Abstract
La procedura di concordato preventivo viene esaminata quanto ai suoi presupposti sostanziali, al piano e alla proposta su cui si fonda, ovvero alla mera domanda ‘in bianco’, alla relativa valutazione giudiziale ai fini dell’ammissione alla procedura e agli effetti immediati che conseguono alla sua apertura.
La tensione fra un’impresa commerciale in crisi e i suoi creditori può trovare soluzioni diverse da quella che, con l’avverarsi dello stato di insolvenza, si impone con l’apertura di una procedura fallimentare. A parte gli accordi stragiudiziali, i percorsi giudiziali alternativi a quello fallimentare possono essere il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Il primo dei due costituisce, al pari del fallimento, una procedura concorsuale giudiziale.
Attraverso di essa un imprenditore in crisi ha la possibilità, senza perdere il potere di gestire la sua impresa e godendo di una moratoria sui debiti esistenti, di formulare ai suoi creditori una proposta per il soddisfacimento, sia pur parziale o differito, dei loro diritti. La proposta, se regolarmente accettata dalla maggioranza dei creditori e conseguentemente omologata dal tribunale, limiterà i debiti dell’imprenditore a quanto in essa promesso, con conseguente liberazione, anche verso i creditori che non abbiano assentito alla proposta stessa, da ogni altro debito precedente.
Funzione del concordato preventivo è quella di pervenire a una «ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori», pur potendosi per tal via realizzare anche obiettivi ulteriori e complementari, come la conservazione del complesso aziendale e dei livelli occupazionali.
L’obiettivo di soddisfare i creditori, comune anche alla procedura fallimentare, consente inoltre di apprezzare come il concordato preventivo possa rappresentarne un’alternativa: anche dal punto di vista dei presupposti (Fallimento. Presupposti) delle due procedure, infatti, si riscontra una rilevante sovrapposizione.
Dal punto di vista soggettivo, v’è una coincidenza pressoché totale (artt. 1 e 160, R.d. 16.3.1942, n. 267, cd. legge fallimentare, qui appresso ‘l. fall.’), trattandosi di procedure rivolte ad imprese commerciali non piccole. Dal punto di vista oggettivo, presupposto del concordato preventivo è invece lo stato di crisi dell’impresa: non incompatibile o alternativo allo stato di insolvenza (presupposto oggettivo del fallimento) ma solo più ampio, comprendendolo. L’insolvenza, infatti, costituisce un possibile (il più grave) stato di crisi; ma quest’ultimo potrebbe ricorrere anche in situazioni di difficoltà meno acuta, come quando vi sia il concreto rischio che un’insolvenza, ancorché non in essere, si verificherà; che essa, insomma, sia imminente, come quando ricorra una forte crisi di liquidità o un eccessivo sovraindebitamento.
Ciò rivela una possibile funzione preventiva, anticipatoria del concordato rispetto al fallimento, in quanto consente di avviare una regolazione concorsuale dei debiti ancor prima che la situazione economico-finanziaria divenga una vera e propria insolvenza: con l’opportunità allora, per il debitore, di ‘pilotare’ la crisi senza subire gli effetti del fallimento e ottenendo una parziale esdebitazione, e per i creditori di concorrere su un valore potenzialmente maggiore di quello ricavabile in sede fallimentare.
Del resto, un risultato economico preferibile potrebbe realizzarsi per via concordataria, grazie all’azione del titolare dell’impresa, anche quando già consti un’insolvenza: in questo caso la procedura ponendosi non tanto in funzione anticipatoria di un fallimento, ma quale alternativa ad esso.
Il nucleo della domanda di concordato preventivo consiste in una proposta ai creditori, con cui si offre loro una soddisfazione che, benché incompleta (e cioè in misura inferiore e/o in termini dilazionati rispetto a quanto dovuto) si prospetta come preferibile rispetto a quella ricavabile da un fallimento, seppure tale da assicurare ai creditori chirografari una soddisfazione di almeno il 20 per cento dei loro crediti (sul punto, v. Rossi, A., Le proposte “indecenti” nel concordato preventivo, in Giur. comm., I, 2015, 331, ss.; ma dopo il d.l. n. 83/2015, Panzani, L., Le alternative al fallimento. Il concordato e gli accordi di ristrutturazione dopo il d.l. 83/2015, in Il nuovo diritto delle società, 2015, 9 ss.) quando il concordato non sia con ‘continuità aziendale’ (v. infra).
