Concorrenza
La nozione di concorrenza sorge con il definirsi dell'economia politica come scienza autonoma. È strettamente connessa con l'idea di libertà, che dal punto di vista economico implica la libera iniziativa, il laissez faire, laissez passer, e con la fondamentale ipotesi che gli individui, in quanto operatori economici, si muovono secondo un comportamento razionale volto a massimizzare la propria soddisfazione.
Una delle idee più rilevanti elaborata da Adam Smith è quella per cui il libero agire di una pluralità di individui egoisti non determina il caos, ma al contrario un sistema sociale ordinato - sul quale è quindi possibile un'investigazione scientifica - e tale per cui l'operato del singolo, volto a procurarsi il maggior vantaggio possibile, torna, con apparente paradosso, a vantaggio di tutti gli altri.
Ora, per l'operare della 'mano invisibile' è essenziale la funzione della concorrenza. La concorrenza è quindi un principio 'virtuoso': il suo operare ha effetti positivi, la sua assenza, e quindi la presenza del monopolio, determina al contrario effetti negativi. Per i critici dell'economia politica e del libero mercato, invece, la concorrenza è un meccanismo che distrugge l'equilibrio sociale ed economico, peggiora la posizione dei più deboli e avvantaggia ulteriormente quella dei più forti. Tuttavia per Marx, certo non un apologeta del libero mercato, la concorrenza è il processo economico che rende possibile l'analisi scientifica del sistema capitalistico.Il termine 'concorrenza' è usato nell'analisi economica in molte accezioni: innanzitutto occorre distinguere tra concorrenza come processo economico e concorrenza come stato, cioè forma di mercato. Nella prima accezione si intende un susseguirsi logico e/o temporale di azioni e reazioni da parte degli operatori economici, che trova un termine quando si viene a determinare una situazione nella quale non vi è più per alcuno un incentivo a mutare la propria condotta: situazione detta di equilibrio.
Nella seconda accezione invece la concorrenza è individuata come un regime di mercato, caratterizzato da una serie di presupposti e di elementi tipici e tale comunque da cogliere la realtà economica della maggior parte dei mercati.Nei capitoli che seguono ci occuperemo prima delle diverse nozioni di concorrenza come processo; vedremo quindi le ragioni che hanno portato l'attenzione sulla seconda nozione di concorrenza, cioè la concorrenza come stato, per esaminare poi il ritorno alla prima nozione che si è manifestato nell'analisi economica più recente.
La prima nozione di processo concorrenziale è quella degli economisti classici, da Smith a Marx. Consiste nel processo di gravitazione dei prezzi di mercato verso i prezzi naturali, o prezzi di produzione, e nel processo di riduzione di questi ultimi, nel lungo periodo, in seguito al progresso tecnico (v. Sylos Labini, 1976). Il fenomeno economico alla base del processo concorrenziale è quello della tendenza dei capitali a muoversi verso i settori dove il saggio del profitto è più elevato. Si supponga, partendo da una situazione di equilibrio, che in un dato momento si determini un aumento della domanda in alcuni settori e una diminuzione in altri. Vi sarà una tendenza dei capitali ad allontanarsi dai settori dove i prezzi di mercato sono diminuiti e a dirigersi dove sono aumentati. Questo processo determina delle variazioni della produzione tali per cui gli squilibri tra prezzi di mercato e prezzi naturali si attenuano e, in tendenza, si annullano, ripristinando l'eguaglianza nei saggi di profitto nei vari settori.
È dunque l'ipotesi della libertà di movimento dei capitali che rende possibile la concorrenza e con essa l'analisi scientifica dei prezzi naturali, cioè una teoria del valore e della distribuzione: i prezzi naturali o di produzione sono i prezzi della libera concorrenza.I classici ritenevano che la maggior parte delle barriere poste al libero movimento dei capitali derivasse dalla pubblica autorità, cioè dalla concessione di privilegi ad alcuni operatori, o dall'imposizione di dazi e tariffe; tali interventi determinano inevitabilmente situazioni di monopolio, o comunque restrizioni alla concorrenza, con effetti negativi in termini di prezzi più elevati e produzione minore. Venivano anche riconosciute barriere naturali, dovute ad esempio ai costi di trasporto, che limitavano la zona di influenza dei produttori.
Se la libertà di movimento dei capitali è alla base del processo concorrenziale dei classici, ci si può chiedere quale ruolo svolgano la numerosità dei produttori e, connessa con questa, l'impossibilità da parte del singolo produttore di influire sul prezzo di mercato, a causa della limitatezza della sua produzione. In linea di massima si può dire che il processo concorrenziale descritto dai classici comporta la presenza di numerosi produttori in ciascun ramo; nel modello di base da essi formulato, infatti, a capitale circolante, il capitale del singolo imprenditore è limitato e non ci sono economie di scala.
Il problema che si pone Augustin Cournot è il seguente: perché i duopolisti non colludono? La risposta consiste nella constatazione dell'esistenza di un vantaggio momentaneo, da parte di ciascun duopolista, nel non collaborare. Cournot assume che sul mercato si realizzi l'equilibrio tra domanda e offerta con un prezzo determinato dall'incontro delle due curve: i produttori decidono ciascuno la quantità da offrire e, data la domanda, il prezzo dipenderà dalla somma delle quantità prodotte.
Sulla base di questa impostazione Cournot stabilisce un rapporto molto preciso tra numero dei produttori e intensità della concorrenza: più alto è il numero, maggiore è la produzione e più basso è il prezzo. La tecnica analitica è quella dell'ipotesi di massimizzazione del profitto, supponendo date le quantità degli altri produttori. In questo modo si stabilisce che, dato un certo numero di imprese, l'entrata di un nuovo produttore porta a una contrazione della produzione da parte delle imprese già esistenti; ciò favorisce l'incremento della produzione da parte dell'ultimo entrato, finché, supponendo che tutte le imprese abbiano una eguale funzione di costo, la produzione non sia ripartita tra esse in parti eguali. Con l'aumento del numero delle imprese, pur essendo minore la produzione pro capite, aumenta la produzione totale, finché il prezzo non diventa eguale al costo unitario; in tale situazione di concorrenza illimitata la produzione di ciascuna impresa è infinitesima rispetto al totale, e quindi qualsiasi variazione da parte del singolo produttore non avrebbe influenza sull'equilibrio del mercato. L'intensità della concorrenza dipende quindi dal numero dei produttori: tuttavia, se l'entrata sul mercato non è libera, il numero non basta ad assicurare una vera e propria concorrenza. La posizione dei classici che davano rilievo alla libertà di entrata, e non al numero, da Cournot in poi è dunque capovolta.
