Concordato preventivo: evoluzioni giurisprudenziali
Si ricorda la funzione dell’istituto nell’ambito del dibattito sulla crisi d’impresa. Si mette in evidenza l’esigenza di disporre di regole processuali certe, predeterminate e preventivamente note.
Si segnalano, tra le diverse questioni aperte, quella sui criteri di valutazione della fattibilità del concordato, quelle sul concordato con riserva e quella sui rapporti tra concordato e fallimento.
La crisi di impresa e l’analisi degli strumenti per porvi rimedio costituiscono un argomento di grande interesse e rilevanza non soltanto per la crisi economica in atto. La bibliografia sull’argomento è ormai sterminata1. Si moltiplicano gli incontri ed i seminari per confrontarsi sulle diverse questioni coinvolte.
Sono istituiti appositi master per formare esperti in materia. La crisi di impresa non solo è un’occasione di lavoro professionale per gli operatori del settore, ma contribuisce allo sviluppo dell’editoria e del turismo giuridico e delle attività di formazione, come le catastrofi naturali sono un’occasione per i lavori di ricostruzione.
In questo contesto, il concordato preventivo regolato dagli articoli da 160 a 186 bis l. fall. (r.d. 16.3.1942, n. 267) è un tema centrale.
Alla riforma «urgente» dell’istituto, attuata con il d.l. 14.3.2005, n. 35, convertito in legge dalla l. 14.5.2005, n. 80, ha fatto seguito il d.lgs. 9.1.2006, n.5, in attuazione della delega contenuta nel d.l. Sono sopravvenuti il d.l. 30.12.2005, n. 273, convertito in legge dalla l. 23.2.2006, n. 51, e il decreto «correttivo»: il d.lgs. 12.9.2007, n. 169. Poi si sono succeduti il d.l. 29.11.2008, n. 185, convertito in legge dalla l. 28.1.2009, n. 2, il d.l. 31.5.2010, n. 78, convertito in legge dalla l. 30.7.2010, n. 122, il d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito in legge dalla l. 7.8.2012, n. 134, che ha introdotto il concordato con riserva. Hanno fatto seguito il d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito in legge dalla l. 17.2.2012, n. 221, il d.l. 21.6.2013, n. 69, convertito in legge dalla l. 9.8.2013, n. 98, e il d.l. 23.12.2013, n. 145, convertito in legge dalla l. 21.2.2014, n. 4.
Il concordato preventivo è un procedimento giurisdizionale. Al pari di ogni altro processo è uno strumento per risolvere problemi sostanziali. Sennonché, alle questioni inerenti la soluzione della crisi dell’impresa si sono aggiunte quelle di coordinamento delle disposizioni «urgenti» freneticamente sopravvenute. La normativa, che dovrebbe essere uno strumento per risolvere le crisi d’impresa, è diventata essa stessa un problema, orientando sulla sua interpretazione le energie degli operatori.
Ai sensi dell’art. 160, co. 1, l. fall., l’accesso al concordato preventivo presuppone lo «stato di crisi dell’impresa».
Questo non coincide con lo stato di insolvenza, ma, ai sensi dell’ultimo capoverso, lo «comprende». Sulla definizione dello «stato di crisi dell’impresa» si sono misurati gli interpreti. Lo stato di insolvenza è definito dall’art. 5, co. 2, l. fall. come la manifestazione di «inadempimenti» o di «altri fatti esteriori», «i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».
Lo «stato di crisi dell’impresa», pertanto, non consiste nella impossibilità («…non è più in grado…») di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, ma in qualcosa di meno, che, semplicisticamente e genericamente, potrebbe indicarsi nella difficoltà di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni; lo «stato di crisi dell’impresa», infatti, è «compreso» nello «stato di insolvenza».
Questa “difficoltà”, tuttavia, non è oggettiva ma è dichiarata dall’imprenditore, che, con il ricorso, afferma di essere in crisi. L’obiettivo della modifica legislativa è consistito, infatti, nell’evitare al ricorrente di confessare il proprio stato di insolvenza. La disciplina anteriore, tuttavia, non anche il sistema emerso dalle riforme, consentiva la dichiarazione di fallimento d’ufficio, cosicché la proposizione del ricorso per l’accesso al concordato preventivo poteva manifestarsi pregiudizievole per l’imprenditore, costretto a dichiarare il proprio stato di insolvenza. Nel nuovo contesto normativo, anche per l’eventuale dichiarazione di fallimento successiva alla presentazione di un ricorso per l’accesso al concordato preventivo, occorre l’accertamento dei presupposti oggettivi dello stato di insolvenza, ai sensi dell’art. 5 l. fall.
Per un verso, dunque, il presupposto per chiedere l’ammissione al concordato preventivo consiste nella crisi dell’impresa, che può essere definita come la «difficoltà» di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Per altro verso, il risultato al quale tende il procedimento è la soddisfazione dei creditori.
Il piano previsto dall’art. 161, co. 1, lett. a), l. fall., infatti, può prevedere la «soddisfazione dei crediti» «attraverso qualsiasi forma». Il co. 2° della medesima disposizione, regola i limiti entro i quali debbono essere «soddisfatti» i creditori muniti di cause di prelazione e l’art. 177, co. 3, ne regola il diritto di voto. L’art. 182 quinquies, co. 1 e 4, subordina l’autorizzazione a contrarre finanziamenti e al pagamento dei crediti anteriori alla attestazione che essi siano «funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori».
Il concordato preventivo, dunque, è un procedimento giurisdizionale al quale può accedere l’imprenditore (che abbia particolari requisiti), che si trova in «stato di crisi», e che tende alla «soddisfazione dei creditori».
Il titolo della domanda di concordato, ovvero le ragioni a fondamento di quest’ultima, consistono nella «difficoltà» di soddisfare regolarmente le obbligazioni e l’oggetto, ovvero il risultato giuridico o il bene della vita che essa tende a perseguire, è la «soddisfazione dei creditori».
