Concordato con continuità aziendale
L’intervento riformatore che nel 2012 ha interessato la legge fallimentare e la legislazione collegata espone la finalità ispiratrice (di adeguare le regole sulla crisi d’impresa alle difficoltà economiche del momento) soprattutto nella figura di nuovo conio del concordato con continuità aziendale. Questo contributo ne esamina i profili generali, cercando di indagare – sotto il profilo strutturale – i confini della figura, e – sotto il profilo funzionale – il ruolo in essa ricoperto dal professionista attentatore e dal tribunale fallimentare. Restano così evidenziati da un lato il cardine strutturale dell’istituto, dato dal piano aziendale di continuità dell’attività d’impresa; e dall’altro il condizionamento di questo tipo di concordato alla finalità (assicurata dall’intervento dell’attestatore e del tribunale) del migliore soddisfacimento dei creditori concorsuali; rispetto al quale obbiettivo ogni altro, pur conseguibile (elettivamente, la salvaguardia dei livelli occupazionali), si colloca in secondo piano.
La disciplina del concordato con continuità aziendale, stabilita nell’art. 186 bis l. fall., presenta diversi profili di interesse, corrispondenti ai diversi livelli di complessità giuridica secondo i quali la disposizione è stratificata.
L’oggetto di disciplina è tutt’altro che nuovo, trattandosi di una figura di concordato praticata nei tribunali. La ricorrenza di questa tipologia di concordato è tuttavia assai minore rispetto a quella di schemi alternativi, quali il concordato liquidatorio. Come è noto, la diffusione di questi ultimi è favorita, nella prassi, non solo da una maggiore semplicità di costruzione ma anche dalla impossibilità, nel caso concreto, di una soluzione alternativa alla cessazione dell’attività e alla liquidazione di quel che rimane del patrimonio aziendale. Su questo dato, il provvedimento in cui è ricompreso l’art. 186 bis l. fall., il cd. “decreto sviluppo” (d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. con modifiche in l. 7.8.2012, n. 134), illumina sulla scelta di politica del diritto – estremamente opportuna ai tempi della crisi economica – intesa a valorizzare il concordato con continuità aziendale nell’intento di promuovere la conservazione delle imprese sul mercato.
Tuttavia, come normalmente accade, la ricomprensione di un concetto in una descrizione normativa determina sempre una puntualizzazione semantica e quindi l’emersione di alcuni soltanto dei possibili profili che prima, e in astratto, erano riferibili al concetto medesimo; e magari l’aggiunta di altri profili prima sconosciuti.
Va inoltre segnalato che, per una ulteriore conseguenza di disciplina, i meccanismi di funzionamento dell’istituto determinano un riassestamento di ruoli e poteri tra i soggetti che vengono in considerazione. Qui ad assumere evidenza è la figura del professionista che attesta il piano concordatario.
Sempre in generale, può osservarsi che il nostro istituto da un lato conferma e dall’altro puntualizza la finalità del concordato preventivo: che è sempre e comunque il soddisfacimento dei creditori.
Infine, pure importante è osservare come nella legislazione corrente vadano a comporsi questioni di natura aziendale con questioni giuridiche: secondo percorsi che potremmo definire usuali, ancorché non sempre avvertiti e posti in risalto dalla riflessione scientifica in una materia come il diritto della crisi di impresa. E come nel nostro caso questioni aziendali e regole giuridiche si pongano in un rapporto esaltato dalla natura stessa dell’istituto: il concordato su una impresa in attività e che vuole conservarsi tale nel corso della procedura.
È considerato in continuità aziendale il concordato strutturato sopra un piano aziendale che prevede la prosecuzione della attività di impresa. L’istituto è qualificato non dalla domanda di concordato ma dal piano concordatario. Non rileva l’offerta ai creditori (che rimane solo secondariamente condizionata), ma la modalità adempitiva di quella offerta: che qui presuppone la prosecuzione dell’attività. Ecco allora che l’art. 186 bis l. fall. si mostra nel suo oggettivo interesse: per non riguardare l’obbligazione inadempiuta o la modalità decisoria sulla stessa (ossia la deliberazione concordataria) ma qualcosa di altro: il piano aziendale di superamento della crisi di impresa strumentalizzato al recupero della solvenza del debitore (così posto in condizione di onorare l’offerta che egli ritiene di formulare ai propri creditori).
