Concorrenza e antitrust. Nuova disciplina della cooperazione orizzontale
La Commissione europea ha emanato, in forma di comunicazione (e, quindi, di soft law), le nuove linee-guida sugli accordi di cooperazione orizzontale. Il corposo documento riprende e sviluppa l’impianto proprio della versione precedente, sforzandosi di implementarne l’analiticità al fine di rendere più agevole il compito di auto-valutazione rimesso alle imprese. Di là da questi affinamenti, le novità attengono: a) all’integrale riscrittura della disciplina relativa agli accordi di standardizzazione, con accentuazione particolare degli obblighi, a carico degli operatori coinvolti nel processo, di comunicare preventivamente la titolarità di diritti di proprietà intellettuale essenziali per lo standard e l’impegno a renderli comunque accessibili a condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie; b) alla disciplina minuziosa degli scambi di informazioni, il cui regime appare ora disegnato sulla falsariga delle intese nel segno di un rimarchevole rigore.
Con la comunicazione 2011/C 11/01, dal titolo Linee direttrici sull’applicabilità dell’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea agli accordi di cooperazione orizzontale1, la Commissione è tornata a cimentarsi col delicato tema della caratterizzazione della collaborazione fra imprese in concorrenza. Il precedente era rappresentato dalle linee guida del 2001, varate in concomitanza con l’emanazione dei regolamenti di esenzione relativi agli accordi di ricerca e sviluppo e agli accordi di specializzazione, la cui vigenza scadeva a fine 2010. La riscrittura dei due testi regolamentari2 è stata accompagnata da un consapevole sforzo di rimeditazione del quadro complessivo, avviato nel 2008 mercé ampia consultazione pubblica (più di cento contributi sulla bozza fatta circolare nel marzo 2010) e giunto a corposa definizione con la pubblicazione all’inizio del 2011. Il tema, come detto, è quanto mai delicato. La tendenziale globalizzazione dei mercati ha reso vieppiù complicate e rischiose le scelte d’impresa; è persino ovvio che, in circostanze siffatte, la condivisione di informazioni, esperienze, rischi possa giovare alla migliore valorizzazione degli investimenti, promuovendo risultati di sicura efficienza. È però altrettanto evidente che la cooperazione fra soggetti tenuti a confrontarsi sul mercato alimenta il pericolo di sostituire al ruvido agone competitivo un più malizioso coordinamento volto ad evitare i ‘guasti’ di una rivalità a tutto tondo, nel che alligna, appunto, il seme dell’organizzazione cartellistica. La difficoltà sta nel tracciare la linea discretiva tra quanto conviene consentire, per gli apporti di efficienza che ne conseguono, e ciò che va, viceversa, vietato: senza che, al riguardo, esista una ricetta teorica del tutto appagante e di facile applicazione, capace di scongiurare la minaccia di «falsi positivi» (ossia comportamenti assoggettati a divieto nonostante la loro indole pro-competitiva) senza troppo concedere ai «falsi negativi» (pratiche restrittive sottratte a repressione). Difficoltà accentuata, se possibile, dal nuovo corso del diritto europeo della concorrenza, quale risulta dalla ‘modernizzazione’ indotta dal reg. n. 1/2003, con le imprese obbligate a procedere all’autovalutazione delle proprie condotte sul mercato. Delle molte incertezze in materia la Commissione si era data carico con il documento del 2001, il quale trattava i profili attinenti agli accordi di ricerca e sviluppo, di produzione (categoria concettuale estesa agli accordi di specializzazione), di acquisto, di commercializzazione e di formazione tecnica (come pure a quelli in materia di tutela ambientale, ancorché non apparisse del tutto chiara la ragione per considerarli come ambito a sé stante). Tali profili, con qualche variazione minore, sono ripresi dalla versione del 2011, che si segnala soprattutto per la ricchezza dell’analisi e il consapevole tentativo di conciliarne il rigore con la chiarezza espositiva: caratteristica apprezzabile in un documento che, in chiave di soft law, mira ad aiutare le imprese nel valutare la compatibilità di un accordo con norme di interpretazione problematica3. Le linee direttrici del 2011 presentano, peraltro, due novità meritevoli di attenzione. Una di carattere parziale, e tuttavia assai significativa, consistente nella pressoché integrale riscrittura della parte riservata agli accordi di standardizzazione (parte in cui, per inciso, rifluisce la trattazione degli accordi relativi alla tutela ambientale); l’altra, affatto originale e d’importanza cruciale nell’attuale stagione dell’antitrust, relativa allo scambio di informazioni. A queste due novità sono riservate le note che seguono.
