Conciliazione e mediazione
Conciliazione e mediazione sono entrambe un modo di risoluzione delle controversie avente lo scopo di indurre le parti a trovare una soluzione concordata. Nella letteratura in materia, conciliazione e mediazione sono termini usati talvolta come sinonimi, ambedue distinti o distinguibili da altri modi di risoluzione delle controversie, quali il negoziato puro e semplice, il ricorso alle vie giudiziarie e l'arbitrato.
Nel caso del negoziato, infatti, le parti discutono tra loro le questioni sulle quali sono in disaccordo e cercano di raggiungere in tal modo un'intesa, senza l'intervento o l'assistenza di nessun altro, cioè di un soggetto 'terzo', come suole denominarsi.
Nel caso delle liti giudiziarie, invece, un soggetto terzo di rango ufficiale, il giudice, interviene autoritativamente a decidere come risolvere le controversie mediante l'applicazione di principî giuridici. Come è stato autorevolmente osservato, il giudice "[non] ha il compito di conciliare le parti, ma deve pervenire ad una decisione su quale di esse abbia ragione" (v. Eckhoff, 1966, p. 161).
Anche l'arbitrato, infine, porta a un risultato di tipo autoritativo imposto da un soggetto terzo, in questo caso l'arbitro; ma sono le parti stesse che decidono come il procedimento arbitrale sarà condotto e come gli arbitri saranno scelti. Al contrario, la conciliazione, o mediazione che sia, intesi i due termini come sinonimi, richiede bensì la presenza di un soggetto terzo incaricato di conciliare le parti, ovvero di mediare tra loro, ma costui non rende una decisione autoritativa. Il conciliatore, o chi opera la mediazione, cerca di facilitare il raggiungimento di una soluzione concordata tra le parti in lite. In tal senso è stato ancora osservato che "colui che opera la mediazione dovrebbe auspicabilmente guardare in prospettiva alle conseguenze che possono derivare dalle varie soluzioni possibili, e deve adoperarsi presso le parti per indurle ad accettare una certa soluzione" (ibid.). Il potere del soggetto terzo che interviene in sede di conciliazione o mediazione è solo un potere di persuasione. Un bravo mediatore agevola la soluzione concordata di una controversia, quella soluzione che le parti, per un motivo o per l'altro, non sarebbero state in grado di raggiungere da sole, senza cioè la mediazione del terzo. L'esigenza di una nozione definitoria di base è particolarmente importante in un'epoca come quella presente in cui da parte sia delle istituzioni pubbliche che dei privati si cerca di creare, nei rispettivi ambiti, nuovi organismi e modi capaci di provvedere all'offerta di servizi di conciliazione e mediazione. Ma, al tempo stesso, una tale nozione può essere fuorviante e, forse, pericolosa, in quanto enfatizza le differenze tra la conciliazione (o mediazione) e altre forme di risoluzione delle controversie. È noto, ad esempio, che i giudici spesso e, comunque, sempre più di frequente svolgono un ruolo attivo nell'aiutare le parti a comporre in via transattiva una lite giudiziaria insorta tra loro. I giudici, pertanto, possono agire da mediatori, come pure, d'altronde, continuare a svolgere il loro ruolo tradizionale di soggetti giudicanti secondo il diritto. Analogamente gli arbitri possono tentare di soddisfare le parti dando una propria decisione del caso, oppure rendendo una decisione che rappresenti in realtà una sorta di compromesso, o ancora possono partecipare a trattative tra le parti in veste, appunto, di mediatori o conciliatori. Inoltre, lo stesso negoziato può coinvolgere, oltre alle parti, altri soggetti, i quali agiscono in qualche maniera da mediatori. Persino gli avvocati delle parti possono cercare di persuadere i propri clienti ad assumere un atteggiamento più flessibile nell'accettare un'offerta fatta dalla controparte.
Occorre quindi andare molto cauti nel sussumere una certa istituzione sotto l'una o l'altra categoria, ossia rivolta a operare nelle guise della conciliazione (o mediazione) o in quelle dell'arbitrato o del contenzioso giudiziario. Così, procedure che sembrano fare affidamento sulla mediazione devono essere osservate attentamente per vedere come in effetti funzionano. Né, da ultimo, va dimenticato che, pur avendo accertato che una istituzione è rivolta a fini di conciliazione o mediazione, e che essa opera effettivamente in tal senso, nondimeno resta ancora da vedere, per comprendere la reale incidenza di questa istituzione, in quale rapporto si pone rispetto al contesto delle altre istituzioni a cui è possibile fare ricorso per la risoluzione di una determinata controversia. Difatti, come si dirà più avanti quando si parlerà di come la conciliazione operi in concreto, è importante riconoscere che 'scelte' e 'soluzioni' adottate in via conciliativa o di mediazione si rapportano ad altre possibili scelte e alle potenziali soluzioni che tali scelte implicherebbero. Così, è ovvio che un mediatore possa convincere più facilmente una parte ad accettare la soluzione proposta, quando la parte stessa sappia che la sua controparte può ottenere altrettanto e di più semplicemente rivolgendosi a un giudice.
Quanto si è fin qui detto porta a constatare che è assai difficile, se non impossibile, elencare tutti i modi e i contesti in cui la conciliazione, o mediazione che sia, ha rappresentato storicamente (e continua a rappresentare) la via principale di risoluzione delle controversie (per alcuni utili studi comparativi sull'argomento v. Abel, 1982; v. Kötz e Ottenhof, 1983; v. Cappelletti e altri 1978-1979). Le forme di conciliazione spaziano, infatti, dalle prassi più o meno istituzionalizzate operanti a livello internazionale per il mantenimento della pace fra le nazioni - note sotto il caratteristico nome di shuttle diplomacy (ovvero di diplomazia della spola) - alle iniziative personali di capi di Stato e di governo rivolte a fini di mediazione (come nel caso, ad esempio, dell'opera di mediazione svolta dall'allora Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter a Camp David per comporre il conflitto tra Egitto e Israele), fino - su scala più piccola - ai tentativi di accordo riguardanti problemi come l'affidamento della prole, oppure quelli causati a un vicino da un cane incustodito. Questo nostro articolo si concentrerà, tralasciando le prassi informali intese a fini di conciliazione, sui meccanismi formalizzati o, comunque, riconosciuti dall'ordinamento statale allo scopo di promuovere la conciliazione o mediazione come un'alternativa preferibile al ricorso alle vie giudiziarie.In proposito si può iniziare osservando che la conciliazione ha assunto un particolare rilievo come modo alternativo di risoluzione delle controversie in tre grandi contesti storici. Il primo si riferisce a tempi di trasformazione rivoluzionaria, quelli soprattutto della Rivoluzione francese, ma anche quelli che hanno visto - più di recente - l'avvento dei regimi comunisti. Il secondo contesto è quello relativo a tempi in cui, analogamente a quanto accade nel primo contesto, vengono esaltati i valori popolari e si riscontra la necessità di unire la popolazione attorno a questi valori. In un tale contesto, però, la conciliazione si presenta come un istituto inteso a opporsi ai cambiamenti, piuttosto che a favorirli. Così, ad esempio, la conciliazione in Giappone si attaglia molto bene a questo secondo tipo di contesto. Il terzo e più recente, infine, è quello che fa riferimento alla cultura politica e giuridica del cosiddetto 'Stato assistenziale'. Il Welfare State vede l'idea di mediazione imporsi come idea guida dei programmi di riforma lanciati dai leaders tanto del mondo giuridico, quanto di importanti movimenti politici. Orbene, le motivazioni portate a sostegno della formalizzazione della mediazione o conciliazione in ognuno dei contesti suddetti presentano evidenti somiglianze; ma il dibattito che vi si riconnette mostra, d'altro canto, quanto ampia sia la gamma delle posizioni ideologiche che possono ritenere di trarre vantaggio dalla mediazione o conciliazione.