Nella esemplificazione legislativa, è ricompresa qualsiasi ipotesi di conservazione della impresa in attività sotto il perdurante governo del debitore, oppure attraverso la cessione dell’azienda a terzi o, infine, per mezzo del conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società appositamente costituite.
Si precisa che il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio della impresa. L’ovvietà è nondimeno costruttiva, in quanto utile a discriminare la liquidazione come modalità assorbente del concordato dalla liquidazione compatibile con il piano aziendale in continuità: che è unicamente la liquidazione di ciò che, rispetto a quella prosecuzione, non si rivela funzionale. Di modo che, quando la liquidazione dovesse coinvolgere asset funzionalizzabili, il concordato non potrebbe ritenersi esclusivamente in continuità, ma anche di liquidazione.
La norma di riferimento sulla continuità aziendale è data dall’art. 27 d.lgs. 8.7.1999, n. 270, sulla amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi; essa costituisce una prospettiva significativa da cui guardare alla regolamentazione in esame. Per questa disposizione, le imprese dichiarate insolventi a norma del precedente art. 3 sono ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria quando presentino concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali. Alla dichiarazione di insolvenza non segue l’ammissione alla procedura; per questo risultato si richiede un nuovo e diverso giudizio, concernente la risanabilità economica dell’impresa. L’istruttoria per tale secondo giudizio si conduce nel cd. “periodo di osservazione” durante il quale il commissario giudiziale potrà svolgere il suo lavoro proprio al fine di fornire al tribunale gli elementi necessari per decidere.
In realtà, la dottrina si è interrogata sul rapporto intercorrente tra giudizio di insolvenza e successivo giudizio di risanabilità, giungendo in primo luogo ad affermare la sussistenza di un autonomo e specifico concetto di insolvenza rilevante nella fattispecie in esame e, in secondo luogo, ad opinare dei vincoli decisori relativi alla risanabilità già operativi nel giudizio sulla insolvenza: nel senso che il tribunale dovrebbe dichiarare non l’insolvenza ma il fallimento qualora si avvedesse di una condizione di irrecuperabilità manifesta dell’equilibrio economico dell’impresa. Entrambi gli spunti interpretativi non hanno avuto seguito. Il primo, perché diretto a stabilire confini interni ad un concetto per sua natura altamente problematico quale è quello di “insolvenza”. Il secondo, perché volto a condizionare la preliminare fase di osservazione ad una decisione del tribunale estesa anche a profili fatti legalmente oggetto di uno scrutinio successivo.
Opinioni così scarsamente condivisibili possono essere comprese considerando gli interessi coinvolti nella procedura: ed è per questa ragione che meritano menzione in questo contributo.
Opinare una fattispecie di insolvenza “reversibile” o comunque non definitiva e perciò concettualmente non incompatibile con una idea di “risanamento economico” è un modo come un altro di porre in rilievo l’interesse dei creditori, limitando il rimedio della amministrazione straordinaria alle imprese effettivamente risanabili. Allo stesso obiettivo è pure diretta l’opinione che include nel giudizio sulla insolvenza anche il vaglio sulla risanabilità.
E in effetti, se dalla generale indicazione sulle concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico quale condizione per l’ammissione alla procedura si trascorre a considerare i percorsi legalmente stabiliti per l’obiettivo, ci si avvede che la severità della condizione è solo apparente. Basterà dire che il recupero dell’equilibrio economico può conseguirsi, alternativamente, attraverso un programma di ristrutturazione dell’attività o anche attraverso un programma di cessione dei complessi aziendali (cfr. art. 27, co. 2, d.lgs. n. 270/1999). Per questa equivalenza, quando non sia da escludersi la possibilità della cessione può pure ritenersi sussistente la possibilità di un recupero dell’equilibrio economico; in tal modo il giudizio sull’ammissione alla procedura assumerebbe nella maggior parte dei casi un esito scontato, vanificando in concreto la portata dell’innovazione legislativa.
