Mercati, concorrenza e innovazione
Il mito del mercato oggi
La convinzione che il mercato rappresenti la via maestra all’innovazione e alla crescita economica ha raggiunto in questi ultimi anni un tale grado di accettazione da apparire quasi come una verità incontrovertibile. Tanto che riesce difficile parlare di vero e proprio dibattito, in presenza di un così vasto consenso all’idea che la realizzazione piena di un’economia di mercato sia l’obiettivo primo cui deve tendere qualsiasi sistema economico che voglia effettivamente aumentare il benessere dei propri cittadini.
Come qualunque credo ormai affermatosi, la visione dominante del mercato esibisce tratti forti e netti che dettano un’agenda di politica economica anch’essa chiaramente delineata. Tale visione identifica essenzialmente il mercato con il pieno operare della concorrenza, e quindi con la minimizzazione delle distorsioni monopolistiche, quale canale privilegiato di realizzazione degli sviluppi della tecnologia. Se è vero, come si ritiene, che la concorrenza e la rivalità fra imprese stimolano l’innovazione alla frontiera, è condizione primaria eliminare ogni forma di ostacolo al libero gioco della concorrenza. Occorre pertanto creare un ambiente che incoraggi la creazione di imprese, favorisca la sfida alle posizioni dominanti e stimoli entrate nel mercato e uscite dal mercato.
Come misure necessarie per dare forma all’economia invocata sono indicate riforme strutturali volte all’eliminazione di qualsiasi rigidità, e quindi allo smantellamento delle istituzioni e delle regole ritenute d’intralcio alla flessibilità richiesta dal gioco della concorrenza – in primis privatizzazioni e deregolamentazione di tutti i mercati, con particolare riferimento al mercato del lavoro, e più in generale eliminazione di qualsiasi intervento pubblico che interferisca con decisioni ritenute spettanti al settore privato. L’idea che alla fortissima crescita, al suo diffondersi e agli eccezionali miglioramenti nella qualità della vita realizzati dal mondo occidentale in questo secondo dopoguerra possa aver concorso quel complesso di istituzioni e di politiche pubbliche che hanno operato in prevalenza in tale mondo, sbiadisce del tutto a fronte della rivendicazione delle virtù della concorrenza nella sua forma ritenuta più pura. Quasi che quelle istituzioni e quelle politiche, pur se impiantate solidamente in un’economia di mercato, invece che viste come un fattore positivo siano state in realtà considerate un ostacolo a un ben più formidabile sviluppo.
L’invocato virtuoso operare del mercato, si asserisce ancora, richiede tuttavia la stabilità del quadro macroeconomico, e cioè del quadro nel quale il mercato stesso è chiamato a operare; stabilità che, sempre nella visione dominante, richiede a sua volta il mantenimento di bilanci pubblici in equilibrio e una lotta senza quartiere al minimo segno d’inflazione, lotta focalizzata su una politica monetaria interamente centrata sul ruolo svolto dal saggio d’interesse, e, di conseguenza, su un comportamento virtuoso delle banche centrali (Sapir et al. 2004).
Questo in sintesi, ma senza discostarsi molto dalla realtà, il quadro interpretativo e operativo proposto dal pensiero economico attualmente dominante. Si è già detto che non esiste un vero e proprio dibattito a tale proposito. Certo, esistono delle visioni alternative, ma si tratta, comunque, di posizioni basate su contrapposizioni ideologiche più che su dei veri e propri quadri analitici che permettano un rigoroso argomentare e quindi critiche articolate alle ricette di politica economica imperanti.
In questo saggio si cercherà dunque di colmare un simile vuoto. Il primo passo da compiere in tale direzione, tuttavia, è proprio quello di porre in luce ed esaminare da cosa tragga sostanza e legittimazione la visione del mercato dominante.
Concorrenza e mercato
Il ruolo centrale assunto dal mercato nella teoria economica non è certo un fatto nuovo. Il mercato è stato infatti la pupilla dell’occhio degli economisti sin dal primo emergere dell’economia come disciplina autonoma. A esso ci si riferisce in modo costante, seppure con significati e accentuazioni diversi, lungo tutto l’arco della storia del pensiero economico. Così come costante è il riferirsi alla concorrenza e all’operare del settore privato in contrapposizione all’intervento pubblico come aspetto cruciale, se non essenza stessa, della concorrenza. Si può quindi affermare che alla base del dibattito sul mercato è sempre esistito un determinato modo di intendere la relazione tra quest’ultimo e la concorrenza: una relazione, tuttavia, complessa e non di completa identificazione, come invece sembra evincersi dalla visione estrema oggi dominante.
Non sorprende quindi che, per es., lo stesso Adam Smith, per citare il nome più spesso associato all’idea del mercato quale deus ex machina del processo economico, riconosce come la libertà naturale e la libera concorrenza ammettano numerose eccezioni, perché il libero gioco degli interessi non di rado degenera in prevaricazioni e in dinamiche nocive; il che spinge tale autore a sottolineare in molti casi l’importanza dell’intervento dello Stato – vedi il caso dell’istruzione (An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776, ed. R.H. Campbell, A.S. Skinner, 1976, pp. 302-04) – e persino a indicare alcune politiche di regolamentazione.