I sommovimenti rivoluzionari sono spesso accompagnati da uno spirito trionfalistico e dalla persuasione che si instaurerà una nuova era di armonia nei rapporti sociali. Le liti, il formalismo delle procedure e gli uomini di legge, che agli occhi della gente appaiono come coloro che traggono profitto dalla litigiosità e dalle formalità di rito, sono considerati alla stregua di sgradevoli relitti del passato. Così, uno dei maggiori tratti dell'ideologia della Rivoluzione francese fu la sua ostilità verso gli uomini di legge e le corti di giustizia dell'ancien régime. Una riforma scaturita direttamente da tale ostilità fu l'istituzione del juge de paix (v. Garth, 1982, p. 183) al quale sarebbe stata assegnata "la dulce missione di mantenere la pace e la concordia, di prevenire ogni lite" (v. Scamuzzi, 1896, p. 32).
Secondo la descrizione dei juges de paix fatta da un autore francese del tempo il giudice di pace dovrebbe essere colui "il quale non pensa né esiste se non per i propri concittadini. I minori, le persone dichiarate assenti e gli interdetti sono i soggetti a cui vanno in particolare le sue cure; egli è come un padre in mezzo ai propri figli; basta solo che dica una parola, e le ingiustizie sono riparate, i contrasti eliminati, ogni lamentela messa a tacere; la sua presenza assidua vale a garantire il bene di tutti; egli riceve in cambio della propria opera la più dolce delle ricompense, poiché è dovunque salutato con affetto, dovunque rispettato" (cit. in Garsonnet e Cézar-Bru, 1912, p. 87). I giudici di pace francesi presero sul serio questo loro compito. Essi cominciarono a ordinare che un tentativo di conciliazione tra le parti in lite avesse luogo prima dell'instaurazione della causa, e questa prassi finì per essere sanzionata con legge nel 1838 e resa obbligatoria nel 1855. Il tentativo obbligatorio di conciliazione stava a significare, idealmente, che il prestigio e la saggezza del juge de paix potevano essere spesi per indurre le parti ad accordarsi, senza bisogno di procedere oltre con le formalità dell'instaurazione della lite davanti al giudice. L'influenza della Rivoluzione francese portò all'adozione di analoghe figure in altri paesi del continente europeo. Due meritano in particolare di essere qui segnalate. Una è quella tedesca dello Schiedsmann, che ebbe origine in Prussia nel 1808. Si trattava di individui appartenenti di massima alla piccola nobiltà terriera, incaricati di risolvere le controversie senza che si facesse ricorso alle procedure di rito (v. Bierbrauer e altri, 1979, p. 42). L'altra è quella italiana del 'conciliatore', anch'essa ispirata al modello francese del juge de paix (v. Silvestri, 1989, p. 45). Il conciliatore venne istituito dapprima nel Regno di Napoli, agli inizi del XIX secolo. A differenza però del modello francese, il tentativo di conciliazione non era obbligatorio. Quella prima figura fu poi estesa, dopo l'unificazione del paese, al resto d'Italia, con il Codice di procedura civile del 1865. Tutte queste figure ottocentesche di conciliatori sono sopravvissute fino ai nostri giorni, ma in guise molto differenti da quelle in cui erano state originariamente concepite dai loro fautori di fede rivoluzionaria. Ad esempio, in Francia il numero di tentativi riusciti di conciliazione è andato via via diminuendo durante il secolo scorso: a tal punto da giustificare l'affermazione, già nel 1912, che il tentativo di conciliazione era divenuto, nelle realtà urbane, nulla più che una vana formalità (v. Garsonnet e Cézar-Bru, 1912, p. 87). Finalmente, nel 1949, il tentativo obbligatorio di conciliazione venne abolito nei casi di competenza del tribunal civil e, successivamente, nel 1958, in quelli di competenza del tribunal de grande instance. Esso è stato mantenuto solo per le controversie minori davanti al tribunal d'instance, che è l'erede del juge de paix. Il conciliatore italiano, dal canto suo, è essenzialmente un organo di giustizia minore, davanti al quale, peraltro, molto basso è il numero di affari discussi. Secondo quanto riportato da Silvestri (v., 1989, p. 47, nota 8), il numero dei casi trattato in sede di conciliazione è sceso dal 21% del totale del contenzioso giudiziario ad appena il 3,3% nel periodo dal 1880 al 1930. Il numero di domande presentate davanti a questa istanza è stato di 33.390 nel 1930 e di 10.160 nel 1960, mentre nel 1973 si sono avute solo 1.630 domande. Le statistiche ufficiali, quelle disponibili per gli anni più recenti, mostrano che il numero di casi nei quali si è fatto ricorso alla conciliazione non contenziosa è inferiore a 2.000.Lo stesso fenomeno si registra per lo Schiedsmann di origine prussiana, poi esteso ad altri Länder tedeschi: difatti, il numero dei casi trattati in tale sede è diminuito enormemente dal secolo scorso a oggi (stando alle stime riportate da Bierbrauer e altri - v., 1979, p. 48 - esso è sceso dai 287.507 casi del 1880 ad appena 38.021 del 1975). Tant'è che alcuni commentatori hanno di recente parlato di questa figura come di "una istituzione morente" (v. Blankenburg e Taniguchi, 1989, pp. 335 e 342). Invero, per ragioni che saranno indagate più avanti nel corso del presente articolo, i tentativi fatti a livello ufficiale allo scopo di incoraggiare il ricorso alla conciliazione piuttosto che alle vie giudiziarie si sono rivelati per la più parte infruttuosi.