Gli accordi di normazione (più noti come accordi di standardizzazione o, al più, di normalizzazione) mirano a «definire requisiti tecnici o qualitativi di prodotti, servizi e processi o metodi di produzione attuali o futuri», anche ai fini di garantire la compatibilità o l’interoperabilità con altri prodotti/sistemi o di ottenere un determinato marchio di qualità o l’omologazione da parte di un ente di regolamentazione4. La sezione loro dedicata, contenente regole, presunzioni e considerazioni intorno alla compatibilità dei processi di standardizzazione con la disciplina di cui all’art. 101 TFUE, è decisamente più articolata di quella, appena abbozzata, presente nella precedente versione delle linee-guida. In vista dell’importanza assunta dal fenomeno, l’approfondimento così realizzato appare, in linea di principio, apprezzabile. I vantaggi scaturenti da siffatti accordi, in termini di ampliamento dei mercati, miglioramento delle condizioni di offerta e interoperabilità, sono di tutta evidenza. Ma l’esperienza insegna che a questi vantaggi possono associarsi effetti restrittivi della concorrenza5. Di là dall’ovvio pericolo che le pattuizioni in parola rechino seco intese sui prezzi da praticare, l’attenzione si appunta sulla possibilità di preclusione i) nell’ambito della procedura di selezione dello standard, con conseguente penalizzazione delle tecnologie alternative, e ii) a livello di accesso alle tecnologie necessarie per l’implementazione dello standard stesso.
2.1 «Safe Harbour» e impegni FRAND
Alla luce di queste premesse, i §§ 280-286 fissano un safe harbour, diverso da quelli – quantitativi in quanto connessi a quote di mercato – ricorrenti nei regolamenti di esenzione, perché sostanzialmente fondato sul rispetto di condizioni comportamentali. In altre parole, gli accordi di standardizzazione sono normalmente sottratti al divieto di cui all’art. 101 ove siano rispettate le seguenti condizioni: a) sia garantita l’assenza di restrizioni alla partecipazione alla procedura intesa a fissare lo standard, con la precisazione che detta procedura deve essere «trasparente», nel senso di fornire a tutti gli interessati l’informazione rilevante; b) non sussista obbligo di adeguarsi allo standard; c) venga assicurato l’accesso allo standard a condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie (fair, reasonable, and not discriminatory, impegni FRAND). Il profilo cennato da ultimo implica, in particolare, che: i) i detentori di diritti di proprietà intellettuale, in quanto potenzialmente essenziali per lo standard, ne divulghino in buona fede la sussistenza nella fase preventiva di definizione dello standard, in modo da permettere ai partecipanti di determinare quali tecnologie siano coperte da diritti detenuti da altri soggetti e, eventualmente, schivare successivi comportamenti opportunistici; ii) in vista dell’inclusione della tecnologia protetta nello standard, il titolare del diritto ad essa relativo s’impegni ex ante in maniera irrevocabile a concederlo in licenza sulla base di condizioni FRAND. Che cosa, poi, abbia a intendersi per condizioni eque e ragionevoli resta alquanto indeterminato6. Le linee-guida riconoscono candidamente l’impraticabilità di metodi di orientamento al costo, tipici di un impianto regolatorio, e confidano piuttosto sul confronto con i canoni di licenza applicati dall’impresa in un ambiente concorrenziale prima dell’adozione dello standard, o con le royalties richieste all’interno di altri standard o, ancora, su valutazioni rimesse ad esperti. Il tutto rimane, come prevedibile, nel vago delle buone intenzioni: con la precisazione che, di là dalle eventuali ricadute applicative della disciplina della concorrenza, le parti restano libere di sottoporre il loro eventuale contenzioso su impegni FRAND alle competenti giurisdizioni nazionali civili o commerciali. Infatti – e si tratta di una lacuna imbarazzante – il documento resta silente circa le conseguenze della mancata osservanza dell’obbligo di divulgazione o dell’impegno FRAND da parte dei singoli aderenti alla SSO. Il rimedio non è ovvio, posto che il ricorso alla nullità di cui all’art. 101, par. 2, risulterebbe inefficace laddove lo standard abbia conquistato il mercato e, anzi, finirebbe con ogni probabilità per penalizzare le vittime dei comportamenti devianti.