La lenta marcia verso una vera e propria identificazione del mercato con una sua forma particolare ed estrema, quella della perfetta libera concorrenza, avviene in parallelo con il passaggio da un contesto in cui il problema centrale è l’accumulazione di risorse produttive in un’ottica di sviluppo dell’economia (il mondo degli economisti classici), a un altro contesto in cui ciò che si chiede al mercato stesso è un meccanismo allocativo volto all’ottimizzazione dell’impiego delle risorse disponibili e, per questa via, alla massimizzazione del benessere generale (il mondo neoclassico). Più in particolare, in quest’ultima ottica, si cerca nel mercato risposta alle seguenti domande: quanto produrre di ciascun bene; quale ammontare di risorse allocare alla produzione di ciascun bene; come dividere il prodotto così ottenuto fra gli agenti economici. Come si vede, al cuore del fatto economico vengono ora posti il fenomeno dello scambio e il sistema dei prezzi come meccanismo di coordinamento ottimale di tale scambio. Il prezzo dei beni, segnalando il maggiore o minor vantaggio di produrre l’uno o l’altro, permette di eguagliare la quantità prodotta di ciascun bene alla quantità domandata; allo stesso modo il prezzo delle risorse produttive richieste permette alle imprese più efficienti di ottenere le risorse stesse, agendo come strumento di razionamento; e infine ancora i prezzi determinano il processo distributivo razionando i beni sulla base delle preferenze e dei redditi relativi. In tale quadro il prezzo socialmente ottimale, quello che permette la massimizzazione del benessere, è il prezzo determinato in un mercato di perfetta libera concorrenza.
William S. Jevons, Francis Y. Edgeworth, Philip H. Wicksteed, Léon Walras sono tra gli economisti che segnano il passo del processo che ha condotto alla visione dello scambio come fenomeno economico per eccellenza, della scelta dei rapporti di scambio (i prezzi) come problema cruciale di mercato e della concorrenza come forma perfetta di quest’ultimo in quanto permette di rendere ottima tale scelta (Ingrao, Ranchetti 1996). Una visione che, come già sottolineato, rimane alla base del pensiero economico oggi dominante, pur se formalmente reinterpretata in modo da prendere in considerazione esplicitamente i problemi pressanti dell’innovazione e della crescita.
Concorrenza, innovazione e crescita
Il caso del mercato del lavoro è particolarmente emblematico a tale riguardo. L’opinione attualmente dominante, sia nella letteratura economica sia nella maggior parte dei circoli politici, sostiene che liberalizzare tale mercato, facilitando la possibilità di assumere e licenziare senza vincoli e costi, nonché di fissare liberamente i livelli salariali, rappresenti il miglior incentivo all’investimento produttivo e quindi favorisca l’innovazione e la crescita.
Gilles Saint-Paul (2002), tra gli altri, ha offerto una base teorica a tale opinione. La sua analisi focalizza in particolare le rigidità che affliggono il mercato del lavoro sotto forma di costi di licenziamento imposti alle imprese, gli effetti di tale protezione del lavoro sulla struttura delle innovazioni e, per questa via, i livelli di produttività nel lungo periodo e quindi la competitività e la crescita. I maggiori aumenti di produttività, infatti, sono ottenuti dalle imprese che adottano le tecnologie più avanzate e più rischiose, imprese che, appunto per i notevoli rischi in cui incorrono, hanno serie probabilità di fallimento e sono quindi caratterizzate da un forte turnover e una notevole creazione e distruzione di occupazione. Per simili imprese la protezione dell’occupazione per mezzo di alti costi di licenziamento si traduce in un disincentivo a investire in innovazione e in una spinta a mantenere risorse umane impiegate in settori certo meno rischiosi, ma a più bassa produttività. Ciò, per es., permette di spiegare la più accentuata dinamica della produttività realizzata in tempi recenti negli Stati Uniti (dove innovazioni ‘primarie’, che introducono dei prodotti del tutto nuovi e sono pertanto molto rischiose, ma possono dar luogo ad altissimi rendimenti, sono state stimolate da bassi costi di licenziamento e mercati del lavoro flessibili) rispetto a quanto verificatosi nelle grandi economie industrializzate d’Europa (dove una forte protezione dell’occupazione e rigidi mercati del lavoro hanno invece favorito l’impiego di innovazioni ‘secondarie’, vale a dire innovazioni volte a migliorare unicamente la qualità dei prodotti esistenti, che permettono di contare su una domanda relativamente stabile, ma danno luogo a limitati incrementi di produttività).
Le istituzioni e il mercato sono dunque chiamati a fornire gli incentivi per le scelte ‘giuste’, le scelte più innovative, ed è questo che permette di definire il grado di ottimalità di istituzioni e forme di mercato. In particolare, debbono essere fissate regole appropriate che disciplinino le transazioni di mercato. Questo, si argomenta, non si verifica se tali regole producono distorsioni tali da permettere a qualche agente di ottenere guadagni eccessivi, guadagni, in altre parole, che eccedano il valore effettivamente investito, a detrimento di altri. Così, quando le regole che governano il mercato del lavoro consentono al lavoro stesso di appropriarsi di un guadagno eccessivo in questo senso, si sceglieranno tecniche che economizzino tale fattore con l’inevitabile conseguenza di ridurre drasticamente la creazione di posti di lavoro dando luogo, in questo modo, a disoccupazione. Senza contare il fatto che ciò renderà al contempo possibile la sopravvivenza di imprese arretrate e una scarsa produttività (Caballero, Hammour 1999).
Tecnologia e produzione
La tesi esposta sottolinea la scelta della tecnologia ‘giusta’ quale fattore determinante della crescita, e pone come problema centrale di politica economica gli incentivi volti a favorire tale scelta, assicurati in primo luogo da mercati perfettamente concorrenziali.
Questo è sufficiente, nel senso che la teoria della produzione sottostante tale visione implica che la comparsa di una nuova capacità produttiva e la sua adeguata utilizzazione (quindi, i ricavi economici della tecnologia) sono il risultato automatico (istantaneo o, in alcuni modelli che si vogliono più realistici, ritardato) della semplice disponibilità di date risorse produttive (i fattori della produzione) e del modo nel quale queste vengono combinate (la tecnologia), il che determina anche l’efficienza con la quale le suddette risorse vengono utilizzate nel processo di produzione.