La conciliazione, come modo di risoluzione delle controversie invece del ricorso alle vie giudiziarie, ha altresì trovato una favorevole accoglienza da parte delle moderne rivoluzioni, comuniste e non. Secondo l'opinione di Boaventura de Sousa Santos (v., 1982, pp. 251 e 254) sui connotati caratterizzanti l'idea di 'giustizia popolare', "un formale potere di coercizione può esistere o meno, ma quando esiste esso tende a essere usato nei conflitti tra classi sociali per la punizione dei nemici di classe; mentre nei conflitti all'interno di una medesima classe sociale vengono preferite le misure educative [anziché quelle repressive]". È tipico, ad esempio, il caso delle corti sociali in Unione Sovietica, nei paesi dell'Est europeo e nella Repubblica Popolare di Cina, composte per lo più da membri laici nominati o eletti localmente, e con attribuzioni relative alle questioni loro rimesse dalle parti (v. Hayden, 1986, p. 229). Ognuna di queste corti aveva il compito di favorire la conciliazione, ma anche quello di svolgere una esplicita funzione educativa. Stando a un accurato studio delle Commissioni sociali di conciliazione polacche, loro principale funzione era quella educativa, consistente nel "plasmare i rapporti interpersonali" (v. Kurczewski e Frieske, 1978). La conciliazione in tali contesti non solo mirava a mettere d'accordo le parti in lite, ovvero a trovare valori comuni, ma si proponeva inoltre di riconciliarle in conformità coi valori della rivoluzione, così come insegnati da numerosi conciliatori laici (v. Sheng Yu, 1983, p. 27). La Repubblica Popolare di Cina offre l'esempio migliore a proposito di questo ideale. Secondo uno studio recente, nel 1985 erano ben 4.700.000 i cittadini cinesi che prestavano servizio come conciliatori, e i casi trattati 6.300.000 circa (si vedano le fonti inedite riportate da Blankenburg e Taniguchi, 1989, p. 347).
Tuttavia, pure nel caso dei regimi comunisti si sono in pratica sviluppate delle tendenze divergenti dall'idea originaria. Così, il ricorso al giudizio delle corti summenzionate, che doveva essere volontario, ha preso a divenire obbligatorio; e la conciliazione, che dovrebbe essere una forma diversa e alternativa di giustizia, è diventata invece sempre più simile alla giustizia ordinaria, basata cioè sull'applicazione di norme giuridiche piuttosto che sull'elaborazione e accettazione di valori comuni, derivanti da ideali rivoluzionari o d'altro tipo (v. Hayden, 1986, p. 229). Molti studi al riguardo hanno messo in rilievo questa trasformazione, di cui si dovrà tornare a dire più avanti in sede di valutazione dell'esperienza delle forme istituzionali di conciliazione (v. cap. 4). Il punto che però importa subito notare è molto semplicemente che l'ideale rivoluzionario non si è realizzato spesso nel corso del tempo.
Esempi ben noti di come la conciliazione possa essere usata come un modo per opporsi ai conflitti che si generano nelle società moderne, facendo ricorso a valori tradizionali, sono rappresentati dai conciliatori giapponesi e dai nyaya panchayat indiani (su tali figure v. Meschievitz e Galanter, 1982, p. 47; v. Haley, 1982, p. 125; v. Kojima e Taniguchi, 1978, p. 687; v. Taniguchi, 1983, p. 109). Entrambe queste figure, infatti, rappresentano un tentativo di far rivivere dei modelli del passato, basati sulla tradizionale prevalenza della conciliazione nelle società meno dinamiche che precedettero l'avvento dell'era dell'industrializzazione.Il panchayat, che significa 'adunanza di cinque persone' (v. Meschievitz e Galanter, 1982, p. 48) era un'istituzione fiorente in India prima del governo coloniale e con un campo di intervento esteso a molti settori della società indiana del tempo. Risoluzioni a livello di villaggio o di clan, o di altre collettività, erano prese in forma di mediazione-conciliazione dei vari interessi in gioco. "Dopo aver raccolto [attraverso l'audizione di testimonianze orali] tutte le informazioni disponibili e dopo aver chiarito le questioni implicate, il panchayat si incaricava di negoziare [al proprio interno] una soluzione che fosse accettata da tutti i membri [di quello stesso consesso]"(ibid., p. 49). I panchayat, a ogni buon conto, persero molto del loro prestigio e della loro autorità nel corso del XIX secolo, mentre cresceva, per converso, il volume del contenzioso giudiziario. La tradizione stentava a mantenersi al passo con i tempi. Ma, a partire dalla fine del secolo scorso, sono stati compiuti, periodicamente, tentativi di far rivivere il panchayat in qualche forma. Sforzi più recenti, per quanto qui interessa, sono stati incentrati sulla figura del nyaya panchayat, o giustizia del panchayat. Secondo il dettagliato studio di Meschievitz e Galanter, nella società indiana contemporanea ha continuato a essere avvertito il convincimento che questa antica istituzione rappresenti un simbolo importante, che può essere fatto proprio dai riformatori "[sia come] antidoto alla disaffezione della gente nei confronti della giustizia ufficiale, quella dispensata dalle corti ordinarie, sia come modo di risoluzione delle controversie rapido, economico e, appunto, basato sulla conciliazione" (ibid., p. 69). Peraltro, la conclusione raggiunta dagli autori suddetti non è incoraggiante: "Quello che doveva essere [secondo la tradizione] un consesso neutrale e al di sopra delle parti, formato dai capi locali, con il compito di aiutare a negoziare e transigere piccole dispute, è divenuto [nella sua forma odierna] la roccaforte delle élites fondiarie e delle caste dominanti, o - in altre località - è stato un fallimento" (ibid., p. 68). In altri termini, gli sforzi fin qui compiuti per far rivivere quell'antica istituzione non sono riusciti né a ripristinare la tradizione, né comunque a formare una valida alternativa al ricorso alle corti ordinarie di giustizia. Quel suggestivo ideale, insomma, di una forma di conciliazione attuata mediante la partecipazione dei vicini, cioè all'interno di ogni singola comunità o collettività, come modo per ristabilire valori di armonia sociale, non sembra aver avuto successo nell'India contemporanea.
Molto diversa appare invece l'esperienza giapponese, essa pure, del resto, sorretta da un eguale convincimento circa l'importanza di restaurare i valori tradizionali della conciliazione, per contrasto con quelli (a sfondo individualistico) del ricorso alle corti di giustizia. Come è stato osservato in proposito da John Haley, la società neoconfuciana "aborriva le liti giudiziarie e rifiutava di riconoscere un diritto soggettivo di ricorso alla giustizia dei giudici ordinari". Difatti il sistema vigente fino al secolo scorso in Giappone tendeva "a proibire l'instaurazione di liti giudiziarie tra soggetti di diverso status, nonché a richiedere che soggetti di pari stato esaurissero tutte le possibilità di compromesso e di conciliazione prima di fare ricorso alla giustizia dei tribunali. E persino allora, il giudice poteva imporre alle parti una soluzione transattiva e castigare i litiganti perché avevano mancato di comportarsi [appunto litigando in un'aula di giustizia] in maniera decorosa e di conformarsi ai dettami della morale confuciana" (v. Haley, 1982, p. 128).