2.2 Presupposti per l’esenzione individuale
Per il caso in cui il safe harbour, come su definito, non possa trovare applicazione, i soggetti interessati devono valutare se l’accordo violi l’art. 101, par. 1, e, in caso di risposta positiva, se ricorrano le condizioni per l’esenzione individuale di cui all’art. 101, par. 3. Sul primo profilo, le Linee-guida spiegano, con virtuosa ricchezza di dettagli, come il riscontro di idoneità a produrre effetti restrittivi della concorrenza dipenda: a) dalla libertà per i membri delle «organizzazioni di normazione» (SSOs) di elaborare standard alternativi; b) dalle modalità di accesso allo standard; c) dal livello di apertura al processo di formazione dello standard; d) dalle condizioni di mercato (numero di concorrenti, quote di mercato delle imprese che adottano lo standard). Attiene al punto sub b) il favore espresso, nel § 299, per accordi che prevedano la divulgazione ex ante delle condizioni più restrittive (comprese le royalties massime applicabili) per il rilascio delle licenze. L’obiettivo è quello di assicurare che le parti coinvolte nella selezione di uno standard siano pienamente informate non solo riguardo alle opzioni tecniche disponibili e ai relativi diritti di proprietà industriali, ma anche riguardo ai probabili costi di tali diritti, in modo da propiziare «una decisione basata sui vantaggi e sugli svantaggi delle diverse tecnologie alternative … anche dal punto di vista dei prezzi». Con l’ovvia avvertenza che tali divulgazioni unilaterali ex ante non devono mascherare scambi d’informazione a fini di fissazione dei prezzi (secondo tecniche di cui si parlerà tra un momento). Con riguardo al punto sub c), le linee-guida privilegiano una partecipazione aperta, non distorta al processo di determinazione dello standard (§ 295): principio che trova applicazione nei casi in cui lo standard non abbia alternative o controlli una quota preponderante del mercato. Si riconosce, nondimeno, che in talune circostanze l’elaborazione dello standard è resa possibile solo dalla limitazione del numero dei soggetti che vi prendono parte; e che gli inconvenienti causati da tale ristretta partecipazione possono essere ovviati dall’informazione/consultazione dei soggetti interessati nel corso dei lavori. Alla valutazione di esentabilità dal divieto ai sensi dell’art. 101, par. 3, sono dedicati cenni abbastanza scarni, per lo più ripetitivi delle indicazioni espresse riguardo alla determinazione della restrittività dell’accordo (a conferma della difficoltà di distinzione dei profili riguardanti il primo e il terzo paragrafo della disposizione del trattato) e delle quattro condizioni da integrare perché sia riconosciuta l’inapplicabilità del divieto. Mette conto, tuttavia, segnalare come si assuma che le norme volte a stabilire la compatibilità a livello orizzontale fra piattaforme tecnologiche differenti possano determinare incrementi di efficienza (§ 311) e come sia presunto il vantaggio per i consumatori derivante da standard che agevolano l’interoperabilità e la compatibilità tecnica (§ 321). Inoltre, il § 319 chiarisce che l’assegnazione in esclusiva del diritto di verificare il rispetto dello standard eccede normalmente i limiti imposti dal principio di proporzionalità, salvo il caso in cui tale assegnazione possa essere giustificata per un lasso di tempo limitato e a certe condizioni, per esempio per consentire il recupero di ingenti costi di start-up.
