Concezioni dell'aldila
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Vicino Oriente antico e in Egitto non esistono concetti simili ai nostri riguardanti la morte, non c’é nessun Giudizio universale, né la resurrezione delle carni alla fine dei tempi. Esiste, inutile dirlo, la morte, ritenuta talmente ineluttabile che ogni tanto tocca in sorte anche a qualche divinità, e si crede ad un’esistenza posteriore alla morte, per accedere alla quale il defunto deve essere sottoposto a determinati rituali.
In Mesopotamia fin dal III millennio a.C. il corpo della persona appena deceduta è deposto su un apposito letto funebre con accanto collocata una sedia, sulla quale si può sedere la sua anima una volta che i rituali funebri sono portati a termine ed essa diventa libera dal corpo. Il cadavere è lavato e asciugato, per poi essere cosparso di oli profumati, versati utilizzando delle conchiglie. Prima dell’unzione, si compiono delle libagioni con acqua o con acqua e birra, a Khatti anche col vino. I contenitori utilizzati per compiere questi riti sono normalmente nuovi e spesso vengono frantumati dopo il loro uso. Il morto va poi vestito o avvolto in tessuti puliti e gli si donano vari oggetti, la cui quantità e il cui valore dipende dalle possibilità della famiglia: da pochi vasi di ceramica e qualche elemento decorativo per le sepolture più povere a immani quantità di oggetti preziosi, gioielli, armi, vasi pregiati per i morti di stirpe regale. Compiuti questi rituali e pronunciate le lamentazioni di rito, l’etemmu, lo spirito del defunto, può separarsi dal corpo e intraprendere il viaggio verso l’aldilà. Per rendere più agevole il percorso, si depongono col morto offerte, alimenti e oggetti che gli facilitino il cammino, da semplici calzari a carri splendidamente decorati. Possono essere aggiunte offerte per le divinità dell’oltretomba, in modo da renderle più benevole verso il defunto.
Fondamentale è l’inumazione del corpo nel sottosuolo, sia essa in tombe familiari, in cimiteri o in stanze ipogee. Solo così l’etemmu può iniziare il suo viaggio verso il mondo dei morti, che nell’immaginario mesopotamico occupa l’emisfero inferiore dell’universo. Grande terrore suscitano i cadaveri non sepolti o coloro che muoiono innaturalmente prima del tempo fissato: i loro spiriti non possono raggiungere la nuova dimora e, costretti a vagare sulla terra, adirati per il loro infausto destino, diventano una minaccia per i vivi.
Il mondo dei morti, fatto di terra, è povero di cibo e di acqua e i parenti dei defunti devono continuamente fornire loro il necessario per la loro vita ultraterrena; per questo motivo allestiscono periodicamente il kispum, un banchetto funebre in loro onore. In questo modo vivi e morti diventano indissolubilmente collegati: i primi permettono ai secondi di continuare a condurre un’esistenza dignitosa anche dopo il loro trapasso, e i secondi assicurano ai primi la loro intercessione presso gli dèi, proteggendo la famiglia da malattie, povertà e sofferenze. Se poi il defunto è un re, tali riti assumono un’importanza collettiva, perché da essi dipende il benessere dell’intero stato.
Queste credenze hanno origini molto antiche ma, mentre in Egitto esiste un’abbondante letteratura a tema – basti ricordare il noto Libro dei Morti – in Mesopotamia e nelle aree limitrofe mancano totalmente trattazioni specifiche dedicate alla morte, alle pratiche connesse ad essa e alla vita ultraterrena, per cui i dati relativi vanno estrapolati da opere di vario genere: poemi, preghiere, lamentazioni, lettere o anche documenti giuridici e amministrativi. Gli scavi archeologici contribuiscono a confermare questa ricostruzione. L’usanza di seppellire i morti, perlopiù in tombe singole, e di collocare al loro interno oggetti utili alla vita quotidiana è attestata fin dal neolitico. In epoca storica l’inumazione è la pratica più diffusa, solo gli Ittiti sembrano preferire la cremazione.
La disparità fra tombe comuni e tombe reali è ben visibile ad Ur, dove verso la fine degli anni Venti, Sir Leonard Wolley scoprì nei pressi del santuario di Nanna un’immensa necropoli, formata da quasi 2000 tombe, databili fra il periodo protodinastico III e quello di Ur III (XXIX-XXI sec. a.C.). Tra esse spiccano 16 tombe reali del XXV secolo a.C., fra le più ricche mai rinvenute in Mesopotamia, custodi non solo dei corpi dei re defunti, ma anche di alcuni dei massimi capolavori dell’arte sumerica.