Sul finire dello scorso secolo venne introdotto in Giappone un Codice civile basato in larga parte sul Codice civile tedesco. Ancora nelle parole dello Haley: "Le conseguenze erano prevedibili. Una volta attribuiti dei diritti soggettivi, la gente cominciò a esercitarli, senza più il freno della morale tradizionale" (ibid., p. 129). Le autorità giapponesi cercarono di opporsi a simili conseguenze, e il risultato fu una serie di riforme che suggerivano chiaramente il ricorso alla conciliazione come alternativa preferibile alla lite giudiziaria. Negli anni quaranta di questo secolo, tali misure riformatrici, inizialmente lasciate alla libera scelta degli interessati, furono rese obbligatorie. "Mano a mano - come riferisce, di nuovo, lo Haley (ibid., p. 136) - che coloro i quali predicavano l'avvento di valori collettivisti, rigettando quelli dell'ordinamento liberale, accrescevano la propria influenza, la conciliazione veniva vista sempre più come un mezzo preferibile di risoluzione di ogni tipo di controversia. Di conseguenza, verso la fine degli anni trenta quasi tutte le liti civili erano divenute soggette a conciliazione. Questo movimento in favore della conciliazione culminò nel 1942 con una legge (Special wartime civil affairs law) che comandava il ricorso alla conciliazione praticamente per ogni tipo di controversia in campo civile, autorizzando i giudici a emanare, senza alcun dibattimento, sentenze esecutive che riproducevano le soluzioni suggerite dai conciliatori, qualora le parti avessero rifiutato di accettare tali soluzioni volontariamente".
L'istituto della conciliazione ha continuato a esistere, ma va pur detto che alcuni degli obiettivi proposti all'inizio dai riformatori non sono stati raggiunti. Il numero di conciliazioni in Giappone continua a mantenersi piuttosto alto in rapporto al volume complessivo di liti giudiziarie (v. Kojima e Taniguchi, 1978, p. 719). Comitati di conciliazione composti da due conciliatori trattano le controversie in materia civile, incluse quelle di famiglia, e di essi si dice che sono "certamente la più popolare istanza di giustizia presso la gente comune" (v. Blankenburg e Taniguchi, 1989, p. 349). Nondimeno, non è chiaro come l'istituto operi effettivamente, dato che "molti cittadini che fanno ricorso alla conciliazione si aspettano una decisione razionale della lite in conformità dei principî di diritto [... tant'è che] alla base di una riforma recente [...] vi era questa idea di una più moderna funzione del meccanismo della conciliazione" (v. Kojima e Taniguchi, 1978, p. 719; v. Taniguchi, 1983, p. 115). Una tale forma di conciliazione ha però poco in comune con i valori di stampo collettivista e di opposizione alla giustizia ordinaria propugnati all'inizio di questo secolo. Essa, al contrario, sembra avvicinarsi molto a un'istanza giudiziaria, eccetto che è meno costosa e che le decisioni non sono rese da giudici professionali. Di nuovo, quindi, la trasformazione così avvenuta solleva una serie di interrogativi di cui ci si dovrà meglio occupare più avanti in sede di valutazione delle forme istituzionali di conciliazione.
Gli anni recenti hanno visto un rinnovato entusiasmo per la conciliazione o mediazione come modo alternativo al ricorso alle vie giudiziarie (v., ad esempio, Harrington, 1985). Alcuni degli sforzi compiuti al riguardo si sono di nuovo indirizzati nel senso di far rivivere istituti creati in passato, nel corso di epoche differenti. Così, ad esempio, gli istituti tedeschi improntati ai modelli della Rivoluzione francese hanno avuto nel periodo della Repubblica di Weimar un breve revival, che per molti versi ha anticipato tendenze più recenti in questo campo (v. Unger, 1976), e hanno anzi attirato negli ultimi anni l'interesse degli studiosi. La figura dello Schiedsmann, sebbene non abbia ancora conseguito un rilevante successo in termini di casi trattati, tuttavia è sempre più conosciuta. L'attenzione degli studiosi si è concentrata da ultimo su due aspetti: uno riguarda il ruolo svolto dai giudici a fini di conciliazione all'interno delle corti ordinarie di giustizia; l'altro concerne la creazione di modi alternativi al ricorso alle vie giudiziarie.
Notevole, ad esempio, è l'attenzione dedicata nella Repubblica Federale Tedesca al ruolo svolto dai giudici in funzione conciliativa nei casi portati davanti alle corti ordinarie di giustizia. Il Codice di procedura civile tedesco assegna al giudice un simile compito, che viene sempre più rimarcato dalla dottrina sia in Germania, sia altrove sul continente europeo (v. Rohl, 1983; v. Plett, 1989, p. 186). Il Codice di procedura civile austriaco del 1895, per tanti versi estremamente influente, aprì la strada in questa direzione e ispirò parecchie riforme nel campo della procedura civile. Un'enfasi analoga può oggi riscontrarsi negli Stati Uniti d'America. I regolamenti federali di procedura civile (Federal Rules of Civil Procedure) hanno per la prima volta nel 1983 espressamente riconosciuto il ruolo del giudice inteso a incoraggiare le parti a comporre la lite amichevolmente; in tal senso l'accento nuovo posto sui modi di conduzione della causa (case management) si combina bene con l'orientamento in favore delle soluzioni concordate tra le parti (v. Galanter, 1986, p. 257; v. Garth, 1988, p. 157). Negli Stati Uniti e altrove, comunque, è difficile sapere quanto in realtà i giudici siano attivi nel fungere da conciliatori-mediatori riguardo alle istanze delle parti in lite. Molte cause sono infatti transatte al di fuori delle aule giudiziarie, ossia indipendentemente da quel che fanno i giudici. Ma ciò che è certo è il cambiamento di toni avvenuto in anni recenti. Sicché, quei giudici che si dimostrano attivi nel promuovere una soluzione concordata della lite sono additati e apprezzati per i loro sforzi (v. Galanter, 1986, p. 257). E vi sono oggigiorno giudici che parlano come se l'incoraggiare una composizione amichevole della lite fosse lo scopo principale del loro lavoro.