In conclusione, la preoccupazione di sensibilizzare la procedura all’interesse dei creditori – così da ridurre la particolarità dell’amministrazione straordinaria rispetto al diritto ordinario della crisi d’impresa – appare più declamata che reale; l’interesse dei creditori resta subordinato agli interessi, magari configgenti, connessi alla continuazione dell’attività aziendale.
Su questo abbrivio può condursi un breve esame degli effetti della procedura sugli interessi dei creditori e sui contratti in corso di esecuzione.
2.1 Risanamento dell’impresa e interesse dei creditori
Nella disciplina dell’amministrazione straordinaria la condizione di apertura della procedura non tiene in conto l’interesse dei creditori, ma esclusivamente la praticabilità del risanamento. Appurata la concretezza della prospettiva recuperatoria dell’equilibrio economico nessun vaglio ulteriore è previsto; in particolare, non è previsto che si valuti l’incidenza della procedura sui diritti dei creditori. Dunque, la via del risanamento possibile non è ostacolata dal pregiudizio che potrebbe così arrecarsi all’interesse dei creditori. E infatti, a differenza del diritto ordinario della crisi d’impresa, non si rinvengono disposizioni che inibiscano la prosecuzione dell’attività in pregiudizio dei creditori; cfr. invece gli artt. 104 l. fall. (sulla tutela dell’organizzazione d’impresa ma solo compatibilmente con l’interesse dei creditori) e 104 bis, co. 1, l. fall. (sull’affitto di azienda esclusivamente «al fine di una più proficua vendita»).
Così non è nel caso del concordato in continuità, dove la generale attenzione all’interesse creditorio promossa nella legge fallimentare è appositamente ribadita in due regole dedicate: la prima (art. 186 bis, co. 2, lett. a) sulla relazione del professionista, nella quale deve attestarsi che la prosecuzione dell’attività di impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; la seconda (art. 186 bis, co. 5) sulla dichiarazione di improcedibilità del concordato, a cui il tribunale deve attendere ogni qual volta la prosecuzione dell’attività d’impresa risulti manifestamente dannosa per i creditori.
Diviene allora interessante interrogarsi sul concetto di ‘risanamento dell’impresa’ per come affermatosi nell’esperienza dell’amministrazione straordinaria, onde verificarne l’utilizzabilità anche nel concordato in continuità.
Dispone l’art. 27 d.lgs. n. 270/1999 che la ristrutturazione può conseguirsi, in via alternativa, tramite la cessione dei complessi aziendali sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno (cd. “programma di cessione dei complessi aziendali”) o tramite la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa sulla base di un programma di risanamento di durata non superiore a due anni (cd. “programma di ristrutturazione”). Con riguardo al programma di cessione, a seguito del d.l. 28.8.2008, n. 134, conv. in l. 27.10.2008, n. 166, va aggiunto che per le società operanti nei servizi pubblici essenziali la cessione può riguardare complessi di beni e contratti sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno (cd. “programma di cessione di complessi di beni o contratti”). Tali indicazioni vanno completate con il richiamo al precedente art. 1 che fissa, per l’obiettivo della conservazione del patrimonio produttivo, le possibili vie della prosecuzione, della riattivazione e della riconversione delle attività.
Dall’ampio spettro delle finalità di legge, mentre appare fortemente ridimensionata – giacché nemmeno espressamente citata – la tutela dei creditori, nemmeno risulta ben definita la superiore finalità della conservazione dell’impresa. Quest’ultima appare infatti perseguibile sia per mezzo della ristrutturazione nei termini di un effettivo risanamento economico dell’impresa con conseguente soddisfazione dei creditori, sia attraverso la cessione dei complessi aziendali a terzi, o anche con la cessione di complessi di beni e contratti, con soddisfazione dei creditori nei limiti dell’attivo ricavato.