Il concordato preventivo è una procedura concorsuale volontaria, perché può essere chiesta soltanto dal debitore in «difficoltà» e la «soddisfazione dei creditori» avviene «attraverso qualsiasi forma» accettata dalla maggioranza di questi ultimi.
Esso si contrappone, quindi, alle forme di realizzazione coattiva, singolare e concorsuale.
Queste ultime, ai sensi degli artt. 2740, 2741 e 2910 c.c., consistono nella trasformazione in danaro dei beni del debitore e nella ripartizione del ricavato tra i creditori concorrenti: il principio della responsabilità patrimoniale impedisce che il debitore sia considerato quale produttore di reddito, personalmente e non solo patrimonialmente responsabile. Il principio della responsabilità patrimoniale, infatti, non ha soltanto una portata negativa, nel senso che in base ad esso il debitore non può sottrarre i suoi beni alla soddisfazione dei creditori; è il punto di arrivo di una evoluzione millenaria, per la quale il debitore risponde con i beni e non con la propria persona.
Sennonché questa ovvia constatazione consente di mettere in evidenza i limiti degli strumenti di realizzazione coattiva dei crediti. Il presupposto comune a questi ultimi, infatti, è che vi siano beni suscettibili di essere trasformati in danaro e di soddisfare così i creditori; il debitore solvente è quello che ha beni sufficienti per la soddisfazione di tutti i creditori.
Ma questa era la concezione economica di Mastro don Gesualdo: è ricco chi possiede la «roba».Dal punto di vista economico, è scontato rilevare che la ricchezza dipende dalla capacità di produzione di reddito. Il principio della responsabilità patrimoniale impedisce che il debitore possa essere costretto a produrre reddito per soddisfare i creditori.
Il debitore, tuttavia, può volontariamente scegliere questa strada.
Il concordato preventivo e le altre procedure concorsuali volontarie possono essere gli strumenti mediante i quali la soddisfazione dei creditori si realizza non soltanto mediante la trasformazione in danaro dei beni, ma anche e soprattutto attraverso la produzione di nuova ricchezza. Il che implica la continuazione dell’attività di impresa, la conservazione dei posti di lavoro, con indubbi vantaggi alla economia complessiva.
L’ampio dibattito sulla crisi d’impresa ed il favore del legislatore per le procedure concorsuali volontarie implicano appunto l’esigenza di superare i limiti degli strumenti di realizzazione coattiva dei crediti a vantaggio di istituti che consentano la soddisfazione dei creditori mediante la produzione di reddito e non soltanto attraverso la liquidazione dei beni che la sussistenza dello «stato di crisi» presuppone siano insufficienti.
In riferimento al concordato preventivo, l’indicazione del «titolo» della domanda e, soprattutto, dell’oggetto mediato ovvero del risultato giuridico o del bene della vita, al quale tende il procedimento, sono risposte ovvie, ma non sono risolutive.
Gli utenti della giustizia, imprese in crisi e creditori, vorrebbero utilizzare un veicolo che conduca ad un risultato prevedibile e, preferibilmente, favorevole ai propri interessi.
Sennonché, dal punto di vista processuale, il problema non consiste nel “se”,ma nel “come”.Nei confronti degli strumenti processuali, infatti, la prima e fondamentale questione consiste nel verificare se funzionano e se sono idonei all’obiettivo per il quale sono stati predisposti. I processualcivilisti sono stati definiti come l’«area più conservatrice dei giuristi», le «vedove di un sistema superato», i laudatores temporis acti; si è rilevato che dovrebbero essere lieti della tecnica legislativa, che consente loro di godere del turismo processuale e di scrivere e pubblicare opere di commento2. Occorre, però, che le regole processuali siano predeterminate e non siano, invece, affidate, caso per caso, all’estro del giudicante.
Sebbene i due termini siano considerati equivalenti, infatti, il processo non coincide con il giudizio: il processo precede il giudizio ed è lo strumento perché questo non sia un favore concesso dal giudicante, ma l’applicazione di regole predeterminate con la tecnica del contraddittorio, e dovrebbe servire a rendere prevedibile la decisione, rendendo verificabili e trasparenti le regole del giudizio. Il mistero del giudizio, talvolta evocato nell’ambito delle discussioni generali sul ruolo e sulla funzione della tutela giurisdizionale, assume rilevanza soltanto quando si è disegnato il percorso che conduce, appunto, al giudizio e si sono individuati i criterii di valutazione. Solo a questo punto entrano in gioco le questioni generali che costituiscono ormai l’approccio tradizionale ai problemi della crisi d’impresa.
Nell’ambito delle ripetute riforme delle procedure concorsuali, tuttavia, le regole per la definizione dei conflitti sono affidate all’esercizio dei poteri discrezionali del singolo giudice, mediante il ripetuto rinvio al procedimento camerale di cui agli artt. 737 ss. c.p.c., che è introdotto con ricorso, si conclude con decreto e nell’ambito del quale il giudice può «assumere informazioni». Questa scarna disciplina processuale è compatibile con i principii costituzionali, perché la Corte ha ripetuto più volte che «il garante di questo equilibrio non può che essere il giudice, al quale spetta un potere di direzione del processo, nel rispetto del principio dispositivo e dei diritti di difesa»3.
Essa, tuttavia, determina inevitabilmente incertezze applicative ed è fonte di violazione del principio di uguaglianza, perché l’assenza di regole processuali predeterminate genera il rischio della formazione di prassi difformi da ufficio a ufficio giudiziario, e soprattutto quello di una regressione al sistema feudale nel quale prevale la logica della appartenenza e la decisione è un favor principis e non l’applicazione di regole predeterminate e preventivamente note.
Non basta, quindi, rilevare che il fondamento della domanda di concordato preventivo è lo «stato di crisi» e che l’obiettivo del procedimento è la «soddisfazione dei creditori».