Parecchie nuove istituzioni sono state altresì create negli ultimi dieci o quindici anni. Di esse, due in particolare hanno attirato una considerevole attenzione e sembrano specialmente orientate nel senso della mediazione. In Francia, a partire dal 1977, ha visto la luce l'istituto del conciliateur, dapprima introdotto dal Ministero di Giustizia in via sperimentale e poi esteso, già l'anno successivo, a tutto il territorio nazionale. I conciliateurs sono giudici in pensione e altri notabili locali, i quali sono competenti a trattare una varietà di casi civili e quelli penali minori, allorquando le parti si rivolgano a essi volontariamente (v. Bellet, 1983, p. 37; v. Bonnart-Pontay, 1983, p. 45; v. Jobert e Rozenblatt, 1981).
Negli Stati Uniti, in quegli stessi anni, il governo federale ha sovvenzionato la creazione di tre neighborhood justice centers sperimentali; istituto, anche questo, che ha trovato successivamente larga diffusione, sebbene il governo federale abbia cessato di essere il principale finanziatore di tale iniziativa. Oggigiorno quasi 200 comunità degli Stati Uniti hanno un centro di questo tipo (v. Riskin e Westbrook, 1987, p. 227). Conciliatori volontari competenti nelle tecniche della mediazione trattano i casi che vengono portati davanti a questi centri. Va solo aggiunto che si tratta di organismi privi di potere coercitivo.
Recenti tentativi di far rivivere vecchi istituti, di ridefinire il ruolo dei giudici e di creare nuove istituzioni al fine di promuovere la conciliazione rispondono a una varietà di motivazioni (v. Harrington e Merry, 1988, p. 709). La spinta verso la conciliazione viene in parte da una ostilità nei riguardi del ricorso alle vie giudiziarie e del conflitto sociale che queste in certa misura riflettono. Questo aspetto del fenomeno richiama un atteggiamento di tipo tradizionalista sull'esempio di quello già visto a proposito dell'istituto della conciliazione nell'esperienza giapponese. Non è insolito, in tal senso, vedere che la conciliazione viene promossa come mezzo per reagire contro lo stato di malessere indicato come litigation crisis, ovvero contro una società 'iperlegalizzata'. Per altro verso, quella spinta proviene in parte pure dal convincimento di tipo efficientistico che il ricorso alle vie giudiziarie non costituisce il modo migliore di risoluzione delle controversie per molte specie di casi. Un convincimento che porta i fautori delle riforme a ritenere che lo Stato dovrebbe prevedere e sostenere meccanismi capaci di facilitare la soluzione concordata delle liti. L'ideale a cui si ispirano questi propositi di riforma consiste nel puntare a rendere ambedue le parti più soddisfatte dell'esito raggiunto per via di conciliazione, e più disposte quindi a conformarsi a una soluzione del genere che non a una decisione imposta autoritativamente (v. McEwen e Maiman, 1984, p. 11). Le liti tra vicini, quelle che sorgono in ambito familiare, nonché le questioni in materia di lavoro sono spesso considerate come suscettibili di essere risolte meglio attraverso la conciliazione che non per via giudiziaria. Come si è detto in precedenza (v. cap. 1), la lite giudiziaria perviene a stabilire chi ha ragione e chi torto secondo i principî del diritto. La conciliazione, invece, può tendere a salvare un rapporto ed elaborare un tipo di sistemazione che valga a fornire una effettiva guida per il futuro. Ancora un'altra ragione della spinta verso la conciliazione si riferisce alla preoccupazione per i costi delle liti giudiziarie, specialmente costi per lo Stato. Può essere possibile, ad esempio, trattare più controversie ed evitare così i costi del ricorso alle vie giudiziarie, mediante la creazione di un sistema tendente a favorire la conciliazione al di fuori delle corti di giustizia. Una tale preoccupazione è particolarmente evidente con riguardo alle liti di modesto ammontare, ma investe anche quelle controversie che pure potrebbero, per il loro valore, essere degne di venire trattate in sede giudiziaria. Così, se i giudici riescono a convincere le parti ad accettare una transazione conciliativa, la procedura giudiziaria può essere chiusa in tempi più brevi e si ottiene una riduzione dei costi sia in termini di spese sostenute dalle parti, sia in termini di tempi impiegati dagli organi di giudizio. Nel complesso, tuttavia, il quadro delle più recenti tendenze (e dei loro possibili riferimenti) rimane piuttosto controverso e il loro grado di successo è difficile da misurare secondo precisi criteri. Le motivazioni di tali tendenze e le loro potenzialità per una buona riuscita potranno essere considerate dopo che saranno state discusse le prassi correnti al riguardo.
Gli studiosi tendono a suddividere la conciliazione o mediazione in diverse fasi. Secondo un libro di testo in uso negli Stati Uniti (v. Riskin e Westbrook, 1987, p. 214) i compiti del mediatore sono cinque: 1) acconsentire a fungere da mediatore, dato che si tratta di una procedura quasi sempre volontaria; 2) comprendere il problema e capire anche come lo vedono le parti in disaccordo; 3) fornire delle possibilità di soluzione alle parti; 4) raggiungere un accordo accettabile; 5) dare esecuzione all'accordo.I mediatori ritengono in prevalenza di dover rimanere neutrali per tutto il corso del procedimento: "Un mediatore è una persona che è tenuta a mantenere una posizione neutrale. Tale posizione permette di rendere efficace sia il processo di mediazione che l'operato del mediatore. La posizione neutrale fornisce al mediatore la possibilità di operare in base a principî e non per opportunismo" (v. Stulberg, 1981, p. 85). Uno studio recente ha rilevato come i mediatori di maggior successo "cercano di sospendere il giudizio mentre indagano e ascoltano" (v. Harrington e Merry, 1988, p. 729).
Nella gran parte dei casi, i mediatori sottolineano come si tratti di un processo fondato sulla riservatezza: "La mediazione ottiene i risultati migliori se si attua in un'atmosfera di discussione libera e aperta. Per avere una situazione di questo tipo è necessario garantire che le informazioni ottenute durante la mediazione non trapelino né all'interno della sede di giudizio né al suo esterno" (v. Riskin e Westbrook, 1987, p. 247). Molti degli studi sulla mediazione sottolineano l'importanza della creatività sia nella fase di indagine riguardante gli interessi delle parti, sia nella ricerca delle possibili soluzioni. Un mediatore efficace deve aprire delle possibilità che le parti possono non aver intravisto e tali da dare a ognuna delle due modo di ottenere ciò che le sta più a cuore (v. Menkel-Meadow, 1984, p. 754): ad esempio uno dei contendenti può essere interessato più ai tempi entro cui ottenere un risarcimento che al suo ammontare, o a un certo atto piuttosto che ai suoi dettagli specifici. Il mediatore pertanto ascolta, cerca di capire che cosa ognuna delle due parti ha realmente a cuore o che cosa è disposta ad accettare, e quindi le guida verso un accordo. Il mediatore non deve prender posizione o favorire determinati interessi, ma deve aiutare le parti a raggiungere una soluzione accettabile. I mediatori possono trattare con le parti prese singolarmente o insieme, a seconda delle circostanze e del loro atteggiamento. Nel cercare una soluzione, il mediatore deve rendere chiari i costi e i benefici connessi a ognuna delle alternative possibili, compresa quella di rinunciare al tentativo di conciliazione. È chiaro che mediatori diversi possono sottolineare l'importanza di costi e benefici diversi, ma è utile ricordare alcuni dei fattori che il mediatore può ritenere giusto mettere in chiaro con le parti. Uno di tali benefici è quello di mantenere un rapporto esistente, quale quello datore di lavoro-dipendente, o padrone di casa-inquilino; le parti, infatti, saranno disposte a fare maggiori concessioni se vogliono davvero che tale rapporto non si interrompa. Un altro beneficio è quello della tranquillità che deriva dall'interruzione del conflitto, il che permette alle parti di dedicarsi ad altro. La fine della lite permette diversi tipi di risparmio. Uno è quello relativo alle spese necessarie per risolvere la lite in altro modo, e specialmente tramite il ricorso alle vie giudiziarie che richiede anche maggior tempo, dati i ritardi che caratterizzano il sistema giudiziario in gran parte del mondo. Oltretutto il risultato di una lite giudiziaria è incerto, e può anche non risultare gradito alle parti.
