Concorrenza
Appunti sulla concorrenza
di
30 giugno
Il Consiglio dei ministri approva un decreto legge contenente nuove norme sulla concorrenza e i diritti dei consumatori nei settori dei trasporti, delle banche, del commercio, delle assicurazioni e delle libere professioni. Secondo il ministro dello Sviluppo economico Pierluigi Bersani, il provvedimento mira a instaurare un nuovo tipo di rapporto tra il cittadino-consumatore e i fornitori di servizi.
Il concurrere fra etica ed economia
È il predicatore Girolamo Savonarola, alla fine del Quattrocento, il primo in Italia a usare la parola ‘concorrenza’ nel significato che da sempre gli economisti le attribuiscono, di gara tra persone le quali, aspirando a uno stesso risultato, cercano di sopraffarsi a vicenda; con ciò interpretando in senso competitivo il concetto latino del concurrere – cum currere – cioè correre insieme. Invece, nel Trecento, Dante e Boccaccio utilizzavano tale verbo per descrivere un’azione opposta, in cui il confluire di diversi individui serve alla cooperazione e all’accordo. A questo secondo senso, ignoto alla lingua inglese (che chiama la concorrenza competition), si riallaccia l’aggettivo giuridico ‘concorrente’ quand’è applicato nel campo del federalismo fiscale: tale è il caso, per esempio, che emerge, da un lato, nel Trattato costituzionale europeo ratificato dai 25 Stati dell’Unione nell’ottobre 2004, per indicare le competenze condivise fra i paesi membri e l’Unione (artt. I-12 e I-14) e, dall’altro, nel riformato Titolo V della Costituzione italiana (art. 117 della legge costituzionale del 18 ottobre 2001), per illustrare le funzioni legislative delle Regioni nelle materie in cui allo Stato è riservata «la determinazione dei principi fondamentali». Incidentalmente, tanto in Europa quanto in Italia, la definizione delle «regole della concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno», e l’equivalente «tutela della concorrenza» non sono oggetto di legislazione concorrente, bensì esclusiva dell’Unione per un verso, dello Stato per un altro. Il concurrere competitivo rappresenta, come tutti gli ossimori latini, un’idea complessa e profonda. L’opinione pubblica, in genere, ne coglie solo alcuni aspetti, mischiando valutazioni di tipo morale ad altre più propriamente analitiche. Nelle prime, essa rivela la corretta consapevolezza che la concorrenza non è sinonimo di laisser-faire e che gli standard o l’habitat che permettono alla selezione darwiniana dei migliori di esplicarsi nella società sono frutto di decisioni mutevoli nel tempo e nello spazio; ma in questo emerge anche l’errato convincimento di molti ‘uomini della strada’, secondo cui tutto è arbitrario o modificabile nelle regole del gioco come nei risultati, secondo aspirazioni di ‘magnifiche sorti e progressive’, ignare di quanto poco contino le intenzioni del legislatore rispetto agli effettivi comportamenti degli agenti privati, della burocrazia pubblica, dello stesso governo. Così, se è vero che nella competizione fra contrade del Palio di Siena, a partire dal Medioevo, è lecito ricorrere a ogni sorta di infamia e scorrettezza, purché il cavallo della contrada nemica perda la gara (in prima istanza) e purché quello della propria vinca (in seconda istanza) e se è certo che tali regole oggi non sarebbero mai adottate per un nuovo sport altrettanto carico di passioni e tifoseria perché verrebbero giustamente ritenute ripugnanti, è altresì vero che nemmeno nel 21° secolo si devono presumere bontà e altruismo generalizzati.
Non è realistico e non è neppure necessario per conseguire obiettivi ottimali, come vedremo tra poco. La teoria economica lo sa molto bene. Gli umani non sono di solito anime belle, i comportamenti sono normalmente razionali ma egoistici, tesi al conseguimento del proprio personale benessere, anche se la neuroeconomia comincia a comprendere che l’homo oeconomicus è un’ipotesi troppo semplicistica. I mercati hanno una loro forza che è bene assecondare, salvo in pochi e limitati casi in cui falliscono gravemente e vanno contrastati. I vincoli di bilancio o tecnologici devono essere tenuti in seria considerazione, perché implicano la necessità di scelte alternative, non complementari. Poiché i giudizi etici entrano molto spesso abusivamente nella communis opinio sulle scienze sociali, ma non su quelle naturali o esatte, i fatti economici, diversamente da quelli della fisica o della biologia, sono frequentemente illustrati nella pubblicistica non solo da un sostantivo, bensì anche da un aggettivo qualificativo di valore; così, per esempio, si sente continuamente parlare di concorrenza ‘sleale’ o all’opposto ‘sana’ e di capitalismo ‘selvaggio’, mentre a nessuno verrebbe in mente di dire che l’entropia è selvaggia o il DNA è sleale. E infatti agli esperti nella scienza economica è noto esclusivamente il concetto di concorrenza pura o perfetta, rispetto alla quale ogni forma competitiva effettiva si caratterizza nella sua diversità, non nella sua inferiorità morale, come concorrenza monopolistica, oligopolistica ecc. Fatte queste premesse, ci si può domandare perché il dibattito nel nostro paese e in altri d’Europa sui vizi e le virtù terapeutiche della concorrenza e delle liberalizzazioni sia così intenso e veda così distanti punti di vista. Da un lato, gli elettori francesi rispondono no al referendum sul Trattato costituzionale europeo, ritenendo così di allontanare la minaccia dell’‘idraulico polacco’, assunto a simbolo della competizione da parte dei paesi di nuovo accesso all’Unione; da un altro lato, Tony Blair si attende un passo avanti decisivo per lo sviluppo europeo proprio dall’approfondimento e dall’allargamento del mercato unico. In Italia, mentre una parte degli industriali più tradizionali, come nel tessile, invoca barriere tariffarie (e non) rispetto alla concorrenza cinese, trovando sponde di comprensione in politici della coalizione di centro-destra quali Giulio Tremonti, per converso imprenditori più innovativi quali Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit e protagonista della maxifusione con la tedesca Hypo-Vereinsbank (HVB), chiedono di procedere speditamente alla liberalizzazione di ‘tutto il sistema Italia’. La Fondazione Italianieuropei, con in testa Massimo D’Alema, da qualche anno sostiene che il centro-sinistra dovrebbe in sintesi procedere a «più concorrenza e più liberalizzazione» e Romano Prodi, fra le priorità del programma dell’Unione, inserisce l’idea di far assorbire in Italia «la cultura della concorrenza, potenziando, trasformando e riformando il ruolo delle Autorità di garanzia». In ciò, questi leader della coalizione vittoriosa nell’aprile 2006 si pongono in sintonia con la stragrande maggioranza degli economisti. Il 15 giugno 2005, 170 di questi, pur di diverse tendenze politiche, hanno sottoscritto un appello pubblicato dal Sole 24Ore nel quale, fra l’altro, chiedono (dovrei dire chiediamo) «di aumentare il grado di concorrenza» in Italia, suscitando però il sospetto del quotidiano il Manifesto, che in proposito pone «dieci domande al neonato partito degli economisti». In tale discordanza di opinioni, sembra opportuno cercare di rispondere a tre domande: 1) perché in generale nel vecchio continente l’opinione pubblica, non solo italiana, ma in parte anche francese e tedesca, non però quella anglosassone, considera la concorrenza un pericolo? 2) perché invece la maggioranza degli economisti la intende come una straordinaria opportunità? 3) quali sono gli strumenti a disposizione del policy-making per avvicinare la realtà a quel benchmark analitico che è la concorrenza perfetta?