La proposta è solitamente articolata sulla base di un programma di una qualche complessità, detto perciò ‘piano’ concordatario, che la legge tipizza nella sua funzione (ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei creditori) seppure non nei suoi contenuti, potendo quella funzione perseguirsi attraverso qualsiasi forma (art. 160 l. fall.).
a) Fra le ‘forme’ previste, in via solo esemplificativa, dalla legge, rientra innanzitutto la possibilità di una mera promessa di pagamento parziale e/o dilazionato dei crediti esistenti (cd. concordato remissorio o dilatorio), solitamente assistita da garanzie prestate da terzi.
Ciò potrebbe realizzarsi anche attingendo al valore dell’impresa rappresentato dai suoi flussi di reddito futuro, assicurati dalla prosecuzione del suo esercizio dallo stesso debitore o di un terzo che anticipi quel valore per rilevare l’azienda (cd. concordato con continuità aziendale, su cui infra).
b) In via alternativa o complementare ad un piano di continuità aziendale, potrebbe poi prevedersi una cessione dei beni ai creditori (concordato liquidatorio, rispettivamente ‘puro’ o ‘misto’). Ciò, mediante assegnazione diretta o liquidazione dei beni, secondo modalità che, seppure analoghe a quelle tipiche della procedura fallimentare, restano rimesse all’autonomia del piano concordatario. In questo caso, anziché promettersi una percentuale certa di soddisfazione (salva quella minima di legge) potrebbe anche convenirsi un’assunzione del rischio dell’effettivo realizzo in capo ai creditori, chiamati così a pronunciarsi su un’offerta dichiaratamente aleatoria (Cass. 23.6.2011, n. 13817).
c) Forme più complesse potrebbe invece assumere il piano quando intenda raggiungere la soddisfazione dei creditori attraverso il compimento – necessariamente attuabile col concorso degli organi sociali (cfr. Guerrera, F. - Maltoni, M., Concordati giudiziali e operazioni societarie di “riorganizzazione”, in Riv. soc., 2008, 50) – di talune operazioni straordinarie, quali ad esempio: un conferimento d’azienda in una società nuova o preesistente; un’in;corporazione della società in crisi da parte di un’altra in bonis (o viceversa); una scissione in una ‘good’ e in una ‘bad company’; una trasformazione della società in crisi (magari in s.p.a., per consentire la cartolarizzazione delle partecipazioni): in ciascuno di questi casi attribuendosi poi ai creditori, o a società da loro già partecipate, titoli emessi dalle società risultanti da queste operazioni.
d) La proposta concordataria potrà anche essere assistita da garanzie, reali o personali, tipiche o atipiche (ad es. una lettera di patronage o un trust; non però la mera promessa dei redditi attesi) a favore di tutti o alcuni creditori, offerte dallo stesso imprenditore (o dai suoi soci, se sia una società) o da terzi.
Del resto la proposta, potrebbe indicare un terzo, cd. assuntore il quale, a fronte della cessione a suo favore dell’azienda, si accolli (in via cumulativa o liberatoria) i debiti previsti dalla proposta.
e) Assai importante, e frequente, è poi la possibilità di suddividere i creditori in classi «secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei», riservando poi trattamenti differenziati ai creditori appartenenti alle diverse classi.