Come si è accennato, il meccanismo di funzionamento del mercato cournotiano è il seguente: i produttori fissano le quantità e i consumatori in concorrenza tra loro determinano un unico prezzo di equilibrio al quale la produzione è venduta senza eccessi di domanda o di offerta. Questo meccanismo dovrebbe rappresentare in forma stilizzata il fenomeno del ritardo nella produzione, e quindi dell'impossibilità da parte del singolo produttore di reagire istantaneamente a scelte effettuate dagli altri produttori. Supponiamo ora un meccanismo diverso: i produttori fissano indipendentemente il prezzo di vendita; i consumatori, noti i vari prezzi di offerta, si rivolgono a chi ha offerto il prezzo più basso; questo produttore soddisfa il mercato, mentre gli altri rimangono completamente esclusi.Il comportamento asimmetrico è qui centrato sul prezzo e il risultato che si ottiene differisce nettamente da quello cournotiano; è chiaro infatti che, a parità di costi tra i produttori, le imprese fisseranno il prezzo a livello del costo medio minimo, e ciò si verificherà purché vi siano almeno due produttori. Qui il risultato pienamente concorrenziale non dipende dal numero delle imprese.Va notato peraltro che, malgrado questa importante differenza, il meccanismo concorrenziale qui ipotizzato (che prende il nome da Joseph Bertrand, il matematico francese che avanzò questa ipotesi in una recensione critica di Cournot) è del tutto analogo a quello di Cournot: ciascun produttore fissa il prezzo in modo da avvantaggiarsi sul concorrente o evitare di essere superato da questi. Il criterio di fissare il prezzo più basso possibile presenta una duplice natura, offensiva e difensiva al tempo stesso. A parità di costi il processo asimmetrico si svolge in un tempo logico e determina immediatamente il risultato di un comportamento simmetrico: tutti i concorrenti fissano il prezzo a livello di costo (v. Bertrand, 1883).
Anche alla base del processo concorrenziale di Joseph Schumpeter vi sono il verificarsi di una situazione di asimmetria e il suo ricomporsi. Tale meccanismo tuttavia si svolge effettivamente nel tempo, e si verifica a causa del fatto che alcune imprese si trovano in una situazione diversa da quella delle altre, per una particolare capacità innovativa degli imprenditori che le dirigono. L'innovazione pone queste imprese in una posizione di vantaggio e di profitti più alti, cioè in una situazione di temporaneo monopolio; ma questa situazione è appunto solo temporanea, in quanto si verifica una serie di atti di imitazione e di emulazione da parte delle altre imprese, che non vogliono permanere in una situazione di inferiorità. In tal modo avviene la diffusione dell'innovazione e quindi la scomparsa del potere monopolistico. Se questo è l'effettivo funzionamento del meccanismo concorrenziale, è chiaro che monopolio e concorrenza non sono due ipotesi inconciliabili, ma semplicemente due momenti diversi ed entrambi necessari di un comune processo di sviluppo. Schumpeter considera anche l'ipotesi che il meccanismo non operi nella seconda fase e quindi che l'innovazione non possa generalizzarsi; in tal caso la posizione di vantaggio dell'impresa diviene permanente e il profitto si trasforma in una rendita di monopolio. Tale ipotesi, peraltro, appare atipica nel sistema di Schumpeter, mentre il caso normale è rappresentato dal processo concorrenziale sopra delineato.
Va detto che sin dalla sua prima opera (Teoria dello sviluppo economico) Schumpeter sottolineava come uno dei casi di innovazione da lui considerati, cioè il mutamento nell'organizzazione della produzione, comportasse l'aumento delle dimensioni aziendali attraverso l'introduzione della produzione su larga scala.In un'opera successiva (Cicli economici) vengono distinte due diverse fasi storiche, quella del capitalismo concorrenziale, in cui le dimensioni delle imprese sono piccole rispetto al mercato e le innovazioni comportano normalmente la costituzione di nuove imprese, e quella del capitalismo dei grandi trust, dove invece si assiste all'affermarsi delle grandi unità produttive e il processo innovativo si verifica prevalentemente all'interno di tali aziende, senza quindi la nascita di nuovi complessi.
Tuttavia nella sua ultima opera (Capitalismo, socialismo, democrazia) Schumpeter esprime una valutazione positiva delle pratiche monopolistiche poste in essere da queste grandi imprese, e critica la politica antimonopolistica degli Stati Uniti. Se infatti la concorrenza non avviene tra le piccole imprese che producono tutte le stesse merci con gli stessi metodi, ma tra gli imprenditori innovatori e gli imprenditori imitatori, allora va considerato che la grande impresa svolge un ruolo determinante proprio nel campo dell'innovazione. Quindi iniziative come i contratti vincolanti a lungo termine, la fissazione di prezzi rigidi, e simili, sono certamente pratiche monopolistiche che determinano la sospensione del funzionamento della concorrenza per un certo periodo di tempo e il conseguimento di sovraprofitti da parte dei grandi gruppi; ma sono al tempo stesso forme di assicurazione contro i rischi cui questi ultimi vanno incontro e che essi non affronterebbero altrimenti, così come non li affrontano le piccole imprese concorrenziali dei libri di testo. Inoltre in tali modi si ottengono i mezzi necessari per affrontare programmi di ricerche a vasto raggio; queste pratiche monopolistiche proteggono quindi lo sviluppo più che danneggiarlo: è un'affermazione non più paradossale di quella per cui le automobili possono correre più veloci proprio perché sono dotate di freni.
Una terza nozione di processo concorrenziale è quella elaborata nell'ambito dell'impostazione neoclassica da Francis Edgeworth. La scuola neoclassica di Stanley Jevons, Léon Walras e Alfred Marshall fonda la propria teoria del valore sulla nozione di utilità marginale e sul processo di scambio. La concorrenza è quindi intimamente legata al funzionamento del mercato; ora, se avviene uno scambio tra due individui è perché ciascuno apprezza il bene dell'altro più del proprio. Tuttavia in un atto isolato di baratto i termini di scambio, o prezzi relativi tra i due beni, non possono essere fissati con esattezza, ma si possono stabilire solo dei prezzi minimi e massimi, che ciascuno è disposto a ricevere o a pagare.L'idea fondamentale è che questa indeterminatezza cede il posto a un'estrema determinatezza nel caso di un mercato perfettamente funzionante, e cioè in un mercato in cui vi sono numerosi scambisti, che agiscono indipendentemente e sono ben informati sulla situazione del mercato. In questo caso non esiste più spazio per l'abilità nella trattativa tra le parti, perché per ogni bene in un dato mercato si stabilisce un solo prezzo di equilibrio tra le quantità offerte e quelle domandate.
Il problema è di chiarire in qual modo vengono annullate le tendenze collusive tra alcuni scambisti ai danni di altri. Jevons afferma esplicitamente che si ha concorrenza se non vi è collusione per limitare l'offerta e determinare rapporti innaturali di scambio; del resto già Smith aveva parlato di spontanee tendenze collusive tra i produttori. L'analisi di Edgeworth si propone quindi il compito di spiegare il processo che porta dall'indeterminatezza del baratto alla determinatezza del prezzo relativo in un perfetto terreno concorrenziale. Tale processo analizzato astrattamente richiede due condizioni: la libertà di ricontrattazione da parte di ciascun soggetto con qualunque altro, in modo che lo scambio avvenga effettivamente solo dopo che tutti gli operatori avranno verificato che non esiste un'occasione migliore; la perfetta divisibilità dei beni oggetto dello scambio, che si traduce nella possibilità da parte di ciascun individuo di scambiare dosi infinitesime e quindi di disporre, ultimati gli scambi, di un insieme continuo di possibili combinazioni di beni.