La teoria della produzione e la definizione della tecnologia sottostanti tale visione implicano che si possa fare conto su una relazione data fra le grandezze (prodotto, capitale, lavoro) coinvolte nel processo produttivo. Questo è vero, tuttavia, solo nell’ipotesi che gli economisti definiscono ‘di equilibrio’. Vale a dire nell’ipotesi che esista un comportamento affidabile dell’economia determinato da un apparato produttivo già costituito e funzionante in un modo dato, e quindi definibile in termini di alcuni coefficienti produttivi. Solo in equilibrio è possibile fare affidamento sulle relazioni descritte da tali coefficienti; solo allora a ciascuna tecnica è possibile associare con certezza una data produttività, e solo in questo quadro è sufficiente soddisfare certe condizioni per avere automaticamente determinati risultati. In particolare che, dati gli sviluppi della tecnologia, la semplice adozione delle tecniche produttive più avanzate permetta di ottenere gli aumenti di produttività a queste associati per definizione. Ma le innovazioni, al pari e in più di qualsiasi cambiamento economico, implicano proprio una rottura di tale quadro, e cioè il tentativo di modificare il modo di essere e di funzionare dell’apparato produttivo dell’economia per determinare un diverso comportamento di quest’ultima. Così, per quanto non possa certo essere messo in dubbio che i progressi della tecnologia rappresentino un fattore essenziale di crescita, non è la tecnologia in sé stessa, vale a dire il semplice fatto di scegliere di adottare certe tecniche produttive, ciò che determina la crescita. Non sono pochi, infatti, gli esempi di invenzioni e innovazioni che avrebbero in teoria permesso decisivi e sostanziali aumenti di produttività e che si sono, al contrario, risolti in perdite di risorse e in impulsi negativi relativamente al funzionamento dell’economia.
Per far sì che dalla tecnologia si arrivi a rendimenti economici effettivi, e quindi alla crescita, occorre passare attraverso un delicato processo che consiste in primo luogo nella costruzione/creazione di una nuova capacità produttiva e poi nel rendere questa operativa. La comparsa di nuovi beni e servizi, al cuore dell’innovazione, richiede d’altra parte non soltanto nuovi processi produttivi, ma anche nuove attività, che a loro volta richiedono nuovi tipi di interazione fra gli attori e le istituzioni esistenti o anche la comparsa di nuovi attori e istituzioni.
L’effettiva crescita economica, in conclusione, dipende dal successo di un complesso processo economico caratterizzato dalla partecipazione di una pluralità di attori privati e istituzionali, e richiede altresì il funzionamento di efficaci meccanismi di coordi-namento per potere avere successo. Il processo di innovazione, infatti, può avere successo o meno e, in caso positivo, può avere sviluppi diversi, in relazione all’operare di un complesso di meccanismi di coor-dinamento sia a livello microeconomico, sia a livello macroeconomico. Ciò che conta veramente, quindi, non è tanto fare la ‘giusta’ scelta di investimento, quanto rendere possibile il processo (che può anche fallire) attraverso il quale i guadagni potenziali di nuove e più avanzate tecnologie si traducono in rendimenti economici effettivi.
Il ruolo del mercato, in una simile prospettiva, consiste appunto nello svolgere l’attività di coordinamento richiesta per assicurare la fattibilità di un processo complesso e di natura sistemica, e non semplicemente nel fornire gli incentivi che dovrebbero assicurare l’adozione di date innovazioni tecnologiche, come avviene negli schemi analitici che da tale processo prescindono spostando l’attenzione sui risultati scontati di quest’ultimo. La prima conseguenza di questo cambio di prospettiva è che il coordinamento menzionato non è affatto privilegio di una forma specifica di mercato, in particolare la concorrenza indicata quale forma ideale. Accordi collusivi, oligopoli, concentrazioni di mercato, politiche discriminatorie di prezzi e altre forme usualmente considerate come imperfezioni di mercato possono invece rappresentare meccanismi di coordinamento decisamente più efficaci ai fini della fattibilità dei processi innovativi e dell’ottenimento di quei rendimenti che permettono un effettivo accrescimento del benessere generale.
Il processo di innovazione
Per comprendere a pieno il ruolo del mercato quale meccanismo di coordinamento nel contesto dinamico rappresentato dal processo di innovazione, occorre porre in luce i tratti essenziali di tale processo.
L’innovazione si realizza necessariamente attraverso la creazione di nuova e diversa capacità produttiva e, come già accennato, implica in primo luogo una rottura del modo di operare dell’apparato produttivo da cui il funzionamento dell’economia essenzialmente dipende: una rottura, nel linguaggio della teoria economica, dell’equilibrio preesistente. Tale frattura, data la natura sistemica del processo in questione, si estende all’intera economia, e implica pertanto distorsioni e squilibri in ogni comparto di quest’ultima e in particolare nel mercato del lavoro.
Due fenomeni risultano conseguenza immediata e necessaria della distorsione della capacità produttiva associata al processo di innovazione: fenomeni ben noti e conosciuti agli economisti con i nomi di paradosso della produttività e di disoccupazione tecnologica (o effetto macchine, nella terminologia dell’economista David Ricardo, cui risale la più nota trattazione di tale fenomeno). Il paradosso della produttività, e quindi una caduta dei livelli di produttività nonostante l’introduzione di tecniche ritenute più produttive in termini di coefficienti tecnici, è l’espressione del divorzio fra la produttività della tecnica, quale, come si è visto, può essere verificata solo in uno stato di equilibrio, e cioè a seguito dell’esistenza di un apparato produttivo già costituito e pienamente operante, e la produttività effettiva dell’economia nel corso del processo di innovazione, un processo che si svolge in un contesto fuori dall’equilibrio.