I creditori, in effetti, non costituiscono un gruppo omogeneo, differenziandosi per titolo giuridico e condizione economica; si pensi ad es. alle banche, ai lavoratori, ai fornitori commerciali, o al Fisco o ad Enti previdenziali (questi ultimi due, anzi, destinatari di una disciplina ad hoc, cd. transazione fiscale, art. 182 ter, l. fall. ). La possibilità di un’offerta differenziata in ragione delle aspettative dei diversi creditori consentirà allora di intercettare un consenso potenzialmente superiore a quello che riscuoterebbe un’offerta “monolitica”, identica per tutti i creditori di pari rango.
f) Fondamentale è poi la possibilità di prevedere un pagamento non integrale dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, purché la soddisfazione loro assicurata “non risulti inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione” (Censoni, P., I diritti di prelazione nel concordato preventivo, in Giur. comm, 2009, I, 20 ss., 31; Guerrera, F., Struttura finanziaria, classi dei creditori e ordine delle prelazioni nei concordati delle società, in Dir. fall., 2010, I, 707 ss.). Per la parte restante del credito (cioè quella che esorbita dal valore effettivamente realizzabile) i privilegiati saranno considerati come chirografari, potendo quindi essere destinatari, insieme agli altri chirografari e seppure in una classe ad hoc, di un’offerta di pagamento parziale, in base al patrimonio residuo. Unico limite resta quello per cui «il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione». Limite, questo (cd. absolute priority rule), da intendersi nel senso che ai creditori privilegiati degradati a chirografari non possa destinarsi meno di quanto destinato ai creditori originariamente di rango inferiore (v. Ferri, C., I crediti privilegiati nella disciplina del nuovo concordato preventivo, in Fall., 2006, 695 ss.; Sciuto, M., La classificazione dei creditori nel concordato preventivo (un’analisi comparatistica), in Giur. comm., I, 2007, 566).
Al limite opposto della categoria appena considerata (‘privilegiati’) possono poi situarsi creditori che già fossero (ex lege o ex contractu), o che accettino proprio per effetto del piano, di essere «postergati» (cd. antiprivilegiati) a tutti gli altri chirografari o ad alcuni di essi. Anche in tal caso giustificandosi la formazione di autonome classi che li possa raggruppare per posizioni omogenee e, in pratica, destinatarie di trattamenti pari o prossimi allo zero (il che però non dovrebbe giustificarne l’esclusione dal voto: Cass. 4.2.2009, n. 2706).
V’è da dire, infine, che la tendenziale autonomia del debitore nel decidere se e come formulare una proposta concordataria ― autonomia che tendenzialmente dovrebbe incontrare il solo limite, di fatto, del dover essere congegnata in modo sufficientemente appetibile da suscitare un consenso dei creditori, pena altrimenti la sua inutilità – ha trovato da ultimo due importanti deroghe nel d.l. 27.6.2015, n. 83, conv. in l. 5.8.2015, n. 132).
L’una concerne l’eventualità che il piano contempli l’offerta di un soggetto, già individuato, di acquisire l’azienda (o di suoi rami o di suoi beni) ad un prezzo già determinato (o comunque di un contratto che realizzi indirettamente lo stesso effetto). Modalità, questa, dietro la quale ― bisogna riconoscere ― si annida talora il tentativo del debitore di reimpossessarsi a basso costo della sua azienda, per il tramite di prestanome o ‘sodali’ che figurino come offerenti. In questo caso allora, il commissario giudiziale, valutata la congruità dell’offerta e il miglior interesse dei creditori, potrà sollecitare il Tribunale a promuovere un procedimento competitivo che consenta a terzi di formulare «offerte concorrenti»; con l’obbligo del debitore ― se alcuna di essa venga preferita, nel corso di un’apposita udienza, alle altre e a quella contenuta nel piano ― a modificare il piano già proposto in conformità all’esito di un tale gara (art. 163 bis).
L’altra, e ancor più significativa, deroga al principio dell’autonomia del debitore nel concordato preventivo, riguarda invece la possibilità che uno o più creditori che rappresentino almeno il dieci per cento dei crediti, possa presentare una (o più) proposta concorrente a quella del debitore, se di quest’ultima non sia attestata l’idoneità a pagare ai chirografari almeno il quaranta (o al trenta, se il concordato è con continuità) per cento (su cui v., anche se con impostazione diversa da quella qui seguita, Nigro, A. – Vattermoli, D., Le proposte concorrenti nel concordato preventivo, in Dir. borsa merc. fin., 2015, II, 93 ss.).