Una slitta, trovata con gli scheletri dei due asini che la guidavano ancora imbrigliati, decorata con protomi leonine e bovine in oro e con un passabriglie in argento, facente parte del corredo della regina Puabi, serviva a facilitarle il viaggio verso l’aldilà. Il mantenimento dell’alto status di cui i defunti godevano in vita è assicurato da una serie di oggetti preziosi, come il pugnale d’oro con impugnatura di lapislazzuli e l’elmo in elettro del re Meskalamdug, accuratamente lavorato a sbalzo, o le tazze d’oro scanalato e l’acconciatura realizzata con foglie d’oro, lapislazzuli e corniola della regina Puabi. Per rendere più piacevole il passare del tempo sono presenti tavolieri e pedine di un gioco, ritenuto l’antenato del backgammon, realizzati in conchiglia, osso, lapis e calcare rosso, nonché numerosi strumenti musicali, arpe e lire, con i lati preziosamente intarsiati in conchiglia con scene di animali, e rifiniture con metalli e pietre preziose.
La scoperta più macabra, unica nel suo genere in Mesopotamia e senza riscontri nei testi, avvenne nella cosiddetta Fossa della Morte. Qui, assieme al sovrano, sono stati sepolti tutti i 74 partecipanti alla cerimonia funebre, destinati a seguire il loro signore anche nell’altra vita. Alcuni blocchi di terra, contenenti crani, furono asportati da Woolley e trasportati in Europa. La TAC effettuata di recente su due di questi crani mostra che uno, femminile, fu sfondato da un violento colpo, mentre l’altro, maschile, presenta due fori circolari provocati da una piccozza. I mortali colpi sono stati “mascherati” collocando una preziosa acconciatura sulla prima testa ed un elmo in bronzo sulla seconda. Non si tratta, quindi, di suicidio collettivo, come riteneva Woolley, ma di veri sacrifici umani.
Molti dati, sia archeologici che testuali provengono dalle grandi città siriane del Bronzo Medio e Tardo: Ebla, Mari, Qatna e Ugarit. Dai testi di Ebla veniamo a sapere che in occasione della morte del sovrano, alcuni re stranieri si recavano nella città per compiere le lamentazioni funebri; in quelli di Mari abbiamo informazioni relative al kispum. Ci dicono, ad esempio, che all’epoca di Samsi-Addu agli inizi del XVIII secolo a.C., il re offriva il kispum, anche per i re di Akkad, Sargon e Naram-Sin, vissuti mezzo millennio prima ma considerati suoi antenati nella regalità.
In anni recenti è stato possibile documentare archeologicamente la pratica del kispum, grazie alla scoperta a Qatna, in Siria centrale, di una complessa struttura tombale sotterranea. L’ipogeo, costruito sotto il palazzo reale, è giunto a noi sigillato, conservato esattamente come quando fu utilizzato l’ultima volta, verso la metà del XIV secolo a.C., poco prima che il palazzo fosse parzialmente distrutto da un incendio. Ad esso si accede percorrendo un corridoio in discesa lungo oltre 40 metri che parte dalla sala del trono. Il percorso era un tempo interrotto da tre porte lignee, che bisognava attraversare per giungere all’anticamera, scavata nella roccia a 13 metri di profondità, cinque metri più in basso rispetto al corridoio. Qui due statue in basalto, dagli occhi in calcare intarsiato, alte poco meno di un metro e scolpite probabilmente fra il XVIII e il XVII secolo a.C., effigi dei sovrani defunti, custodivano l’accesso alla tomba. I due personaggi, praticamente identici, sono rappresentati seduti su un seggio, con indosso il tipico mantello a bordo ingrossato dei re siriani, e reggono nella mano destra, sporta in avanti, una ciotola pronta ad accogliere le offerte rituali. Fra le due statue si apre una porta dagli stipiti rinforzati in pietra che conduce alla camera principale dell’ipogeo, dalla forma quadrangolare. Dalla camera si accede a tre ambienti minori scavati nella roccia. In un angolo della stanza principale era collocato un sarcofago in pietra scoperto che conteneva i resti scomposti di alcuni scheletri, mentre molti vasi e ciotole in ceramica erano ordinatamente accatastati nell’angolo opposto. Sono i contenitori che venivano utilizzati durante il kispum, al quale i vivi partecipavano probabilmente stando seduti sulle panche di pietra collocate lungo le pareti. Dai testi sappiamo che il banchetto comprendeva offerte di carne, cereali, burro, latte e birra. Il dato è parzialmente confermato dal ritrovamento di ossa di animali sotto le panche e di un tappo d’argilla con la scritta “latte” in cuneiforme. Sul pavimento della stanza sono state trovate le tracce di quattro bare di legno, forse i letti funebri nei quali erano collocati i corpi dei defunti per eseguire i riti preparatori alla sepoltura e coi quali venivano poi trasportati nell’ipogeo. Nella stanza occidentale, oltre ad un altro sarcofago contenente i resti di due individui e alcuni oggetti preziosi, c’era una panca in pietra, sulla quale giaceva uno scheletro femminile, l’unico in connessione anatomica della tomba. La donna era stata deposta sulla panca in una cassa lignea, coperta da numerosi teli e ornata da una cintura realizzata in oro e pietre preziose. Si presume che i defunti appena morti venissero deposti dapprima su questa panca con le loro bare, per poi essere spostati in uno dei due sarcofagi in pietra e infine nella stanza orientale. Questa, priva di qualsiasi installazione, conteneva le ossa di molti individui, uomini e donne, adulti e bambini, e, frammiste ad esse, anche ossa animali e ciotole, indicazione che anche i morti di più vecchia data partecipavano al kispum e ricevevano la loro parte di offerte alimentari.