In riferimento alla normativa frammentariamente e freneticamente stratificatasi, gli interpreti e gli operatori sono chiamati a risolvere una serie di questioni specifiche, che riguardano la determinazione delle condizioni e dei presupposti per l’accesso alla procedura concorsuale volontaria, l’individuazione dell’oggetto immediato delle istanze delle parti, ovvero del contenuto dei provvedimenti che possono essere richiesti, e, quindi, a segnare i confini dei poteri del giudice e delle facoltà delle parti.
Nelle pagine che seguono, sono segnalate alcune significative, ad avviso di chi scrive, questioni dibattute in giurisprudenza, con l’avvertenza che l’anno 2014 si manifesta, sul tema, un anno di mera transizione, perché molte questioni sono ancora aperte e si attendono indicazioni dalla giurisprudenza, soprattutto di legittimità, delle quali si spera che si potrà dare conto nella prossima edizione di quest’opera.
Per questa ragione, le questioni applicative considerate rilevanti sono indicate nel paragrafo successivo, intitolato «I profili problematici», non in questo, intitolato «La focalizzazione».
La riforma del concordato non ha avuto, nell’immediato, il successo auspicato da legislatore4. La riforma del 2012, invece, e l’introduzione del concordato con riserva hanno determinato una crescita esponenziale delle procedure volontarie5.
Anche in relazione alle successive correzioni legislative della riforma del 2012, occorre dar conto dei problemi posti dal nuovo istituto.
La questione centrale e fondamentale, peraltro, riguarda la determinazione dei poteri del giudice nella valutazione della ammissibilità della domanda di concordato ovvero sulla fattibilità del piano; su di essa si è già pronunciata, all’inizio del 2013, la Cassazione, nella sua composizione più autorevole; la stessa Corte, tuttavia, ha messo in discussione alcune delle conclusioni alle quali erano pervenute le Sezioni Unite e, in riferimento ai rapporti tra concordato e fallimento, la questione è stata nuovamente rimessa a queste ultime.
La questione più significativa, pertanto, riguarda appunto i rapporti tra concordato e fallimento, sui quali si attende, probabilmente per il prossimo anno, una nuova pronuncia della Cassazione nell’esercizio della sua funzione nomofilattica.
3.1 Il giudizio di ammissibilità
Come si è anticipato, la Corte di cassazione, a sezioni unite, ha affrontato i problemi relativi alla valutazione del giudice sulla proposta di concordato preventivo e ne ha segnato i confini6.
Le Sezioni Unite hanno deciso congiuntamente due ricorsi, proposti avverso distinti provvedimenti: il primo contro il decreto della corte di appello di rigetto del reclamo contro il diniego della omologazione del concordato preventivo pronunciato dal tribunale in assenza di opposizioni dei creditori ed in base alla relazione del commissario giudiziale; il secondo contro la decisione della corte di appello di conferma della sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata in pendenza del giudizio di cassazione contro il decreto sul concordato preventivo; hanno riunito i due ricorsi; hanno rigettato il secondo; hanno dichiarato inammissibile il primo: «l’infondatezza del ricorso contro la sentenza dichiarativa di fallimento comporta … l’inammissibilità dell’ulteriore ricorso avverso il decreto di rigetto del reclamo
contro il diniego di omologazione del concordato preventivo»; si sono, quindi, pronunciate sulla fattibilità del concordato ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
La Corte ha distinto la fattibilità giuridica, oggetto di valutazione giudiziale, e la fattibilità economica, rimessa alla valutazione della maggioranza dei creditori; ha precisato che la fattibilità è direttamente sindacabile e non in via mediata per il tramite dell’attestazione; ha individuato la «causa», sul piano sostanziale, del concordato preventivo nella soddisfazione dei creditori, realizzabile in qualunque forma; ha definito la causa «concreta» come «scopo pratico del negozio, la sintesi cioè degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato».
Su queste nozioni e sul principio di diritto enunciato dalla Corte si è orientata l’attenzione dei commentatori.
Quella decisione ha segnato la traccia per la giurisprudenza successiva.
Per Cass., 4.7.2014, n. 15345, infatti, «il controllo del tribunale, ai fini della ammissibilità del concordato,ma anche ai fini della sua omologazione, va effettuato sia verificando l’idoneità della documentazione prodotta (per la sua completezza e regolarità) a corrispondere alla funzione che le è propria, consistente nel fornire elementi di giudizio ai creditori, sia accertando la fattibilità giuridica della proposta, sia, infine, valutando l’effettiva idoneità di quest’ultima ad assicurare il soddisfacimento della causa della procedura.…l’inidoneità della proposta può giustificare la non omologazione,malgrado l’approvazione dei creditori, soltanto se estesa alla possibilità di un qualunque soddisfacimento dei creditori e soltanto “se emergente prima facie” e non dopo una verifica della prognosi favorevole normalmente sottintesa dall’approvazione del concordato da parte dei creditori».
Per Cass., 23.5.2014, n. 11497, «la fattibilità, intesa come prognosi di concreta realizzabilità del piano concordatario, è presupposto di ammissibilità del concordato, sul quale il giudice deve pronunciarsi esercitando un sindacato che non è “di secondo grado”, non si esercita, cioè, sulla sola completezza e congruità logica dell’attestazione del professionista di cui alla L. Fall., articolo 161, comma 3, ma consiste nella verifica diretta del presupposto stesso». In adesione alle indicazioni delle Sezioni Unite, la Corte ha individuato «un solo profilo su cui si esercita il sindacato officioso dal giudice (fermo, ovviamente, il controllo della completezza e correttezza dei dati informativi forniti dal debitore ai creditori, con la proposta di concordato e i documenti allegati, ai fini della consapevole espressione del loro voto): quello della verifica della sussistenza o meno di una assoluta, manifesta non attitudine del piano presentato dal debitore a raggiungere gli obbiettivi prefissati, ossia a realizzare la causa concreta del concordato, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi mediante una sia pur minimale soddisfazione dei creditori chirografari in un tempo ragionevole (causa in astratto)».