Va sottolineato che l'ipotesi di ricontrattazione impedisce la formazione di tendenze collusive, e questo fenomeno si verifica non solo quando vi sono numerosi, al limite infiniti, scambisti, ma già quando abbiamo un paio di venditori e compratori. La condizione di numerosità è peraltro necessaria per eliminare l'indeterminatezza del prezzo di equilibrio. L'ipotesi di ricontrattazione svolge una funzione essenziale, soprattutto perché elimina la possibilità e la convenienza degli operatori a stabilire accordi collusivi. Ora questa ipotesi, essenziale nell'analisi astratta, deve trovare un sostituto, per quanto imperfetto, per i normali mercati competitivi; l'ipotesi di Edgeworth è quella della libera informazione tra gli scambisti. Egli immagina scambisti presenti fisicamente in uno stesso luogo o collegati per telefono. Questo requisito di una perfetta conoscenza della situazione di mercato diverrà, come vedremo, uno dei requisiti della concorrenza perfetta come forma di mercato.
Nella maggior parte degli autori tra Ottocento e Novecento la concorrenza non viene analizzata quale processo determinato da precisi meccanismi, ma come una situazione caratterizzata da alcuni risultati e legata a presupposti che vengono ipotizzati come esistenti. La concorrenza si presenta come un fenomeno definibile sotto vari aspetti che, a seconda degli interessi dei vari autori, vengono diversamente sottolineati. Così, ad esempio, la concorrenza viene definita come il meccanismo di incontro tra domanda e offerta legato al grado di perfezione del mercato (Walras), oppure come eguaglianza dei ricavi marginali in tutti i settori (Clark), e infine come quella situazione in cui la curva di domanda per il singolo produttore è infinitamente elastica. Questa definizione di concorrenza è implicitamente presente negli autori citati in precedenza, in Walras come in Marshall. Proprio nell'appendice matematica dei Principî di economia, ad esempio, Marshall definisce correttamente il ricavo marginale come la somma algebrica delle due componenti: variazione della quantità moltiplicata per il prezzo, e variazione del prezzo moltiplicata per la quantità. Ora la variazione del prezzo operata da una singola impresa risulta estremamente limitata - o addirittura trascurabile - in un mercato in cui le imprese sono molto numerose. Come si vede il ragionamento è del tutto analogo a quello di Cournot.D'altra parte Marshall parla anche di un mercato particolare di ciascun produttore, immerso, per così dire, in quello più ampio dell'intero settore industriale, e di una curva di domanda relativamente rigida, in riferimento alla singola impresa. Questa non è presentata come una situazione inconciliabile con l'ipotesi di concorrenza; Marshall ne parla come di una situazione da esaminare in un'ulteriore approssimazione alla realtà e, in special modo, quando si fa riferimento al breve periodo e in condizioni di recessione. Tuttavia, volendo definire analiticamente la concorrenza perfetta, Arthur C. Pigou e gli altri autori della scuola marshalliana ipotizzano l'eguaglianza tra ricavo marginale e prezzo, e in questo non si può dire che tradiscano esplicitamente Marshall.
Su questa definizione si incentra una delle critiche fondamentali di Piero Sraffa (v., 1926). Se il prezzo, infatti, è dato, la singola impresa può trovare un limite alla produzione solo se i costi marginali, e quindi anche i medi, sono crescenti. La curva dei costi dell'impresa deve quindi presentare la tipica forma a U.Nel caso della produzione agricola e mineraria questa definizione della concorrenza perfetta può essere facilmente conciliabile con il reale funzionamento del mercato. In questi settori la produzione avviene a costi crescenti e il singolo produttore è realmente price taker; non a caso, peraltro, in questi mercati il compito di determinare l'equilibrio tra domanda e offerta è svolto da un limitato numero di intermediari, la cui essenziale funzione è già stata sottolineata da Walras.
Nei settori industriali, invece, questo modello di concorrenza va incontro a due formidabili critiche: innanzitutto le condizioni di produzione non possono essere descritte da una curva a U quanto piuttosto da una curva a L, e in effetti i produttori, al livello di produzione di equilibrio, si trovano ancora in una situazione di costi decrescenti. Inoltre il singolo produttore industriale non è normalmente un price taker, non fronteggia un'unica domanda comune agli altri produttori, sia proveniente dalla massa dei consumatori sia da intermediari specializzati. Il problema tipico dell'impresa industriale deriva invece dal fatto che una maggior produzione sarebbe perfettamente possibile a prezzi costanti, ma la possibilità di espanderla è limitata alla domanda. Il ricavo marginale non coincide più col prezzo; la seconda componente di Marshall è rilevante e sistematicamente presente.
Un mercato composto da numerosi produttori non è quindi necessariamente un mercato che approssima, per quanto imperfettamente, il modello puro della concorrenza perfetta; le imprese che vi operano possono essere del tutto indipendenti le une dalle altre, e tuttavia dotate ciascuna di una propria curva di domanda inclinata negativamente. Sraffa invita quindi a dirigere l'analisi non verso il modello di concorrenza perfetta ma verso l'opposto, il modello di monopolio. Le cause che determinano la rottura del mercato in una serie di micromercati collegati tra loro sono estremamente varie; il punto da sottolineare è che esse non sono elementi di frizione, ma fattori sistematici e permanenti.
Le ulteriori argomentazioni di Sraffa indicano una soluzione analoga alla massimizzazione congiunta dei profitti, limitata però dalla possibilità di entrata di qualche concorrente potenziale; l'entrata è peraltro ostacolata proprio dalle cause che determinano un mercato preferenziale per le imprese esistenti, sicché questi ostacoli potrebbero essere superati solo in caso di profitti particolarmente superiori al normale.È ben noto come l'articolo di Sraffa abbia svolto un ruolo fondamentale nella critica dell'apparato marshalliano e abbia ispirato il lavoro di Joan Robinson sulla concorrenza imperfetta. Peraltro la Robinson non approfondisce le indicazioni di Sraffa sul tema dell'entrata limitata: si limita a svolgere l'analisi dell'equilibrio del monopolista con l'uso della nozione di ricavo marginale e dell'equilibrio di tangenza tra costo medio e prezzo.
L'ordine di considerazioni che porta Edward Chamberlin a sviluppare la sua teoria della concorrenza monopolistica come teoria più generale, in grado di comprendere la concorrenza perfetta come caso particolare, è diverso nell'impostazione e nelle finalità da quello di Sraffa, anche se per molti aspetti le analisi presentano delle somiglianze, come ad esempio per quanto riguarda le cause che determinano le curve di domanda individuali. Si considerino i seguenti elementi caratterizzanti un mercato: 1) numerosità delle imprese; 2) libertà di entrata; 3) effetto trascurabile dell'iniziativa del singolo produttore sugli altri. Se aggiungiamo l'ipotesi di un prodotto omogeneo abbiamo la concorrenza perfetta e curve di domanda orizzontali per i singoli produttori, mentre se aggiungiamo un prodotto eterogeneo abbiamo curve di domanda inclinate. Dunque la concorrenza perfetta è la situazione in cui l'elemento della differenziazione del prodotto tende a scomparire. Il risultato è ben noto: tangenza della curva dei costi, decrescente, con la curva di domanda, anch'essa decrescente; l'elasticità della domanda nel punto di equilibrio è maggiore dell'unità.