La o le proposte concorrenti saranno così sottoposte al voto dei creditori (compresi i proponenti, ma in autonoma ‘classe’) insieme a quella del debitore: potendo allora, se una di esse venga preferita a tutte le altre, condurre all’omologazione del piano concordatario che essa prospetta: un piano, dunque, non proposto dal debitore ma ugualmente obbligatorio per quest’ultimo, addirittura con poteri del commissario di darvi coattivamente esecuzione in sostituzione del debitore inerte.
Il che rende abbastanza evidente la deroga al principio dell’autonomia del debitore e ― forse incostituzionalmente ― alla sua stessa libertà di iniziativa economica: almeno se si ritenga che lo «stato di crisi» in virtù del quale autonomamente il debitore ha dato avvio alla procedura concordataria, e che non necessariamente coincide con uno stato insolvenza, non dovrebbe di per sé giustificare una tale sorta di ‘spossessamento’, o espropriazione del potere di decidere ed attuare l’indirizzo gestionale (se non addirittura la liquidazione) di un’impresa non insolvente.
La domanda di ammissione alla procedura assume la forma del ricorso, sottoscritto dal debitore (o dai suoi amministratori, ed approvato, se si tratti di società di persone, della maggioranza assoluta dei soci), presentato al tribunale del luogo ove l’impresa ha la sua sede principale, e pubblicato nel registro delle imprese. Insieme ad esso occorrerà depositare la documentazione idonea a rappresentare le componenti attive e passive di cui i creditori dovranno tener conto per valutare la convenienza della proposta, e in particolare: i) un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del;l’impresa; ii) uno stato analitico ed estimativo delle attività (che consente di individuare la “massa attiva”); iii) l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione (il che consentirà di formarsi una prima mappatura del monte dei debiti a cui far fronte e, al contempo, dei creditori che saranno chiamati a votare la proposta); iv) l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore (per definire su quanta parte della massa attiva i creditori potranno effettivamente contare); v) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili (anche tali elementi contribuendo a meglio valutare la convenienza della proposta); vi) una descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, specificando anche l’utilità economicamente valutabile che da essa ne deriverà per ciascun creditore. Ciò consentirà non soltanto, a priori, una migliore valutazione in termini di fattibilità generale, e di specifica convenienza per ciascun creditore chiamato a valutare la proposta; ma anche, ad omologazione avvenuta, un controllo della regolare esecuzione del piano secondo la ‘tabella di marcia’ prospettata.
La descrizione delle modalità e dei tempi dell’adempimento risulta di primaria importanza quando il piano preveda che la soddisfazione dei creditori dovrà realizzarsi impiegando flussi di cassa (redditi futuri) provenienti dalla prosecuzione dell’esercizio dell’attività di impresa: cd. concordato con continuità aziendale (art. 186 bis; v. Terranova, G., Il concordato con “continuità aziendale” e i costi dell’intermediazione giuridica, in Dir. fall., 2013, I, 1; Stanghellini, L., Il concordato preventivo con continuità aziendale, in AA.VV., Società, banche e crisi di impresa – Liber amicorum Pietro Abbadessa, III, Torino, 2014, 3201) .
Il concordato con continuità aziendale riguarda le ipotesi in cui, nel descrivere le modalità e i tempi di adempimento della proposta, venga espressamente prevista la prosecuzione dell’attività di impresa direttamente da parte del debitore; ovvero – sempre al fine della prosecuzione del;l’attività, ma in tal caso da parte di terzi – la cessione dell’azienda in esercizio (o di un suo ramo) o il suo conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione (pur senza che con ciò risulti preclusa possibilità di liquidare alcuni beni non funzionali all’esercizio dell’impresa). Si tratta di una particolare figura di concordato preventivo pensabile allora come una sua ‘sub-fattispecie’, che oltre ad essere sottoposta alla disciplina generale, comporta l’applicazione di ulteriori norme, ad essa specificamente rivolte.