Per questa duplice possibilità, la ristrutturazione dell’impresa non appare coincidere con un effettivo risanamento della stessa: tale risultato è infatti implicato solo dalla ristrutturazione economica e finanziaria, e dunque dal ritorno in bonis dell’imprenditore, ma non anche dalla semplice cessione dei complessi aziendali a soggetti terzi. Una riconduzione ad unità del complesso finalismo ora descritto potrebbe aversi soltanto concependo la via della cessione dei complessi aziendali nell’ambito della più generale finalità del risanamento aziendale; perciò affermando che nello spazio della procedura di amministrazione straordinaria dovrebbe comunque realizzarsi il risanamento economico dell’impresa, a cui potrebbe conseguire o la restituzione della stessa all’imprenditore oppure la sua cessione a terzi.
Una simile opinione sarebbe però difficilmente sostenibile alla luce del dettato legislativo, che non condiziona in alcun modo la cessione dei complessi aziendali alla risanabilità dell’impresa, ma pone la cessione stessa come modalità di risanamento. Il che ben si inscrive nella generale finalità dell’art. 1 della legge: la conservazione del patrimonio produttivo, ossia dell’impresa, e non il risanamento della stessa.
L’esperienza applicativa ha ampliamente dimostrato come la finalità della procedura sia assicurata anche dalla mera cessione dei complessi aziendali, a prescindere dal risanamento economico dell’impresa: e infatti la quasi totalità delle procedure è stata definita attraverso programmi non di risanamento ma di cessione. Del resto, la severa opinione sulla amministrazione come procedura di risanamento economico dell’impresa vanifica alla radice lo scopo della legge: che si è visto essere di conservare le attività e non di far superare ai grandi imprenditori lo stato di insolvenza in cui sono precipitati. In altri termini, la separazione concettuale tra imprenditore e impresa aiuta a comprendere la normativa in esame come destinata non al primo ma alla seconda; come indifferente alle sorti del primo perché preoccupata delle sorti della seconda.
Questa acquisizione concettuale è alla base dell’art. 186 bis l. fall., dove la continuità aziendale è disancorata dal risanamento economico. L’inclusione può allora estendersi anche alle conclusioni sullo stato di insolvenza, che può conformarsi astrattamente in qualsiasi forma senza perciò precludere la via della continuità aziendale (realizzabile attraverso la sostituzione dell’imprenditore, e dunque per mezzo della riallocazione dell’azienda in esercizio sul mercato).
Invece, un regime diversificato sembra registrarsi per le imprese inattive ma riattivabili: certamente ricomprese nella previsione in tema di amministrazione straordinaria (cfr. art. 1 d.lgs. n. 270/1999) ma non anche nella figura tipizzata del concordato in continuità (riferita esclusivamente alle imprese in esercizio). Tuttavia, la difficoltà di giustificare una simile differenza, mentre potrebbe indurre a un correttivo in sede di conversione, con ogni probabilità non arginerebbe interpretazioni estensive del disposto che dovesse permanere immutato.
La vera distanza che corre tra le ipotesi di risanamento aziendale nel diritto amministrativo della crisi d’impresa rispetto al diritto ordinario è dunque, ancora una volta, nella diversa considerazione dell’interesse dei creditori. In quest’ultimo la tutela di quell’interesse costituisce infatti la condizione necessaria e sufficiente per l’ammissione alla procedura di concordato, e così pure per la dichiarazione di improcedibilità della stessa.
2.2 I contratti in corso di esecuzione
Nel concordato con continuità aziendale è ripresa la regolamentazione dei contratti in esecuzione, la quale integra essa stessa una importante novità del decreto sviluppo. La novità è dovuta al fatto che in precedenza si riteneva che le differenze sistematiche che corrono tra fallimento (quale procedura a carattere liquidatorio e dissolutivo) e concordato preventivo (quale procedura a carattere satisfattivo e conservativo) non solo escludessero la applicabilità delle regole sui cd. “rapporti pendenti” di cui agli artt. 72 ss. l. fall. al concordato preventivo, ma avvertissero della opportunità di affidare al diritto comune dei contratti ogni questione che dovesse porsi. La finalità satisfattiva e conservativa, si ragionava, non incide negativamente sulla prosecuzione dei contratti, la quale anzi si manifesta nella prassi come evenienza comune e compatibile, se non necessaria, rispetto alla prosecuzione dell’attività d’impresa.