Caratteristica essenziale di tale processo è che esso si svolge nel tempo. Ciò implica in particolare che la ristrutturazione della capacità produttiva al cuore del processo stesso è caratterizzata necessariamente da una fase nella quale il vecchio apparato produttivo, o parte di esso, non sarà più in funzione, mentre il nuovo apparato produttivo non sarà ancora in funzione perché in corso di costruzione/costituzione. Esisterà cioè una dissociazione nel tempo fra input e output, ossia fra l’impiego di risorse produttive e il risultato del loro impiego in termini di prodotto, e quindi fra i costi del processo di innovazione e i ricavi dello stesso: dissociazione che potrà essere riassorbita solo quando, e se, il processo di innovazione avrà avuto successo e sarà stato positivamente condotto a termine, costituendo la base per un nuovo equilibrio dell’economia. Ciò, oltre a una caduta temporanea della produttività, comporta la comparsa di pressioni inflazionistiche (e/o a deficit della bilancia dei pagamenti in economie aperte), poiché i beni e servizi che dovrebbero essere l’oggetto dell’acquisto da parte dei redditi percepiti dai partecipanti al processo di ristrutturazione non saranno disponibili fino a quando il processo stesso non sarà condotto a termine.
D’altra parte, dato che la forza lavoro è una componente della capacità produttiva, la scomparsa di parte del vecchio apparato produttivo genererà necessariamente una perdita di posti di lavoro (quindi disoccupazione tecnologica), che verrà riassorbita solo quando, e se, una nuova capacità produttiva sarà costituita e diverrà pienamente operante.
Inflazione e disoccupazione sono dunque effetti immediati ineliminabili di cambiamenti strutturali tali da modificare il funzionamento dell’economia, com’è il caso delle innovazioni alla frontiera che ne rappresentano l’effettivo fattore di crescita. Il tentativo di eliminare gli squilibri alla base di tali fenomeni, che hanno origine dal lato della produzione, ma poi si estendono al complesso delle attività economiche, dà luogo a una serie di azioni e reazioni che ha piuttosto l’effetto di nutrire e spesso amplificare squilibri successivi, determinando fluttuazioni erratiche di tutte le grandezze economiche rilevanti. Questo è il caso, per es., di una politica monetaria restrittiva (quale quella seguita in questi ultimi anni dalla Banca centrale europea) che cerchi di combattere le inevitabili spinte inflazionistiche il più presto e il più completamente possibile, con il risultato di esacerbare però l’iniziale impatto negativo del processo di innovazione intrapreso sul prodotto e sull’occupazione. Il compito essenziale della politica monetaria, nel contesto considerato, dovrebbe consistere invece nel rimuovere i vincoli finanziari che rappresentano un ostacolo all’effettuazione dei corposi investimenti richiesti da tecnologie fortemente innovative, contribuendo in questo modo a evitare distorsioni della capacità produttiva tali da provocare eccessivi squilibri di mercato.
Accanto al problema della disponibilità delle risorse finanziarie e delle risorse umane a queste ultime complementari, necessarie al processo di creazione di nuova capacità produttiva, i regimi d’allocazione delle risorse stesse rappresentati dai sistemi di determinazione di prezzi e salari concorrono a determinare il funzionamento dei meccanismi di coordinamento richiesti. In particolare, come si vedrà, a questi regimi è demandato il compito di evitare scosse troppo violente, spostamenti di reddito e di domanda troppo marcati a seguito degli squilibri originariamente indotti dalle distorsioni della capacità produttiva conseguenti a uno shock tecnologico. Sono proprio queste fluttuazioni che, investendo i diversi mercati, possono infatti dar luogo a distruzioni di imprese e livelli di disoccupazione che l’economia non è in grado di sopportare.
Concorrenza come ‘stato’ e concorrenza come ‘processo’
Le basi di una visione del ruolo del mercato alternativa a quella che vede nella concorrenza un particolare regime di mercato da considerarsi incentivo in grado di condurre a scelte ottime in un contesto di equilibrio, e che sottolinei invece il ruolo della concorrenza quale meccanismo di coordinamento nel tempo di un processo fuori dall’equilibrio quale l’innovazione (processo di cui si sono appena evocati i tratti fondamentali), vedono un precursore in Friedrich A. von Hayek (Individualism and economic order, 1948). Per tale autore il problema economico della società consiste principalmente nel rapido adattamento ai cambiamenti che caratterizzano le evoluzioni dell’economia. In tale prospettiva il compito che la concorrenza assolve non è più quello di calcolare prezzi di equilibrio corrispondenti a condizioni date e costanti, compito assicurato da una particolare forma di mercato. La concorrenza assume invece rilevanza in quanto è essa stessa processo e non stato: processo di scoperta dell’informazione che rende possibile il coordinamento dell’economia trasmettendo a tutti gli operatori coinvolti nel cambiamento le informazioni essenziali sui mutamenti delle condizioni di mercato in corso durante il cambiamento stesso.
Non vi è più quindi l’idea che i mercati di concorrenza riflettano un equilibrio in qualche senso perfetto o necessariamente ottimale, e che si debba parlare di concorrenza solo qualora le condizioni dei mercati corrispondano a quelle della definizione di concorrenza perfetta; tanto che il coordinamento delle attività indipendenti nel mercato è chiamato da Hayek non più equilibrio, ma ordine di mercato: un sistema di relazioni e un insieme di processi che costituiscono un ordine spontaneo complesso. Nell’analisi di Hayek, tuttavia, l’attività di coordinamento è pur sempre riferita in modo essenziale all’attività dello scambio che il mercato è chiamato a regolare. Il passo successivo da compiere per una interpretazione del ruolo del mercato in relazione al problema oggi rilevante dell’innovazione e della crescita è di estendere questa visione della concorrenza come processo di coordinamento nel tempo al problema della ristrutturazione dell’apparato produttivo dell’economia, le cui complementarità intertemporali debbono essere assicurate per rendere fattibile il processo di innovazione.