Fra queste (oltre ad altre appresso ricordate) la necessità che, già in sede di presentazione della domanda, la descrizione delle modalità e dei tempi dell’adempimento – dipendendo questo, in definitiva, da flussi finanziari futuri e soltanto ‘sperati’ – sia integrata da un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato (cd. cash flows), delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura. Nonché, a corredo di ciò, da una specifica attestazione (all’interno della relazione del professionista che deve accompagnare il piano, e qui appresso ricordata) che attesti che la prosecuzione dell’attività prevista dal piano è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
La domanda e la documentazione sopra descritte (per ogni tipo di concordato) dovranno essere infine accompagnate dalla relazione di un professionista designato dal debitore che attesti la veridicità dei dati aziendali esibiti e la fattibilità del piano medesimo. Si tratta di un’attestazione di grande rilevanza, dacché tutto il senso economico della proposta verrebbe alterato essa risultasse fondata su premesse errate o previsioni improbabili.
L’ammissione al concordato è favorita anche nel caso in cui l’im;prenditore ancora non sia riuscito a confezionare un piano concordatario da presentare ai creditori, perché stia ancora esplorando quali condizioni sarebbero accettabili. La fase di ‘trattative’, del resto, potrebbe generare allarmi che anziché favorire la composizione della crisi, potrebbero provocare istanze di fallimento che precluderebbero la via concordataria.
L’art. 161 l. fall. consente allora di depositare un «ricorso contenente la domanda di concordato» (unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e a un elenco dei creditori), riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione entro un successivo termine assegnato dal giudice. Si parla perciò di ‘concordato con riserva’ o anche ‘preconcordato’ (o anche concordato ‘prenotativo’ o ‘in bianco’).
Il vantaggio sta in ciò, che nel periodo così concessogli con decreto (60-120 giorni) il debitore potrà definire la proposta concordataria senza temere di incorrere in una dichiarazione di fallimento, dal momento che medio tempore già cominceranno a prodursi alcuni degli effetti tipici della domanda di concordato ‘completa’, fra cui in primo luogo il divieto di azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori. Anzi, la possibilità di prevenire possibili istanze di fallimento o persino il loro accoglimento se già fosse in corso l’istruttoria prefallimentare (Cass. S.U., 15.5.2015, n. 9935, prospettando tuttavia l’inammissibilità della domanda quando essa integri gli elementi di un ‘abuso di processo’; per un commento, v. Fabiani, M., Di un'ordinata decisione della Cassazione sui rapporti fra concordato preventivo e procedimento per dichiarazione di fallimento con l'ambiguo addendo dell'abuso del diritto, in Foro it., 2015, 2335 ss.; Sotgiu, N., Sull'accertamento dello stato di insolvenza in pendenza della procedura di concordato preventivo, in Riv. dir. proc., 2015, 1236 ss.), ha fatto sì, in pratica, che si ricorra più spesso ad un tale percorso anticipatorio che non alla domanda di concordato già completa del piano.
Per contenere il rischio di un abuso di tale possibilità, tuttavia, il tribunale potrà: i) nominare il commissario giudiziale affinché accerti l’eventuale sussistenza di atti fraudolenti del debitore, nel qual caso la domanda diverrebbe improcedibile (v. la già citata Cass., S.U., n. 9935/2015, per il caso dell’abuso del concordato con riserva); ii) disporre obblighi informativi periodici sulla gestione finanziaria dell’impresa e sull’attività compiuta ai fini della predisposizione della proposta, oltre all’obbligo di depositare una situazione finanziaria mensile; iii) abbreviare il termine assegnato, se risulti che l’attività compiuta dal debitore sia manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta e del piano; iv) autorizzare atti urgenti di straordinaria amministrazione.
Nel termine assegnato, il ricorso dovrà dunque essere integrato dalla proposta, dal piano e dalla documentazione, proseguendo poi la procedura normalmente. Oppure, in alternativa, potrà depositarsi un ricorso per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis, ‘dirottando’ la procedura di concordato verso quella prevista da tale disposizione, ma beneficiando ugualmente, nel frattempo, degli effetti protettivi interinali. Se invece nel termine assegnato non venisse presentata la proposta con il piano e la documentazione richiesta, le conseguenze non potranno che essere quelle di una mancata ammissione alla procedura di concordato, con eventuale successivo fallimento.