Questo equilibrio concorrenziale del 'largo gruppo' di Chamberlin si differenzia dalla concorrenza perfetta, quindi, solo per l'elasticità finita della domanda; come conseguenza le dimensioni delle imprese sono subottimali, ma questa caratteristica non va considerata come un aspetto negativo, bensì come la necessaria conseguenza degli elementi che soddisfano le preferenze dei consumatori. Si tenga presente che Chamberlin ipotizza anche uno stato di conoscenza perfetta, e pertanto non sono elementi di ignoranza a determinare l'inclinazione delle curve di domanda. L'impostazione di Chamberlin si propone quindi di salvare la sostanza dell'impostazione marshalliana eliminandone l'aspetto più debole.Il problema di questa impostazione consiste nella compatibilità tra l'ipotesi di differenziazione del prodotto e le due ipotesi di libertà di entrata e di non rivalità, cioè di mancanza di effetti percepibili dell'iniziativa del singolo.
Quest'ultima ipotesi implica che le conseguenze della manovra su prezzo e quantità da parte della singola impresa si diffondano uniformemente su tutti gli altri concorrenti e siano quindi trascurabili. Viceversa l'azione dell'insieme degli altri produttori è rilevante e determina uno spostamento della curva di domanda del singolo.
Tuttavia la natura stessa degli elementi che determinano la differenziazione - caratteristiche oggettive del prodotto o soggettive del produttore, localizzazione geografica - fa sì che, definito un gruppo di prodotti simili ma differenziati, esisterà sempre al loro interno una graduazione nella differenziazione, con la conseguenza che l'iniziativa di un singolo produttore avrà delle ripercussioni differenziate sugli altri. Connesso con questo problema si presenta quello della libertà d'entrata; essa sarà più o meno difficile, nel senso che comporterà costi più o meno elevati, in riferimento a diversi prodotti e produttori del largo gruppo. Queste osservazioni portano a concludere che la presenza simultanea delle quattro caratteristiche della concorrenza monopolistica di largo gruppo non sia logicamente sostenibile, e che quindi una teoria della concorrenza fondata su questa base presenti inconvenienti analoghi a quelli dell'impostazione marshalliana.
Al posto di un largo gruppo avremmo allora una catena di piccoli gruppi i cui prodotti sono differenziati; ogni produttore si trova a far parte di più gruppi che parzialmente si sovrappongono. In ciascuno di essi esiste una rivalità potenziale e le variazioni dei prezzi di ciascun produttore troverebbero una reazione da parte degli altri. Questa situazione, analizzata da Chamberlin come oligopolio più differenziazione, è più simile a quella che aveva delineato Sraffa ed esplorato la Robinson, e non è un caso che anche Chamberlin arrivi a conclusioni in parte simili. In questa situazione infatti è probabile che i concorrenti non usino la manovra del prezzo come strumento concorrenziale, ma piuttosto le spese di vendita; inoltre, nella misura in cui esiste la libertà di entrata, si determina un eccesso di capacità produttiva, mentre se la libertà di entrata è limitata persistono sovraprofitti. La differenziazione del prodotto non è più corrispondente a quella richiesta dai gusti e dalle necessità dei consumatori, ma diviene eccessiva. La concorrenza non implica più l'efficienza nell'allocazione delle risorse.
Questa conclusione critica cui si perviene tramite la concorrenza monopolistica era stata prevista da almeno due autori, Vladimir Karpovič Dmitriev e Harold Hotelling. Il primo, in un saggio critico su Cournot, pone in luce il fatto che il processo di concorrenza comporta inevitabilmente degli sprechi in termini di eccessi di produzione invenduti o di scorte, in modo analogo agli armamenti che le nazioni devono produrre al fine di garantire il mantenimento della pace; le armi vengono prodotte e devono essere prodotte anche se si è consci che non saranno mai usate (v. Dmitriev, 1898-1902).
Il secondo autore, esaminando in particolare il fenomeno della differenziazione spaziale, cioè della diversa localizzazione delle imprese, mostra come il meccanismo alla Bertrand non necessariamente fa sì che l'impresa che fissa il prezzo più alto perda tutta la clientela; vi è infatti un fattore di vicinanza che può rendere ancora conveniente al consumatore rivolgersi a una certa impresa (più vicina) anche se il prezzo è più alto. Esaminando il comportamento delle imprese volte a scegliere la migliore localizzazione, Hotelling mostra che la tendenza delle imprese è di concentrarsi geograficamente in una stessa zona, laddove dal punto di vista sociale l'ottimizzazione della localizzazione dovrebbe seguire un criterio del tutto diverso. Questa conclusione viene poi generalizzata affermando che il processo concorrenziale caratterizzato da qualche forma di differenziazione non comporta il raggiungimento di una situazione di efficienza (v. Hotelling, 1929).
La posizione della nozione di concorrenza agli inizi degli anni cinquanta appare per alcuni versi paradossale: mentre da un lato, infatti, essa assume un ruolo fondamentale per una serie di risultati ottenuti dall'analisi dell'equilibrio economico generale (al punto che John Hicks dichiara che mettere in dubbio l'ipotesi di concorrenza pura equivale a minare buona parte dei risultati della teoria economica), da un altro lato, quello dell'analisi degli equilibri parziali, i risultati sono negativi.In effetti le ben note proprietà ottimali del sistema concorrenziale, enunciate da Walras e ulteriormente definite da Vilfredo Pareto, richiedono l'ipotesi di mercati di libera concorrenza e quindi un comportamento da price takers degli operatori. In tali condizioni sarebbe assicurata la massima soddisfazione possibile per tutti gli operatori, soggetta alle famose condizioni di un unico prezzo d'equilibrio, cioè un prezzo tale da eguagliare domanda e offerta e da essere eguale ai costi dei servizi necessari per produrlo.Walras sostanzialmente si limita a contare il numero delle equazioni e delle incognite, cosa questa che non assicura né la stabilità né l'unicità, e proprio sul tema dell'unicità è stato criticato da Knut Wicksell. Da questo punto di vista Gerard Debreu e Kenneth J. Arrow portano nei primi anni cinquanta un contributo analitico fondamentale sul tema dell'esistenza dell'equilibrio. Tuttavia questa analisi tralascia il problema del meccanismo di funzionamento del mercato di concorrenza; il doppio mercato d'asta di Walras, ad esempio, non trova in realtà riscontro nel funzionamento della maggior parte dei mercati, in particolare di quelli industriali. La teoria assiomatica dell'equilibrio economico generale deve quindi assumere esplicitamente come postulato il comportamento da price takers degli operatori, senza essere in grado di spiegare come e se il funzionamento di un mercato e degli operatori conduca a questo risultato.