Le ragioni della contrarietà
Il motivo per cui l’opinione pubblica dei grandi paesi dell’Europa continentale di solito diffida della concorrenza è duplice. Da un lato, in questa zona del mondo lo studio dell’economia è arrivato tardi (certo più tardi che in Inghilterra, dove operavano i padri fondatori Adam Smith e David Ricardo) e non è diffuso nella società come una parte nobile del sapere, in quanto le sue radici filosofiche – l’utilitarismo di Jeremy Bentham, il liberismo di Thomas Hobbes, l’empirismo induttivo di John Locke e David Hume – sono inglesi e lontanissimi dall’idealismo deduttivo tedesco-italiano o dal metodo matematico applicato alla filosofia di Cartesio e dal colbertismo francese. Da un altro lato, la matrice cattolica e quella marxista, fra loro così diverse per tanti aspetti ma così vicine quanto alla duplice idea che «il denaro e il profitto siano sporchi» e che la ricerca del benessere individuale contrasti con gli obblighi di solidarietà costituiscono un quadro di riferimento a cui si impronta tutta l’Europa occidentale entro i confini dell’antica Roma; gli sono, invece, estranei sia lo spirito capitalistico anglo-americano, sia l’etica protestante dei risultati (non delle intenzioni), tipica del Nord Europa, e con fermezza gli si oppongono anche – nel desiderio di dimenticare l’odiato passato del socialismo reale – i paesi centro-orientali del nuovo accesso all’Unione, convintissimi della bontà della recente riscoperta del liberismo e del liberalismo. Per questi fautori della concorrenza, il darwinismo sociale, con la selezione del più bravo (espressione forse addirittura della Grazia divina), implica insieme un premio dell’efficienza e un tratto di equità e perciò viene valutato molto positivamente. Al contrario, alla coscienza civile dei grandi Stati dell’Europa continentale occidentale, la lotta darwiniana – con i suoi vincitori, ma anche con i suoi vinti – disturba profondamente, solleva inquietudine e bisogno di protezione dei perdenti. In quello che fu l’Impero Romano d’Occidente, quando oggi si vota contro l’idraulico polacco è come se tutti si mettessero, per solidarietà, dalla parte dell’idraulico nostrano, che probabilmente soccombe davanti a quello proveniente dall’Est europeo, dimenticando che se questo succede è perché il neoarrivato è migliore del residente da sempre nei nostri territori e dunque non solo è giusto che vinca lui, ma in aggiunta conviene che ciò succeda a noi come consumatori (che abbisogniamo di un idraulico capace e a basso prezzo), a noi come imprenditori (che cerchiamo i mezzi di produzione al costo più contenuto) e anche alla nostra società nel suo complesso, nonostante le inevitabili conseguenze a breve, negative per alcuni. Ed è in questo che consiste il teorema poco intuitivo della concorrenza perfetta.
Le ragioni del gradimento
Si può dimostrare che l’allargamento della torta di cui un paese si nutre è massimo con la concorrenza perfetta, che di esso si giova anche l’idraulico nostrano e che dunque in ultima analisi è nel suo stesso interesse che vinca l’idraulico polacco, se più bravo e meno costoso, purché la società sia disposta a ridistribuzioni di fette di dolce a favore degli eventuali perdenti. La protezione di questi ultimi, invece, servirebbe solo a rimpicciolire la torta, a danno della società nel suo insieme, incluso il nostro idraulico.
Una spiegazione intuitiva macroeconomica
Prima di illustrare in termini tecnici questo risultato apparentemente paradossale del concurrere, se ne può fornire un’intuizione attraverso un esempio parziale, ma sperabilmente chiarificatore. Si ipotizzi che il benessere complessivo di un paese cresca all’aumentare della dimensione della torta e che essa diventi tanto più grande quante più persone lavorano, raggiungendo dunque il massimo al pieno impiego, allorché il numero dei disoccupati si azzera. Si supponga inoltre che le imprese scelgano i dipendenti, in questo caso pasticceri, cominciando da quelli più produttivi, capaci cioè di ottenere ricette più prelibate con gli stessi ingredienti o volumi maggiori più in fretta. Le imprese continueranno ad assumere fino al punto in cui il pasticcere meno capace – quello, come si dice, con produttività marginale più bassa – avrà pur sempre una produttività marginale superiore o eguale al salario che gli viene corrisposto (anzi al costo del lavoro, ma qui si ignorano per semplicità gli oneri sociali). La domanda di lavoro da parte delle imprese – cioè il numero di pasticceri assunti – sarà dunque decrescente all’aumentare del salario in potere d’acquisto (o salario reale) che questi percepiscono. Si supponga, infine, che ci sia un numero fisso di persone disponibili a preparare torte o, come si dice in gergo, che sia costante l’offerta di lavoro. Compariamo allora due situazioni che possono emergere nel mercato del lavoro, nel quale si confrontano molte imprese di pasticceria, tutte identiche quanto alle torte poste in vendita in concorrenza perfetta sul mercato del prodotto. In un primo scenario, i lavoratori delle pasticcerie siano una corporazione molto forte e coesa e riescano a imporre ai loro datori di lavoro un salario elevato e rigido. Con termini moderni si direbbe che sono largamente sindacalizzati e, se fossero anziché dipendenti, autonomi, si affermerebbe che costituiscono un ordine professionale molto protetto (come, di fatto, i panificatori italiani erano prima che li colpisse il decreto legge sulle liberalizzazioni, varato su impulso del ministro Bersani). A tale alto salario, le imprese, massimizzando il profitto e non volendo pagare ai pasticceri una porzione di fette di torta (ovvero un salario reale) superiore a quante essi stessi producano (cioè maggiore della loro produttività marginale), assumeranno un numero di pasticceri inferiore all’offerta di lavoro disponibile. Rimarranno disoccupati alcuni, o forse molti, a seconda del livello retributivo, delle protezioni complessive dei lavoratori, della loro produttività, della domanda dei consumatori golosi. Tuttavia, gli occupati godranno di buone condizioni economiche e normative. Perché – ci si potrebbe chiedere – il sindacato si sbaglia e fissa un salario al quale non è possibile arrivare al pieno impiego? Una prima risposta è che il sindacato, in un certo senso, non commette errori, soltanto che, al di là di quel che sostiene a parole, si comporta guardando esclusivamente all’interesse della sua base, cioè dei più produttivi, dei pasticceri occupati, disinteressandosi dei disoccupati, delle casalinghe, di chi deve fare la spesa. Vedremo successivamente che, in un’ottica non di breve periodo e di equilibrio generale, non parziale, in realtà tale comportamento è irragionevole. Ma una seconda risposta è che il sindacato sarebbe inutile se l’obiettivo fosse il pieno impiego, perché a tale risultato porta un mercato del lavoro perfettamente concorrenziale dove nessuno, né i dipendenti pasticceri, né i datori di lavoro-imprenditori, né i consumatori possono imporre un prezzo, bensì esso si determina flessibilmente in modo da rendere sempre la domanda eguale all’offerta. In questo secondo scenario, di concorrenza perfetta, finché ci saranno sul mercato pasticceri disponibili a lavorare ma disoccupati, aziende desiderose di assumerli a condizioni meno onerose e persone golose intenzionate a comperare torte a prezzi più convenienti, il salario scenderà fino al punto in cui tutti i lavoratori troveranno un’occupazione e tutti i buongustai una torta al prezzo a cui se la potranno acquistare. Rispetto alla situazione precedente, c’è qualcuno che palesemente ci perde, coloro che già erano occupati al livello salariale più alto e che ora debbono accontentarsi di una più modesta retribuzione se, come normalmente succede, non è possibile procedere a una discriminazione di prezzo a danno dei meno produttivi. C’è qualcuno che palesemente ci guadagna, coloro che erano disoccupati e che ora trovano un lavoro a un salario concorrenziale. E naturalmente traggono un beneficio anche le imprese, i cui profitti aumentano, e i consumatori cui piace comprare più fette di torta a un costo minore.
È la società nel suo insieme che sta meglio, anche le casalinghe, gli studenti, i pensionati, i portatori di handicap, che stanno tutti fuori dal mercato del lavoro, ma possono consumare di più ricevendo, attraverso redditi di trasferimento e un’assistenza più decorosa resa possibile dalla maggiore ricchezza, porzioni di torta più ampie.