L’innovazione offerta dall’articolo 169 bis l. fall. – volta a rendere più ampia possibile la libertà di determinazione del piano concordatario – è nella facoltà riconosciuta al debitore di sciogliersi dal vincolo contrattuale previa autorizzazione del giudice e pagando all’altro contraente un indennizzo. Ma, se la norma generale rende giustizia di visioni troppo rigide e nette sui caratteri e sulle finalità del concordato preventivo (il quale spesso si risolve in una alternativa meramente liquidatoria al fallimento, ponendo esigenze similari anche in tema di rapporti pendenti), nella regola inserita in tema di concordato in continuità aziendale viene invece in gioco proprio la possibilità che la contrattazione, anziché cessare, si conservi e sia anzi incentivata. Sulla constatazione che un simile esito non possa ragionevolmente essere perseguito utilizzando il diritto comune (attesa la scarsa propensione dei contraenti in bonis a proseguire nel rapporto, e la presenza nei contratti d’impresa di clausole di recesso in caso di insolvenza di una delle parti), si provvede a una disciplina apposita calibrata non soltanto sui contratti tra privati ma anche sui contratti con pubbliche amministrazioni.
Con deciso cambio di prospettiva rispetto al passato si dispone che «i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura. Sono inefficaci eventuali patti contrari».
Circa i contratti pubblici, si precisa che l’ammissione al concordato preventivo non ne impedisce la continuazione se un professionista ne ha attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento. Con riferimento alla partecipazione a gare è poi introdotta una articolata disciplina di favore di cui qui – per ragioni di spazio – non può discorrersi.
Il nuovo istituto presenta molteplici profili problematici di cui è possibile offrire solo una generale panoramica.
3.1 Il piano aziendale
Una riflessione deve essere dedicata alla disciplina del piano, che deve contenere oltre agli usuali requisiti una analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura.
Anche qui, è facile osservare, non usciamo dall’ambito delle usuali attese; e potremmo quasi dire delle elencazioni scontate e per di più non complete (presupponendo la continuità aziendale non soltanto una compatibilità economica e finanziaria dell’operazione, ma anche operazioni diverse determinate dalla specifica strategia di turnaround adottata nel caso). Se non che, la puntualizzazione aiuta a porre mente a come il nostro istituto dipenda per intero dal piano aziendale che lo concretizza. Cosicché, senza piano non può parlarsi di concordato in continuità.
Segnalo – a conferma – una difficoltà della legge. Nell’art. 182 quinquies l. fall. (pure introdotto dal cd. decreto sviluppo) rubricato alle disposizioni in tema di finanziamento e di continuità aziendale nel concordato preventivo (anche liquidatorio) e negli accordi di ristrutturazione, l’importante effetto della prededucibilità di detto finanziamento, deciso dal tribunale, è condizionato da un giudizio dell’attestatore che, verificato il complessivo fabbisogno della impresa sino alla omologazione, deve attestare che tali finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori. Ora è facile osservare che una simile dichiarazione presupporrebbe l’esame del piano concordatario. Tuttavia la norma in esame precisa che l’autorizzazione per la prededuzione può essere chiesta al tribunale anche presentando una semplice domanda di concordato a scopo prenotativo ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., per la quale non è richiesto il deposito del piano. Se tuttavia il piano non è prodotto, l’attestazione non dovrebbe essere rilasciata, e quindi l’effetto della prededuzione non potrebbe essere conseguito. E questo, sia detto per inciso, già avverte della grave e irrisolta problematicità della previsione sulla prenotazione del concordato.
Lo stesso è a dirsi per l’ulteriore previsione dell’ art. 182 quinquies, co. 4, l. fall. sulla autorizzazione al pagamento dei crediti per forniture già realizzate nel concordato con continuità aziendale. Il pagamento presuppone l’attestazione del professionista sulla essenzialità delle prestazioni relative a tali crediti per la prosecuzione della attività di impresa. Ma questa conclusione può raggiungersi solo dopo aver letto il piano relativo a tale prosecuzione, che quindi deve essere disponibile.