3.2 Il concordato con riserva
In base alla riforma del 2012 ed ai successivi interventi correttivi, l’imprenditore «in stato di crisi» può proporre la «domanda di concordato», «riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi secondo e terzo entro un termine fissato dal giudice, compreso fra sessanta e centoventi giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni».
Il titolo della domanda è comunque la «crisi» dell’impresa. L’oggetto mediato è comunque la «soddisfazione dei creditori», ma l’oggetto immediato del ricorso è soltanto la fissazione di un termine, decorso il quale, il richiedente può presentare una proposta di concordato ovvero un accordo di ristrutturazione dei debiti, ai sensi dell’art. 182 bis l. fall., nel qual caso godrà di un ulteriore periodo di protezione del patrimonio; può anche astenersi da ogni iniziativa, contentandosi della ottenuta dilazione.
Il termine non può essere inferiore a sessanta giorni e superiore a centoventi; è prorogabile di ulteriori sessanta giorni. Qualora sia pendente il procedimento per la dichiarazione di fallimento può essere fissato soltanto il termine minimo di sessanta giorni, prorogabile di altri sessanta. In base al discusso orientamento che distingue il concordato dal fallimento, il termine dovrebbe soggiacere alla sospensione feriale ai sensi dell’art. 1 l. 7.10.1969, n. 7427.
Altri effetti scaturiscono direttamente dalla legge: il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore ai sensi dell’art. 168, co. 1, l. fall., e la disapplicazione degli artt. 2446, co. 2 e 3, 2447, 2482 bis, co. 4, 5 e 6, e 2482 ter, 2484, n. 4), e 2545 duodecies c.c., ai sensi dell’art.182 sexies l. fall., sono effetti legali del provvedimento e ne costituiscono, probabilmente, la principale attrattiva.
Il ricorrente può anche chiedere l’autorizzazione alla sospensione o allo scioglimento dai contratti in corso, ai sensi del nuovo art. 169 bis l. fall., a contrarre finanziamenti prededucibili e a pagare crediti anteriori, ai sensi del pure nuovo art. 182 quinquies l. fall.
Ma si tratta di effetti accessori e meramente eventuali.
Il tribunale, se non dichiara inammissibile il ricorso, ha esclusivamente il compito di fissare il termine; deve disporre obblighi informativi, ma, su questi e sulla eventuale nomina di un commissario, provvede d’ufficio, indipendentemente da ogni richiesta di parte.
A fondamento del ricorso, è sufficiente dichiarare lo «stato di crisi» dell’impresa, manifestare l’intenzione di formulare una proposta di concordato ed esibire i bilanci degli ultimi tre esercizi. Il che, ovviamente, non esclude che il ricorrente possa esibire anche una situazione patrimoniale aggiornata, possa illustrare elementi della proposta che intende formulare ai creditori e quant’altro ritenga utile, comprese le deliberazioni degli organi sociali previste dall’art. 152 l. fall. Ma non si tratta di elementi essenziali, la mancanza dei quali può determinare l’inammissibilità del ricorso.
Su ogni singolo aspetto del nuovo procedimento, la giurisprudenza di merito manifesta soluzioni diversificate, con buona pace del principio di uguaglianza. Alcuni tribunali, almeno, hanno indicato, nel proprio sito, le Linee guida per l’applicazione della disciplina8, cosicché l’utente può almeno conoscere preventivamente le regole concretamente applicate, senza affidarsi al momentaneo estro del giudicante, alla discrezione del quale, invece, il legislatore si è affidato9.
3.3 I rapporti tra concordato e fallimento
La citata sentenza delle Sezioni Unite, che ha segnato i confini dei poteri del giudice sulla fattibilità del piano concordatatario, ha anche affrontato la questione dei rapporti tra concordato e fallimento.
Nella motivazione si ribadisce preliminarmente l’autonomia del fallimento dal concordato preventivo: «il rigetto dell’omologazione e la dichiarazione di fallimento costituiscono statuizioni tra loro autonome, pur se legate da un rapporto di connessione». Nel contesto normativo prima vigente, qualora fosse stata negata l’omologazione del concordato preventivo e fosse stato dichiarato il fallimento, il rimedio esperibile era l’appello, non l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, e si escludeva comunque l’ammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.
L’autonomia e la connessione tra le pronunce in tema di fallimento e di concordato preventivo non sono state smentite dalla riforma delle procedure concorsuali.
Le basi testuali erano e sono fragili ed opinabili: per un verso, la soppressione della previsione, contenuta nell’art. 160 l. fall. nel testo anteriore alla riforma, per la quale il concordato preventivo poteva essere chiesto «fino a che il suo fallimento non èdichiarato», non si manifesta sufficiente ad escludere la pregiudizialità; per altro verso, il divieto delle azioni esecutive di cui all’art. 168 l. fall. non basta a negare la possibilità di dichiarare il fallimento in pendenza del concordato preventivo. La portata precettiva dell’una e dell’altra disposizione è comunque deducibile dal sistema: dichiarato il fallimento, l’accesso al concordato preventivo è comunque precluso, mentre è possibile l’accesso al concordato fallimentare di cui agli artt. 124 ss. l. fall.; il concordato preventivo preclude la soddisfazione autonoma, volontaria o coatta, dei creditori: le «azioni esecutive» menzionate nell’art. 168 l. fall. sono quelle individuali, non anche quelle concorsuali, come il fallimento.