Come vedremo in seguito, il mediatore può anche far notare a quella parte che non sembra disposta ad arrivare a un accordo come la sua posizione risulterebbe particolarmente debole se si dovesse andare in giudizio; cioè può utilizzare la sua competenza in materia giuridica per mandare a buon fine il processo di conciliazione. Quando è un giudice ad assumere il ruolo di mediatore in un caso già portato in giudizio, è frequente che egli faccia riferimento alle spese che la lite giudiziaria comporta e ai suoi possibili esiti. Secondo un recente studio effettuato negli Stati Uniti, ad esempio, la tecnica più efficace utilizzata da un giudice federale per arrivare a un accordo è stata quella di dare a ognuna delle parti la sua "opinione informata" su quali erano i suoi punti deboli e su quale gli sembrava un accordo ragionevole (v. Brazil, 1985, p. 85). I mediatori, cioè, possono talvolta cercare di valutare i potenziali esiti anche in relazione a ciò che potrebbe verosimilmente accadere in giudizio.
È difficile valutare il fenomeno della mediazione o conciliazione in termini astratti. Per cominciare, dovrebbe essere chiaro che la qualità di un simile procedimento dipende dal tempo che viene dedicato a ricercare una soluzione accettabile. La conciliazione può avvenire in tempi brevi, ma una soluzione ideale può invece richiedere un esame molto attento di tutte le questioni implicate nella controversia di specie, nonché un'ampia indagine relativa alle possibili soluzioni, e un lungo periodo di discussione al fine di persuadere le parti che una determinata soluzione è quella accettabile per entrambe. Il procedimento giudiziario o quello arbitrale possono essere più lenti; tuttavia il giudice o l'arbitro hanno il vantaggio di poterne accelerare il corso in quanto possono emettere una decisione, non già sulla base di un accertamento pieno dei fatti di specie, ma piuttosto in base all'applicazione di principî giuridici relativi ai fatti giuridicamente rilevanti. La conciliazione può finire con l'essere, in pratica, più costosa di altre forme di risoluzione delle liti, e infatti alcuni studi sul campo sembrano confermare questa conclusione (v., ad esempio, Felstiner e Williams, 1980). La conciliazione viene così, spesso, promossa sul presupposto che essa sia meno costosa, laddove il suo costo effettivo può non essere, invece, minore di quello del ricorso alle vie giudiziarie.
C'è poi da osservare che un conciliatore o mediatore frettoloso o troppo occupato può trovare il modo di evitare di dedicare molto tempo allo studio dei casi a lui sottoposti. Un modo, ad esempio, consiste nel forzare la mano alle parti perché si accordino. Secondo uno studio recente, effettuato negli Stati Uniti, i mediatori possono essere classificati in due gruppi: 'patteggiatori' (bargainers) e 'terapeuti' (therapists) (v. Silbey e Merry, 1986, p. 7). I primi sono coloro che si limitano a trovare una soluzione buona per essere venduta alle parti; i secondi, al contrario, cercano di esplorare a fondo l'intera gamma delle questioni sottese a una determinata controversia. Il tipo di intervento svolto dai primi può essere tirato in lungo oppure risolto molto sbrigativamente. Un modo sbrigativo di patteggiare consiste nell'indurre le parti ad accettare una 'soluzione' che semplicemente taglia a metà ragioni e torti delle parti: una soluzione, naturalmente, che può non essere quella più appropriata. Una delle parti, infatti, potrebbe essere in posizione di maggior forza rispetto all'altra e, comunque, non essere disposta a fare rapidamente delle concessioni rilevanti. Mentre la parte in posizione di maggiore debolezza può essere indotta a seguire la proposta del mediatore e quindi dichiararsi disposta a fare delle concessioni importanti pur di raggiungere presto un accordo risolutivo. Un veloce patteggiamento, dunque, non soltanto può far disperdere i vantaggi insiti nell'approccio cosiddetto 'terapeutico', basato cioè su un'attenta raccolta di informazioni, ma può anche far aumentare le probabilità che la parte più forte tragga dalla mediazione un risultato migliore. Beninteso, solo uno studio dettagliato sul campo può mostrare come in realtà il procedimento di mediazione operi in un determinato contesto.
D'altro canto, una mediazione svolta in maniera superficiale non sempre si fonda soltanto su un approccio inteso a favorire un rapido patteggiamento della soluzione. Essa può altresì basarsi sulle nozioni di diritto del mediatore e su una previsione dell'esito probabile della lite, se questa fosse trattata in sede giudiziaria. Così, ad esempio, un consumatore che presenti un reclamo riguardo a un particolare prodotto, può richiedere la mediazione. Il mediatore può però far presente al venditore e allo stesso consumatore che la questione riguardante la qualità del bene è probabilmente oggetto di una specifica garanzia o è di competenza delle leggi a protezione dei consumatori; ma il mediatore può non avere l'esperienza sufficiente per dare in modo accurato un avvertimento del genere (v. Macaulay, 1979, p. 115). Al più, un mediatore orientato in senso legalistico può forzare la mano alle parti perché accettino una soluzione che assomigli molto a quello che potrebbe essere il probabile esito della lite in sede giudiziaria. L'ideale di un giudice attivo, proposto dal Codice di procedura civile austriaco, mirava a indurre le parti a un componimento amichevole conforme alla realizzazione dei loro diritti soggettivi (v. Homberger, 1970, pp. 9 e 25). In tal modo il procedimento di mediazione viene a rispecchiare il procedimento giudiziario, sebbene condotto in modo differente. Può ben accadere, comunque, che in casi di questo tipo le parti riescano a ottenere solamente una giustizia di seconda classe, cioè un'approssimazione alla buona di quello che sarebbe stato l'esito della lite in conformità dei principî di diritto (e in certa misura il sistema giapponese ha cercato di muoversi in questa direzione: v. Taniguchi, 1983, p. 113). La nota critica del Bentham alla conciliazione puntava precisamente a mettere in evidenza questo aspetto. Se il problema è costituito da un processo civile lento e complesso, egli sosteneva, allora è compito del legislatore correggere il difetto, non favorire una giustizia di seconda classe (v. Scamuzzi, 1896, p. 78).