Sull’ammissibilità del ricorso deve pronunciarsi il tribunale verificando la sussistenza dei presupposti della procedura e della documentazione sopra indicata. Il potere di controllo del tribunale non dovrebbe estendersi né alla convenienza (rimessa al giudizio dei creditori), né alla fattibilità del piano proposto, asseverata da un professionista (Cass. 16.9.2011, n. 18987; Cass. 29.10.2009, n. 22927). Tuttavia, se la relazione del professionista apparisse già ictu oculi inaffidabile per aver disatteso i più elementari canoni professionali, allora ben potrebbe il tribunale ritenerla insufficiente (Pagni, I., Il controllo del tribunale e la tutela dei creditori nel concordato preventivo, in Fall., 2008, 1091 ss.; Bozza, G., Il sindacato del tribunale sulla fattibilità del concordato preventivo, in Fall., 2011, 182 ss.; Cass. 15.9.2011, n. 18864; Cass., 23.6.2011, n. 13817; Cass., 25.10.2010, n. 21860), quasi come se mancasse; ed allora, sollecitata eventualmente un’integrazione della documentazione (cioè il deposito di una più affidabile relazione), respingere il ricorso (Cass., 14.2.2011, n. 3586). Da questo primo orientamento la Cassazione (Cass., S.U., 23.1.2013, n. 1521; seguita poi da Cass., 27.5.2013, n. 13083 ed altre, fra cui da ultimo Cass., 29.1.2015, n. 1726) si è tuttavia allontanata, con motivazione non del tutto perspicua, affermando che, se resta riservata ai creditori la valutazione sulla convenienza della proposta (e cioè sulla «probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti»), l’esistenza di un’attestazione del professionista non esclude che al giudice competa un «controllo di legittimità» sulla proposta, «verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato», intesa come «obiettivo specifico perseguito dal procedimento»; col che parrebbe reintrodursi, nella sostanza, un giudizio di fattibilità.
Unico controllo, in qualche misura di merito, indubbiamente rimesso al tribunale, è invece quello sulla «correttezza dei criteri della formazione delle diverse classi», cioè la verifica del fatto che la distinzione effettivamente corrisponda ad un’omogeneità delle relative posizioni giuridiche ed interessi economici, ovvero appaia irrazionale o non altrimenti giustificabile, se non addirittura strumentale a discriminare alcuni a discapito di altri.
Alla luce dei suddetti criteri di giudizio, il tribunale potrebbe dichiarare inammissibile la domanda di concordato con decreto non soggetto a reclamo, eventualmente poi dichiarando il fallimento del debitore.
Se invece il ricorso venga ritenuto ammissibile, il tribunale, dichiara aperta la procedura con decreto di ammissione, nominando gli altri organi: il giudice delegato e il commissario giudiziale. Quest’ultimo, in particolare, pur munito di funzioni e poteri diversi da quelli del curatore fallimentare, è soggetto a molte delle norme previste per quest’ultimo; ma di certo non rappresenta, neppure indirettamente, né il debitore (che conserva la disponibilità delle sue situazioni soggettive: Cass., 25.2.2008, n. 4728) né i creditori.
L’apertura del concordato lascia il debitore a capo della sua impresa, conservando l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa stessa; questi anzi è spesso contemplato dallo stesso piano concordatario (allora ‘con continuità aziendale’) come il mezzo attraverso il quale realizzare i proventi promessi ai creditori. Di ogni atto com;piuto dopo l’apertura della procedura, pertanto, l’imprenditore risponderà con il suo patrimonio, ben potendo le controparti pretendere l’esatta prestazione convenuta alla scadenza e, in caso di inadempimento, agire a tutela delle proprie ragioni.