Prima della riforma, si era affermato che il decreto del tribunale che neghi ingresso al concordato preventivo non è reclamabile ai sensi dell’art. 162 l. fall.,ma è ricorribile per cassazione a norma dell’art. 111 Cost., per difetto di giurisdizione in favore di giudice straniero, perché, in tal caso, l’«intrinseco carattere decisorio» dipende da ragioni che escludono la consequenziale declaratoria di fallimento, «fermo restando l’inammissibilità del suddetto ricorso quando il decreto è inscindibilmente connesso (per difetto delle condizioni di cui all’art. 160 stessa legge) alla successiva e consequenziale sentenza dichiarativa di fallimento (anche non contestuale), dovendo in tal caso farsi valere i vizi del decreto mediante l’impugnazione della sentenza»10.
Tale ultima affermazione (per la quale, in caso di successiva e consequenziale dichiarazione di fallimento, i vizi del decreto debbono essere fatti valere mediante l’impugnazione della relativa sentenza), è stata condivisa dalla giurisprudenza successiva11.
Si era affermato il principio per il quale le doglianze contro il decreto che nega l’ammissione al concordato devono essere dedotte con l’impugnazione della sentenza sul fallimento, e sono destinate ad essere assorbite dalla decisione su questa12.
Secondo una più recente pronuncia (n. 18190/2012), anteriore a quella delle Sezioni Unite, «la possibilità accordata al debitore di proporre al giudice una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresenta un fatto impeditivo alla pronuncia di fallimento, ma mera esplicazione del diritto di difesa del debitore che comunque non gli consente di disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare, venendo così a paralizzare le iniziative recuperatorie del curatore»; il giudice fallimentare «è tenuto a bilanciare le opposte iniziative, coordinando quella del debitore con gli interessi sottostanti la procedura fallimentare» e a verificare «in relazione alle peculiarità del caso concreto, il rapporto di priorità tra le procedure». La Corte ha, quindi, concluso nel senso che «la soluzione pattizia che deve essere esclusa laddove, esprimendo un proposito meramente dilatorio, manifesti un abuso di diritto del debitore anche alla luce dell’affrancamento di quest’ultimo dal requisito della meritevolezza».
Sulla traccia segnata dalla giurisprudenza precedente, le Sezioni Unite hanno condiviso la negazione della necessità di una «duplice statuizione», sul concordato e sul fallimento; ma hanno ritenuto necessario che la motivazione della sentenza dichiarativa del fallimento dia conto delle ragioni ostative alla ammissibilità del concordato: «il decreto di annullamento del concordato preventivo non è autonomamente impugnabile, e ciò in quanto l’eventuale accoglimento dell’impugnazione non potrebbe avere alcuna incidenza sulla validità e l’efficacia della sentenza di fallimento, potendo questa essere revocata soltanto all’esito ed in accoglimento di apposito reclamo».
Non vi era contrasto di giurisprudenza sui rapporti tra concordato e fallimento; il contrasto, invece, si era manifestato sui criterii di valutazione della fattibilità del piano13.
Sui rapporti tra concordato e fallimento, la giurisprudenza successiva ha condiviso l’orientamento delle Sezioni Unite: «Va osservato che le Sezioni Unite di questa Corte, ribadendo la giurisprudenza formatasi a seguito della riforma del concordato preventivo operata dalla novellazione della legge fallimentare del 2006 e del 2007 ha rilevato (sia pure in relazione ad un caso di inammissibilità del concordato, ma gli stessi principi sono applicabili anche al caso di revoca come nella fattispecie in esame) lo stretto nesso intercorrente fra l’esito negativo dell’istanza di concordato – nelle diverse fasi dell’ammissione e dell’omologazione – e la dichiarazione di fallimento, da cui discende: “che il ricorso contro il decreto del tribunale che neghi l’ingresso alla procedura di concordato preventivo è inammissibile quando è inscindibilmente connesso., alla successiva e consequenziale sentenza dichiarativa di fallimento (anche non contestuale), dovendo in tal caso farsi valere i vizi del decreto mediante l’impugnazione della sentenza” (C. 11/3586, che a sua volta richiama C. 10/8186); che le questioni attinenti al decreto di inammissibilità devono “essere dedotte con la stessa impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto il predetto rapporto si atteggia come un fenomeno di consequenzialità (eventuale del fallimento all’esito negativo della prima procedura) e di assorbimento (dei vizi del predetto diniego in motivi di impugnazione della seconda), che determina una mera esigenza di coordinamento tra i due procedimenti” (C. 12/18190, che a sua volta richiama C. 11/3059); che il decreto di annullamento del concordato preventivo non è autonomamente impugnabile mancando il necessario interesse, e ciò in quanto l’eventuale accoglimento dell’impugnazione non potrebbe avere alcuna incidenza sulla validità e l’efficacia della sentenza di fallimento, potendo questa essere revocata soltanto all’esito ed in accoglimento di apposito reclamo (C. 12/2671)»14.
Sennonché, con ordinanza del 30.4.2014, n. 947615, la prima sezione della Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezione Unite della questione «relativa al rapporto tra le procedure di concordato preventivo e fallimento, ossia se, a seguito della soppressione operata con il d.l. n. 35 del 2005 dell’inciso – già contenuto nell’art. 160 legge fall. – relativo alla facoltà di proporre il concordato preventivo “fino a che il suo fallimento non è dichiarato”, il rapporto tra le due procedure debba intendersi, come già fatto proprio dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 1521 del 2013), in termini di semplice coordinamento, sicché l’apertura della procedura fallimentare non è condizionata dal previo esaurimento della soluzione concordata della crisi d’impresa, ovvero se la suddetta modifica non abbia fatto venire meno il criterio della prevenzione tra le procedure per cui si deve ritenere che – con esclusione delle fasi d’impugnazione dei provvedimenti che pongono fine alla prospettiva concordataria – la pendenza della procedura di concordato preventivo impedisca temporaneamente la declaratoria di fallimento fino alla sua definizione».
Il tema, come sovente avviene per le questioni di particolare rilevanza16, il 30 ottobre 2014, è stato dibattuto in un incontro organizzato per iniziativa del Presidente Aggiunto17.