Nella misura in cui, viceversa, la conciliazione offre una chiara alternativa, secondo l'approccio che è stato detto terapeutico, e non già una giustizia di seconda classe, i principî del diritto restano fuori del procedimento relativo. Le voci di critica, inclusa quella del Bentham, hanno a lungo dibattuto se un simile approccio può considerarsi appropriato o deve invece ritenersi 'ingiusto'. Alcuni sostengono, in particolare, che quando le parti hanno un diverso potere negoziale ed esistono indirizzi di politica del diritto tendenti a ripristinare l'equilibrio delle posizioni, la conciliazione non dovrebbe abbandonare tali indirizzi in favore dell'approccio suddetto mirante a soddisfare le parti. La questione, infatti, è se un senso di maggiore compiacimento delle parti per la soluzione raggiunta sia più importante della tutela in linea di principio di diritti individuali; questione che continua a essere dibattuta tra i giuristi (v. Luban, 1989, p. 381).
Il ceto forense, è appena il caso di ricordare, storicamente ha cercato di opporsi a qualunque approccio, per quanto concerne la risoluzione delle liti, che fosse poco rispettoso dei principî giuridici. Va però aggiunto che questo atteggiamento si basa talvolta su una percezione non del tutto esatta di quella che è la fenomenologia giuridica. Chi si rivolge a un legale per trovare in lui il difensore di una determinata posizione di rilevanza giuridica può non ottenere che venga fatta un'attenta analisi dei dettagli della legge in relazione al suo caso. Infatti, nella misura in cui il diritto è altamente tecnico e il valore della controversia basso, diviene irrealistico aspettarsi che il legale dedichi molto del suo tempo all'esame del caso di specie. Un significativo studio apparso negli Stati Uniti in merito al comportamento professionale dei legali nel settore delle leggi a protezione del consumatore, con riferimento allo Stato del Wisconsin, ha accertato che i legali tendono a difendere i propri clienti principalmente chiedendo alla controparte di giungere a un compromesso, che quasi niente può avere a che spartire con gli obiettivi della tutela dei consumatori stabilita dalla legge (v. Macaulay, 1979). Vale a dire: i legali agiscono più in veste di mediatori, disinformati circa le leggi in materia, che in quella di difensori accaniti dei diritti dei loro clienti. Ma coloro che criticano l'istituto della mediazione lamentando la scarsa considerazione prestata dai mediatori ai diritti soggettivi, non dovrebbero presumere che il fatto di rivolgersi a un legale sia di per sé garanzia di ottenere un procedimento più giuridicizzato, come essi vorrebbero.
Le osservazioni che precedono, riguardo ai procedimenti complessivamente etichettati come mediazione o conciliazione, pongono l'accento sui risultati di tali procedimenti. Ma un altro motivo di riflessione che si trova spesso affrontato dalla letteratura sull'argomento è costituito dal fatto che il ricorso alla mediazione o conciliazione può non essere frutto di una scelta volontaria per una larga parte di soggetti interessati. Come si è detto prima, l'ideale sarebbe che le parti consentissero liberamente alla mediazione e che esse altrettanto liberamente si inducessero ad accettare una determinata soluzione. In effetti, alcuni degli enti che svolgono opera di mediazione si attengono strettamente a questi principî.
Peraltro molti, compresi i conciliateurs francesi e i neighborhood justice centers americani, hanno trovato difficoltà nella realizzazione di tale ideale, dal momento che le parti che scelgono liberamente di ricorrere ai loro servizi sono insufficienti, da sole, a produrre un numero di casi che giustifichi il mantenimento di tali uffici (v. Harrington e Merry, 1988, p. 721; v. Jobert e Rozenblatt, 1981, pp. 47 e 49). Ad esempio i neighborhood justice centers, sorti in via sperimentale negli Stati Uniti, hanno cercato sempre più di attirare potenziali clienti. All'uopo si sono sviluppate strette relazioni con i sistemi locali di giustizia penale, di guisa che tali centri possono contare sull'invio ad essi di quei casi che il prosecutor o lo stesso giudice ritiene particolarmente adatti alla mediazione. Naturalmente, i casi rimessi ai centri sono di solito casi di minore importanza, nei quali avrebbe potuto essere avviata azione penale. Il giudice o il prosecutor sollecita o persino costringe le parti interessate ad andare in uno di questi centri come un modo per evitare l'instaurazione di un procedimento penale.
Due questioni sono state sollevate a proposito di una simile prassi, consistente nel rinvio forzato davanti ai neighborhood justice centers, che ha fornito il maggior numero dei casi trattati dai centri stessi. La prima è che una prassi del genere appare in contrasto con l'ideale della mediazione in quanto sistema di risoluzione delle controversie liberamente scelto dalle parti. Il fatto di costringere un potenziale imputato ad accettare l'intervento di un mediatore può inquinare il relativo procedimento. Il soggetto in questione, il potenziale imputato cioè, può sentirsi infatti costretto ad accettare qualunque proposta del mediatore per paura di incorrere, altrimenti, in un procedimento penale. A motivo di ciò parecchi studiosi hanno condannato questa prassi; altri ritengono invece che un efficace servizio di mediazione può offrire risultati migliori di quanto possa fare il sistema di giustizia penale. D'altro canto, i soggetti interessati possono sempre rifiutarsi di accettare la soluzione proposta, qualora la sentano inadeguata, sicché le parti sono in ogni caso in una posizione migliore di quanto sarebbero se non fossero state rinviate dinanzi a un mediatore. Un approfondito studio dei diversi programmi di mediazione seguiti negli Stati Uniti ha dimostrato l'esistenza di un netto orientamento in favore di questo secondo modo di guardare al fenomeno: "Il termine consenso viene a essere ridefinito passando dal significato di volontaria decisione di partecipare a quello di procedimento consensuale di risoluzione di una controversia, la partecipazione al quale è stata comandata" (v. Harrington e Merry, 1988, p. 721).
