Viene esaminata la normativa codicistica, sostanziale e rimediale, contenuta negli artt. 2598 e ss. del codice civile, che vieta gli atti di concorrenza sleale tipici (gli atti confusori, la denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui) e atipici (gli atti contrari ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda) e definisce la tutela giurisdizionale, inibitoria e risarcitoria, accordata all’imprenditore, consentendo anche alle associazioni di imprese di agire in giudizio.
1. Inquadramento sistematico
Le regole sulla concorrenza sleale sono sorte, come creazione giurisprudenziale, nella seconda metà dell’Ottocento. Il modello che ha segnato in principio l’istituto è quello di una disciplina professionale, di un insieme di regole deontologiche a cui il diritto statale presta riconoscimento e tutela (Ravà, T., Diritto industriale, Parte I, II ed., Torino, 1981, 345 ss.; Ascarelli, T., Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, III ed., Milano, 1960, 174 ss.), prima nell’ambito dell’illecito civile e poi con l’introduzione, nel codice del 1942, di una apposita disciplina della concorrenza sleale (artt. 2598-2601 c.c.).
Oggi che la competizione fra imprenditori è vista con maggior favore, si tende a superare questo approccio corporativistico. Si continua a ritenere però che la concorrenza si debba svolgere, anche nell’interesse generale, in modo corretto e leale per impedire vittorie truffaldine o colpi bassi e per evitare che vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico, che decreta il successo di una impresa piuttosto che di un’altra (Libertini, M., Concorrenza, in Enc. dir., Ann., III, Milano, 2010, 245; Pardolesi, R., Le regole della concorrenza, in Tratt. dir. civ., diretto da Lipari, N., e Rescigno, P., e coordinato da Zoppini, A., vol. IV, Attuazione e tutela dei diritti, parte I, La concorrenza e la tutela dell’innovazione, Milano, 2009, 3 ss.). Da tale punto di vista, la normativa sulla concorrenza sleale si presenta ora (cfr. Scaglione, F., Il mercato e le regole della correttezza, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., Padova, 2010, 109 ss.) strettamente collegata anche a quella che sancisce i divieti di pratiche commerciali scorrette a tutela dei consumatori nei rapporti con i professionisti (cfr. gli artt. 20 e ss. c. cons., introdotti dal d.lgs. 2.8.2007, n. 146).
L’evoluzione dell’istituto si rispecchia nelle diverse ricostruzioni dell’atto di concorrenza sleale non tipizzato ossia contrario ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda (cfr. il n. 3 dell’art. 2598 c.c.). Nella concezione tradizionale, correttezza professionale è, in sostanza, sinonimo di deontologia professionale, cioè di regole di comportamento (nei rapporti con i colleghi, con i clienti ecc.) formatesi all’interno di una categoria professionale e divenute “buoni costumi” specifici della categoria, a cui la previsione fa rinvio (cfr. Ascarelli, T., Teoria della concorrenza, cit., 209-210; Cass., 15.12.1983, n. 7399, in Giur. it., 1984, I, 1, 1594). La tesi divenuta prevalente negli ultimi anni è invece quella secondo cui la correttezza professionale costituisce una tipica clausola generale, che il giudice deve concretizzare rifacendosi ai princìpi generali dell’ordinamento riguardanti le attività economiche e in particolare il funzionamento dei mercati (criterio c.d. normativo o funzionalistico di ricostruzione della correttezza professionale: Santagata, C., Concorrenza sleale e interessi protetti, Napoli, 1975, 87 ss.; Ghidini, G., Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978, 30; Libertini, M., I principi della correttezza professionale nella disciplina della concorrenza sleale, in Europa e dir. priv., 1999, 510 ss.; Auteri, P., La concorrenza sleale, in Tratt. Rescigno, 18, Impresa e lavoro, parte IV, Torino, 1982, 365 ss.). Anche nella giurisprudenza recente sono abbastanza frequenti le pronunce che hanno dato espressa adesione a questo orientamento (App. Milano, 28.10.2003, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 592), anche se persistono alcune incertezze valutative.