L’eventuale risposta positiva al quesito posto dalla prima sezione potrebbe non implicare il sovvertimento delle soluzioni già recepite dalle Sezioni Unite a conferma di un orientamento giurisprudenziale consolidato.
In primo luogo, potrebbe non implicare il riconoscimento dell’ammissibilità dell’autonoma impugnazione del provvedimento che nega l’ammissibilità del concordato ai sensi dell’art. 162 l. fall., nonché di quello che lo revoca ai sensi dell’art. 173 l. fall. o ne dichiara la risoluzione ai sensi dell’art. 186 l. fall., ovvero del decreto che nega l’omologazione, ai sensi dell’art. 180 l. fall.
La Corte, anche qualora volesse «ritenere che la pendenza della procedura di concordato preventivo impedisca temporaneamente la declaratoria di fallimento fino alla sua definizione», potrebbe comunque confermare il principio per il quale le censure contro i provvedimenti che negano l’accesso al concordato, lo revocano o lo risolvono sono deducibili esclusivamente nell’impugnazione contro la eventuale sentenza dichiarativa di fallimento,mentre quei provvedimenti non sono autonomamente impugnabili, cosicché la proposta di concordato può essere ripresentata senza limiti derivanti dal precedente giudicato.
In secondo luogo, anche se le Sezioni Unite volessero condividere l’ordinanza interlocutoria di rimessione, potrebbe non essere necessario che affermino la nullità della sentenza di fallimento pronunciata in pendenza di un ricorso per concordato preventivo.
Un tale esito sarebbe contrario ad elementari e fondamentali principi della tutela giurisdizionale civile, perché aprirebbe il varco ad iniziative anche meramente dilatorie.
In proposito, basti ricordare quanto rilevato18 in riferimento alla sospensione del processo esecutivo a seguito della presentazione dell’istanza di conversione del pignoramento ex art. 495 c.p.c. (nel testo anteriore alla riforma del 2006), che si riteneva fosse automatica e non subordinata ad una valutazione del giudice dell’esecuzione: «al complesso quadro normativo può quindi dedursi che l’arresto anche temporaneo della procedura esecutiva ed il differimento di atti esecutivi già fissati e predisposti non possono verificarsi in difetto di specifica previsione o senza il concreto vaglio del giudice dell’esecuzione in ordine alla situazione obiettiva ricorrente. Il che trova evidente ragione nella stessa finalità dell’esecuzione che esige, a tutela del creditore procedente e di quelli intervenuti, la naturale evoluzione del procedimento in termini di continuità e speditezza. In rapporto al sistema delineato la facoltà riconosciuta al debitore di richiedere prima dell’inizio della vendita dei beni la sostituzione degli stessi con danaro non importa che, ove lo schema procedimentale della conversione non sia, per ragioni di tempo, concretamente attuabile prima dell’esecuzione della vendita già fissata, quest’ultima debba essere automaticamente differita.
Siffatta dilazione non è espressamente prevista e non è desumibile dal sistema; mal si concilia anzi con l’esigenza di pronta ed adeguata tutela dei creditori e con gli stessi poteri direttivi del giudice del processo. Ammettere la dilazione automatica in conseguenza dell’istanza di conversione con semplice presa d’atto del giudice dell’esecuzione – al quale non è riconosciuta neppure la facoltà di imporre una cauzione – significa rimettere l’andamento dell’esecuzione all’iniziativa del debitore esecutato il quale potrebbe liberamente scegliere l’ultimo istante utile anche al solo fine di procrastinare la procedura omettendo poi – una volta ottenuto il differimento – di depositare la somma determinata per la conversione.
… In definitiva non può la facoltà di conversione essere tramutata in espediente dilatorio della vendita con conseguenze che possono andare al di là del semplice ritardo nella procedura.… Ciò non significa che l’istanza presentata in extremis debba essere considerata sempre inefficace con l’effetto di limitare l’esercizio del diritto del debitore riconosciuto dall’art. 495 c.p.c.… Importante è che il giudice dell’esecuzione non ometta di prendere in considerazione la legittima istanza del debitore e che esprima, in maniera più o meno esplicita, la sua valutazione in merito alla richiesta di differimento della vendita insita in detta istanza».
Questa motivazione, a ben vedere, si presta ad essere applicata alla questione sollevata con l’ordinanza interlocutoria n. 9476 del 2014, sostituendo i riferimenti al processo esecutivo e al giudice dell’esecuzione con quelli alle procedure concorsuali e al giudice fallimentare: «l’arresto anche temporaneo delle procedure concorsuali non può verificarsi in difetto di specifica previsione o senza il concreto vaglio del giudice»; «importante è che il giudice fallimentare non ometta di prendere in considerazione la legittima istanza del debitore e che esprima, in maniera più o meno esplicita, la sua valutazione in merito alla proposta di concordato preventivo».
«Ritenere che la pendenza della procedura di concordato preventivo impedisca temporaneamente la declaratoria di fallimento fino alla sua definizione» e determini, solo per questa ragione, la nullità della sentenza dichiarativa di fallimento, sarebbe anche contrario ai principi affermati in relazione alla deducibilità delle nullità del procedimento, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.: «la denunzia di vizi dell’attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subito dalla parte che denuncia il vizio, con la conseguenza che l’annullamento della sentenza impugnata si rende necessario solo allorché nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella cassata»19.
La situazione è analoga a quelle che possono verificarsi in relazione alla disapplicazione dell’art. 101, co. 2, c.p.c. o dell’art. 183, co. 6, c.p.c.: in base al primo, il giudice deve provocare il contraddittorio sulle questioni che rileva d’ufficio e, in base al secondo, «se richiesto», deve concedere termini per memorie integrative; è bene che lo faccia. Ma se non lo fa e, ad esempio, dichiara d’ufficio l’estinzione del processo o il difetto di giurisdizione, la sentenza non è dichiarata nulla per questa sola ragione; chi la impugna deve contestare la decisione ed ha l’onere di indicare il pregiudizio subìto20.