L’entrata alla terza stanza, che fronteggiava l’entrata dell’ipogeo, era decorata da due colonne lignee e di legno erano anche il suo pavimento e il tavolo che si trovava all’interno. Da qui vengono i più preziosi dei 2000 reperti scoperti all’interno dell’ipogeo, gioielli, oggetti in oro e argento, pietre preziose, avori e vasi in calcite. I contenitori e i resti di pasto sparsi sul pavimento dovevano essere stati in origine collocati sul tavolo ed è possibile che questa stanza, che assieme all’anticamera riproduce la struttura della sala del trono e della antistante Grande Corte del sovrastante palazzo reale, fosse riservata al re defunto, per permettere al suo etemmu di partecipare al banchetto funebre in un ambiente a lui congeniale.
Lo stretto legame e il rapporto quotidiano fra i vivi e i morti è ben esemplificato, per il XIII secolo a.C., a Ugarit. Qui non solo le tombe reali si trovano sotto il palazzo, ma anche molte abitazioni private sono concepite in maniera tale da offrire, oltre agli ambienti destinati ai vivi, un’adeguata sistemazione per i morti, includendo, sotto il pavimento della casa, la tomba di famiglia. Questa è normalmente costituita da un vano rettangolare, al quale si accede sia da un corridoio interno all’edificio che da un’entrata esterna. In questo modo, l’accesso ad essa ed il proseguimento dei riti funebri erano assicurati anche qualora i proprietari avessero dovuto, per un qualche motivo, cambiare casa.
Questi vani sepolcrali sotterranei avevano sovente nicchie nelle pareti, per alloggiare le lampade ad olio utilizzate durante le cerimonie, e una fossa scavata nel pavimento, utilizzabile o come ossario, per la deposizione secondaria dei defunti di più vecchia data, o per la raccolta dei resti dei pasti funebri; inoltre erano spesso collegati con pozzi o cisterne, in modo da garantire la disponibilità dell’acqua necessaria per le libagioni. Senza le offerte di cibo e di bevande, nell’altro mondo, i morti non avrebbero avuto altro che fango da inghiottire, ci dicono i poemi ugaritici, nei quali compare anche per la prima volta la personificazione della morte, Mot.
Oltre ad occuparsi di chi è già defunto, i vivi si curano di preparare la propria morte. Una stele alta circa un metro e datata all’VIII secolo a.C., scoperta a Sam’al (Zincirli), un piccolo regno siro-ittita nell’area del Tauro orientale, mostra un uomo, un tale Kattamuwa, funzionario del re, che, reggendo un bicchiere, siede davanti ad una tavola imbandita. Nell’iscrizione in alfabeto fenicio che accompagna la figura, è lo stesso Kattamuwa a parlare: afferma di aver commissionato la stele quando era ancora in vita e di aver lasciato istruzioni precise ai suoi discendenti riguardo alle offerte di cibo da fargli dopo la sua morte, quando la sua anima risiederà in quella stele. Considerando che nella piccola stanza vicino alla stele sono stati trovati resti di pasto, dobbiamo presupporre che i suoi desideri furono esauditi.
La cultura egizia è spesso considerata morbosamente attaccata alla morte e a ciò che ad essa è connesso, mummie e tombe. In realtà, questa visione è dovuta al fatto che gran parte delle scoperte archeologiche effettuate in Egitto proviene da contesti sepolcrali. L’arte che conosciamo è quella conservata nelle tombe, molti dei testi noti sono quelli dipinti sulle loro pareti o scritti sui papiri ritrovati al loro interno. È vero, però, che gli antichi Egizi, credendo che l’anima non abbandonasse totalmente il corpo, prestavano una cura particolare alla sua preparazione per la sepoltura.