D'altra parte, anche sulla base dell'analisi degli equilibri parziali i risultati sono sostanzialmente negativi. La concorrenza pura è riconoscibile solo nei mercati agricoli e minerari; in quelli industriali il modello che cerca di adattarsi meglio è quello della concorrenza monopolistica di largo gruppo di Chamberlin, che - come si è visto - ha grosse difficoltà di coerenza interna e inoltre presenta risultati non corrispondenti alle caratteristiche dei mercati industriali. È infatti assente il dato più saliente della concentrazione industriale, e quindi delle economie di scala e delle discontinuità tecnologiche. Non a caso gli esempi più frequenti di tale modello si rifanno al mercato delle vendite al dettaglio: in tale settore John Stuart Mill e Knut Wicksell avevano osservato che l'eccessivo numero dei dettaglianti non è a vantaggio ma a svantaggio dei consumatori, capovolgendo con questa affermazione quanto era stato sostenuto proprio a questo proposito da Smith.
Né l'analisi dell'oligopolio sembra fornire qualche utile indicazione; questa forma di mercato viene esaminata in genere con modelli di mercato chiuso, con pochi produttori in grado di influenzarsi a vicenda. Ora in tale situazione non è utilizzabile con profitto il metodo di partire da alcuni dati, o variabili esogene, e, attraverso l'ipotesi di comportamento massimizzante, trovare la soluzione di equilibrio, mentre lo è con i modelli della concorrenza perfetta e del monopolio. Malgrado numerosi sforzi l'impressione generale è che sia confermata l'idea che la gamma di casi intermedi non sia riducibile a una coerente analisi economica; l'ipotesi più probabile resta quella di una massimizzazione congiunta dei profitti (v. Fellner, 1949), ma si tratta pur sempre di un'ipotesi tra le tante possibili.
La concorrenza proveniente da nuove imprese è talvolta indicata da vari autori come la causa che limita la facoltà delle imprese di elevare i prezzi, anche in situazioni di monopolio.Il problema dei costi d'ingresso trova un ampio spazio nei primi tentativi di elaborare una teoria che non sia basata sull'ipotesi di massimizzazione di breve periodo, ma su un pur vago concetto di profitto normale di lungo periodo (v. Andrews, 1949; v. Fellner, 1949). È tuttavia con Joe Bain e Paolo Sylos Labini che il problema della concorrenza potenziale e dei fattori limitanti viene posto al centro di una teoria della determinazione dei prezzi nei mercati industriali.
Già in un primo lavoro Bain (v., 1949) aveva utilizzato l'idea dell'entrata potenziale come modo per limitare la fissazione di un prezzo di tipo monopolistico, ma è con il lavoro sulle barriere alla nuova concorrenza che l'autore sviluppa l'analisi delle cause da cui dipende il prezzo limite, inteso come un livello di prezzo che non stimola l'entrata di nuove imprese. Il concetto di entrata è definito come l'aggiunta di nuova capacità produttiva a quella esistente nel settore; per quanto restrittiva, tale definizione ha dei vantaggi in un'analisi di tipo parziale, e si ricollega direttamente alla nozione dei classici. Le cause che determinano le barriere sono: differenziazione del prodotto, vantaggi di costo in termini assoluti, elevati fabbisogni iniziali di capitale, economie di scala. Si ricorderà che uno dei punti deboli del modello di largo gruppo di Chamberlin è la contemporanea presenza delle condizioni di differenziazione del prodotto e di libertà di entrata. Bain sottolinea appunto che la differenziazione comporta inevitabilmente un vantaggio del produttore già esistente rispetto a quello nuovo, vantaggio che si riflette nei costi aggiuntivi cui l'impresa nuova deve andare incontro. Nella sua ampia indagine su venti settori produttivi Bain ha indicato proprio la differenziazione come il fattore che più contribuisce alle barriere all'entrata, non solo tra i beni di consumo ma anche tra quelli strumentali.
Tralasciamo le altre due forme di barriera e veniamo alle economie di scala, fenomeno essenzialmente tecnologico. Il fatto che per la produzione di determinate merci siano necessari impianti di notevoli dimensioni e quindi ingenti capitali iniziali è stato sottolineato da molti autori. I due aspetti rilevanti sono: 1) esiste una quantità di prodotto minima al di sotto della quale i costi fissi hanno una tale incidenza da rendere il prodotto assolutamente non competitivo; 2) esiste una tendenza del costo medio, al di là del livello minimo, a mantenersi costante fino alla piena utilizzazione dell'impianto, quando i costi medi divengono fortemente crescenti (v. Bain, 1956).Sylos Labini (v., 1956) analizza solo le barriere all'entrata che derivano da economie di scala. L'ipotesi sull'andamento dei costi è in parte simile a quella di Bain, ma con qualche diversità significativa: il costo medio è composto da un costo fisso, unitario, che diminuisce al crescere della produzione, e un costo variabile costante: quindi più che un livello minimo esiste una fascia di produzione dove il costo medio è fortemente decrescente. Ma più importante è il fatto che Sylos Labini sottolinea l'importanza delle discontinuità di scala; esistono diverse tecnologie con coppie di costi fissi e variabili inversamente correlati, mentre la massima capacità produttiva per ciascuna tecnologia è funzione diretta del costo fisso.
Sylos Labini suppone che ciascuna impresa operi con un solo stabilimento e che ogni stabilimento, compreso quello del potenziale entrante, produca al massimo della capacità; mentre la prima ipotesi è solo semplificativa, la seconda ha maggiore importanza e si può giustificare proprio ricordando che il costo medio minimo si trova appunto a quel livello. Implicitamente, quindi, vi è l'idea che a ciascuna singola impresa, indipendentemente dalla dimensione, convenga ampliare il più possibile la produzione, anche se ciò comporta un prezzo più basso, perché questo fatto è compensato da un costo medio più basso.Le caratteristiche della domanda, nonché le caratteristiche della tecnologia, determinano la strategia delle grandi imprese; queste hanno l'obiettivo di non far entrare altre grandi imprese e a questo scopo fissano la produzione a un livello tale che, nel caso di entrata di un'altra grande impresa, la quantità totale determinerebbe un prezzo più basso del costo minimo. In questo modo viene fornita una base teorica alle ipotesi di variazioni del prezzo secondo la formula del costo pieno (mark up). La teoria della concorrenza potenziale, salutata come una svolta risolutiva per spiegare il comportamento concorrenziale delle moderne strutture produttive, ha ricevuto una serie di critiche che vanno dalla negazione della nozione stessa a diverse ipotesi e complicazioni del modello di base, soprattutto in contesti dinamici.La critica più radicale è stata condotta alla nozione stessa di barriera all'entrata; si è argomentato che per l'esistenza di un ostacolo all'entrata di un concorrente potenziale deve sussistere un costo addizionale, netto, rispetto a quelli sopportati dalle imprese operanti. Come si è visto, per Bain questo è un caso di barriera, e la situazione più tipica è costituita da un brevetto; per i critici invece solo in questa situazione si può parlare di barriera. È stata quindi sviluppata un'analisi delle implicazioni in termini di benessere che ciò può comportare; in questa sede si può solo accennare al legame tra questa critica e quella che si è sviluppata all'interno della teoria dei giochi, su cui ci soffermeremo più avanti.