Alla lunga, perfino quei pasticceri originariamente occupati a elevato salario – perché molto produttivi – ora declassati a livelli retributivi inferiori, godranno del benessere superiore indotto dalla condizione concorrenziale instaurata: ed è qui che sta il dono paradossale della concorrenza. Questo avviene se la società è favorevole (come lo sono sempre quelle moderne) a clausole di salvaguardia o a sussidi nei confronti dei propri connazionali colpiti da un evento sfortunato o meno fortunati, aiuti realizzati attraverso il sistema delle imposte progressive o attraverso una vasta rete di spese private e pubbliche senza contropartita. Più in generale, ciò accade per almeno tre potenziali motivi. In primo luogo perché, essendo i pasticceri declassati quelli più capaci, probabilmente essi saranno in grado, magari dopo un periodo di riaddestramento, di riqualificarsi ulteriormente, trovando un lavoro migliore dell’iniziale. In secondo luogo, perché se anche questo non succedesse, e restassero a fare i pasticceri a salario abbassato, potrebbero tuttavia trovare maggiori benefici nella famiglia cui appartengono, dove una moglie prima priva di lavoro e figli un tempo disoccupati ora sono occupati e retribuiti. Infine, perché, se anche tale ultima situazione non si concretizzasse, una parte del superiore benessere delle altre famiglie, nella società ormai arricchita, darebbe luogo a più elevate uscite a favore di chi risulta in quel momento indebolito. In questo si evidenzia ciò che tecnicamente è chiamato il principio di compensazione: esso stabilisce (come descritto nel Penguin dictionary of economics) che «il benessere economico complessivo è incrementato da un cambiamento nell’economia, se coloro che ci guadagnano possono compensare coloro che ci perdono, con loro mutua soddisfazione. Non è necessario che i trasferimenti in moneta di fatto si realizzino. Tuttavia, da questo punto di vista, tale principio è stato criticato perché i trasferimenti fattuali sono necessari se gli individui debbono rivelare il valore che essi danno ai guadagni e alle perdite».
Una spiegazione tecnica microeconomica
Passiamo a illustrare in termini analitici le condizioni ipotetiche in cui funzionano i mercati di concorrenza perfetta e le caratteristiche dei risultanti equilibri sia descrittivi sia prescrittivi. Cinque sono le ipotesi fondamentali per l’esistenza di un mercato in concorrenza perfetta: 1) il prodotto venduto da tutte le imprese e acquistato dai consumatori è perfettamente omogeneo; 2) la numerosità degli operatori, tanto di quelli che offrono quanto di quelli che domandano il bene, è molto elevata, sicché nessuno di essi singolarmente è in grado di determinare il prezzo, ma tutti lo considerano come un dato su cui non hanno influenza. Ciò implica che ogni impresa, massimizzando il suo profitto, produrrà fino al punto in cui il costo marginale dell’ultima unità prodotta, generalmente crescente al crescere delle quantità, sia uguale al prezzo; ogni consumatore, massimizzando il suo benessere individuale o, come si dice, la sua utilità, comprerà volumi dei vari beni fino a che l’utilità marginale (il beneficio ottenuto dalla dose addizionale, positivo ma decrescente all’aumentare della quantità), ponderata per il prezzo, sia uguale per tutti i beni; 3) vi è assoluta libertà d’ingresso nel mercato, sicché, se il costo marginale è – data l’ipotesi 2 – reso pari al prezzo non al livello dove quello è minimo e sussistono sovraprofitti, nuove imprese entrano nel mercato, offrendo ulteriori unità e questo fa scendere il prezzo al più basso costo marginale, compatibile con le migliori tecniche, con la produttività marginale dei fattori e i loro compensi; 4) esiste perfetta informazione, senza asimmetrie fra compratori e venditori e senza opacità, in modo che non rimangano opportunità non sfruttate e che si possa formare un prezzo unico per lo stesso bene; tale risultato è assicurato anche dalla quinta e ultima condizione necessaria alla concorrenza perfetta; 5) le numerose contrattazioni sul mercato sono tutte simultanee e avvengono una volta espletata la fase delle trattative. Esiste una molteplicità di meccanismi ipotizzati per queste ultime: per esempio, Francis Ysidro Edgeworth suppone che si svolgano scambi di opinione individuali, mentre Léon Walras descrive un caso di banditore che funge da informatore centralizzato di tutte le proposte di domanda e di offerta, il quale alza il prezzo quando inizialmente appare che la domanda ecceda l’offerta e lo abbassa nel caso contrario. Il prezzo di equilibrio si ottiene quando la domanda eguaglia l’offerta. A quel punto si apre la fase dello scambio, in cui chiunque voglia comperare trova la sua controparte disposta a vendere e viceversa.
Date queste cinque ipotesi di concorrenza perfetta, si dimostra che si raggiunge un equilibrio, con eguaglianza di domanda e di offerta in tutti i mercati: esso esiste, è unico ed è stabile, nel senso che il movimento verso l’equilibrio è istantaneo e infinitamente veloce. In tale equilibrio generale di concorrenza perfetta, due caratteristiche descrittive emergono per la loro importanza: 1) l’equilibrio è efficiente. Infatti non vengono prodotti quei beni che danno una utilità marginale così scarsa da non invogliare i consumatori a pagare un prezzo positivo. D’altra parte non esistono sprechi, nel senso che solo le imprese capaci di produrre al minimo costo rimangono sul mercato e i volumi prodotti non sono né di meno né di più di quelli desiderati dagli acquirenti. Poiché il prezzo di equilibrio corrisponde sia al costo marginale sia all’utilità marginale dei beni, la concorrenza perfetta assicura che venga messo sul mercato solo ciò che dà una soddisfazione identica alla spesa necessaria per realizzarlo; 2) oltre che per l’efficienza, l’equilibrio di concorrenza perfetta si caratterizza per l’equità, perché i sovraprofitti sono eliminati e i costi marginali minimi pagati sono quelli a cui ogni mezzo di produzione riceve un compenso esattamente eguale alla sua produttività marginale. Non può ricevere di più perché, se così fosse, le imprese incorrerebbero in perdite e uscirebbero dal mercato, riducendo l’offerta, il che contrasta con l’ipotesi iniziale dell’equilibrio. Ma nessun fattore di produzione può nemmeno ottenere una retribuzione inferiore alla sua produttività marginale, perché se così fosse, si creerebbero sovraprofitti e nuove imprese entrerebbero nel mercato, il che è contrario all’ipotesi di equilibrio da cui si è partiti. L’eguaglianza fra compenso e produttività marginale di ogni mezzo di produzione identifica quindi un risultato della concorrenza perfetta, che garantisce insieme l’equità e l’efficienza. Dal punto di visto prescrittivo, l’equilibrio di concorrenza perfetta, pur essendo conseguito attraverso la massimizzazione sotto vincolo dei tornaconti personali, è in grado di portare al massimo benessere sociale. Per capirlo e per comprendere i due teoremi fondamentali dell’economia del benessere, è necessario premettere una precisazione sul concetto di ottimo paretiano: date le risorse produttive e la loro distribuzione fra individui, date le tecnologie produttive e i gusti dei consumatori, un’allocazione è detta ottimale per una società se non ne esiste alcuna altra che consenta di accrescere l’utilità di un individuo senza diminuire quella di almeno un altro.
I due teoremi del benessere sono allora formulabili nel modo seguente: a) ogni allocazione corrispondente a un equilibrio di concorrenza perfetta è ottima in senso paretiano, e vi sono molteplici allocazioni ottime in funzione della diversa distribuzione iniziale delle risorse; b) ogni ottimo paretiano può essere ottenuto da un equilibrio di concorrenza perfetta, purché le risorse iniziali siano opportunamente allocate tra gli individui.