Del tutto nuova la sezione dedicata allo scambio d’informazioni; nuova e di grande rilievo, posto che su questo versante si consuma uno dei più articolati e scottanti confronti concettuali in materia antitrust. Alla radici del problema si colloca l’interrogativo di fondo sulla valenza da assegnare alla disseminazione di informazioni. La trasparenza del mercato è normalmente riguardata come provvida nella prospettiva dei consumatori, penalizzati da insuperabili asimmetrie informative. Sennonché, quella stessa trasparenza rischia di secondare l’osservabilità dei comportamenti di chi opera sul mercato. Col risultato di facilitarne il presidio a fini di rispetto delle regole del cartello7. Di qui il dibattito che la frequente emersione di assetti oligopolistici ha finito con l’esasperare. Per dirla con Kaplow8, l’impianto teorico comunemente ricevuto non offre elementi per distinguere tra aumento del prezzo in ambito oligopolistico dovuto a interdipendenza (ossia al fatto che le imprese si astengono dal ridurre il prezzo per tema della ritorsione dei rivali) e quello innescato dal tipico comportamento cartellistico: «il pregiudizio da coordinamento sul prezzo dipende nella maniera più diretta dalla misura e dalla durata del sovrapprezzo, non dai mezzi impiegati per imporlo e mantenerlo in essere». Sennonché, l’adozione di un criterio valutativo fondato sulla sola ricognizione dell’effetto non farebbe più distinzione fra le situazioni in cui il parallelismo di prezzo emerga da determinazioni autonome dei singoli operatori, consapevoli dell’interdipendenza dei rispettivi comportamenti e, quindi, dell’inanità sostanziale di qualsivoglia iniziativa di aggressione delle altrui quote di mercato, ovvero dalla precisa e congiunta volontà di sostenere collettivamente un livello di prezzo superiore a quello che si determinerebbe in un mercato lasciato all’effettivo dispiegarsi della concorrenza. La comunicazione tra gli operatori e, dunque, lo scambio d’informazioni diventano il criterio discretivo tra lecito e illecito. Un criterio, tuttavia, di declinazione assai problematica. Ne è riprova, per quanto attiene all’esperienza italiana, la tormentata vicenda del caso Iama: il prospettato accordo tra imprese assicurative per l’acquisto sistematico di una banca dati relativa alle caratteristiche e ai prezzi dei prodotti assicurativi del ramo vita commercializzati dalle imprese partecipanti all’intesa era stato giudicato distorsivo del mercato, e perciò vietato, dall’AGCM9, con verdetto poi ribaltato dal TAR Lazio10 e, infine, riaccreditato, fra molte polemiche11, dal Consiglio di Stato12. Non occorre altro per rimarcare il valore del contributo offerto, al riguardo, dalla comunicazione della Commissione. Naturalmente, non è tutto oro quel che luccica. La chiave di volta della sezione è rappresentata dalla distinzione fra ipotesi che integrano gli estremi della restrizione per oggetto e quelle che determinano effetti anticompetitivi. Viene così portata alle estreme conseguenze – ma senza troppo costrutto – l’identificazione dello scambio d’informazioni col paradigma generale dell’intesa. Sennonché, una cosa è l’oggetto dell’accordo, che può appunto mirare in prima battuta ad alterare l’assetto competitivo del mercato, tutt’altra questione, e per la verità poco caratterizzante, l’oggetto riferito a un flusso, pur incrociato, di dati. La possibilità di applicare l’articolazione per oggetto richiede una verifica non diversa, nella sostanza, da quella praticata con riguardo alla restrizione per effetti13. Il rasoio di Occam invoca la sua parte.