Nell’inquadramento della concorrenza sleale è diffusa anche l’affermazione che qualifica tale disciplina come speciale rispetto a quella della responsabilità civile. Nella versione più tradizionale, la specialità delle norme sulla concorrenza sleale consisterebbe nell’essere diritto di categoria, legato allo status di appartenenza (e quindi ius proprium, più che lex specialis: Auteri, P., La concorrenza sleale, cit., 346 ss). Altri configura il rapporto tra tali norme come specialità in senso tecnico: da qui la possibilità di applicare, in via sussidiaria, l’art. 2043, quando manchi qualche elemento della fattispecie dell’art. 2598, se sussiste il requisito dell’ingiustizia del danno (Cass., 11.4.2001, n. 5375, in Danno e resp., 2002). Secondo una posizione di minoranza (Libertini, M., Azioni e sanzioni nella disciplina della concorrenza sleale, in Tratt. dir. comm. Galgano, IV, Padova, 1981, 255), la disciplina della concorrenza sleale rappresenterebbe invece una semplice specificazione di quella generale della responsabilità civile, con la tipizzazione di alcuni fatti produttivi di responsabilità e l’individuazione di rimedi che non avrebbero alcunché di eccezionale. In tutti i casi, l’integrazione sistematica della disciplina della concorrenza sleale attraverso quella degli artt. 2043 ss. è diffusa nella pratica corrente dell’istituto.
Da tale punto di vista, il requisito dell’idoneità a danneggiare l’altrui azienda, pur’esso contemplato al n. 3 dell’art. 2598 c.c., è stato valorizzato dagli interpreti soprattutto per sottolineare, sul piano sistematico, la differenza tra il carattere risarcitorio dell’ordinaria azione di responsabilità civile (che presuppone un danno già verificatosi, cioè attuale) e il carattere preventivo dell’azione di concorrenza sleale, che può essere esercitata anche di fronte ad un danno soltanto potenziale (App. Napoli, 20.1.2010, in Pluris).
Questa tesi è criticata però da una corrente minoritaria (Ravà, T., Diritto industriale, cit., 173-174; Libertini, M., Le nuove frontiere del danno risarcibile, in Contr. e impr., 1987, 85 ss.), secondo cui la «idoneità a danneggiare», di cui parla l’articolo in parola, consiste nell’alterazione del mercato provocata dall’attacco altrui, e nella conseguente necessità di risposta dell’imprenditore leso, ovvero nella compromissione del vantaggio competitivo di cui l’impresa gode e nel corrispondente danno patrimoniale (Genovese, A., Il risarcimento del danno da illecito concorrenziale, Napoli, 2005, 169 ss.).
Il divieto di atti di concorrenza sleale, essendo stabilito dall’articolo 2598 c.c. tramite una clausola generale (cfr. il n. 3) e più fattispecie tipiche (cfr. i nn. 1 e 2), ha posto un ulteriore problema ricostruttivo generale. Secondo una prima opinione (Libertini, M., I principi della correttezza professionale, cit., 509 ss.), le fattispecie tipiche dei nn. 1 (atti confusori) e 2 (denigrazione e appropriazione di pregi altrui) dell’art. 2598 c.c. avrebbero carattere esemplificativo, rispetto alla clausola generale del n. 3, che stigmatizza gli atti contrari ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’azienda del concorrente, e dovrebbero essere ricostruite alla luce del significato attribuito a quest’ultima clausola. Secondo un’altra interpretazione, le figure dei nn. 1 e 2 dell’articolo risultano compiute e andrebbero ricostruite autonomamente, secondo i normali canoni interpretativi (Floridia, G., Concorrenza sleale e pubblicità, in Auteri, P. -Floridia, G. -Mangini, V. - Olivieri, G. -Ricolfi, M. -Spada, P., Diritto industriale, III ed., Torino, 2009, 351 ss.), mentre al n. 3 dovrebbe attribuirsi solo carattere residuale o integrativo (Cass., 11.8.2000, n. 10684, in Giur. it. Mass., 2000). Conseguenza processuale di tale seconda impostazione è che il passaggio dall’una all’altra fattispecie di concorrenza sleale, nel corso del giudizio, viene qualificato come domanda nuova (App. Milano, 20.3.1981, in Giur. ann. dir. ind., 1981, 401).