La mummificazione ha come scopo la preservazione del corpo, ottenuta per disidratazione, in modo che l’anima del defunto, dopo essere stata giudicata, possa continuare ad abitarlo. Esistono vari metodi di mummificazione, dal più povero, che prevede la sepoltura del corpo nella sabbia secca del deserto, ai più elaborati e costosi, fra i quali il più diffuso è quello ampiamente utilizzato all’epoca della XVIII Dinastia. In una prima fase si eliminano gli organi e i fluidi corporei. Il primo organo ad essere rimosso è il cervello, sminuzzato e poi estratto per mezzo di lunghi bastoncini inseriti nella narice sinistra. Il cranio svuotato è riempito di resina, che impedisce la formazione di batteri. Dopo il cervello sono rimossi gli organi interni, asportati attraverso un’incisione effettuata sul lato sinistro del basso addome. Il lato sinistro del corpo è ritualmente importante in quanto sede del cuore, ritenuto sede dell’anima e indispensabile per la rinascita e per questo l’unico organo ad essere lasciato al suo posto. Dopo essere stato ripulito, il corpo viene riempito e coperto con carbonato di sodio, che ne assorbe i fluidi rimanenti. Passati i 40 giorni che richiede il suo disseccamento, si inizia la seconda fase. Il corpo, riempito con tessuto di lino, segatura e sostanze aromatiche come cannella o mirra, è unto con sette oli sacri, che lo rendono di nuovo parzialmente flessibile, e cosparso di resina, che oltre a disinfettarlo, gli conferisce un aspetto dorato. A questo punto la mummia è quasi pronta, si deve solo avvolgerla più volte in bende di lino intrecciate con numerosi amuleti, recitando preghiere e bruciando incenso.
Il procedimento può avere una durata variabile ma idealmente si conclude in 70 giorni, tempo corrispondente all’assenza dal cielo della stella Sothis/Sirio, identificata con Osiride.
Una volta pronta, la mummia è posta su una slitta per la processione funebre, alla quale partecipano i sacerdoti che officiano il rito e i parenti del defunto, che gli portano i beni di cui avrà bisogno nella nuova vita post mortem. Giunti alla tomba, prima di consumare il banchetto funebre, composto da carne, pane, birra e vino, l’erede, assistito dai sacerdoti, compie la cerimonia dell’Apertura della bocca: recitando testi propiziatori e toccando con oggetti sacri gli occhi, il naso, le orecchie, la bocca e il volto del defunto, gli riattiva i sensi per prepararlo al viaggio verso l’aldilà.
I cimiteri sono collocati di regola sulla sponda occidentale del Nilo, dove il sole tramonta. Fra i luoghi funebri più sacri ci sono Abidos, dove si celebrano i misteri di Osiride, con la rappresentazione della sua morte e resurrezione, e Saqqara, luogo di sepoltura di Djeser, unificatore dell’Egitto, e del suo architetto Imhotep.
La tipologia delle tombe varia in base al luogo e all’epoca della loro realizzazione. Le più semplici e povere sono formate da una fossa scavata nella sabbia, nella quale viene deposto il corpo assieme al corredo funebre, e da un tumulo in terra o mattoni a segnarne l’ubicazione. Le più ricche sono composte da due parti, una sovrastruttura, nella quale si celebra il rito, e una parte inferiore, sigillata dopo la sepoltura, contenente il corpo e il corredo funebre.
Le tombe possono essere scavate nella roccia, in particolare in Alto Egitto, e avere corti esterne e porticati, oppure essere costruite in mattoni o blocchi di pietra. Per quest’ultima tipologia, la più comune in Basso Egitto, la forma base è quella della mastaba, un ampio gradone costruito sopra la camera funebre, all’interno del quale si possono trovare varie stanze e magazzini.
Le tombe più elaborate sono quelle reali, dalla piramide a gradoni di Djeser a quelle monumentali di Antico e Medio Regno. A partire dal Nuovo Regno, la sepoltura vera e propria e il monumento funebre vengono costruiti in luoghi separati, probabilmente per evitare la profanazione della salma da parte dei predoni alla ricerca dei ricchi corredi.
