioni del paziente (anamnesi): “Occorre chiedere al malato se ha trascorso notti insonni […] se avverte i morsi della fame […] se risponde affermativamente a qualcuno di questi quesiti meno grave si considererà il male…” (Prognostico).
La registrazione sensoriale non si limita ad occuparsi del corpo dei malati, ma considera anche attentamente l’ambiente in cui vivono (concetto espresso anche nei libri “ginecologici”, per esempio in Malattie delle donne, II); l’aria che respirano, l’acqua che bevono e in cui si bagnano, i venti che attraversano le città in cui vivono, facendo parte del mondo della physis, veicolano le stesse qualità da cui dipende l’equilibrio del corpo – la salute. Il trattato Sulle arie, sulle acque e sui luoghi, databile alla seconda metà del V secolo a.C., è espressamente scritto per agevolare la comprensione delle relazioni che legano salute, malattia e ambiente – inteso anche nella sua dimensione istituzionale e politica: un regime tirannico, per esempio, incide sul corpo e sul carattere dei sudditi, rendendoli deboli e imbelli (Mario Vegetti). Il testo dà indicazione precisa del fatto che un eccesso di calore, di umidità o di freddezza, andando a sommarsi alle qualità interne al corpo dell’uomo, ne può causare lo sbilanciamento. La relazione tra uomo e natura, e in particolare tra l’uomo e l’aria che respira, si configura così come la causa prima di malattia: “L’aria è per i mortali causa della vita, per i malati causa delle malattie […] i problemi della salute non possono venire da un’altra causa, che l’aria sia troppa, o troppo poca, o troppo densa, o che sia già portatrice di miasmi nel momento in cui entra nel corpo […] l’aria è il principio che propaga la malattia” (De flat., IV, 1 e V, 1).
Acquisiti tutti i dati di sensazione e di osservazione, il medico può utilizzare la sua facoltà logica, per ricomporli in una storia coerente: “Dall’origine e dal punto di partenza del male e da moltissime considerazioni e dalle cose che vengono conosciute a poco a poco, mettere insieme (i dati) e controllare se sono tra loro uguali, e poi le cose dissimili rispetto alle precedenti, e vedere se sono uguali tra loro, in modo che dalle dissomiglianze si abbia una uguaglianza. E questo sarebbe il metodo (la via, hodos)” (Ep., VI, 3,12).
Il metodo è allora il frutto di un giudizio, basato sul controllo delle similitudini e delle dissomiglianze. Esso parte dalla considerazione che la malattia non è un’entità stabile, ma un “essere” in evoluzione nel tempo: ha un’origine e un punto di partenza, cresce di intensità, raggiunge un’acme, va incontro a una crisi, cioè un punto di rottura, che può indirizzare il malato verso la guarigione o verso la morte. Lo svolgersi nel tempo della malattia va considerato con tale attenzione che i medici ippocratici formulano una teoria della periodicità delle malattie (teoria dei giorni critici): la crisi può intervenire al terzo o al quarto giorno (i testi ippocratici parlano spesso delle febbri terzane e quartane, le malariche, in cui la periodicità dell’attacco segue in effetti un andamento ciclico ben determinato), ma alcuni trattati preferiscono ipotizzare che la malattia evolva in archi di sette giorni (per esempio il Sulle Carni, che spiega in base alle ricorrenze del sette le crisi, l’embriogenesi, la nascita, la dentizione). Importante, per il medico, è ritrovare un ordine, anche numerico, che si contrapponga al caso. Solo attraverso quest’ordine i segni acquisiti formeranno una sorta di “banca dati”, accuratamente selezionati attraverso un processo di diagnosi: diagnosi è la “selezione dei segni”, in cui viene separato quello che non è significante e accade per caso da quello che consente comprensione – tanto delle cause quanto degli sviluppi futuri della malattia. Essi si configurano così a volte come segni eziologici, a volte come segni prognostici.
Il concetto di prognosi è fondamentale per tutta la medicina ippocratica, tanto che a esso è dedicato un intero trattato, tra quelli che la critica antica assegna personalmente a Ippocrate; il libro Prognostico (pro-ghignosko, conosco in anticipo) tratta della capacità del medico di tracciare la storia futura della malattia, di guadagnarsi la fiducia del malato aprendo una finestra sul suo futuro. “Il miglior medico mi sembra quello che è in grado di conoscere in anticipo. Conoscendo infatti e predicendo presso i malati il presente, il passato e ciò che sta per accadere, e spiegando ciò che i malati omettono, guadagnerà la fiducia dei malati […] e curerà nel migliore dei modi. Guarire tutti i malati è impossibile, e questo sarebbe meglio che conoscere in anticipo le cose che stanno per accadere […]” (Prognostico, 1). Il medico pratica qui la stessa arte mantica dei sacerdoti che avversa: tanto migliore sarà come curante, quanta più esatta la sua proiezione sul futuro. Ma il buon medico, a differenza del ciarlatano, possiede la consapevolezza della relatività dell’arte: guarire tutti non è impresa possibile. Sarà allora indispensabile, almeno in qualche caso, riconoscere la forza della physis (“natura”) come superiore a quella della techne medica.