Concorrenza non è sinonimo di laisser-faire
Se la concorrenza perfetta implica efficienza, equità e ottimalità sociale, ma la realtà dei mercati non corrisponde al modello teorico basato sulle cinque ipotesi sopra evidenziate, la domanda da porre è se la politica economica sia in grado di fare qualcosa per avvicinare le condizioni fattuali a quelle paradigmatiche del benchmark. La risposta è certamente positiva perché una situazione concorrenziale non è assimilabile a una di laisser-faire o di laisser-passer, anche se nell’opinione pubblica erroneamente liberalizzazione è considerato sinonimo di deregulation. Tuttavia, l’approssimazione rimane comunque parziale, perché quegli assunti restano in ogni caso astratti e tendenzialmente irraggiungibili. Il policy making ha però molti strumenti a sua disposizione, in primo luogo per imporre regole adeguate agli agenti economici, in secondo luogo per controllare e, se del caso, sanzionare i loro comportamenti anticompetitivi attraverso istituzioni appropriate. Le prassi corrette, laddove si instaurano nella società, sono la conseguenza di quelle azioni normative e istituzionali e sono tanto più probabili quanto più queste ultime si fondano su principi solidi e coerenti con le cinque ipotesi della concorrenza perfetta prima esaminate. Tra le regole volte a ottenere un sistema quanto più vicino possibile al benchmark, le più importanti sono quelle di rango costituzionale. Prima della riforma del 2001, quando la «tutela della concorrenza» fu introdotta nell’art. 117 tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, la Costituzione italiana non menzionava nemmeno il termine concorrenza e ciò non casualmente. Nell’impressione di molti commentatori, in effetti, questo corrispondeva a una particolare concezione emergente nel testo deliberato dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947: per esso, la libertà di gareggiare sul mercato era permessa («l’iniziativa economica privata è libera», secondo l’art. 41), ma non era certo promossa quale obiettivo fondante dell’intervento pubblico, a causa – come ricorda Valerio Castronovo (Così la Costituzione parlò di economia, «Il Sole 24Ore», 2 giugno 2006) – «dell’importanza attribuita alla ‘socialità’, fra i tratti distintivi della Costituzione repubblicana». Infatti, in sede costituente, «le norme in materia economica [hanno] avuto per principi ispiratori… il valore primario dell’interesse pubblico (concepito non solo quale limite esterno ma anche come vincolo di natura positiva all’autonomia dei singoli soggetti)…Da qui due prescrizioni fissate nell’art. 41, in cui si dice che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale” e che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”». Su tale impostazione – prosegue Castronovo – fu facile trovare un accordo fra i padri costituenti, pur così eterogenei per altri versi: «La DC si ispirava ai postulati solidaristi-corporativi del magistero della Chiesa, il PCI ai canoni marxisti-leninisti della Terza Internazionale (condivisi in parte anche dalla maggioranza del Partito Socialista). A sua volta, il Partito d’Azione avrebbe voluto una ‘socializzazione’ dell’economia, basata sulla diffusione di imprese autogestite e sodalizi cooperativi. In pratica, l’unico partito che aveva quale precipuo modello di riferimento un’economia di mercato era quello liberale, che per di più contava ben pochi seguaci. Tant’è che avrebbe avuto scarsa voce in capitolo…[sul] fatto che il sistema economico ereditato dalla crisi del ‘29 e dal regime autarchico fascista avesse un grado di statalizzazione inferiore solo a quello dell’Unione Sovietica». L’influenza liberale, in aggiunta, fu allora in Italia minore di quanto meritasse il bene prospettico del paese, anche a causa dell’incomprensione del liberismo da parte dello stesso Benedetto Croce. Quest’ultimo, nel dibattito con Luigi Einaudi ripreso in Liberismo e liberalismo (Milano-Napoli, Ricciardi, 1957), dimostra, infatti, di non capire il senso dell’efficienza, dell’equità e dell’ottimalità sociale di un equilibrio concorrenziale, sostenendo che, diversamente dal liberalismo, «il liberismo economico si è convertito in illegittima teoria etica, in una morale edonistica e utilitaria». Luigi Einaudi ribatte che «non può esistere libertà dello spirito…dove esiste e deve esistere una sola volontà…Lo spirito, se è libero, crea un’economia varia in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppo». Orbene, ci sono voluti 60 anni perché nell’Italia post-comunista il centro-sinistra italiano riscoprisse (in larga parte) la grande lezione einaudiana, mentre ne sono rimasti ancora indenni quasi tutto il centro-destra nostrano e le ali estreme di entrambe le coalizioni.
L’atteggiamento nei confronti della concorrenza, illustrato a livello europeo dal Trattato di Roma istitutivo della Comunità Europea, è molto diverso da quello riscontrato negli articoli 3 e 41-46 della Costituzione italiana, nonostante sia siglato solo 10 anni dopo (25 marzo 1957). Il Trattato, con le modifiche successivamente intervenute (Atto Unico Europeo del 1986; Trattato di Maastricht del 1992; Trattato di Nizza del 2001) pone, infatti, fra i suoi ‘principi’ quello non di consentire ma di «promuovere nell’insieme della Comunità…mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni…uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile»: una delle principali politiche, in quest’ottica, è quella volta a conseguire «un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno» (art. 3). La cosiddetta Costituzione Economica europea non solo intende dare impulso al mercato unico «caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali», ma più operativamente stigmatizza (agli artt. 81-89 del Trattato) anche alcune delle principali violazioni fattuali delle cinque ipotesi sopra menzionate, caratterizzanti il modello teorico di concorrenza perfetta. Così sono denunciati come «incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazione di imprese e tutte le pratiche concordate…che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza…ed in particolare quelle consistenti nel fissare direttamente o indirettamente i prezzi…nel limitare o controllare la produzione»; e anche le imprese pubbliche e quelle cui si riconoscono diritti speciali ed esclusivi, incluse le aziende «incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle…regole di concorrenza», indipendentemente dunque dal regime proprietario: con ciò dimostrando che la Costituzione Economica europea, meglio della nostra carta costituzionale, sa distinguere sia nei principi sia nell’applicazione pratica le privatizzazioni dalle liberalizzazioni delle public utilities, restando indifferente alle prime, ma promuovendo le seconde. Poiché c’est le ton qui fait la musique, l’articolo 43 della Costituzione italiana non potrebbe suonare, in proposito, più stonato rispetto all’art. 86 europeo appena letto: «Ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente e trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese…che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale».
Ovviamente, per quanto i principi della Costituzione italiana appaiano lontanissimi da quelli del Trattato europeo, essi non gli sono – né gli potrebbero essere – ostili, data l’appartenenza dell’Italia all’Unione a 25. Proprio perciò, sotto l’influenza europea, il nostro paese negli ultimi 50 anni ha adottato leggi, procedure, pratiche favorevoli alle liberalizzazioni: da quelle sul trasporto aereo (ormai non esiste più nemmeno il concetto di vettore di bandiera nel vecchio continente), a quelle sul riconoscimento dei periodi di studio in uno Stato membro differente da quello di origine (grazie a un programma come Erasmus, un anno universitario svolto in Europa fuori dal proprio paese conta, ai fini del curriculum, esattamente come se fosse passato in patria, cosa che non succede nemmeno all’interno dell’Italia per chi è studente di una delle nostre Università e trascorre un breve periodo in un’altra, nonostante il valore legale del titolo di studio apparentemente omogeneo su tutto il territorio nazionale).