Questo processo, si è sottolineato, è fenomeno sistemico, caratterizzato dall’interazione fra una pluralità di agenti – imprese, clienti, banche e altri intermediari finanziari, istituzioni, autorità di governo – e una pluralità di mercati più o meno tra loro integrati. Il problema è allora come rendere possibile ed effettiva tale interazione: un’interazione che si svolge nel tempo passo dopo passo, per tentativi ed errori, e che riflette perfettamente il modo nel quale tutti gli agenti coinvolti reagiscono sequenzialmente ai disequilibri causati dai cambiamenti in atto.
Questa diversa visione della relazione fra innovazione e crescita e, di conseguenza, del ruolo del mercato e della definizione della concorrenza, implica chiaramente un quadro di politica economica diverso da quello attualmente dominante, con ribaltamento spesso dell’attributo di virtuosità o meno di date regole e comportamenti. È dunque il confronto e la contrapposizione fra queste diverse impostazioni di politica economica che possono dare contenuto e significato a un dibattito sul mercato oggi.
Mercato del lavoro e occupazione
Si è visto in che modo il mercato del lavoro appaia come il primo candidato alle riforme strutturali volte a instaurare quel regime di concorrenza presupposto essenziale di scelte innovative e quindi di crescita nella visione di politica economica dominante. L’opinione oggi prevalente sia a livello accademico sia in circoli politici, si è già detto, è infatti che la possibilità di assumere e licenziare senza costi eccessivi, favorita dal passaggio da logiche di contrattazione collettiva a logiche di contrattazione individualizzata, e il poter fissare liberamente anche il livello dei salari, non solo rappresentano incentivi all’investimento nelle tecnologie più avanzate e più produttive, ma favoriscono anche l’occupazione. Rendere flessibile il mercato del lavoro, ingessato da regole che ne impediscono un efficiente funzionamento, è dunque l’obiettivo principale delle riforme invocate.
Si è anche visto però come la validità o meno di un simile quadro dipenda dal fatto che l’innovazione sia vista come il risultato di una scelta da ottimizzare, ostacolata o resa possibile dall’esistenza di date condizioni di tipo essenzialmente istituzionale, oppure come un processo di ristrutturazione di capacità produttiva che implica necessariamente la comparsa di squilibri e, di conseguenza, richiede l’intervento di meccanismi di coordinamento per riassorbire tali squilibri in modo da rendere possibile la completa attuazione del processo stesso. E, in conseguenza di ciò, come tale validità dipenda dal fatto che il problema dell’occupazione appaia come un problema di apparigliamento di domanda e offerta di lavoro – in un’ottica di mercato visto come meccanismo di coordinamento di un’attività di scambio – oppure come un problema di creazione di posti di lavoro – in un’ottica appunto di ristrutturazione di capacità produttiva.
In quest’ultimo caso, infatti, gli interventi di politica economica richiesti possono essere diversi e addirittura opposti a quelli di solito invocati. Il tentativo di reagire ai disequilibri associati a un processo di ristrutturazione produttiva dà usualmente luogo, in forma alternata, a una serie di eccessi di domanda e di offerta che finiscono per amplificare le distorsioni iniziali producendo fluttuazioni sempre più marcate e dando luogo a distruzioni di imprese e disoccupazione. Tali fluttuazioni possono essere ridotte o amplificate a seconda che si riesca o meno a ristabilire un sufficiente coordinamento dell’economia. I regimi salariali ricoprono un ruolo estremamente importante in questo quadro. La flessibilità interpretata come veloce aggiustamento di prezzi e salari nutre reazioni eccessive nell’una o nell’altra direzione tali da generare un più marcato alternarsi di eccessi di domanda ed eccessi d’offerta. Una certa rigidità salariale, non consentendo forti redistribuzioni di reddito e di domanda, impedisce alle fluttuazioni che caratterizzano il processo di innovazione di divenire così forti da mettere in pericolo il processo stesso.
La flessibilità non è un dogma; le rigidità cui viene attribuito un intrinseco carattere negativo possono invece svolgere un ruolo positivo qualora si abbia chiaro in mente qual è il problema da affrontare.
Quanto ora detto dovrebbe aiutarci a porre in una luce adeguata le ricorrenti affermazioni della necessità di procedere a riforme strutturali del mercato del lavoro per eliminare le rigidità esistenti e in tal modo favorire l’occupazione. Se infatti l’occupazione è, come certamente è, una componente della capacità produttiva, il problema che essa comporta non può essere di ricondurre in equilibrio la domanda e l’offerta sul mercato del lavoro esistente facendo ricorso a incentivi rappresentati da particolari normative (quale, appunto, la piena libertà di assumere e licenziare) o regimi salariali. L’implicazione di una simile visione è che i posti di lavoro ci sono, ma non sono bene allocati. Il problema in economie sottoposte a continui cambiamenti di modo di operare è al contrario quello di creare posti di lavoro (in sostituzione di quelli scomparsi insieme ad apparati produttivi obsoleti), costruendo nuova capacità produttiva di cui l’occupazione è un aspetto al pari di macchine, attrezzature, organizzazione, quadro di relazioni e così via. Si crea occupazione rendendo fattibili processi di ristrutturazione produttiva che richiedono sì in primo luogo investimenti, ma anche meccanismi di coordinamento adeguati. E in questa luce, come si è appena visto, le rigidità, invece di essere un ostacolo alla creazione di occupazione, possono rappresentare un fattore di stabilità e quindi aiutare la fattibilità di un processo di cui l’occupazione è la risultante.