3.2 Il ruolo svolto dal professionista attestatore
È stabilito che il professionista attentatore dichiari nella sua relazione che la prosecuzione dell’attività di impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
All’attestatore è in tal modo richiesto un preliminare giudizio di convenienza della scelta sulla continuità aziendale per i creditori. La convenienza è infatti oggetto di giudizio di natura non giuridica ma economica sulla soddisfazione concordataria dei creditori. Usualmente il piano concordatario, concernendo la modalità adempitiva dell’obbligazione del debitore, è riguardato sotto il profilo non della convenienza bensì della realizzabilità (cosiddetta fattibilità); e tale giudizio è richiesto all’attestatore. Disporre che l’attestatore deve esprimere un giudizio sulla continuità aziendale come funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori importa di attribuire al professionista – in aggiunta – un giudizio di convenienza vertente su di un termine inconsueto al riguardo: il piano concordatario.
Il rapporto in cui si pongono in questo giudizio il piano quale oggetto e la convenienza quale criterio può illustrarsi così: il professionista attestatore si esprime non sulla convenienze della offerta ai creditori (che, come chiarito sin dall’inizio, concernendo la proposta di concordato e non il piano concordatario, non rileva nella materia del concordato in continuità) ma sulla convenienza per i creditori che l’impresa permanga in attività.
Il professionista è dunque tenuto a un giudizio sulla efficienza della attività di impresa a contenere il depauperamento conseguente al fenomeno della crisi, scongiurando l’esito di una (ancor più) ridotta possibilità di soddisfacimento dei creditori.
Invece, qualora il termine di riferimento fosse la proposta concordataria, il pagamento di alcuni crediti anteriori – pertanto sottratti al destino del concorso – sarebbe sempre pregiudizievole per gli altri creditori concorsuali.
L’importanza della puntualizzazione si coglie riflettendo che, poiché è in tal modo stabilito per l’attestatore un giudizio che concerne pur sempre la modalità adempitiva del concordato e non l’offerta ai creditori, questi ultimi conservano la sovranità della decisione sulla convenienza del trattamento.
Non può però trascurarsi che il giudizio sul piano si arricchisce di una nuova prospettiva: la convenienza genericamente intesa di una organizzazione della attività preoccupata di conservarne la ricchezza attraverso il permanere, con i necessari accorgimenti del caso, della attività medesima.
3.3 Il pagamento delle fornitura pregresse
L’assunto può ulteriormente essere discusso ponendo mente all’ art. 182 quinquies, co. 4, l. fall. sul pagamento dei crediti per prestazioni di beni e servizi anteriori alla presentazione della domanda di concordato. È previsto che il pagamento di dette prestazioni debba essere autorizzato dal tribunale; e che a tal fine il professionista deve attestare che le prestazioni in oggetto sono essenziali per la continuità aziendale e inoltre funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori.
Un’interpretazione puramente letterale potrebbe indurre l’idea sulla sussistenza di due presupposti (o condizioni) per l’autorizzazione: che il pagamento sia essenziale al going concern (primo presupposto); che esso sia funzionale alla migliore realizzazione dell’interesse degli altri creditori concorsuali al momento impagati (secondo presupposto).
Credo invece che i due presupposti non si pongano sullo stesso piano logico.
In molti casi potrebbe mostrarsi in linea con il miglior soddisfacimento dei creditori anche un giudizio di grande opportunità del pagamento, in se stesso decisivo non per la prosecuzione dell’attività bensì per l’ottimizzazione dei fattori di produzione. In tal caso mentre potrebbe dirsi realizzato il secondo presupposto, dovrebbe ammettersi il contrario con riguardo al primo.
Tuttavia, sarebbe difficile concludere che in tal caso, non essendo essenziale alla prosecuzione dell’attività, il pagamento funzionale al miglior interesse dei creditori non potrebbe essere autorizzato. Una simile opinione si esporrebbe alla difficoltà di giustificare una soluzione non solo contraria al miglior interesse dei creditori ma anche inetta a realizzare un qualsiasi altro interesse.