Istituzioni italiane ed europee
L’influenza europea è evidente anche sulle istituzioni deputate al monitoraggio della corretta applicazione delle regole della concorrenza. Esse possono essere comunitarie, come nel caso della Commissione Europea, responsabile, secondo gli artt. 87-89 del Trattato, dell’«esame permanente dei regimi di aiuti esistenti» da parte di ciascuno Stato dell’Unione, o come nel caso della Corte di Giustizia europea che ha fornito in questi anni interpretazioni autentiche delle norme dell’Unione e conseguentemente ha favorito in essa prassi competitive fondamentali anche per il successivo progresso delle regole concorrenziali stesse, attraverso Direttive europee di tipo verticale (per esempio, nel settore finanziario) o orizzontale (quale quella sui servizi); oppure tali istituzioni possono essere nazionali, come lo sono le Autorità Antitrust, create nei singoli paesi membri. Non vi è spazio per dare qui conto di tutta la vasta rete istituzionale, tesa a controllare e imporre comportamenti concorrenziali. Bastino, in proposito, solo brevi cenni esemplificativi su una istituzione italiana quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (breviter Antitrust) e su una europea, quale la Corte di Giustizia.
L’Antitrust nasce dalla legge 287 del 10 ottobre 1990, in ritardo rispetto al resto del mondo occidentale. Gli appigli normativi primari sono i citati artt. 41 della Costituzione italiana e 81-83 e soprattutto 84 del Trattato europeo, mentre poi diventano rilevanti anche i successivi regolamenti del Consiglio dell’Unione (in particolare, quello del 16 dicembre 2002, pubblicato come nr. 1 del 2003, tendente a meglio specificare i rispettivi campi di applicazione delle competenze, da un lato, delle Autorità garanti della concorrenza a livello dei singoli Stati membri e, dall’altro, della Direzione generale 4 per la concorrenza della Commissione, nonché la loro «stretta collaborazione»). Per quanto concerne i compiti assegnati dal legislatore all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, si distinguono i tre inizialmente dati nel 1990 dai tre successivi. Le funzioni iniziali, illustrate agli artt. 2, 3 e 5 della legge 287, prevedono che l’Antitrust italiana vigili affinché non emergano distorsioni: a) con intese restrittive della concorrenza fra imprese che colludano anziché competere, a meno che «per un periodo limitato» tali intese «non diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato», con beneficio per i consumatori e rafforzamento della concorrenzialità delle imprese sul piano internazionale; b) con abuso di «posizione dominante all’interno del mercato nazionale», per il quale non basta che una o più imprese posseggano un’alta quota in un determinato settore (perché questo talvolta induce maggiore efficienza attraverso le economie di scala o di scopo), ma che si sia in grado di praticare prezzi o condizioni particolarmente gravosi o si possa impedire l’accesso o il progresso tecnologico ad altri produttori a danno dei consumatori, dove cruciale è l’identificazione del mercato ‘pertinente’; c) con riguardo a tutte quelle operazioni di concentrazione, quali la fusione tra aziende, che sono soggette a comunicazione diretta all’Antitrust, orientata a valutare se tali operazioni comportino una riduzione sostanziale e durevole della concorrenza e costituiscano o rafforzino una posizione dominante, nel qual caso vengono vietate. La legge 287 del 1990 stabilisce che le tre funzioni di vigilanza sulla concorrenza, sopra menzionate, non si estendano, come esplicita l’art. 8, «alle imprese che, per disposizione di legge, esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operano in regime di monopolio sul mercato, per tutto quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici compiti loro affidati». Fino alla fine del 2005, l’Antitrust svolgeva tale vigilanza (con qualche deroga, come sopra indicato) in tutti i settori, tranne che in quello bancario, dove la Banca d’Italia era l’unica custode della concorrenza, ma, a seguito della nuova legge sul risparmio (nr. 262 del 28 dicembre 2005), il compito di vigilanza sulla stessa concorrenza bancaria è stato assegnato all’Antitrust. A questa è oggi devoluto il controllo sugli abusi di posizione dominante e sulle intese relative a banche, con esclusione delle acquisizioni e delle concentrazioni bancarie, per le quali l’art. 19 della nuova legge sul risparmio dispone che siano «necessarie sia l’autorizzazione della Banca d’Italia per le valutazioni di sana e prudente gestione, sia l’autorizzazione della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato…a seguito delle valutazioni relative all’aspetto concorrenziale del mercato».
In passato, la Banca d’Italia autorizzava (o negava) preventivamente l’acquisizione a qualsiasi titolo di azioni o quote di banche, quando tale operazione implicava una partecipazione superiore al 5% delle azioni con diritto di voto o, comunque, il controllo di un istituto di credito. Tale autorizzazione si doveva ottenere anche quando l’acquisizione riguardava una società in possesso di una partecipazione superiore al 5% nel capitale di una banca. Dopo il 1990 si sono realizzati altri due significativi allargamenti delle funzioni dell’Antitrust italiana: nel 1992, con il decreto legislativo 74 del 25 gennaio, in materia di pubblicità ingannevole, in quanto si ritiene che questa possa arrecare danno al consumatore sia direttamente, sia indirettamente attraverso le provocate distorsioni della concorrenza; nel 2004, con la legge 215 del 20 luglio (nota come Frattini), in materia di conflitti di interesse, in quanto si reputa che questi, per analogia, configurino condizioni di abuso di posizione dominante da parte di titolari di cariche di governo. Infine, l’articolo 14 del decreto legge 4 luglio 2006, nr. 233, ne rafforza le capacità sanzionatorie in caso di accertata violazione delle regole concorrenziali, per esempio quando sussista «il rischio di un danno grave e irreparabile per la concorrenza».
La Corte di Giustizia è nata nel 1953 ed è disciplinata dagli artt. 220-45 del Trattato. Composta da 25 giudici (uno per ogni Stato membro) e nove avvocati generali, scelti dal Consiglio dei ministri con un mandato di sei anni rinnovabile, la Corte è suprema (come quella statunitense, senza però essere federale), nel senso che in genere contro di lei non vi è appello. In aggiunta, quando un caso riguardante una legge comunitaria giunge davanti a una magistratura nazionale, la Corte Europea ha competenza a pronunciarsi in via pregiudiziale e la legge comunitaria ha sempre la precedenza su quelle degli Stati membri.
Fra le quasi 7000 sentenze finora emesse dalla Corte, di gran lunga la più importante, nell’ottica concorrenziale che qui interessa, è quella del 1979, chiamata del cassis de Dijon. La vendita di questo liquore francese era, prima di allora, vietata in Germania in quanto la normativa tedesca disponeva che potessero venire commercializzate come liquori unicamente le bevande alcoliche con gradazione minima corrispondente a quella degli standard del paese e dunque molto elevata. Si riteneva, infatti, in maniera alquanto curiosa, che la proliferazione di bibite a basso tenore alcolico avrebbe favorito l’assuefazione. Impedendo l’importazione del cassis de Dijon, che presentava un tasso alcolico modesto, si sosteneva, dunque, di proteggere i consumatori tedeschi (ma più probabilmente si curavano gli interessi dei produttori di birra). Prima della sentenza del 1979, le legislazioni nazionali esistenti formalmente si applicavano identicamente sia ai prodotti interni sia a quelli importati e, quindi, non parevano comportare alcuna implicazione discriminatoria o protezionistica. Tuttavia, nella pratica, esse conseguivano proprio questo effetto, impedendo, in molti casi, l’accesso ai mercati nazionali dei prodotti fabbricati in altri Stati membri. Oggi, grazie alla sentenza della Corte Europea sul cassis de Dijon, laddove gli standard del paese europeo di partenza del bene differiscono da quelli dello Stato di destinazione, sono i primi e non i secondi che devono tendenzialmente prevalere nel commercio intracomunitario, sicché il principio del mutuo riconoscimento talora viene chiamato del paese di origine – sia pure con qualche approssimazione, perché i due non sono perfettamente sinonimi quanto all’automaticità dell’applicazione delle regole dello Stato di partenza.