Ma non solo questo. La creazione di nuova capacità produttiva implica non solo costruzione di nuove attrezzature, ma anche una ‘ristrutturazione’ della risorsa umana, strettamente complementare alla risorsa fisica. L’apprendimento, nelle sue diverse forme, è il processo attraverso cui la risorsa umana viene adeguata alle trasformazioni in atto. In quest’ottica, la flessibilità del mercato del lavoro appare piuttosto come un ostacolo all’effettuazione di investimenti di lungo periodo in capitale umano (quegli investimenti da cui dipende il processo di apprendimento), data la possibilità per gli imprenditori di perdere repentinamente tale capitale, e allo stesso tempo scoraggia gli sforzi effettuati dai lavoratori per acquisire competenze specifiche che possono risultare inutili se vi è il forte rischio di perdere il tipo di lavoro a cui tali competenze sono connesse. Contrariamente a quanto troppo spesso sostenuto, quindi, non è affatto certo che la flessibilità, nel senso di riduzione della protezione del lavoro, sia così importante in tempi di rapidi mutamenti e di necessità di adeguamento continuo di produzioni e di competenze. Ciò che è invece vero è che il successo di un processo di innovazione dipende dalla capacità di apprendimento, e tale capacità è favorita non quando le turbolenze di mercato naturalmente associate a cambiamenti strutturali vengono sistematicamente favorite, ma piuttosto quando vengono limitate e ricondotte nell’ambito di strutture stabilizzate.
Tutto ciò permette di riconsiderare in una luce diversa la spiegazione prevalente della differente crescita dell’economia degli Stati Uniti rispetto a quella dei Paesi europei, differenza attribuita alle caratteristiche strutturali di tali economie, ossia alle regole istituzionali che governano i loro comportamenti e il funzionamento dei loro mercati. Il buon coordinamento del processo di accumulazione (le politiche monetarie e fiscali adottate) e non la flessibilità dei prezzi hanno permesso il regolare e continuo processo di crescita negli Stati Uniti negli anni recenti, almeno fino alle ultime turbolenze. In effetti non sembra esservi negli Stati Uniti un meccanismo che garantisca la flessibilità salariale, ma questa appare piuttosto il risultato di una forte disponibilità di capitale e della segmentazione del mercato del lavoro. La forte domanda di lavoro, resa possibile dal capitale esistente, ha consentito infatti di assorbire tanto la forza di lavoro nativa e quella già stabilmente inserita ai salari di mercato correnti, quanto nuovi immigrati a più bassa retribuzione. Ciò vuol dire che la creazione di posti di lavoro ha controbilanciato diseguaglianze salariali che appaiono più come effetto di un fenomeno strutturale che non il risultato di una regolazione di mercato. La consistente creazione di posti di lavoro, d’altro canto, ha permesso una certa stabilità della quota dei salari e della domanda finale, sostegno a sua volta del processo di crescita, nonostante le forti diseguaglianze sul mercato del lavoro. In altre parole, la flessibilità salariale (i bassi salari) è stata resa possibile dalla crescita, e non viceversa.
In Europa, dove le politiche monetarie restrittive applicate hanno strozzato il processo di accumulazione e quindi la domanda di lavoro, l’eccesso dell’offerta nella maggior parte dei settori e gli squilibri che caratterizzano in generale i differenti mercati lavorativi non hanno dato luogo a significative diseguaglianze salariali. E ciò indipendentemente dal grado di flessibilità salariale prevalente, a dimostrazione del fatto che ciò che conta non è quest’ultimo, ma l’intensità del processo di accumulazione di capitale. Non aver inteso ciò ha condotto le imprese europee (e quelle italiane in particolare), specie quelle di dimensioni maggiori, a puntare su una ricerca di flessibilità soprattutto nella forma della precarietà, sacrificando al contempo la formazione ricorrente del proprio personale, con effetti negativi su quei processi di apprendimento che sono al cuore dell’innovazione.
Istituzioni e norme sociali
Si è visto nelle pagine precedenti che il tipo di istituzioni e le forme di mercato che permettono di stabilizzare un processo fuori dall’equilibrio, come nel caso dell’innovazione, non possono essere definiti ex ante, ma emergono quale risultato del processo stesso ove questo venga condotto a termine con successo. Lo stesso vale per le norme sociali che tali istituzioni e regimi di mercato implicano, norme che dunque interferiscono sostanzialmente con il processo di innovazione e di crescita. Tuttavia questa relazione non deve essere fraintesa. Come avviene quando, sempre nel pensiero economico dominante, si ritiene che una stagnazione o addirittura una diminuzione della crescita non permetta di mantenere una distribuzione invariata dei livelli di reddito e, di conseguenza, un livello di welfare (Stato sociale) invariato. Ciò in genere dà luogo a una rinegoziazione del quadro distributivo esistente in omaggio alla (errata) convinzione che questo sia la causa della frenata o dell’arresto della crescita, e a una restrizione dello Stato sociale che, si ritiene ancora, l’economia non è più in grado di sostenere. Il risultato è una più accentuata segmentazione di mercato fra coloro che riescono a trarre vantaggio da tale redistribuzione (in generale, chi è in grado di ‘fare i prezzi’ sul mercato) e il numero molto più ampio di coloro che vedono diminuita la propria protezione sociale o si vedono addirittura esclusi da essa; con la conseguenza dell’emergere di posizioni di rendita che, esse sì, sono veri e propri ostacoli alla crescita.