2. La nozione di «atto di concorrenza» e i soggetti dell’atto
L’opinione prevalente ritiene che i destinatari della norma in esame siano solo imprenditori, in rapporto di concorrenza fra loro (cfr. Cass., 13.1.2005, n. 560, in Giur. it., 2005, 1177). Svariate proposte interpretative hanno cercato di superare questa «chiusura soggettiva» della disciplina della concorrenza sleale, ritenuta inadeguata all’odierna realtà dei mercati concorrenziali e all’espandersi delle comunicazioni di massa. Alcune pronunce in effetti valorizzano, ai fini dell’applicazione della normativa, l’esistenza di una stabile organizzazione ancorché senza scopo di lucro e sono a favore dell’applicazione analogica dell’art. 2598 ai liberi professionisti (cfr. Trib. Bologna, 13.8.1999, in Dir. ind., 2000, 36).
Presupposto per la concorrenza sleale è anche il rapporto di concorrenza che richiede soggetti (attivo e passivo) operanti sullo stesso mercato, cioè rivolti alla stessa cerchia di utilizzatori di beni o servizi (c.d. mercato rilevante del prodotto). Questo requisito non implica però vera e propria identità merceologica dei beni o servizi offerti, bensì richiede una elasticità di soluzione, tale da comportare una effettiva possibilità di scelta sostitutiva da parte del consumatore, con relativo spostamento di clientela. Prevale anche una concezione elastica del rapporto di concorrenza, che fa leva sul criterio della coincidenza del mercato o della comunanza della clientela finale, e che pone in concorrenza tutti gli imprenditori che operino, anche se a diversi livelli, in un mercato in cui vi è coincidenza di consumatori finali (Cass., 20.5.1997, n. 4458, in Giur. it. Mass., 1997).
Inoltre, secondo l’opinione largamente seguita, l’interesse ad agire in concorrenza sleale deve essere riconosciuto anche quando la concorrenza è potenziale ossia quando, pur mancando un rapporto di concorrenza attuale fra i due soggetti interessati, appaia comunque probabile una prossima interferenza fra i mercati in cui gli stessi operano (Trib. Milano, ord., 18.12.2001, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 516).
Si ritiene infine che la disciplina della concorrenza sleale si applichi, senza modifiche di rilievo, a tutte le categorie di imprese pubbliche.
3. Gli atti di confusione
Il n. 1 dell’art. 2598 c.c. è strutturato con la previsione di una figura generale («atto idoneo a creare confusione») e due fattispecie tipiche (uso di segni distintivi altrui ed imitazione servile della forma del prodotto). Per tutte le ipotesi, tipiche ed atipiche, si pongono alcuni problemi comuni.
Perché un’imitazione possa produrre confusione, è necessario che l’elemento imitato sia percepibile dal consumatore come un segno di riconoscimento di una determinata impresa. Perché un’imitazione possa essere sanzionata, occorre infatti che essa sia idonea a confondere i consumatori e, quindi, a turbare il mercato. Per l’accertamento di tale requisito, la giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri. In primo luogo, per giudicare della confondibilità, si deve aver riguardo all’apparenza complessiva del prodotto, così come esso si presenta a prima vista agli occhi del consumatore. Il giudizio di confondibilità, inoltre, va riferito a un segno presente e al ricordo visivo di un altro segno, di solito tenuto a memoria sommariamente (Cass., 28.1.2010, n. 1906, in Pluris ). Si deve inoltre considerare la possibilità di equivoco propria del consumatore medio del prodotto (Cass., 18.9.1986, n. 5562, in Giur. ann. dir. ind., 1987, 11).
L’imitazione servile dei prodotti (imitazione della forma del prodotto) costituisce la fattispecie confusoria più ricorrente. Il divieto si ritiene che limiti solo le imitazioni dell’aspetto esterno del prodotto, se e in quanto individualizzanti. Per forma del prodotto si intende dunque il modo con cui questo si presenta agli occhi dei consumatori: quindi, tanto la forma dell’oggetto in sé (ma anche per i servizi è ravvisata la possibilità di imitazione sleale, con riferimento a tutti gli aspetti esteriori dell’attività), quanto le modalità di confezionamento o etichettatura (Trib. Milano, 12.11.1987, in Giur. ann. dir. ind., 1987, 842).