Una seconda critica riguarda invece il prezzo di esclusione, che concorrerebbe a determinare il prezzo effettivamente praticato dalle grandi imprese. Infatti se tutte le imprese, operanti o potenziali, sono a conoscenza delle funzioni di domanda e di costo, allora appare decisiva l'ipotesi formulata dall'impresa potenziale circa il comportamento delle imprese operanti nel caso del suo ingresso. Quindi le imprese operanti possono anche fissare un livello di prezzo più elevato di quello d'esclusione; si tratta di vedere se esse hanno effettivamente una capacità produttiva tale da rendere credibile l'ipotesi eventualmente formulata dall'impresa potenziale circa un loro atteggiamento non collaborativo o addirittura aggressivo.La capacità produttiva inutilizzata sarebbe la vera arma strategica che rende credibile la barriera all'entrata. L'implicazione di questa critica è che il ruolo della concorrenza potenziale e gli ostacoli a essa sarebbero essenziali per comprendere il comportamento delle imprese, ma piuttosto dal lato dell'eccesso di capacità che da quello dei prezzi d'equilibrio.Agli inizi degli anni ottanta una nuova teoria generale delle strutture dei mercati industriali, quella dei mercati accessibili (contestable markets), ha di nuovo posto il tema della concorrenza potenziale al centro di un'analisi dei meccanismi di competizione tra le imprese. L'ipotesi di base della teoria dei mercati accessibili è quella della concorrenza sui prezzi, alla Bertrand, e ciò distingue questa impostazione da quella di Bain e Sylos Labini che ipotizzano un meccanismo alla Cournot.
La conseguenza è che il risultato concorrenziale si raggiunge immediatamente anche con due sole imprese, e anzi una delle due imprese può essere anche un'impresa potenziale, cioè pronta a entrare qualora ritenga di poter praticare un prezzo tale da assicurarsi il mercato. Per questo motivo l'impresa formalmente monopolista non può mantenere un livello di prezzo maggiore del costo, pena la perdita del mercato a favore dell'impresa non ancora operante (v. Baumol e altri, 1982).Una delle differenze della teoria dei mercati accessibili rispetto a quella di Bain-Sylos Labini è che, mentre in quest'ultima un ruolo rilevante è svolto dai costi fissi, nella prima il costo fisso pone una barriera all'entrata solo se si tratta di un costo irrecuperabile (sunk). Un settore caratterizzato, ad esempio, da alti costi fissi ma non irrecuperabili è quello del trasporto, in particolare quello aereo: la teoria dei mercati accessibili ha svolto un ruolo importante nel campo delle premesse teoriche delle politiche di deregulation.
L'ultima analisi della concorrenza come processo era stata quella di Schumpeter del 1912; per circa quarant'anni non vi erano più stati contributi sulla concorrenza come meccanismo da spiegare e non da presupporre. Uno dei motivi era la grossa difficoltà di analizzare le situazioni in cui gli operatori sono pochi; uno dei presupposti di base all'analisi della concorrenza come forma di mercato era, in fondo, che ciascuna impresa si limitava a considerare il prezzo, che per essa era un dato, e la funzione del costo, senza predisporre alcuna particolare strategia nei confronti dei rivali.
La teoria del comportamento economico di John von Neumann e Oskar Morgenstern è stata formulata esplicitamente sulla base della teoria dei giochi, secondo cui il risultato del gioco dipende dall'interazione tra la propria condotta e quella degli altri partecipanti; il criterio di razionalità, comune a tutti i partecipanti, non può essere quello proprio dell'impostazione tradizionale. Le metodologie sviluppatesi nel filone della teoria dei giochi hanno riportato l'attenzione degli studiosi sul concetto di concorrenza come processo; sono stati individuati due diversi approcci, definiti l'uno approccio cooperativo e l'altro approccio non cooperativo. Il primo fa riferimento all'impostazione di Edgeworth, il secondo a quella di Cournot. In entrambe le impostazioni gli operatori economici hanno un atteggiamento attivo nelle scelte riguardanti prezzi o quantità; il risultato rilevante è che al crescere del numero degli agenti economici le soluzioni di equilibrio convergono verso l'equilibrio concorrenziale, cioè verso una situazione in cui gli operatori agiscono come price takers e in cui valgono le condizioni walrasiane (v. Shubik, Strategy..., 1959; v. Shapley e Shubik, 1967; v. Mas-Colell, 1982).
Entrambi gli approcci hanno rappresentato un sensibile passo in avanti dal punto di vista della teoria dell'equilibrio economico generale, perché hanno permesso di ottenere i risultati walrasiani senza dover assumere come postulato iniziale quello degli operatori come price takers . L'equilibrio competitivo viene raggiunto in modelli chiusi attraverso la sola estensione del numero degli operatori; la numerosità degli agenti economici appare quindi come la caratteristica fondamentale della concorrenza basata sulla teoria dei giochi. Sia l'approccio cooperativo che quello non cooperativo, tuttavia, presentano dei problemi e degli aspetti non risolti in modo soddisfacente. Vi è innanzitutto l'ipotesi della conoscenza perfetta da parte degli operatori economici; si è mostrato che in situazioni in cui l'informazione è limitata e costosa il processo di convergenza al risultato competitivo incontra dei problemi (v. Rubinstein, 1982). Ma il problema più serio è posto dalla difficoltà di trovare una convincente spiegazione alla ragione per cui in un modello chiuso - in cui quindi i produttori non temono l'entrata di nuovi rivali - non si determinano fenomeni di coalizioni tra imprese.
La questione, è stato osservato (v. Arrow, 1974), è anche connessa con l'asimmetria nella distribuzione delle informazioni; è più facile infatti che gli accordi si formino tra gli operatori dello stesso settore piuttosto che tra alcuni venditori e alcuni compratori. Per affrontare questi problemi sono stati compiuti dei tentativi di introdurre limitazioni e vincoli alle ipotesi di comportamento razionale e massimizzante degli operatori, in modo analogo, quindi, alla teoria della razionalità limitata di Herbert Simon. L'estensione dell'equilibrio non cooperativo alla teoria della concorrenza potenziale e delle barriere all'entrata è un altro tema sul quale si è sviluppata dalla fine degli anni settanta una crescente letteratura. Dal punto di vista formale, infatti, non occorrono particolari complicazioni per costruire un gioco in cui vi siano un'impresa operante e un'impresa potenziale entrante: si tratta di esaminare due momenti della strategia delle due imprese, il momento della scelta se entrare o no, e quello della scelta dei prezzi o della quantità di produzione.
Un primo risultato di rilievo fu ottenuto dimostrando che la teoria del prezzo di esclusione alla Bain-Sylos Labini non trova conferma nell'ambito dei giochi non cooperativi. La ragione è sostanzialmente analoga a quella adottata da coloro che ritengono infondata la nozione stessa di barriera all'entrata, a parte il caso del vantaggio assoluto nei costi. Infatti l'impresa potenziale entrante non può credere all'ipotesi di una produzione invariata da parte delle imprese esistenti, in quanto sa che tale comportamento non sarebbe nell'interesse delle imprese già operanti, una volta che l'entrata sia avvenuta. In questo caso, infatti, a quelle imprese conviene l'accordo piuttosto che un atteggiamento non cooperativo (v. Friedman, 1979). Un discorso analogo vale per la minaccia da parte dell'impresa operante dell'uso della sua capacità produttiva come deterrente contro la potenziale entrante: in realtà anche questa minaccia è poco credibile agli occhi della potenziale entrante.