Una coercizione può essere esercitata in molti modi. Un sistema di ricorso alle vie giudiziarie che si presenti piuttosto costoso e complesso può indurre le parti a servirsi di qualsiasi altro mezzo disponibile di risoluzione delle controversie. Esse possono volere o non volere la mediazione, ma se questo mezzo è tutto ciò che l'ordinamento è in grado di offrire a un costo ragionevole, allora molte parti si troveranno costrette ad accettarlo come unica realistica alternativa. Le critiche circa le forme di coercizione debbono pertanto tenere in conto la possibilità che il fatto di non rendere il ricorso alle vie giudiziarie accessibile abbia un impatto, desiderato o meno, sulle scelte volontarie che le parti sono in grado di esercitare concretamente.
La seconda critica al fenomeno summenzionato sostiene che, anche se le parti possono ritenersi soddisfatte del procedimento di mediazione al quale siano state costrette a sottomettersi, nondimeno la prassi del rinvio forzato a tale procedimento risulta pericolosa (v. Hofrichter, 1987). Alcuni osservatori notano che in taluni casi i neighborhood justice centers o istituzioni analoghe rappresentano l'unica opportunità di affrontare certe imputazioni, in quanto le limitate possibilità del sistema di giustizia penale non consentono di fare ricorso ai meccanismi di giustizia formale per ogni caso di imputazione; sicché l'intervento di tali centri e istituzioni ha per effetto di espandere le possibilità di controllo sociale da parte dello Stato (ibid.). In questo modo, grazie all'opera dei neighborhood justice centers, vengono assoggettati a un sistema di controllo anche individui che altrimenti verrebbero lasciati fuori del sistema formale di giustizia. Essi vengono così deferiti a istituzioni che più o meno li costringono a conformarsi alle norme prodotte dall'ordinamento in generale.
Questa seconda critica risulta di difficile valutazione. Vi sono in realtà molti modi, formali e non, in cui i meccanismi di controllo sociale dello Stato raggiungono individui il cui comportamento sia ritenuto problematico. Le denunce di carattere penale possono infatti dare luogo a diversi tipi di interventi, al di là dell'attivazione di un procedimento penale o dell'eventuale proscioglimento. Un recente studio statunitense ha dimostrato che i funzionari addetti presso le corti di giustizia penale agiscono "sia come 'guardaportone', tenendo ciò che non ha rilevanza giuridica fuori delle aule di giustizia, sia come 'tutori della pace' " (v. Yngvesson, 1988, p. 411). Non è chiaro se i neighborhood justice centers abbiano accresciuto in maniera significativa la sfera del controllo sociale o se essi abbiano semplicemente determinato uno spostamento degli individui nell'ambito di un diverso e più formalizzato procedimento (ibid.). Ma la critica così sollevata pone in evidenza un aspetto che i fautori di una più ampia rete di istituti destinati alla mediazione devono prendere in considerazione, e cioè che una tale rete può valere, nel bene o nel male, a estendere l'area di intervento dello Stato.
Il lato positivo della conciliazione è stato ben descritto in un saggio di Lorenzo Scamuzzi, dove si legge: "Tutti i filosofi moralisti, cominciando da Platone, che ottima ravvisava quella repubblica in cui le liti fossero pochissime e brevissime, hanno sempre raccomandato la conciliazione, la quale sostituisce all'ira la mansuetudine, all'odio l'amore, all'irrequietezza la tranquillità, alle scissure la pace e la concordia dei cittadini e delle famiglie, alle lotte intestine l'ordine e il benessere sociale" (v. Scamuzzi, 1896, p. 38).
Sia durante i periodi di trasformazione sociale che in quelli reazionari la conciliazione richiama l'interesse dei riformatori. Oggigiorno esiste un dibattito molto acceso in gran parte del mondo circa il ruolo e le potenzialità di forme istituzionali di conciliazione. Le principali critiche al riguardo sono state esaminate in precedenza, e in larga misura gli esempi storici confermano tali critiche. Una conciliazione obbligatoria, ad esempio, ha dato origine storicamente a dei problemi; d'altro canto, senza una qualche obbligatorietà, la conciliazione su base puramente volontaria ha attirato un numero relativamente basso di volontari. Il numero di casi trattati è stato poco rilevante, portando al declino degli istituti di conciliazione. La conciliazione obbligatoria, comunque, non sempre appare conformarsi agli ideali del relativo procedimento. Essa ha spesso finito per assomigliare al procedimento giudiziario, suscitando quelle critiche secondo le quali, come dice Bentham, la conciliazione amministra una giustizia di seconda classe.
Il punto di maggiore contrasto nei dibattiti dottrinali resta l'importanza da assegnare al diritto in sede di conciliazione, allorquando siano in gioco diritti individuali. L'approccio cosiddetto terapeutico sembra respingere l'uso del diritto come un ostacolo al raggiungimento di un accordo pieno tra le parti, ma i giuristi non possono non domandarsi se non sia per definizione ingiusto chiedere a taluno di rinunciare ai propri diritti. Il dibattito in proposito non può essere qui esaurito, e certamente continuerà a riproporsi. Esso investe la conduzione del procedimento, la valutazione dei suoi esiti, e persino il tipo di istruzione delle persone che guidano la conciliazione.
L'aspetto chiave che è necessario, comunque, tenere presente per comprendere la conciliazione è che tutte le questioni e critiche ad essa relative non possono essere affrontate in termini astratti. Istituti classificati sotto l'etichetta della conciliazione possono, a ben vedere, essere assimilati piuttosto ai meccanismi della giustizia ordinaria. Essi possono offrire assistenza legale; avvicinarsi nei risultati a quelli prodotti dai meccanismi giudiziari; imporre dei compromessi simili a quelli arbitrali. Oppure possono dar luogo a un'esplorazione profonda, anche di ordine psicologico, delle questioni in esame e a una discussione di tipo terapeutico. Problemi quale quello della natura volontaria della conciliazione, inoltre, possono sollevare la questione di quali altre alternative siano disponibili e delle modalità del loro funzionamento. Da ultimo, la lite giudiziaria, nella quale si invoca il potere di coercizione dello Stato, non è sempre in rigido contrasto con la conciliazione o mediazione. Questa osservazione appare ovvia quando sono i giudici stessi a operare in funzione di mediatori; ma è altresì vero che i legali di parte possono mediare nei rapporti con i loro clienti, e così pure i funzionari delle corti e gli organi di polizia possono agire da mediatori, allorquando essi filtrano le denunce o si adoprano per 'mantenere la pace'. Non è pertanto realmente possibile dichiararsi favorevoli o contrari alla conciliazione: essa è un procedimento che ha molto da offrire, e idealmente aggiunge una dimensione nuova e promette soluzioni molto soddisfacenti delle controversie. Ma solo una attenta valutazione ci può dire se questi ideali sono realizzati in qualcosa che può definirsi come conciliazione, oppure in qualcosa che può essere invece definito con un'etichetta molto diversa. (V. anche Arbitrato; Giustizia, accesso alla; Processo).
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