3.1 Restrizioni per oggetto
Come anticipato, lo scambio d’informazione può incorrere nel divieto di restrizione della concorrenza per oggetto, ossia in una proibizione rigorosa, non dissimile – alla prova dei fatti – dalla per se rule d’oltre Atlantico. Ciò accade quando l’interazione comunicativa riguardi le intenzioni di comportamento futuro delle singole imprese in merito ai prezzi o alle quantità, nel presupposto che l’incrocio di dati individualizzati propizi l’individuazione di un comune livello di prezzi e, di conseguenza, il conseguimento di un esito collusivo, senza vantare, di regola, giustificazioni coerenti col mantenimento di un assetto concorrenziale. In quanto di natura privata, ossia limitata agli operatori coinvolti, questa pratica di comunicazione viene esplicitamente equiparata al cartello classico, ossia all’accordo esplicito per la fissazione di prezzi e quantità: come dire che la modalità utilizzata per arrivare all’intesa vietata ne assume, in modo metonimico e sincopato, portata e conseguenze. Il passaggio è critico, oltre che per le ragioni d’impianto concettuale cennate in precedenza, sotto almeno altri due profili di più immediata pragmaticità. Il primo attiene all’opportunità di limitarsi alla ricognizione dell’oggetto, qualunque cosa ciò significhi, quando il presupposto è che gli effetti susseguenti siano tipicamente distorsivi della concorrenza: l’utilità di una siffatta ‘anticipazione’ si coglie soltanto in caso di applicazione profilattica, ossia con riguardo a un’intesa che, come nel caso Iama, non sia stata ancora attuata, mentre in ogni altra circostanza, logica vorrebbe che allo scambio d’informazioni sensibili segua l’allineamento dei prezzi o delle politiche commerciali (e non può sottacersi, a questo proposito, che l’eventuale riscontro di effetti diversi da quelli preventivati – si pensi al mancato allineamento dei prezzi a dispetto dello scambio di informazioni – metterebbe in crisi, se non l’applicazione pratica del divieto, l’intero impianto concettuale su cui esso si basa). Il secondo elemento di criticità riguarda la riconciliazione della posizione su indicata col responso reso dalla Corte di giustizia in Woodpulp II14. Nel la specie, era infatti in discussione una pratica di annuncio pubblico (quindi rivolto anche agli acquirenti) preventivo dei prezzi da parte dei (pochi) produttori attivi su un mercato sostanzialmente globalizzato: pratica che si è (avventurosamente) ritenuto sfuggisse a condanna perché la concertazione non è parsa, alla Corte, costituire l’unica plausibile spiegazione per il parallelismo di prezzo riscontrato sul mercato, in vista delle sue proiezioni a lungo termine, della conseguente necessità di limitare i rischi, del vantaggio degli stessi acquirenti nella gestione delle proprie esigenze di pianificazione, dell’elevato livello di trasparenza assicurato dalle presenza di un gruppo ridotto di grandi acquirenti, nonché di condizioni contingenti15. Nonostante i tentativi di mettere in esponente le particolarità del caso, la contraddittorietà di questa indicazione giurisprudenziale rispetto alla trama concettuale proposta dalle linee-guida rimane di tutta evidenza; e si cerca di assorbirla col rilevare che l’assunzione dell’impegno a vendere a prezzi precedentemente annunciati non può considerarsi alla stregua di intenzione e non è in grado di restringere la concorrenza, salvo precisare che «ciò non implica tuttavia che in generale l’impegno assunto con i clienti a mantenere determinati prezzi sia necessariamente favorevole alla concorrenza. Al contrario, esso potrebbe limitare le possibilità di deviazione da un esito collusivo e quindi consolidarlo»16.