La verità è che l’attuale crisi dello Stato sociale non è dovuta all’obsolescenza delle norme sociali esistenti, ritenute un ostacolo all’efficiente funzionamento del mercato richiesto dall’apparire delle nuove tecnologie, bensì proprio a difetti di coordinazione causati da politiche errate che frenano gli investimenti necessari a condurre con successo processi di innovazione. L’accettazione implicita di questo freno all’accumulazione e alla crescita conduce a sua volta a pretese che non sono sostenibili nella situazione esistente. In particolare, in un’economia stagnante, sembra ad alcuni razionale invocare una riduzione delle ore di lavoro per mantenere i livelli di occupazione. Ma ciò non è affatto razionale. Simili misure non solo non riducono la disoccupazione, ma sono l’esatto contrario di ciò che è necessario per stimolare la crescita. Attitudini puramente difensive possono solo condurre a processi economici regressivi, quali la comparsa di rendite di posizione appena fatta presente.
Il vero problema non è lo Stato sociale, la necessità di modificarlo o addirittura la possibilità di mantenerlo, bensì attivare politiche che favoriscano l’innovazione e la crescita. Ciò, si è visto, richiede un coordinamento e un arbitraggio fra interessi contrastanti che permetta di evitare fluttuazioni eccessive dell’attività economica: e in questa ottica le norme sociali adeguate sono piuttosto quelle che assicurano stabilità, evitando forti redistribuzioni di reddito che non solo colpiscano la domanda e l’occupazione, ma creino anche forte scontento sociale. Innovazione e crescita possono richiedere quadri distributivi stabili piuttosto che maggiori guadagni per qualcuno quale incentivo a scelte innovative.
Politiche di concorrenza e regolazione
Sin dalla fine degli anni Ottanta la Commissione europea ha usato la politica della concorrenza come strumento per liberalizzare i mercati. Questa politica ha un punto di riferimento, lo stato di concorrenza perfetta, ed è volta ad avvicinarsi il più possibile a tale stato in ciascun settore industriale. Nel caso in questione tale politica è stata definita e attuata prescindendo da altre forme di intervento, muovendo dal presupposto che in quanto tale essa sia sufficiente a determinare una massimizzazione del benessere. Le cose, tuttavia, sono molto più complesse. La differenza fra la politica della concorrenza in Europa e negli Stati Uniti – quest’ultima considerata come la politica ideale – è che negli Stati Uniti tale politica non è rivolta sistematicamente alla realizzazione di un mondo quanto più possibile simile a uno stato di concorrenza perfetta, ma interagisce con altri tipi d’intervento pubblico in modo tale da privilegiare l’innovazione e la crescita in un mondo riconosciuto come imperfetto. Così il settore high-tech statunitense deve moltissimo alle commesse pubbliche e a varie forme di aiuto nel settore dello spazio e degli armamenti; e, allo stesso modo, il Giappone non sarebbe divenuto il gigante competitivo che è, al di là di fattori di crisi recente, ove non vi fosse stata l’attività di concertazione e coordinamento assicurata da agenzie governative quali il MITI (Ministry of International Trade and Industry) e da altre relazioni semi-istituzionali.
Se definiamo la concorrenza come un processo piuttosto che come uno stato, non si può prescindere dalla considerazione delle effettive dinamiche del mercato. In particolare, la concorrenza imperfetta non deve essere vista come un ostacolo al funzionamento efficiente del mercato. Tale criterio di efficienza è infatti usualmente definito in relazione a uno stato di concorrenza perfetta, per cui il problema che si pone è correggere un funzionamento ritenuto in questo senso un vero e proprio fallimento facendo ricorso a specifici incentivi, e prescindendo dalla considerazione delle caratteristiche dei processi di aggiustamento dell’economia nel tempo reale. Ove questi ultimi vengano presi in considerazione, invece, ci si può rendere conto che la concorrenza imperfetta è caratteristica propria dei processi stessi e non può quindi essere rimossa o corretta sistematicamente. Un’innovazione che ha successo comporta in una prima fase una rottura della struttura di mercato esistente, seguita successivamente da una stabilizzazione della nuova struttura emersa. Ciò può anche richiedere, tuttavia, una modificazione delle regole e delle istituzioni esistenti. In effetti, in mercati che crescono rapidamente, i mutamenti di regole operano come un incentivo per iniziative che danno luogo a forti modificazioni delle strutture industriali. Ma la stabilizzazione delle nuove strutture industriali può richiedere, come spesso è il caso, pratiche monopolistiche e nuove forme di regolazione volte a modellare le nuove relazioni interindustriali. In quanto tale, la concorrenza imperfetta non preclude la stabilizzazione della struttura di mercato, anzi la facilita.
Consideriamo il caso dei settori della cosiddetta nuova economia, fondata essenzialmente sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In tali settori le banche e i mercati finanziari, più interessati alla prospettiva di mercati sempre più ampi che ai profitti correnti, hanno reso possibile negli anni Novanta una concorrenza sfrenata che ha dato luogo a eccessi notevoli di capacità produttiva. La conseguenza è stata il ben noto fenomeno conosciuto come ‘scoppio della bolla speculativa’: un crollo del valore delle azioni delle imprese coinvolte e quindi il fallimento e l’uscita dal mercato di molte di queste ultime. In questo caso, pratiche monopolistiche volte a limitare sia le fluttuazioni dei prezzi sia l’ammontare degli investimenti avrebbero permesso la stabilizzazione di una struttura industriale adeguata al contesto economico prevalente. Invece, un’eccessiva flessibilità ha reso inevitabile un crollo e una sparizione di imprese comportando una forte perdita di benessere collettivo.