Non è tutelata dall’imitazione peraltro la forma che, seppure non brevettabile, risulta già standardizzata, oppure dotata di valore funzionale o ornamentale.
L’uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione, previsto dal n. 1 come fattispecie tipica di atto di concorrenza sleale, determina concorso automatico fra azione di contraffazione ed azione di concorrenza sleale, anche se si sottolinea la diversa “natura” (rispettivamente, “reale” e “personale”) delle due azioni (Cass., 3.4.2009, n. 8119, in Giur. it. Mass., 2009).
4. Gli atti di denigrazione
Il n. 2 dell’art. 2598 c.c. vieta la denigrazione dei prodotti e dell’attività di un concorrente. Il problema principale, nella disciplina della denigrazione, è tradizionalmente costituito dalla critica oggettiva veritiera. Al riguardo si contrappongono due correnti di opinione. La prima ritiene che la critica veritiera, da chiunque provenga, sia conforme all’interesse generale, in quanto accresce la quantità di informazioni a disposizione dei consumatori (c.d. trasparenza del mercato). La seconda ritiene invece che la critica diretta, rivolta da un concorrente ad un altro, sia sempre illecita, perché contraria alla deontologia professionale e perché comunque sospetta nei suoi contenuti. Nella dottrina recente prevale la tesi della liceità di questa comunicazione e anche la giurisprudenza è costante nell’ammettere, in linea di principio, la critica veritiera, ma richiede che questa sia oggettiva, completa e non tendenziosa, con esclusione, quindi, di qualsiasi confronto o giudizio che si muova sul terreno dell’opinabile (Cass., 20.3.2009, n. 6865, in Danno e resp., 2009, 860). È inoltre ammessa la critica espressa, anche in pubblico, purché in ambienti qualificati, in grado di valutare a loro volta criticamente, e la critica veritiera confidenziale.
La denigrazione semplice rivolta al pubblico si presenta, spesso, sotto forma di diffida volta a denunziare, però in modo fuorviante, pretesi atti di contraffazione, o altri atti di concorrenza sleale o anche sotto forma di comparazione pubblicitaria. In passato la prevalente giurisprudenza riteneva illeciti tali messaggi pubblicitari. Il quadro di riferimento è però radicalmente mutato a partire dall’introduzione di una specifica disciplina della pubblicità comparativa nel d.lgs 25.1.1992, n. 74, a cui sono seguiti ulteriori atti normativi specificamente dedicati al tema, e sostanzialmente confermativi dell’impostazione del decreto legislativo n. 74 (da ultimo, cfr. il d.lgs. 2.8.2007, n. 145) che attualmente stabilisce le condizioni di liceità di questa pubblicità anche quando la fattispecie è esaminata ai sensi dell’art. 2598 n. 2 c.c.
5. L’appropriazione di pregi altrui
La terza figura tipica tradizionale di atto di concorrenza sleale, l’appropriazione di pregi altrui, è accostata, nel n. 2, dell’art. 2598 c.c., alla denigrazione. Nell’esperienza giurisprudenziale si fa però di questa figura un impiego promiscuo, oscurandone i connotati tipici. Così accade che si parli di appropriazione di pregi di fronte a fattispecie già qualificabili come atti di confusione (può ben darsi il caso, infatti, che il “pregio” di un prodotto sia anche elemento di identificazione dello stesso). Stessa considerazione può farsi per un caso, frequentemente portato ad esempio di appropriazione di pregi, e cioè l’uso illecito di una denominazione di origine controllata, che può dirsi oggi assorbito dal generale divieto di pubblicità ingannevole. Sull’illiceità concorrenziale specifica dell’uso mendace di indicazioni geografiche è intervenuto il legislatore con l’art. 31, d.lgs. 19.3.1996, n. 198 e poi con la generale riforma operata dal d.lgs. 10.2.2005, n. 30, che include le indicazioni geografiche tipiche tra i diritti di proprietà industriale (cfr. art. 1 del Codice della Proprietà industriale) e le protegge, al pari delle denominazioni d’origine, nei casi stabiliti dagli artt. 29 e 30 dello stesso.