3.2 Restrizioni per effetti
Gli scambi di informazioni hanno effetti restrittivi sulla concorrenza se risulta probabile la loro incidenza negativa su parametri quali prezzi, quantità, qualità e varietà dei prodotti, innovazione. Il materializzarsi di tale incidenza negativa dipende dalle caratteristiche del mercato e dalla natura dell’informazione scambiata: profili che esigono un’indagine da condursi caso per caso. L’esito collusivo è più probabile su mercati sufficientemente trasparenti (in quanto ciò consente di limitare le variabili strategiche e di consolidare la stabilità esterna e interna), concentrati (un oligopolio ristretto agevola il conseguimento dell’equilibrio concertativo, come pure il suo mantenimento, data la relativa facilità di monitoraggio dei comportamenti devianti), semplici (la complessità dell’ambiente, legata per es. alla disomogeneità dei prodotti, postula un flusso informativo decisamente più ingente e rende più perigliosa l’individuazione di un plausibile equilibrio cartellistico), stabili (le oscillazioni del mercato esasperano le spinte centrifughe che scuotono il cartello) e simmetrici («quando le imprese sono omogenee in termini di costi, domanda, quote di mercato, gamma dei prodotti, capacità ecc., è più probabile che raggiungano un’intesa sulle condizioni del coordinamento, in quanto i rispettivi incentivi sono maggiormente allineati»: § 84). Altri fattori che contribuiscono alla stabilità dell’esito collusivo sono dati dalle aspettative di profitto e di permanenza nel settore, nonché, com’è ovvio, dalla credibilità della minaccia di ritorsione nel caso di comportamenti devianti. Circa la natura dell’informazione scambiata, si osserva come il massimo di pericolosità si riconnetta ai ‘dati strategici’, la cui condivisione «riduce l’indipendenza decisionale delle parti facendone diminuire gli incentivi a competere con i concorrenti». Per dati strategici s’intendono, tra l’altro, le informazioni relative ai prezzi: col che, una volta di più, il discrimen rispetto alle restrizioni per oggetto sembra evaporare. Si sottolinea, altresì, che lo scambio di dati deve avvenire tra imprese che coprono una «parte sufficientemente grande del mercato», senza che, però, a tale indicazione sia assegnato un qualsiasi spessore (nel che naufraga l’ultima speranza di individuare una qualche sorta di safe harbour). Le informazioni aggregate, che non consentano di risalire alle singole imprese, appaiono meno rischiose; e così pure quelle ‘storiche’, risalenti nel tempo quanto basta perché non possano essere indicative di comportamenti a venire né si prestino a consentire il monitoraggio di scostamenti e comportamenti opportunistici. Altro indice di potenziale pericolosità è la frequenza degli scambi d’informazione, posto che il loro infittirsi agevola la migliore comprensione comune. Infine, particolare rilievo viene assegnato alla natura, pubblica o no, dei dati disseminati: l’informazione effettivamente disponibile a tutti non genera criticità. Attenzione, però, alla connotazione di pubblicità: non basta, come aveva ritenuto il TAR Lazio nel già citato caso Iama, che l’informazione sia di «dominio pubblico», nel senso di poter essere attinta da chiunque vi abbia interesse, ma occorre che possa essere raccolta da soggetti esterni a costi non maggiori delle parti coinvolte nello scambio. A conti fatti, nessuna informazione – neppure quella «genuinamente pubblica» – è esplicitamente sottratta all’applicazione del divieto ex art. 101, par. 1, salvo trovare riscatto in efficienze gestite in modo conforme a quanto richiesto dal paragrafo 3. La disciplina così delineata appare, nel complesso, assai rigida: come si era intuito un paio di lustri fa17, lo scambio d’informazioni si avvia a diventare la frontiera più calda del diritto della concorrenza.
1 In G.U.U.E. C 11 del 14/1/2011.
2 Reg. n. 1217/2010 della Commissione relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea a talune categorie di accordi ricerca e sviluppo e Reg. n. 1218/2010 della Commissione relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea a talune categorie di accordi di specializzazione. I due regolamenti di esenzione per categoria, entrati in vigore il 1° gennaio 2011, riproducono, per la più parte, la trama della disciplina previgente. Gli aspetti novativi: 1) per quanto attiene agli accordi di R&D, vanno registrati l’estensione alla ricerca su commissione, in cui la partecipazione di una parte si riduce al supporto finanziario, e l’allargamento della libertà di sfruttamento congiunto; 2) con riguardo agli accordi di specializzazione, si chiarisce che l’esenzione si applica anche agli accordi in forza dei quali una parte cessa in toto la produzione di certi beni o servizi e si precisa che, laddove i prodotti cui si riferisce l’accordo siano utilizzati dalle parti come componenti di prodotti a valle, la soglia del 20% per l’applicazione dell’esenzione deve essere rispettata anche nel downstream market.