Appare ragionevole dubitare che «ritenere che la pendenza della procedura di concordato preventivo impedisca temporaneamente la declaratoria di fallimento fino alla sua definizione» implichi la nullità della sentenza dichiarativa di fallimento, indipendentemente da ogni valutazione del caso concreto.
Alla Corte, nella sua composizione più autorevole, è affidato il compito di scongiurare i rischi di un facile automatismo, contro il quale gli stessi giudici di legittimità hanno reagito più volte e con energia21.
Il proposto revirement di un orientamento giurisprudenziale consolidato, confermato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2013 e condiviso dalla giurisprudenza successiva, inoltre, deve fare i conti anche con le novità legislative sopravvenute. «Ritenere che la pendenza della procedura di concordato preventivo impedisca temporaneamente la declaratoria di fallimento fino alla sua definizione» sarebbe un principio applicabile anche al concordato con riserva.
Sennonché quest’ultimo, come prima si è rilevato, prevede soltanto l’intenzione, manifestata dal ricorrente e corredata dai bilanci degli ultimi tre esercizi, di formulare una proposta ai propri creditori, cosicché la dichiarazione di fallimento potrebbe essere impedita dalla manifestazione di una mera intenzione, per sua natura insindacabile.
Appare ragionevole ritenere che, se il ricorso per l’ammissione al concordato, ordinario o con riserva, sia proposto in pendenza dell’istruttoria prefallimentare, il tribunale, in base alle informazioni acquisite in tale sede, possa ritenere che la situazione del richiedente sia, «prima facie», tale da non consentire la formulazione di alcuna proposta di concordato ovvero che il piano presentato non abbia alcuna probabilità di accoglimento o di realizzazione e possa, quindi, dichiarare inammissibile il ricorso per concordato preventivo e, sussistendone i presupposti, dichiarare il fallimento. Tali valutazioni potrebbero essere censurate con il reclamo, ai sensi dell’art. 18 l. fall., cosicché sarebbe affidato alla corte di appello il compito di verificare, come affermato dalle Sezioni Unite con la decisione del 2013, la «sussistenza o meno di una assoluta, manifesta non attitudine del piano presentato dal debitore a raggiungere gli obbiettivi prefissati, ossia a realizzare la causa concreta del concordato, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi mediante una sia pur minimale soddisfazione dei creditori chirografari in un tempo ragionevole».
In ogni caso, la pronuncia di inammissibilità del ricorso per concordato preventivo sarebbe assorbita dalla dichiarazione di fallimento, cosicché non sarebbe necessaria una «duplice statuizione», sul concordato e sul fallimento.
«Ritenere che la pendenza della procedura di concordato preventivo impedisca temporaneamente la declaratoria di fallimento fino alla sua definizione» potrebbe, piuttosto, implicare che la motivazione della sentenza dichiarativa del fallimento dia conto delle ragioni ostative alla ammissibilità del concordato.
In questa prospettiva, il controllo di legittimità potrebbe essere compiuto ai sensi dell’art. 360, n. 5, novellato dal d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito in legge dalla l. 7.8.2012, n. 134. La dichiarazione di fallimento in pendenza di un ricorso per l’ammissione al concordato preventivo potrebbe essere ritenuta viziata per l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»; il «fatto decisivo» sarebbe, appunto, la pendenza di un ricorso per l’ammissione al concordato preventivo, che non fosse privo, prima facie, di qualche probabilità di accoglimento o di realizzazione.
In tal caso, secondo le tempestive indicazioni della Corte, «la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso»22.
Alle Sezioni Unite si apre un ventaglio di possibilità: possono confermare la propria decisione e l’orientamento giurisprudenziale già consolidato; possono sovvertire quest’ultimo, dichiarando ammissibili le impugnazioni contro i provvedimenti che negano l’accesso al concordato preventivo e nulle le sentenze dichiarative di fallimento pronunciate in pendenza di un ricorso per concordato preventivo; possono imporre che le sentenze dichiarative di fallimento pronunciate in pendenza di un ricorso per concordato preventivo diano espressamente conto delle ragioni per le quali è stato negato l’accesso alla procedura concorsuale volontaria.
Della soluzione, tuttavia, potrà essere dato conto nella prossima edizione di quest’Opera.
1 Anche per indicazioni, v. da ultimo, Fabiani,M., Causa del concordato preventivo e oggetto dell’omologazione, in Nuove leggi civ., 2014, 579. Cfr. anche Assonime, Linee-guida per il finanziamento alle imprese in crisi, II ed. 2014, in www.assonime.it.
2 Vietti,M., Intervento, in Il fallimento… atto terzo: primi spunti di dottrina e giurisprudenza, Atti del Convegno sul tema, Alba, 17.9.2007, a cura di L. Panzani, Milano, 2008.
3 Così, in motivazione, C. cost., 10.11.1999, n. 427, in Foroit., 2000, I, 746, in Giur. it., 2000, 161, in Corr. giur., 2000, 166, in Giust. civ., 2000, I, 2207.
4 Cfr. Assonime, Rapporto sull’attuazione della riforma della legge fallimentare e sulle sue più recenti modifiche, 2012, in www.assonime.it.
5 V. Nel 2013 un boom dei concordati, in IlSole24Ore, 26.4.2013.
6 Cass., S.U., 23.1.2013, n. 1521, in Foro it., 2013, I, 1534, con note di M. Fabiani e di G. Costantino, e 1576, con nota di E. Scoditti; in Corr. giur., 2013, 633, con nota di I. Pagni; in Fallimento, 2013, 149, con nota di M. Fabiani, e 279 con note di F. De Santis, I. Pagni e A. Di Majo; in Riv. dir. comm., 2013, II, 189 con nota di G. Terranova; in Dir. fall., 2013, II, 1, con nota di A. Didone, e 185, con nota di G. Nardecchia; in Società, 2013, 435, con nota di F. De Santis; in Riv. esecuzione forzata, 2013, 345, con nota di G. Carmellino; in Corr. mer., 2013, 403 con nota di G. Travaglino; in Questione giustizia, con nota di V. Lenoci.