Se si tratti di società, in particolare, la sua attività proseguirà normalmente sotto l’im;pulso dei suoi organi, che manterranno inalterata la loro funzionalità. E ciò (eccezionalmente, ma solo sino alla chiusura della procedura con l’omologazione) anche se constassero perdite di capitale che provocherebbero altrimenti, per la sua discesa al di sotto del minimo legale, lo scioglimento ex art. 2484, n. 2, c.c. (art. 182 sexies, l. fall.)
Per evitare che il debitore abusi del suo perdurante potere di gestione, esso incontra però due ordini di limiti (ciò per cui talora si parla di ‘spossessamento attenuato’, per analogia con quello, pieno, fallimentare).
i) In primo luogo, il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione non potrà produrre effetto nei confronti dei creditori anteriori al concordato senza l’autorizzazione del giudice delegato. Parimenti saranno inefficaci in pregiudizio dei creditori le formalità, poste in essere dopo l’apertura della procedura, necessarie per rendere opponibili atti compiuti prima dell’apertura della procedura stessa (ad esempio la trascrizione di un’ipoteca concessa prima del concordato; ma eccezionalmente persino le ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni che precedono la pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese).
In questo quadro si inserisce anche la possibilità che il debitore – dopo la presentazione della domanda di concordato o anche del solo ricorso ‘con riserva’ – chieda al tribunale di essere autorizzato a contrarre nuovi finanziamenti che potranno godere, in caso di successivo fallimento, della prededucibilità ex art. 111 l. fall. (182 quinquies l. fall.). Allo scopo, occorrerà allegare la relazione di un professionista che attesti che i nuovi finanziamenti risultano funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori concorsuali e (se richiesti già in occasione del mero ricorso per concordato ‘con riserva’) che siano altresì funzionali e urgenti per evitare pregiudizi alla continuità aziendale sino al termine per la presentazione del piano. Si tratta dei cd. finanziamenti alla ristrutturazione, che normalmente non vengono dedotti nel piano concordatario perché necessari già prima dell’omologazione, ed anzi proprio per potervi arrivare senza dover interrompere la continuità aziendale. Sarà invece compreso nell’ordinaria amministrazione il pagamento dei crediti sorti durante la procedura (cd. crediti di gestione), prededucibili in caso di successivo esito fallimentare.
Diversamente si pone la questione per il pagamento dei crediti anteriori, posto che essi dovrebbero in principio essere soddisfatti soltanto in esecuzione del piano omologato e non durante la procedura, alterandosi altrimenti la par condicio (Cass., 12.1.2007, n. 578). La questione è stata espressamente affrontata dall’art. 182 sexies con riferimento all’ipotesi in cui sia stata presentata una domanda di concordato «con continuità aziendale»; e risolta in senso positivo quando si tratti di crediti per prestazioni di beni o servizi, se un professionista ‘qualificato’ attesti che essi risultano essenziali per la prosecuzione della attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori. Valutata a contrario, la stessa norma sembrerebbe invece voler rendere inammissibile il pagamento di crediti anteriori in assenza delle suddette condizioni.
ii) Un secondo limite di ordine generale consiste in ciò, che la gestione del;l’impresa, pur lasciata all’imprenditore, sarà esercitata sotto la vigilanza del commissario giudiziale, il quale potrà controllarla grazie al potere (art. 173 l. fall.) di provocare l’interruzione della procedura laddove accertasse il compimento di atti eccedenti l’or;dinaria amministrazione non autorizzati o comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori. In questo caso, il commissario ne riferirà al tribunale affinché questo apra il procedimento per la revoca dell’ammissione al concordato, per poi eventualmente dichiarare anche il fallimento dell’impresa (Galletti, D., La revoca dell’ammissione al concordato preventivo, in Giur. comm., 2009, I, 730 ss.; Fava, R., Nuovi orientamenti in tema di revoca dell'ammissione alla procedura di concordato preventivo: i poteri del commissario giudiziale e il regime di impugnazione del provvedimento, in Dir. fall., 2015, II, 203 ss.).