L’appropriazione di pregi può avere anche connotazione parassitaria quando l’imprenditore sfrutta altrui supporti (ad es. pubblicazione, su propri cataloghi, di foto di prodotti altrui) o quando ricorre alla pubblicità per “agganciamento” dichiarando che il proprio prodotto è simile ad un altro, più affermato. Tale condotta è tradizionalmente giudicata illecita sebbene alcune pubblicità per accostamento, come le altre forme di pubblicità comparativa, possano risultare lecite, se aventi carattere informativo.
6. Gli altri atti contrari alla correttezza professionale
Gli atti di concorrenza sleale costituiscono, per via del n. 3 dell’art. 2598 c.c. una serie aperta, in costante evoluzione, insieme con lo stesso concetto-base di «correttezza professionale» quale canone comportamentale (vedi supra, § 1). Non c’è attualmente una classificazione standard degli atti “atipici” di concorrenza sleale. Fra i più comuni rientra, ad esempio, la concorrenza parassitaria, la quale consiste nell’imitazione sistematica, continua e protratta nel tempo, da parte di un imprenditore, delle iniziative di mercato realizzate da un concorrente (Trib. Torino, 26.1.2009, in Pluris; Trib. Bari, 10.3.2008, in Dir. ind., 2008, 567). È unanime anche la qualificazione come concorrenza sleale atipica del comportamento dell’imprenditore che, con mezzi illeciti (ad es. la corruzione di un dipendente altrui) si appropri (o tenti di appropriarsi) di notizie segrete o almeno riservate, riguardanti l’impresa di un concorrente (c.d. spionaggio industriale). È considerato atto di concorrenza sleale anche quello dell’operatore che venda come propri i prodotti fabbricati da altri, dopo aver provveduto alla sostituzione del marchio. È raro però che il parassitismo «materiale» su prodotti altrui si presenti in questa forma estrema. È invece ricorrente il caso dell’impresa minore che utilizza materialmente un prodotto altrui, già immesso nel mercato, per estrarne delle copie. Anche l’inserimento in reti di distribuzione esclusiva o selettiva può integrare una forma di concorrenza parassitaria a carico del distributore che si assume l’onere degli investimenti promozionali e i rischi relativi, ed è compensato dalla limitazione di concorrenza fondata su clausole contrattuali (c.d. intese verticali) valide nei limiti stabiliti dalla legislazione antitrust.
Possono rilevare come atti atipici di concorrenza sleale anche gli abusi monopolistici come il boicottaggio, realizzato dall’impresa in posizione dominante per decisione unilaterale o da determinati imprenditori in seguito ad accordo (Cass., S.U., 15.3.1985 n. 2018, in Foro it., 1985, I, 1663) e come la vendita sottocosto che sia posta in essere non occasionalmente, ma in modo tale da comportare il sistematico svolgimento antieconomico dell’attività d’impresa.
Un’altra ricorrente figura di atto di concorrenza sleale atipico è lo storno di dipendenti. Posto infatti il principio di libertà di concorrenza operante anche sul mercato del lavoro, che comporta la mobilità del lavoratore e la libertà, per l’imprenditore, di operare per sottrarre ai concorrenti la manodopera migliore, offrendo migliori retribuzioni o condizioni di lavoro, questa posizione di principio viene temperata, nella prassi giurisprudenziale, dall’affermazione secondo cui lo storno può colorarsi di modalità oggettivamente illecite o essere caratterizzato da animus nocendi divenendo concorrenza sleale (Cass., 23.5.2008 n. 13424, in Giur. it., 2008, I, 1, 2485).
Anche la violazione di norme pubblicistiche come concorrenza sleale atipica è discussa. Nell’ambito della concezione “normativa” della correttezza professionale (vedi supra), la condotta contraria a una norma pubblicistica potrebbe integrare concorrenza sleale, o meno, fondamentalmente in ragione della rilevanza che la norma pubblicistica e la sua violazione hanno per il corretto funzionamento del mercato e la tutela del bene giuridico “concorrenza” (Libertini, M., I principi, cit., 526). Anche la giurisprudenza, specie dopo un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 23.2.1976, n. 582, in Riv. dir. comm., 1976, II, 125), sembra attestata su tale posizione, riconoscendo la violazione di norme pubblicistiche anche come concorrenza sleale nei casi in cui assicura all’imprenditore un indebito vantaggio competitivo sui concorrenti.