All’interno delle tombe si collocano vari oggetti, prima di tutto i beni che saranno necessari al defunto nella sua nuova vita nell’aldilà: cibo, bevande, vestiti, gioielli, cosmetici, armi, passatempi e testi sacri. La mummia è deposta in una bara, normalmente realizzata in legno, ma che può essere anche in ceramica o in cartonnage, un materiale ottenuto da più strati di tessuto di lino, tenuti insieme da collanti e gesso. Le bare più antiche sono normali parallelepipedi, con l’esterno spesso decorato a facciata di palazzo e un paio d’occhi sul lato superiore che permettono alla mummia di “vedere” l’esterno. Nel Medio Regno le bare sono decorate con i Testi dei Sarcofagi, contenenti le istruzioni su come raggiungere l’aldilà, in alcuni casi accompagnati dalla riproduzione e dall’elenco dei beni del corredo. Sempre nel Medio Regno inizia la tradizione delle bare antropomorfe, che diventano tipiche nel Nuovo Regno e continuano ad essere usate fino alla fine dell’epoca faraonica. Queste bare, che possono essere multiple, infilate una dentro l’altra come una matrioska, sono realizzate dapprima in legno e poi, in epoca tarda, anche in pietra nera; le più antiche sono povere di testi, semplicemente decorate con ali coperte di piume (XVII Dinastia) o con la riproduzione dei bendaggi della mummia (XVIII Dinastia), ma tendono a diventare sempre più ricche, con l’aggiunta di testi e raffigurazioni di divinità. Se il defunto può permetterselo, la bara è collocata a sua volta in un sarcofago esterno realizzato in pietra, anch’esso spesso decorato a facciata di palazzo.
Accanto alla sepoltura sono deposti i vasi canopi, scolpiti in alabastro e contenenti le viscere mummificate del defunto. A partire dall’epoca ramesside i coperchi di questi vasi assumo l’aspetto dei Quattro figli di Horus, contenenti ciascuno un organo diverso e aventi le fattezze di uomo (fegato), babbuino (polmoni), sciacallo (stomaco) e falco (intestino).
Dalla XVIII Dinastia trovano posto nelle tombe varie statue e statuette, alcune aventi le fattezze del defunto, che all’occorrenza possono diventare per l’anima un sostituto del corpo, e altre destinate a compiere al suo posto nell’aldilà eventuali lavori pesanti.
Le pareti delle tombe sono molto spesso decorate da dipinti, che da un lato hanno lo scopo di guidare il defunto verso la sua nuova vita, dall’altro servono a ricreare simbolicamente il mondo in cui egli era abituato a vivere, in modo da far sentire a suo agio l’anima nella sua nuova dimora.
Una fra le raffigurazioni più diffuse è quella che illustra la pesatura del cuore: il defunto viene condotto da Anubi verso la bilancia dove viene confrontato il peso del suo cuore con maat, il giusto ordine, rappresentato da una piuma posta sul piatto opposto. Thot, il dio degli scribi, della sapienza e della giustizia, registra il risultato davanti ad un tribunale presieduto da Osiride. Sotto la bilancia si trova un mostro composito pronto a mangiare il cuore qualora il risultato della pesatura sia negativo. Le formule normalmente scritte attorno alla scena sono indicazioni date al defunto su cosa dire per discolparsi e dimostrare la sua innocenza in caso di esito negativo.
Ma le raffigurazioni sono le più varie, si passa da scene di vita quotidiana alla raffigurazione delle imprese personali del defunto o dei suoi affetti familiari, come nella tomba di Rekhmire, vizir ai tempi di Thutmosi III e Amenhotep II. La sua tomba è piuttosto semplice, formata da una corte, un vestibolo e una cappella. Sulle pareti si trovano rappresentazioni classiche, come la cerimonia dell’apertura della bocca, e altre più particolari. Nel vestibolo sono raffigurati su più registri i prodotti dell’Alto Egitto, i doni dei vassalli stranieri, lo stesso Rekhmire che ispeziona i tributi del Basso Egitto, scene di caccia e pesca, nonché i ritratti di molti parenti. Fra le molte scene della cappella si possono vedere Rekhmire supervisionare la preparazione del cibo per il tempio e artigiani al lavoro; si assiste anche alla processione e al banchetto funebre. Sulla parete di fondo, al di sotto di una nicchia, si trova una falsa porta, un elemento tipico delle tombe già nell’Antico Regno, il cui scopo è quello di consentire simbolicamente l’accesso del defunto nell’aldilà.
Poema di Aqhat
Non mentirmi, o Vergine,
perché per un eroe le tue menzogne sono chiacchiere!
L’uomo, che destino può avere?
Quale sorte può avere un mortale?
Una coppa di vetro sarà posta vicino alla mia testa,
un’offerta funeraria presso la sommità del mio cranio!
La morte di tutti io morrò:
giacché sono mortale, dovrò morire!