Nel 1979, la Corte di Giustizia europea, pur riconoscendo agli Stati membri la legittimità di disciplinare autonomamente sul proprio territorio gli standard per la vendita dei prodotti, in mancanza di una regolamentazione comunitaria, affermò che quella disciplina nazionale non doveva contrastare con l’art. 28 (ex art. 30) del Trattato istitutivo della Comunità Europea, violato ogni qualvolta si intralci l’importazione di un bene legalmente e lealmente fabbricato in un altro Stato membro, senza che tale ostacolo sia giustificato da ‘esigenze imperative’. Secondo il principio del mutuo riconoscimento, nessun paese europeo è costretto a cambiare le proprie norme, ma, pur mantenendole, non può impedire l’importazione di beni da altri paesi dell’Unione con regole diverse, se si dimostra che quelle regole differenti, altrove in Europa, non ledono la salute, non danneggiano irrimediabilmente l’ambiente naturale e artistico, proteggono la proprietà e il consumatore in condizioni di informazione incompleta e asimmetrica. Le deroghe al principio del mutuo riconoscimento, nell’ambito della circolazione delle merci, sono contemplate dall’art. 30 e dipendono dall’esistenza di giustificati motivi di moralità pubblica, ordine pubblico, pubblica sicurezza, tutela della vita di persone, animali, vegetali, protezione del patrimonio artistico, storico, archeologico nazionale o tutela della proprietà industriale e commerciale. «Tuttavia – prosegue lo stesso articolo – tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati Membri». Viene così sancita l’idea che l’armonizzazione delle legislazioni nazionali non è necessaria al fine della costruzione europea e che non occorre la loro sostituzione completa con la normativa comunitaria. Emerge un nuovo approccio basato sul rispetto delle diverse regolamentazioni nazionali, ciascuna delle quali ha un suo modo uguale e differente di curare gli interessi della popolazione. Perciò l’armonizzazione deve limitarsi a un minimo, talora solo opzionale, e riguardare aspetti molto basilari, quali il condiviso intento di difendere la salute dei cittadini.
Mutuo riconoscimento nel mercato del lavoro
Finora il principio del mutuo riconoscimento è stato utilizzato per abbattere tutte le barriere non tariffarie e attuare un mercato unico dei prodotti, ma l’art. 14 del Trattato afferma che il mercato interno è «uno spazio senza frontiere» fra Stati membri, nel quale è assicurata la libera circolazione non solo delle merci, bensì anche delle persone, dei servizi e dei capitali. Perciò, in linea teorica, esso dovrebbe estendersi, per analogia, a tutte e quattro le libertà. Tuttavia, oggi in Europa il mutuo riconoscimento è accettato negli scambi comunitari di (quasi) tutti i beni (una parziale eccezione concerne i prodotti farmaceutici), mentre è ininfluente nel mercato dei capitali poiché esso è già comunque globalizzato ed è solo parzialmente adottato nel settore dei servizi (per esempio nelle qualifiche professionali e nei titoli di studio, ma non nella attuale versione della Direttiva sui servizi, dopo la bocciatura della Bolkestein). Invece, il principio del mutuo riconoscimento non si estende per il momento al mercato del lavoro, dove vige il principio opposto, chiamato «parità di trattamento». Specificatamente, a un individuo che decide di spostarsi da uno Stato a un altro dell’Unione per risiedere, cercare occupazione ed esercitare la propria attività in un paese diverso da quello di origine, si riconosce il diritto a lavorare nel paese di accoglienza alle stesse condizioni di un lavoratore nazionale.
Si evitano così molti rischi (ma anche molte opportunità) di concorrenza sociale in Europa. A causa di una tale impostazione, il mutuo riconoscimento nel mercato del lavoro è bollato con il titolo di social dumping: perciò oggi la Germania importa il cassis da Digione, ma se chiede ai lavoratori di Digione di emigrare in Germania per produrre il cassis nella fertile valle del Reno, non può remunerarli alle condizioni salariali, regolamentari, di welfare francesi, né può concedere loro di far festa il 14 luglio invece che nelle feste nazionali tedesche. Anzi, se non li sottopone a tutte le regole tedesche, viene punita con l’accusa di discriminazione. È facile dimostrare che, se il principio del mutuo riconoscimento fosse esteso in Europa anche ai prestatori dei servizi e ai lavoratori subordinati, nell’Unione aumenterebbero la mobilità e l’occupazione (cfr. The Principle of Mutual Recognition in the European Integration Process, a cura di F. Kostoris Padoa Schioppa, Houndmills, Palgrave Macmillan, 2005). Infatti, se i disoccupati appartenenti alla forza lavoro dipendente o indipendente di un paese europeo flessibile e a basse remunerazioni (diciamo l’Irlanda) volessero muoversi per trovare un’occupazione in un altro Stato membro, dove i costi salariali e regolatori sono maggiori (diciamo l’Italia), portando con sé le condizioni del mercato di partenza, avrebbero convenienza a spostarsi e verrebbero ingaggiati o assunti: sussisterebbe mobilità proprio perché al disoccupato converrebbe comunque trovare un’occupazione e la domanda di lavoro per lui esisterebbe in quanto si offrirebbe a retribuzioni inferiori e con minori protezioni di quelle del paese di arrivo, ipoteticamente anch’esso in disoccupazione per insufficiente profittabilità. Attualmente, invece, tutto ciò non accade perché, operando il principio della cosiddetta parità di trattamento, valgono le regole del Paese di destinazione. Se lì vi è disoccupazione classica, non conviene certo servirsi di un lavoratore straniero alle condizioni vigenti per i residenti.
Proprio per questa ragione, l’ex commissario europeo Frits Bolkestein il 25 febbraio 2004 ha presentato una proposta di Direttiva (del Parlamento Europeo e del Consiglio) relativa a circa due terzi dei servizi del mercato interno, che nel complesso rappresentano il 70% del valor aggiunto in Europa. Dunque la proposta di Direttiva in questione era estremamente rilevante sul piano economico perché toccava quasi la metà del PIL europeo, ma non veniva estesa ai servizi della Pubblica Amministrazione (per esempio all’istruzione), né a quelli finanziari, di trasporto, di comunicazione elettronica, subendo inoltre deroghe generali nelle public utilities (nella distribuzione dell’energia elettrica, del gas, dell’acqua): a titolo esemplificativo, vi erano coinvolti commercio, artigianato, turismo, professioni regolamentate, agenzie del lavoro, immobiliari, di certificazione. Delle tre forme in cui si manifesta l’offerta intraeuropea dei servizi, due non trovavano nella bozza di Direttiva del 2004 innovazioni tali da scatenare azioni e reazioni violente del tipo osservato. In primo luogo, questa offerta si estrinseca quando un’impresa di servizi di uno Stato europeo distacca un proprio dipendente in un altro dei 25 dell’Unione: in tale fattispecie, la proposta Bolkestein confermava all’art. 24 la validità della vigente Direttiva 96/71/CE, dove si impongono al lavoratore le stesse regole contrattuali e retributive del paese di arrivo, a meno di qualche eccezione (sui contributi sociali) per distacchi di durata inferiore all’anno. Secondariamente, la fornitura del servizio può realizzarsi attraverso un’azienda europea o un lavoratore indipendente, che s’insediano in un altro dei 25 Stati: in questa situazione, la Bolkestein prevedeva (agli artt. 5-15) di eliminare gli ostacoli alla «libertà di stabilimento dei prestatori» con misure di semplificazione amministrativa, con il rispetto di regimi di autorizzazione esenti da discriminazioni, con il divieto di prescrizioni restrittive, sempre però alle «condizioni definite dalla legislazione dello Stato membro di stabilimento». In entrambi questi casi non veniva, dunque, rimosso il principio vigente dell’adozione delle regole del paese di destinazione, qualora esse differissero da quelle del paese di provenienza, con l’implicazione di limitare gli incentivi o la convenienza alla mobilità dei lavoratori e delle imprese, pertanto riducendo il potenziale di concorrenza. Invece, sulla terza tipologia di servizi intraeuropei, quella riguardante l’offerta transfrontaliera da parte di un lavoratore autonomo residente in uno Stato dell’Unione, ma operante a favore di un utente di un altro, la proposta Bolkestein era veramente innovativa, introducendo all’art. 16 il «principio del paese di origine», fratello siamese del mutuo riconoscimento, e conseguentemente provocando i massimi elogi e insieme le più severe critiche in tutto il continente europeo. L’adozione di tale principio comportava che nessuno dei membri dell’Unione potesse più vietare sul suo territorio un afflusso di servizi provenienti da un altro, unicamente sulla base del fatto che questo utilizzava regole e standard diversi dai propri, a meno che non vi fossero seri rischi per il beneficiario, il che è improbabile, visto che quel servizio non pareva danneggiare la popolazione dell’area di provenienza. Tale radicale cambiamento aveva evidenti vantaggi per la società europea nel suo complesso, ma rappresentava anche una insopportabile fonte di pericolo per le potenti lobby degli ordini professionali, per le fasce protette dei lavoratori autonomi, per le imprese di nicchia, per i sindacati difensori solo degli interessi dei dipendenti ‘non atipici’, prospetticamente per l’insieme degli insiders dell’Europa dei 15 in rendita di posizione. Nonostante il favore di alcuni Stati del Nord (gli scandinavi e gli anglosassoni) e di tutti quelli centro-orientali dell’Unione, il principio del paese di origine della proposta Bolkestein, dopo focosi dibattiti e vibrate proteste nelle piazze e nei circoli politici, è stato abbandonato, perché etichettato quale causa di inaccettabile dumping sociale. Nel febbraio 2006 si addiveniva nel Parlamento Europeo all’approvazione in prima lettura di una proposta alternativa di Direttiva dei servizi, depurata del ‘famigerato’ articolo 16 e perciò saldamente ancorata al protettivo e poco efficiente principio del paese di destinazione.