7. Le sanzioni
7.1 L’inibitoria
La disciplina sanzionatoria della concorrenza sleale prevede la possibilità di ottenere una tutela specifica (inibitoria). Non sono espressamente previste forme di tutela provvisoria cautelare. Si ritiene perciò unanimemente che possa applicarsi, in materia, l’art. 700 c.p.c. (Trib. Torino, 29.12.2004, in Giur. it., 2005, 2306; Libertini, M., Azioni e sanzioni, cit., 238).
L’inibitoria, in materia di concorrenza sleale, è concessa in base a dati puramente oggettivi, mentre è esclusa la rilevanza del dolo o della colpa dell’autore dell’atto (arg. a contrario dall’art. 2600 c.c.) come pure quella del danno patrimoniale già verificatosi. E’ invece necessario l’accertamento dell’attualità del danno concorrenziale o, come tradizionalmente si dice, del concreto pericolo di continuazione o ripetizione dell’atto di concorrenza sleale da parte del convenuto.
La sentenza inibitoria deve contenere anche gli opportuni provvedimenti affinché siano eliminati gli effetti dell’atto di concorrenza sleale. La previsione viene riferita all’eliminazione di quelle fonti di danni, permanenti o futuri, che sono state create dall’atto di concorrenza sleale. La legge attribuisce al giudice ampia discrezionalità nel determinare il contenuto della condanna atta ad eliminare queste situazioni.
La competenza territoriale è del giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione. Ciò determina, nella maggior parte dei casi, una competenza plurima, dal momento che questa può dirsi sorta in qualunque luogo in cui è avvenuto (e possa continuare, o ripetersi) un atto di concorrenza sleale.
7.2 Il risarcimento del danno
Per il risarcimento del danno derivante dalla concorrenza sleale l’art. 2600 c.c. richiama il criterio generale di imputazione soggettiva dell’art. 2043 c.c. Va dunque, in linea di principio, sempre provato il danno, come presupposto del risarcimento e il nesso di causalità (Cass., S.U., 23.11.1995, n. 12103, in Dir. ind., 1996, 555). Sono largamente ammessi però indicatori di danno di ordine probabilistico, in ragione dei quali la responsabilità risarcitoria tende ad assumere connotati settoriali e affatto peculiari (Genovese, A., Il risarcimento, cit., 75 ss. e 187 ss.).
Peraltro, ai fini del risarcimento, l’art. 2600 c.c. istituisce una presunzione semplice di colpevolezza del convenuto. La colpa presunta si riferisce alla consapevolezza (coscienza e volontà) del comportamento. La presunzione è certamente relativa e la prova contraria può darsi con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici.
Il danno risarcibile è la perdita patrimoniale (danno differenziale risentito dal patrimonio del soggetto pregiudicato) ascrivibile all’illecito dal punto di vista causale, depurata del danno che il danneggiato avrebbe potuto e dovuto evitare (cfr. art. 1227 c.c.) e determinata, ai sensi dell’art. 2056 c.c. e delle disposizioni da questo richiamate, come danno emergente e lucro cessante. Nel danno emergente sono solitamente comprese, ad esempio, le spese incontrate per accertare i fatti e per assistenza professionale (Trib. Milano, 23.9.2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 1182), e le spese incontrate per rispondere all’altrui illecito con diffide, smentite ecc.