7 Cass., 4.2.2009, n. 2706, in Foro it., 2009, I, 2370, in Fallimento, 2009, 789, con nota di L. Panzani, in Dir. fall., 2010, II, 1, con note di V. Battaglia e di R. Calderazzi, in Giur. comm., 2011, II, 247, con nota di A. De Cicco; in Banca borsa, 2012, II, 1, con nota di M.C. Di Martino. Grazie all’art. 16 d.l. 12.9.2014, n. 132, peraltro, il periodo di sospensione feriale dei termini è più breve.
8 Cfr. le Linee guida del Tribunale di Milano.
9 Basti pensare, a mero titolo di esempio e in relazione al concordato preventivo vero e proprio, alla fissazione di un termine ai sensi dell’art. 162, co. 2, l. fall.: giustamente la Cassazione ha negato che la mancata fissazione di un termine per l’integrazione del piano e la produzione di nuovi documenti costituisca un vizio deducibile in sede di legittimità, perché, in materia, «il tribunale… esercita un potere discrezionale relativamente al quale il debitore non è titolare di alcun diritto»: così Cass., 4.6.2014, n. 12549.
10 Cass., 14.4.2008, n. 9743, in Foro it. Rep, 2008, voce «Concordato preventivo», n. 85, nonché in Fallimento, 2008, 1149, con nota di G. Montella, e in Int’l Lis, 2008, 152, con nota di M. Montanari.
11 In particolare, da Cass., 14.2.2011, n. 3586, in Foro it. Rep., 2011, voce «Concordato preventivo», n. 136; in Fallimento, 2011, 805, con nota di L. A. Bottai; da Cass., 2.4.2010, n. 8186, in Foro it. Rep., 2011, voce «Concordato preventivo», n. 321, nonché in Fallimento, 2011, 321, con nota di F. Marelli. Nel caso deciso dalla prima pronuncia, la Corte ha richiamato il principio in riferimento ad un ricorso proposto contro la decisione della corte di appello che aveva revocato il fallimento e, in motivazione, ha ritenuto «ininfluente la giurisprudenza richiamata dal fallimento ricorrente in merito all’inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione contro il decreto di inammissibilità della proposta concordataria». In quello esaminato dalla seconda, la Corte ha ancora dichiarato l’inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione contro il decreto che aveva negato l’ammissione al concordato, ed ha precisato che «essendo stato dichiarato il fallimento …, non assumeva alcun rilievo il venir meno del nesso di consequenzialità tra le due pronunce, derivante dalle modificazioni legislative sopravvenute». Ha, invece, dato per scontato la ricorribilità del decreto che nega l’ammissione al concordato preventivo Cass., 25.6.2014, n. 14447.
12 Cass., 24.10.2012, n. 18190, in Foro it., 2013, I, 1534, e Cass., 8.2.2011, n. 3059, in Foro it. Rep., 2011, voce «Fallimento», n. 1201, nonché in Fallimento, 2011, 805, con nota di F. De Santis, hanno escluso ogni rapporto di pregiudizialità e, quindi, la sospensione tra il procedimento per l’ammissione al concordato preventivo e quello per la dichiarazione di fallimento.
13 Cass., 16.9.2011, n. 18987; Cass., 15.9.2011, n. 18864, in Foro it., 2012, I, 170, con nota diM. Fabiani, in Giur. it., 2012, 82, con nota di A. Tedoldi, in Fallimento, 2012, 36, con nota di A. Patti; la seconda anche in Corr. giur., 2012, 229, con nota di A. Di Majo, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 119, con nota di B. Paternò Raddusa, e in Giust. civ., 2012, I, 718.
14 Così, in motivazione, Cass., 30.5.2014, n. 12185. V. anche Cass., 13.6.2014, n. 13505.
15 In Foro it., 2014, I, 1746, e in Fallimento, 2014, 646, con nota di M. Fabiani, alla quale si rinvia per ulteriori indicazioni sull’argomento.
16 V. in questa stessa area del volume, 2.1.2 Giudizio in Cassazione.
17 Alla discussione hanno contribuito R. Amatore,M. Fabiani, I. Pagni, L. Panzani, R. Tiscini, M. Vitiello.
18 Cass., 19.7.1990, n. 7378, in Foro it., 1991, I, 811, con nota di B. Capponi, in Corr. giur., 1991, 176, con nota di M. Maienza, in Nuova giur. civ. comm., 1991, I, 214, con nota di G. Giancotti, in Giust. civ., 1991, I, 1539.
19 Così, in motivazione, Cass., 30.12.2011, n. 30652, in Riv. dir. proc., 2012, 1085, con nota di R. Donzelli; in Corr. giur., 2012, 1083, con nota di A. Carrato.
20 Si rinvia a Costantino,G., Questioni processuali tra poteri del giudice e facoltà delle parti, in Riv. dir. proc., 2010, 1012.
21 Basti ricordare la vicenda relativa al regolamento di giurisdizione, ai sensi dell’art. 41, co. 2, e 367 c.p.c., prima della riforma del 1990: v. Cass., 3.11.1986, n. 6420 e ordinanza n. 628, in Foro it., 1987, I, 57, con nota di C.M. Barone, F. Cipriani, A. Pizzorusso, A. Proto Pisani.
22 Così Cass., 7.4.2014, nn. 8053 e 8054, seguite da Cass., 9.6.2014, n. 12928, da Cass., 11.7.2014, n. 16009, e da Cass., 22.9.2014, n. 19881.