A coloro che sono consapevoli dell’aiuto che sarebbe stato fornito alla concorrenza e all’Europa da principi quali quello del mutuo riconoscimento o del paese di origine, rimane il rimpianto che il commissario Bolkestein non abbia potuto porre in discussione il suo testo propositivo nel 2000-01, quando lo concepì, anziché nel 2004, all’indomani dell’allargamento a est dell’Unione, perché è probabile che in tal caso la Direttiva dei servizi sarebbe passata facilmente nella sua versione potenziata. In ogni modo, con l’attuale Direttiva dei servizi – pur se indebolita – la concorrenza nel mercato del lavoro europeo aumenterà: sulle occupazioni meno qualificate, nei paesi a costo del lavoro più elevato dell’Ovest da parte di un Centro-Est con remunerazioni minori della metà, un welfare più limitato e livelli di istruzione mediamente un po’ inferiori, ma relativamente maggiori proprio nelle basse qualifiche; al di là dell’ex cortina di ferro, nei servizi di punta da parte di un Occidente più specializzato e produttivo, che però non solo è più caro, ma in aggiunta non trova per ora né lì una domanda inevasa, né spesso una nuova convenienza nelle norme della Direttiva approvata nel 2006, date le sue molteplici deroghe o l’estraneità rispetto a vari servizi sofisticati, a cominciare da quelli finanziari. Ciò spiega perché gli unici a non opporsi alla Direttiva Bolkestein sui servizi siano stati i paesi centro-orientali e fra gli occidentali quelli dotati di mercati del lavoro più efficienti. Non a caso questi sono gli stessi che si sono dichiarati disposti ad aprire da subito le loro frontiere agli immigrati provenienti dall’Europa dell’Est, rendendo così operativa nei loro confronti una delle quattro libertà: Regno Unito-Irlanda, campioni di flessibilità nell’Unione a 25, e Svezia-Danimarca, casi di successo della flexesecurity (bassa protezione nel mercato, alta assistenza fuori, con ammortizzatori sociali). Si creano così circoli virtuosi e viziosi: gli Stati dotati di flessibilità non temono la concorrenza e questa ne accresce l’efficienza; quelli ingessati dalle rigidità si chiudono e perciò sviluppano crescenti squilibri.
REPERTORIO
Il diritto della concorrenza
L’esperienza statunitense
La data di nascita del diritto antitrust viene generalmente individuata nel 1890, anno in cui negli Stati Uniti fu adottato lo Sherman Act, che rappresenta forse il modello di regolamentazione volta a reprimere atti lesivi della concorrenza più conosciuto al mondo. Per la verità, la prima disciplina del settore in assoluto risaliva all’anno precedente, quando il Canada aveva promulgato una serie di disposizioni in materia, certamente meno note. L’introduzione di una specifica normativa volta alla tutela della concorrenza negli USA fu dovuta principalmente al rapido sviluppo industriale degli Stati del Nord e dell’Est, accompagnato da un netto miglioramento della rete infrastrutturale dei servizi di trasporto e telecomunicazione, in primis ferrovie, linee telegrafiche e servizi telefonici. Il fenomeno aveva causato un deciso incremento della produzione di beni e servizi, al quale però non aveva corrisposto un’adeguata domanda, rimasta a un livello assai inferiore all’offerta. L’inevitabile diminuzione dei prezzi, resi ancora più instabili dall’aumento delle imprese concorrenti oramai attrici su di un unico mercato nazionale e in grado di competere ovunque proprio grazie all’efficiente rete di comunicazione realizzata, spinse le stesse imprese interessate a cercare di concludere accordi – i cartelli o trusts – con l’evidente finalità di fissare le tariffe e i prezzi a livelli più elevati, in maniera tale da garantirsi significativi margini di profitto. In conseguenza di tale politica dei prezzi, concordata tra pochi grandi gruppi industriali e manifatturieri, i contadini e i piccoli imprenditori, ma anche i consumatori finali (i cosiddetti small dealers and worthy men) venivano esclusi dalla possibilità di operare sui mercati a condizioni vantaggiose perché costretti ad acquistare dai pochi oligopolisti beni e servizi a costi elevati e a rivendere a prezzi bassi in virtù della concorrenza, esistente invece nei mercati aperti ove operavano prevalentemente le piccole imprese. La reazione di quelle categorie sociali e produttive è all’origine dell’emanazione dello Sherman Act che sin dagli esordi, dunque, costituisce uno strumento di lotta alla grande concentrazione economica e ai monopoli. Nella sezione prima della legge vengono interdetti i contratti (i trusts appunto), le associazioni e le intese restrittive del commercio, mentre nella sezione seconda sono banditi la monopolizzazione, i tentativi di monopolizzazione e le intese volte alla monopolizzazione degli scambi commerciali tra i vari Stati o con le nazioni straniere. La particolare gravità attribuita alle condotte vietate emerge dal tipo di sanzioni previste per la repressione di tali pratiche che, accanto a rimedi di natura pecuniaria e più genericamente civilistica includono, in determinati casi, sanzioni a carattere penale, compresa la reclusione sino a tre anni per i responsabili. A completare il novero delle fattispecie vietate e il sistema di tutela giurisdizionale, a distanza di non molti anni furono approvati il Clayton Act e il Federal Trade Commission Act, entrambi del 1914: il primo ampliava l’ambito di applicazione della normativa antitrust alle fusioni tra imprese, che fino ad allora, fondendosi, erano in grado di intervenire sul mercato e controllare così il regime dei prezzi, senza perciò incorrere nei divieti previsti dallo Sherman Act; con il secondo fu istituita un’agenzia indipendente, la Federal Trade Commission, con il compito di impedire e sanzionare le pratiche commerciali sleali, con poteri e competenze che andavano a sommarsi e coordinare con quelli, peraltro già vasti, riconosciuti ed esercitati in materia dal Department of Justice. Le prime applicazioni e interpretazioni del complesso di regole sopra ricordato da parte della Corte Suprema evidenziano un orientamento ispirato a un certo rigore; in buona sostanza la giurisprudenza di tale organo – con due decisioni relative a controversie rimaste tra le più famose dell’intera produzione giudiziaria statunitense in materia di diritto della concorrenza, la Trans-Missouri Freight Association e la Dr. Miles v. Park and Sons del 1907 e del 1911 – considerò in un primo momento vietato qualsiasi tipo di accordo sui prezzi, senza ammettere eccezioni di sorta, per estendere successivamente la valutazione di illegalità anche alle clausole di restrizione verticale, ovvero quelle tramite le quali il produttore costringeva i rivenditori a mantenere il prezzo di vendita a un determinato livello. In altre due sentenze di poco posteriori, la Standard Oil Company e la American Tabacco del 1911, la Corte Suprema affrontò invece una delle questioni destinate a rimanere al centro dell’attenzione della giurisprudenza statunitense sino ai giorni nostri, tanto da costituire forse l’elemento di maggior differenza rispetto alle legislazioni antitrust che si svilupperanno all’interno di altri sistemi giuridici, innanzitutto quello comunitario. Per la prima volta il massimo organo giurisdizionale d’oltreoceano fu chiamato, su richiesta delle società convenute, a interpretare