3 Per una valutazione analitica delle linee- guida, attenta a sottolineare la più risoluta caratura economica adottata dalla Commissione, v. Giannaccari, Le linee direttrici sugli accordi di cooperazione orizzontale: quid novi?, in Mercato, concorrenza, regole, 2010, 561, il quale sottolinea come l’articolato processo di elaborazione sia approdato a un «testo notevolmente più articolato, che dovrebbe anzitutto essere d’ausilio per le imprese al fine di valutare la compatibilità di un accordo a carattere orizzontale con le norme comunitarie, nel caso in cui esso non benefici di alcuna forma di esenzione: circostanza che può materializzarsi sia laddove esso non ricada nelle maglie di un regolamento di categoria (ad esempio di ricerca e sviluppo o di specializzazione), sia anche qualora le parti non possano valersi di safe harbors (perché, mettiamo, le quote di mercato congiunto eccedano le soglie rilevanti)».
4 Vi rientrano, dunque – ma non senza forzatura –, le condizioni standard di vendita o di acquisto definite da un’associazione di imprese o da un gruppo di operatori in concorrenza, mentre rimangono estranee al concetto le condizioni generali di contratto applicate da una singola impresa alla generalità dei contratti con i propri clienti e fornitori.
5 Per I primi riferimenti (ai casi Rambus e Qualcomm), v. Giannaccari, Le linee direttrici, cit., 369 ss.
6 Cfr. Mariniello, Fair, reasonable, and non-discriminatory (terms): a challenge for competition authorities, in Journal of competition law and economics, 2011 (10.1093/joclec/nhr010, on line)
7 Più rarefatto il rischio, pur considerato dalle linee-guida (§§ 69-71), che lo scambio d’informazioni ‘strategiche’ e riferite ad una parte rilevante del mercato metta in situazione di grave svantaggio concorrenziale operatori che non vi hanno accesso.
8 Cfr. Kaplow, On the meaning of horizontal agreements in competition law, disponibile in http://ssrn.com/abstract=1873430.
9 Provv. 13622, I-575, Ras-Generali/ Iama Consulting.
10 TAR Lazio, sez. I, 4.8.2005, n. 6088.
11 Cfr., indicativamente: Giannaccari, Il caso Iama al Consiglio di Stato: indietro tutta!, in Mercato, concorrenza, regole, 2011, 145; Grillo, Il caso Iama al Consiglio di Stato: avanti tutta!, in Mercato, concorrenza, regole, 2011, 151; Di Via, Osservazioni sulla sentenza del Consiglio di Stato sul caso Iama, in Mercato, concorrenza, regole, 159.
12 Cons. St., sez. VI, 29.12.2010, n. 9565.
13 Cfr. § 72 («Nel valutare se lo scambio di informazioni dà luogo ad una restrizione della concorrenza per oggetto, la Commissione presterà particolare attenzione al contesto giuridico ed economico in cui avviene lo scambio di informazioni») e nota 5 («Ciò non significa che gli annunci pubblici sui dati individualizzati relativi ai prezzi previsti in futuro non possano dar luogo ad incrementi d’efficienza o che i partecipanti a tale scambio di informazioni non possano contare sulle deroghe di cui all’articolo 101, paragrafo 3»).
14 A. Ahlström Osakeyhtiö e.a. (Woodpulp II), cause riunite C-89/85, C-104/85, C-114/85, C- 116/85, C-117/85 and C-125/85 to C-129/85, [1993] ECR I- 1307.
15 Corrosive, al riguardo, le osservazioni di Kaplow, cit: «It is widely known that concentrated buyers placing large orders makes collusion difficult, not easy, and it is surprising to think that a large buyer obtaining a secret price cut would happily offer this information to its competitors so that they too could benefit, depriving the first buyer of any competitive advantage. Perhaps the Court was confused».
16 V. § 74 e nota 4.
17 Pardolesi, Sul «nuovo che avanza» in antitrust: l’illiceità oggettiva dello scambio d’informazioni (nota a Cons. St., sez. VI, 23.4.2002, n. 2199, Axa assicuraz. c. Autorità garante concorrenza e mercato), in Foro it., 2002, III, 500.