Per i creditori il concordato comporta che essi, fino all’omologazione, non potranno, a pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore ; né acquisire diritti di prelazione o iscrivere ipoteche giudiziali , con efficacia verso i creditori anteriori alla domanda di concordato, se non vi sia apposita autorizzazione del commissario giudiziale (art. 168). Se poi si tratti di un concordato con continuità aziendale, esso potrà prevedere una moratoria fino a un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di cause legittime di prelazione.
Si realizza così quell’’ombrello protettivo’ al cui riparo la negoziazione potrà svolgersi senza dover temere l’iniziativa di questo o quel creditore, contando su una sorta di cristallizzazione della massa passiva analoga a quella che si produce per effetto del fallimento. Della procedura fallimentare sono infatti espressamente richiamati, a questo scopo, le norme relative agli «effetti per i creditori» (artt. 55-63 l. fall.); d’altra parte, durante questa fase, stante l’inibizione dal potere di agire a tutela delle proprie ragioni, non matureranno né i termini prescrizionali né quelli decadenziali.
Il divieto di azioni esecutive vale però solo per i creditori anteriori alla (pubblicazione della) domanda di concordato, in nulla pregiudicando la posizione di coloro che vantino crediti sorti dopo la domanda, che avranno quindi tutto il diritto di essere soddisfatti alla scadenza e alle condizioni convenute contrattualmente, con libertà di intraprendere individualmente ogni iniziativa cautelare od esecutiva nei confronti dell’imprenditore. Inoltre, in caso di successivo fallimento, tali crediti posteriori andranno pagati in prededuzione, essendo sorti «in occasione di una procedura concorsuale» (art. 111 l. fall.).
Circa i contratti pendenti («ancora ineseguiti o non completamente eseguiti», dice la legge) alla data della presentazione del ricorso, l’art. 169 bis prevede che, con il ricorso introduttivo o anche dopo il decreto di ammissione, il debitore possa chiedere l’autorizzazione a sciogliersene , ovvero la loro sospensione per non più di sessanta giorni (sulla valutazione dei presupposti per un autorizzazione nella fase del cd. preconcordato, v. R. Russo, Concordato 'in bianco' e contratti in corso di esecuzione: il problema resta aperto, in Giur. It., 2015, 651 ss.).. Trattandosi di effetti ‘a domanda’, ne consegue che in assenza di questa i contratti continueranno ad avere normale esecuzione. Se invece richiesta di scioglimento vi sia e trovi accoglimento, al terzo dovrà riconoscersi un indennizzo da soddisfarsi come credito anteriore al concordato stesso (subendo quindi al pari degli altri crediti anteriori, la falcidia concordataria: Cass., 7.3.2007, n. 5273).
Se poi si tratti di concordato con continuità aziendale, l’art. 186 bis esclude che i contratti pendenti (anche con la P.A.) possano automaticamente risolversi, pur se ciò fosse stato preventivamente pattuito fra le parti, per effetto della domanda di concordato.
Nella stessa ottica si giustifica il silenzio della legge in merito alla sorte dei cd. atti pregiudizievoli precedenti all’apertura della procedura. Nella logica del concordato, infatti, non occorre reintegrare il patrimonio del debitore mediante azioni, come tipicamente la revocatoria fallimentare, che presuppongono uno stato di insolvenza del debitore. Il che non toglie però che se la procedura concordataria dovesse sfociare in un fallimento, il termine a ritroso per l’individuazione degli atti assoggettabili a revocatoria fallimentare dovrebbe computarsi – secondo un principio di ‘consecuzione’ delle procedure – dalla data di apertura del concordato.
Per converso, in caso di successivo fallimento non saranno revocabili (art. 67, co. 3, l. fall.): i) gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo (quindi sulla base del piano omologato); ii) i «pagamenti di debiti liquidi ed esigibili per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’ac;cesso alle procedure concorsuali»: e quindi, in questo caso, pagamenti anteriori all’apertura del concordato preventivo (ad es., la parcella del professionista che ha confezionato il piano: fra le più recenti, Cass., 5.3.2015, n. 4486).
R.d. 16.6.1942, n. 267 (l. fall.), come da ultimo modificata dal d.l. 27.6.2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 5.8.2015, n. 132.
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