Sulla base di una distinzione effettuata da Thomas Schelling si è cercato quindi di individuare i casi in cui la minaccia può essere credibile: sono i casi in cui l'impresa operante sul mercato pone in essere un comportamento che la obbliga a un atteggiamento non cooperativo nel caso di entrata effettiva dell'altra impresa. Un esempio tipico è quello dell'impresa che stipula accordi con i clienti, garantendo un prezzo almeno pari a quello che potrebbe essere offerto da un'altra impresa. Se la sanzione, in caso di mancato rispetto dell'accordo, è sufficientemente elevata, questo comportamento pone in atto una minaccia credibile e viene quindi a costituire una vera barriera all'entrata (v. Schelling, 1960; v. Stiglitz, 1985).
Anche l'esistenza di una capacità produttiva inutilizzata può costituire una minaccia credibile, non in se stessa, ma in quanto collegata, come del resto è plausibile che sia, a costi fissi perduti di tale ampiezza da rendere comunque non conveniente la produzione a un potenziale entrante che voglia entrare aggiungendo i suoi costi fissi a quelli già esistenti. Sono stati comunque condotti dei tentativi di conciliare la teoria dell'entrata potenziale e del prezzo d'esclusione con l'equilibrio non cooperativo; in sostanza si sono introdotte limitazioni nei gradi di conoscenza da parte dei produttori: ad esempio, i potenziali entranti potrebbero non conoscere la funzione del costo del produttore operante sul mercato, e potrebbero assumere il prezzo che questi pratica come indicatore dei costi. Ma forse il vero problema risiede nelle limitazioni delle assunzioni di base dei giochi non cooperativi. Ad esempio lo schema impresa operante-impresa potenziale entrante assume implicitamente che la prima impresa sappia quanti (e quali) siano i concorrenti potenziali. Vale la pena di sottolineare che ciò che importa non è che i potenziali entranti siano in numero di uno, ma che siano in numero definito e in una ben definita sequenza dal punto di vista temporale.
Diversamente si pone invece il problema nel caso in cui l'impresa non sappia quanti e quali concorrenti potenziali può trovarsi a fronteggiare; in questo caso un atteggiamento non cooperativo volto a contrastare l'entrata del primo potenziale entrante può servire all'impresa per costruirsi una 'reputazione' tale da scoraggiare l'entrata di altre imprese e risultare redditizia a lungo andare (v. Kreps e Wilson, 1982). Situazioni di questo tipo si possono paragonare ai risultati raggiunti nell'applicazione della teoria dei giochi all'etologia (v. Smith, 1982): ad esempio il comportamento 'borghese', non cooperativo sul proprio terreno e cooperativo sul terreno altrui, potrebbe suggerire un modello valido anche per il comportamento dell'impresa. Altri sviluppi interessanti si possono cogliere nei tentativi di applicare la nozione di strategie miste al comportamento delle imprese (v. Dasgupta e Maskin, 1986). In ogni caso un accordo tra teoria dell'entrata potenziale e del prezzo di esclusione e teoria dei giochi sembra implicare il superamento di alcuni aspetti della nozione di equilibrio propria dei giochi non cooperativi.
Per lungo tempo i rapporti tra i processi innovativi e i regimi di mercato sono stati oggetto più di ipotesi convenzionali che di vere e proprie analisi. Se si prescinde da Schumpeter, occorre giungere a Josef Steindl e a Sylos Labini per un approfondimento degli effetti dell'innovazione nei diversi regimi di mercato; in sostanza l'ipotesi era che in presenza della concorrenza si determina un processo di diffusione dei frutti del progresso tecnico in tutto il sistema attraverso la riduzione dei prezzi; mentre invece posizioni monopolistiche determinano il permanere dei guadagni all'interno dei settori dove si è verificata l'innovazione. Questa differenza avrebbe una serie di conseguenze sul livello degli investimenti e sulla distribuzione del reddito. In base a questa ipotesi si ritiene che il regime di mercato concorrenziale produca una spinta all'innovazione più forte di quello monopolistico; la concorrenza agirebbe come una 'frusta' sugli imprenditori, indipendentemente dalle loro inclinazioni naturali. In questa visione tuttavia la concorrenza viene concepita implicitamente come presenza di un alto grado di rivalità, effettiva o potenziale, tra le imprese, mentre la situazione monopolistica sarebbe caratterizzata proprio dall'assenza di tale rivalità. La critica di Schumpeter a questa tesi, e sulla sua scia quella di Galbraith, consiste, a ben vedere, in due distinte proposizioni: si nega innanzitutto che la rivalità sia propria del regime concorrenziale e la sua assenza di quello monopolistico, così come sono definiti tradizionalmente; si ritiene poi che la capacità finanziaria di predisporre la somma necessaria alle spese di ricerca sia maggiore nelle imprese dotate di potere di mercato, dato che le soglie minime necessarie per avviare programmi di ricerca sono piuttosto elevate ed esistono forse economie di scala nella produzione della ricerca.
Il dibattito sviluppatosi negli anni sessanta ha fornito alcune indicazioni interessanti ma non conclusive; il saggio di Arrow (v., 1962) può essere considerato come la prima dimostrazione analitica della tesi convenzionale. Si può notare tuttavia che la maggiore propensione all'innovazione del regime concorrenziale rispetto a quello monopolistico viene a dipendere dalle stesse ragioni che stabiliscono la superiorità in termini di efficienza allocativa della concorrenza rispetto al monopolio; infatti se l'equilibrio di mercato nella concorrenza è definito dall'eguaglianza tra costo marginale e prezzo, mentre nel monopolio è definito dall'eguaglianza tra il ricavo marginale e il costo marginale, allora il monopolio si caratterizza per una minore quantità prodotta e un più alto prezzo, e quindi esso comporta una 'perdita secca' per la collettività. In tale situazione un'innovazione che riduca il costo di produzione determina un vantaggio maggiore nell'ipotesi di concorrenza che in quella di monopolio, esattamente per le stesse ragioni per le quali si determina una perdita secca.
Il problema è tuttavia se sia corretto caratterizzare nei termini anzidetti il meccanismo di determinazione del prezzo nei due regimi di mercato. In effetti l'innovazione determina tipicamente una situazione di monopolio, almeno temporaneamente, dell'impresa che ha avuto successo; il problema si presenta quindi come una questione di scelta tra una condizione di efficienza statica e una di efficienza dinamica.Le indagini empiriche hanno mostrato che esiste un ammontare minimo necessario per dare il via a progetti di ricerca, ma non esistono economie di scala; che le spese di ricerca e sviluppo crescono con la dimensione dell'impresa, ma in proporzione oltre un certo limite il rapporto decresce (con qualche eccezione, per esempio l'industria chimica). Sembra quindi che situazioni di 'eccesso di concorrenza', intesa come grande numerosità di imprese, o di 'troppo limitata concorrenza' nel caso opposto non giovino all'innovazione; sembra quindi necessario un certo grado di potere di mercato che non deve però essere eccessivo (v. Kamien e Schwartz, 1982).