Appare pertanto fallace stabilire a priori criteri di carattere strutturale volti a definire in modo univoco una politica di concorrenza, che quindi non deve essere rivolta a realizzare o mantenere una data struttura di mercato che si presume ottima. Allo stesso modo, la politica di regolazione non deve pensare solo a creare artificialmente condizioni industriali equivalenti a quelle ritenute ottime. Nei processi di innovazione le strutture di mercato che massimizzano la crescita della produttività emergono quale risultato dell’operare di meccanismi di coordinamento che non sono altro che connessioni di mercato (imperfezioni). La politica di regolazione può aiutare a stabilire queste connessioni, mentre la politica di concorrenza dovrebbe essere volta a controllarle. Si tratta di connessioni che non sono fallimenti del mercato nel significato standard di questi ultimi, e che non devono pertanto essere rimosse bensì poste in essere, il che può spesso richiedere vere e proprie pratiche monopolistiche. A tale proposito occorre non dimenticare come nell’esperienza statunitense delle telecomunicazioni vi sia stato un periodo di transizione, durato oltre dieci anni, durante il quale le nuove imprese sono state protette nei confronti dei vecchi monopolisti, mentre le condizioni di eguali opportunità competitive sono state ristabilite solo quando le nuove imprese concorrenti sono state valutate mature per una corretta esposizione alla concorrenza da parte dei vecchi monopolisti.
La rivalità e la complementarità sono ambedue elementi essenziali di un processo di innovazione. La visione della concorrenza quale ottimo regime di mercato coglie solo uno di tali aspetti (la rivalità quale stimolo a scelte innovative), ma trascura di prendere in considerazione quelle connessioni di mercato, definite come imperfezioni o fallimenti, che invece sono essenziali per rendere fattibile il processo di ristrutturazione produttiva e quindi per cogliere i risultati economici delle stesse scelte.
Il mercato e lo Stato
L’affermarsi di una fiducia quasi religiosa nel ruolo del mercato interpretato come concorrenza nelle sue forme estreme si è accompagnato al contemporaneo sbiadirsi, se non a una vera e propria condanna, del ruolo dello Stato, alla cui presenza, ritenuta eccessiva, sono state attribuite inefficienza e incapacità di innovazione e di crescita. Le considerazioni svolte in queste pagine conducono invece a una ponderata riconsiderazione in una luce diversa del ruolo svolto dal mercato e, allo stesso tempo, a una seria rivalutazione del ruolo dello Stato, intendendo per quest’ultimo un’istituzione capace di effettuare dall’esterno gli interventi necessari al coordinamento e, di conseguenza, al successo del processo di innovazione.
Le economie avanzate necessitano certo di regole volte alla minimizzazione degli abusi resi possibili da posizioni di potere di mercato, ma hanno bisogno soprattutto di interventi di tipo monetario, fiscale e di qualsiasi altro tipo di intervento che renda possibile il controllo delle fluttuazioni cicliche, dei problemi di inflazione e di occupazione, e, più in generale, di ogni tipo di squilibrio associato ai processi di trasformazione dell’economia.
Una volta dati obiettivi generalmente accettati quali la crescita, l’innovazione, l’occupazione, il benessere sociale, si pone il problema di come realizzarli in concreto. Questo, si è più volte sottolineato, implica non solo prendere determinate decisioni da parte dei soggetti economici interessati – le scelte supposte ‘giuste’ stimolate da istituzioni ‘adeguate’ – ma avere la capacità di tradurle in concreto. Le decisioni prese dipendono in genere dalle aspettative esistenti, dati i vincoli di risorse. Quanto più solide e affidabili sono queste aspettative, tanto maggiore è la probabilità che gli agenti interessati si dedichino effettivamente al perseguimento degli obiettivi prefissati. La presenza di qualcuno che abbia il potere e la capacità di indicare la via da seguire e sia in grado di garantire che questa verrà effettivamente seguita è essenziale per lo stabilirsi di aspettative affidabili, e quindi per la creazione di un ambiente favorevole non solo a prendere decisioni innovative e quindi rischiose, ma a porre in atto comportamenti idonei alla loro realizzazione. In questo senso il ruolo dello Stato appare essenziale. Negli anni più recenti i passi decisi e immediati effettuati dalla Federal reserve degli Stati Uniti (in particolare, la sequenza di riduzioni del tasso di interesse) e dal governo federale (riduzione di tasse, programmi di spesa pubblica, deprezzamento del dollaro ecc.) sono l’esempio maggiormente evidente della presenza dello Stato per quanto riguarda il potere e la capacità di creare un ambiente favorevole all’innovazione, alla crescita e all’occupazione.
La stabilità dei prezzi, la flessibilità di mercato, l’equilibrio di bilancio di per sé non sono in grado di far sì che le imprese, e più in generale gli agenti economici, si impegnino effettivamente in un rischioso processo di trasformazione strutturale quale richiesto da una reviviscenza della crescita. Ciò di cui questi hanno bisogno è la convinzione di essere effettivamente e fortemente sostenuti e aiutati a condurre a termine tale processo. Stabilità ed equilibrio appaiono pertanto più propriamente risultati che non prerequisiti di un simile processo. Una delle spiegazioni dell’insoddisfacente comportamento delle economie europee in confronto a quella statunitense è proprio il fatto di aver considerato le condizioni menzionate come l’obiettivo da perseguire, piuttosto che porsi il problema del perché non si è riusciti a realizzarle, in tal modo equivocando quanto verificatosi negli Stati Uniti. Il vero limite che l’Europa ha incontrato, e che è la ragione principale della stagnazione della sua crescita, è il non essere stata in grado, per l’assenza di un’autorità capace di inviare forti segnali assolutamente necessari, di condurre una politica economica tale da stimolare prima e garantire poi il successo di un consistente processo di innovazione, non il permanere di strutture e di regimi di mercato ritenuti in astratto non adeguati.
Questo ruolo dello Stato non è divisibile. Nessuna particolare istituzione è in grado di disporre dell’informazione e della capacità di coinvolgimento necessarie per coordinare e quindi rendere fattibile tale processo. Un mercato efficiente, nel senso di un mercato in grado di fungere da meccanismo di coordinamento del cambiamento economico, ha bisogno di un forte Stato. Stato e mercato non sono contrapposti l’uno all’altro: più mercato può voler dire più Stato.
Bibliografia
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