Minori difficoltà si incontrerebbero a ritenere che ciò che in definitiva conta sia sempre la funzionalità del pagamento al migliore soddisfacimento dei creditori. Se infatti il pagamento si mostra semplicemente essenziale per la prosecuzione dell’attività, non si realizza la condizione per la autorizzazione; se invece si mostra funzionale al miglior soddisfacimento delle pretese creditorie, dovrebbe comunque essere autorizzato, non avendo senso di porsi l’ulteriore questione sulla essenzialità dello stesso per la prosecuzione dell’attività d’impresa (che magari potrebbe realizzarsi anche con il venir meno delle forniture impagate, sia pure con minore efficienza).
Per la soluzione proposta, il miglior soddisfacimento assicurato dal pagamento è quello indirettamente determinato dall’efficientamento dell’attività d’impresa.
3.4 Il controllo del tribunale sulla prosecuzione dell’attività d’impresa nel concordato
È previsto che il tribunale deve provvedere ai sensi dell’art. 173 l. fall. quando nel corso della procedura l’attività di impresa cessa o risulta manifestamente dannosa per i creditori. In ogni caso, il debitore può modificare la proposta di concordato.
La prima ipotesi non solleva questioni di rilievo. La cessazione della attività d’impresa determina la sopravvenuta impossibilità di realizzazione del piano di concordato con continuità aziendale; ne discende l’improseguibilità della procedura per pronuncia del tribunale ai sensi della regola generale dell’art. 173 l. fall.; questo esito può essere scongiurato da un modificazione della proposta di concordato: ossia dalla adozione di una proposta concordataria fondata su di un piano (non di prosecuzione, come il precedente divenuto irrealizzabile, ma) di liquidazione dell’attività cessata.
La seconda ipotesi, diversamente, solleva qualche perplessità.
In particolare si impone allo sguardo lo iato tra questo giudizio di manifesta dannosità del piano di continuazione dell’attività d’impresa ed il presupposto per la dichiarazione di ammissibilità del concordato: mentre quest’ultimo presuppone una attestazione sulla funzionalità del piano di continuità aziendale al miglior soddisfacimento dei creditori, invece una volta ammesso il concordato il tribunale può pronunciare l’improseguibilità della procedura solo quando la prosecuzione si riveli non semplicemente disfunzionale al miglior soddisfacimento dei creditori – come ci si attenderebbe per simmetria con la condizione di ammissibilità – ma allorché si mostri, per di più, manifestamente dannosa per i loro interessi.
La condizione della manifesta dannosità ben si comprende nel finalismo conservativo dell’attività che chiaramente permea l’intero istituto. Nondimeno, la razionalità della figura appare in qualche misura pregiudicata dalla segnalata asimmetria di disciplina giacché il rigore con cui si giudica l’ammissione alla procedura non sembrerebbe ripetuto per il giudizio sulla improseguibilità (condizionata infatti dall’evidenza del danno) .
Spetterà alla prassi di stabilire il calibro tra il giudizio imposto al professionista, ossia che il concordato non si prospetti semplicemente non dannoso per i creditori, bensì funzionale al miglior soddisfacimento delle loro pretese (e dunque, potrebbe dirsi, manifestamente conveniente), e la condizione per il provvedimento del tribunale, ossia che la prosecuzione del programma rechi non semplicemente un danno ai creditori, ma un danno evidente.
Sembra infatti che il legislatore si sia sforzato di porre bene in chiaro sia le condizioni di ammissibilità che le condizione di improseguibilità marcando il rilievo delle une e delle altre imponendone l’evidenza; ma per dire soltanto che il concordato può ammettersi quando sia funzionale all’interesse dei creditori e deve dichiararsi improseguibile quando si riveli disfunzionale a quell’interesse (ossia dannoso): come quando si rafforza con l’avverbio “severamente” il disposto di un semplice divieto nella speranza di indurne maggiormente il rispetto.