L'analisi teorica dell'innovazione e delle spese per la ricerca e lo sviluppo è stata condotta da molti studiosi attraverso la teoria dei giochi; la metodologia è evidentemente quella dei giochi non cooperativi e vi hanno trovato un'applicazione le due ipotesi di concorrenza, quella alla Cournot e quella alla Bertrand. Nella prima i frutti della ricerca dipendono essenzialmente dalle spese effettuate da ciascuna impresa, indipendentemente da ciò che fanno le altre, mentre nella seconda ipotesi il frutto della ricerca, in senso economico, si ha solo quando l'impresa sia la prima a giungere a un determinato risultato; esso dipende quindi dalla brevettabilità o meno dell'innovazione.I risultati che si ottengono riflettono questi due diversi approcci. Nel primo caso, ad esempio, si mostra come il volume della ricerca dipenda dal numero dei concorrenti, ma la caratteristica nuova messa in luce è che le spese di ricerca hanno un effetto sulla struttura del mercato, ponendo un limite al numero delle imprese che vi possono operare e costituendo così una barriera all'entrata, con evidenti riflessi sulla determinazione dei prezzi. Nel secondo caso invece è dubbio che esistano soluzioni di equilibrio; in sostanza si può dire che in questo caso il problema delle imprese è decidere se le probabilità di vittoria nella ricerca sono buone o meno. Solo nel caso che siano buone conviene investire. Ciò può portare sia a eccessi di spesa per la ricerca, sia a carenze rispetto a ciò che sarebbe socialmente adeguato.
Un altro aspetto interessante che emerge quando la ricerca e lo sviluppo sono caratterizzati da meccanismi di gara, cioè nel caso della piena brevettabilità dell'innovazione da parte dell'impresa che ottiene per prima il risultato, è che l'analisi del comportamento strategico in situazioni asimmetriche indica la possibilità per l'impresa dominante di determinare delle barriere all'entrata attraverso una politica di ricerca volta alla 'saturazione' delle innovazioni. In questo caso avremmo una produzione di innovazioni che non vengono utilizzate se non quando gli investimenti effettuati in precedenza siano stati completamente ammortizzati (v. Dasgupta e Maskin, 1986).
La letteratura sul tema non è ancora giunta a una soddisfacente sistemazione della tematica; i problemi connessi con la formalizzazione di situazioni complesse sono infatti numerosi. I casi reali difficilmente rientrano nei casi estremi analizzati: la brevettabilità dell'innovazione non è mai né piena né nulla, i rapporti tra azionisti, managers, addetti ai laboratori sono complessi e i risultati dipendono da ipotesi specifiche sulle motivazioni delle singole parti (v. Stiglitz, 1985). Allo stato attuale si può dire che esiste una generale convinzione che tra innovazione e concorrenza ci siano una notevole interdipendenza e nessi di causalità reciproci.
Nei paesi anglosassoni, in particolare negli Stati Uniti, la politica antimonopolistica trova le sue radici nella common law, e ciò spiega perché l'antitrust sia una elaborazione dei tribunali. È chiaro tuttavia che vi sono sempre state strette relazioni tra teoria economica e antitrust e da questo punto di vista può sembrare sorprendente constatare che la maggioranza degli economisti ha un atteggiamento critico verso la legislazione antitrust, considerata in fondo inutile, se non controproducente dal punto di vista dello sviluppo dei processi concorrenziali. Questo atteggiamento critico è basato sull'evoluzione della teoria economica che, come si è cercato di mostrare nelle pagine che precedono, si è andata via via allontanando da una visione della concorrenza che la considera come caratteristica di un sistema atomistico, in cui ciascuna impresa è priva di potere nella fissazione del prezzo, e dove vige quindi la regola fondamentale dell'eguaglianza tra prezzo e costo marginale. In effetti, quando gli economisti ritenevano fondamentalmente valida questa concezione della concorrenza, la loro valutazione antitrust era certamente più positiva; nel noto pamphlet di Henry Simons (v., 1948) l'eliminazione del monopolio privato in tutte le sue forme era indicata come il primo obiettivo di un programma positivo per il laissez faire, e la Federal Trade Commission veniva considerata come la più importante delle agenzie governative.
Con la crisi della teoria tradizionale della concorrenza si pone in dubbio che il mercato atomistico abbia le caratteristiche di efficienza ipotizzate e si indicano invece nella libertà d'entrata e nell'innovazione le vere radici dei processi concorrenziali, e quindi la base di un'efficienza intesa in senso dinamico.Come conseguenza di ciò alcune categorie dell'antitrust vengono poste in discussione: si prenda ad esempio il caso del predatory pricing. Sulla base della teoria tradizionale l'esistenza di una politica sleale di concorrenza sul prezzo sarebbe confermata da un prezzo inferiore al costo marginale, ma le teorie della concorrenza monopolistica e dell'oligopolio hanno dimostrato che quella condizione non è né necessaria né sufficiente perché l'atteggiamento dell'impresa che lo persegue possa essere qualificato come predatory pricing (v. Scherer, 1976).
Le analisi economiche che hanno colpito più in profondità la legislazione antitrust sono quelle che hanno messo in discussione il principio secondo cui gli accordi tra le imprese ricadono nella giurisdizione dei tribunali sulla base di una presunzione iuris et de iure, cioè di quella che nella tradizione statunitense è definita la per se rule. La distinzione, in effetti, tra tendenze alla collusione tra imprese diverse e tendenze alla monopolizzazione era stata stabilita dallo stesso Sherman act, dando luogo a due sezioni separate della legge; veniva considerata in modo nettamente più severo la prima sezione rispetto alla seconda. Le teorie dei costi di transazione e dei diritti di proprietà di Oliver Williamson e di Harold Demsetz hanno portato a una riconsiderazione degli accordi verticali tra le imprese; tali accordi possono essere spiegati da considerazioni di efficienza produttiva in presenza di costi di transazione, piuttosto che dalla smithiana conspiracy against the public (v. Williamson, 1975; v. Demsetz, 1982).
Il colpo più duro all'antitrust è stato inferto dall'analisi di Lester Telser, che ha sottoposto a critica anche la condanna dei cartelli orizzontali tra le imprese, condanna che si poteva considerare come l'unico punto sicuro di incontro tra giuristi dell'antitrust ed economisti. Basandosi sulla teoria dei giochi, in particolare sull'approccio cooperativo, Telser ha sostenuto che in condizioni di eccesso di capacità e/o di costi decrescenti può mancare un equilibrio stabile nel settore. In queste circostanze la fissazione di quote di produzione può essere un modo per raggiungere una soluzione di equilibrio che altrimenti mancherebbe (v. Telser, 1987). Il dibattito su queste tesi è in corso e al momento non è possibile prevederne gli sviluppi; si può tuttavia ricordare che nelle situazioni di assenza di equilibrio, quali quelle descritte da Telser e che egli stesso ritiene più diffuse nei mercati industriali di quanto gli studiosi dell'equilibrio economico generale non abbiano ammesso finora, i prezzi perdono la loro fondamentale funzione di allocazione delle risorse; il problema è allora se la realizzazione dell'equilibrio debba essere lasciata all'iniziativa delle parti o non richieda piuttosto qualche forma di intervento pubblico. (V. anche Concentrazione industriale; Consumatore, tutela del; Diversificazione e differenziazione dei prodotti; Mercato; Monopolio e politiche antimonopolistiche; Oligopolio; Prezzi).
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