Per la maggior parte, i danni da concorrenza sleale si possono però individuare solo come lucro cessante. Il caso più semplice è quello in cui siano provati recessi di clienti o rotture di trattative, provocati dall’atto di concorrenza sleale. La semplice prova della diminuzione del fatturato non è necessaria né sufficiente per accertare un mancato guadagno. Può avere però un valore indiziario, in vista di quella valutazione equitativa a cui normalmente si ricorre ex art. 2056, co. 2, c.c. Lo stesso valore indiziario è stato talora attribuito al dato relativo alle vendite compiute dal contraffattore ovvero all’estensione quantitativa, temporale e territoriale, dell’illecito confusorio o denigratorio. Per provare la sussistenza di un danno risarcibile si possono utilizzare anche gli strumenti contemplati dall’art. 115 c.p.c. delle nozioni di comune esperienza e le presunzioni di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c.. Anche la consulenza tecnica d’ufficio è largamente utilizzata. Vi è inoltre grande disponibilità ad accogliere la domanda di condanna generica ai danni.
E’ pacifico che, per l’azione di risarcimento ex art. 2600 c.c., si applichi la prescrizione generale (di norma quinquennale) dell’azione di risarcimento del danno, di cui all’art. 2947 c.c., che decorre da quando è acquisita certezza dell’evento dannoso (Cass., 20.10.1994, n. 8559 in Dir. ind., 1995, 361). Di conseguenza, in caso di illecito permanente, il diritto al risarcimento (e la relativa prescrizione) decorrono giorno per giorno.
È discusso il rapporto del comma 2 dell’articolo 2600 che prevede la possibilità di pubblicare la sentenza che accerta la concorrenza sleale e l’art. 120 c.p.c., che prevede in generale la pubblicazione della sentenza come misura accessoria di riparazione del danno. La dottrina prevalente considera la norma in esame come una specificazione della regola generale, e ricollega il provvedimento ad una specifica esigenza di riparazione di un pregiudizio (erronea informazione diffusa nel mercato, lesione della reputazione economica dell’attore, ecc.). Sostanzialmente conforme è l’opinione secondo cui il provvedimento in questione avrebbe duplice funzione: di risarcimento in forma specifica per i danni già verificatisi, e di rimozione di fonti permanenti di danno, consistenti soprattutto in cattiva informazione del pubblico (Jaeger, P.G., La pubblicazione della sentenza come sanzione della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1973, 209 ss.).
In giurisprudenza è costantemente affermato che la condanna alla pubblicazione può aversi solo se c’è dolo o colpa del convenuto. Non mancano le sentenze che, affermando la funzione riparatoria del provvedimento in esame, subordinano la condanna all’accertamento anche di un concreto danno da liquidare (Cass., 1.3.1986, n. 1310, in Foro it., 1986, I, 914). La prevalente giurisprudenza, però, tende a valorizzare proprio il collegamento testuale tra la condanna alla pubblicazione e l’accertamento dell’elemento soggettivo (dolo o colpa, che si presume), ed a sfumare il collegamento con la condanna risarcitoria.
8. L’azione di concorrenza sleale delle associazioni professionali
L’art. 2601 c.c. attribuisce alle associazioni professionali legittimazione ad agire per concorrenza sleale. Caduto l’ordinamento corporativo, si è avanzata da qualcuno la tesi dell’abrogazione implicita della norma. La tesi è però rimasta isolata, ed è prevalsa un’interpretazione evolutiva, che ritiene la norma tuttora in vigore, ed applicabile non soltanto ad enti pubblici rappresentativi di interessi economici di categoria, ma anche ad associazioni di diritto privato.
Nella pratica l’iniziativa delle associazioni professionali è particolarmente frequente in processi intentati a difesa di denominazioni d’origine controllata, atti di denigrazione e di pubblicità menzognera o comparativa scorretta che arrecano danno ad un’intera categoria di imprese, in relazione alla vendita di prodotti a prezzi così bassi da turbare l’equilibrio del mercato o per illeciti antitrust.
Si discute se la legittimazione, che l’articolo in esame dà alle associazioni professionali, costituisca un caso di sostituzione processuale (come tale eccezionale ai sensi dell’art. 81 c.p.c.) o se invece si tratti del riconoscimento della legittimazione ad agire a difesa di un interesse collettivo, considerato come interesse proprio dell’ente. Da ultimo prevale la tesi della legittimazione straordinaria iure proprio (Cass., 15.11.1984, n. 5772, in Giust. civ., 1985, I, 3162).
Fonti normative
Artt. 2598-2601 c.c.
Bibliografia essenziale
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