e applicare i divieti previsti nella legge federale non più secondo l’approccio più restrittivo sino ad allora seguito e rappresentato dalla per se condemnation theory, ma in base al criterio della rule of reason: in sostanza, secondo tale impostazione, la Corte avrebbe dovuto temperare il rigore dimostrato nell’applicazione degli accordi vietati verificando, di volta in volta, se non potessero essere invece ammesse deroghe per alcune intese restrittive della concorrenza in virtù della loro ‘ragionevolezza’, ovvero in funzione di tutela del consumer welfare. La Corte tuttavia respinse le eccezioni avanzate privilegiando l’approccio più severo, volto a ritenere l’incondizionata illiceità di qualsiasi pratica commerciale, illegale dunque per se, e pertanto non distinguere tra bad trusts e good trusts in ragione degli scopi di diversa natura perseguiti tramite tali accordi. Proprio tale giurisprudenza ha rappresentato l’occasione per chiarire come l’obiettivo principale della disciplina antitrust fosse quello di combattere le grandi concentrazioni di capitale al fine di tutelare la libertà individuale, in quanto libertà economica di godere delle pari opportunità per i cittadini di accedere e operare su di un mercato realmente concorrenziale. Bisogna attendere la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del 20° secolo per assistere a un significativo revirement di quella giurisprudenza fautrice dell’approccio della per se rule. In parte ciò pare dovuto a ragioni strettamente economiche, legate alla perdita di competitività delle grandi imprese statunitensi sui mercati internazionali, ma un impatto decisivo sul mutato orientamento dei giudici della Corte Suprema lo ebbero sicuramente le critiche, a volte aspre, sollevate da quel filone dottrinale maturato nell’Università di Chicago, e per questo motivo noto appunto come Scuola di Chicago. Secondo gli autori appartenenti a tale corrente di pensiero, la liceità o meno delle pratiche restrittive della concorrenza si sarebbe dovuta valutare tenendo in considerazione in primo luogo l’efficienza economica complessiva del sistema e quindi gli eventuali vantaggi, sempre in termini di migliore allocazione delle risorse, derivanti dai diversi strumenti di collaborazione tra imprese: restrizioni verticali, fusioni, o concentrazioni tra le stesse. Ecco quindi che in tale prospettiva non ogni accordo limitativo della concorrenza contemplato nello Sherman Act veniva ritenuto per se illegale ma esenzioni alle fattispecie vietate si sarebbero potute giustificare in quanto idonee a tradursi in una riduzione dei costi, anche in seguito a economie di scala, e in un’offerta di beni e servizi maggiormente competitiva in rapporto all’offerta prodotta da un sistema di scambi decentrati tipico di un mercato concorrenziale.
La ratio sottesa a una concezione simile, che spinge in concreto verso modalità di applicazione dei divieti più ‘morbide’ e flessibili, è recepita in pieno dalla Corte Suprema nella sentenza GTE-Sylvania del 1977 che ammise, per la prima volta, la liceità delle restrizioni verticali alla concorrenza (non di prezzo) proprio sul rilievo che tali intese in definitiva erano capaci di produrre effetti positivi in termini di efficienza economica dell’intero mercato. La sentenza influenzò l’operato dei giudici americani, ma anche degli organi amministrativi chiamati a far rispettare la normativa antitrust, tra i quali il Department of Justice, per almeno un decennio. Questo orientamento fu favorito da politiche di non intervento perseguite dalle varie amministrazioni americane succedutesi nel corso degli anni Ottanta, in particolare l’amministrazione Reagan, più inclini a seguire politiche di laisser-faire sulla base del convincimento che le forze di mercato, lasciate libere di agire, avrebbero selezionato le imprese più efficienti.
Dalla fine degli anni Ottanta ai giorni nostri in realtà non sono identificabili tendenze uniformi nell’interpretazione e nell’applicazione del corpus normativo antitrust statunitense; piuttosto si assiste a una oscillazione e a un’alternanza tra per se rule, decisioni come si è visto a tutela degli small dealers and worthy men di contrasto alle grandi concentrazioni di potere economico, e rule of reason, sentenze invece improntate a garantire il perseguimento dell’efficienza economica e la massimizzazione della ricchezza della società da realizzarsi anche tramite concentrazioni e fusioni, e quindi prescindendo dalle modalità di distribuzione della stessa.
Il diritto della concorrenza nell’Unione Europea
Lo sviluppo della normativa antitrust in Europa appare profondamente influenzato dalla legislazione e dalla politica della concorrenza maturata in seno agli organi e alle istituzioni dell’Unione Europea, che da un lato hanno disciplinato questo settore quando spesso nei singoli ordinamenti nazionali non esistevano ancora analoghe normative, dall’altro hanno condizionato, ove esistenti, le legislazioni nazionali. Le principali disposizioni del Trattato che istituisce la Comunità Europea in tema di concorrenza, gli articoli 81, 82 e 86, sono stati ritenute dalla Corte di Giustizia direttamente applicabili negli ordinamenti dei singoli Stati, in presenza di un pregiudizio al commercio tra agli Stati membri, con relativa competenza riconosciuta in capo ai giudici nazionali nel garantirne il rispetto accanto all’ordinaria funzione di vigilanza esercitata dalla Commissione Europea e dagli organi giurisdizionali comunitari, Tribunale di Primo Grado e Corte di Giustizia. Tuttavia le ragioni e gli obiettivi che il diritto comunitario della concorrenza è chiamato a perseguire solo in parte paiono coincidere con i tratti essenziali che contraddistinguono le origini e l’evoluzione dell’analogo corpus di regole nell’esperienza americana. È agevole constatare infatti come la disciplina della concorrenza nel contesto europeo sia funzionalmente legata al processo di integrazione comunitario e dunque in primo luogo agli obblighi posti dal Trattato per la realizzazione del mercato unico, e in seconda analisi all’insieme degli scopi stabiliti dall’articolo 2 dello stesso Trattato che, accanto a un alto grado di competitività e dei risultati economici, prevedono la promozione di finalità di coesione economica e sociale nonché uno sviluppo armonioso equilibrato e sostenibile delle attività economiche all’interno della Comunità. L’istituzione di un «regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno» (art. 3 Trattato), deve pertanto necessariamente essere perseguita nell’ottica di rendere più facilmente realizzabili entrambi gli obiettivi. Per quanto concerne il primo dei due profili richiamati ciò implica che la politica della concorrenza è considerata un mezzo per stimolare l’efficienza industriale, l’allocazione ottimale delle risorse e quindi la creazione di un mercato interno competitivo, nel rispetto del divieto di discriminazioni su base nazionale interdette dall’articolo 12 del Trattato. La Commissione vincolata nel suo operato dall’obiettivo di garantire la creazione di un mercato unico, quale autorità di controllo, ha prestato specifica attenzione a fattispecie non ugualmente sanzionate nell’esperienza americana, quali la discriminazione di prezzo tra i vari paesi, con pesanti condanne inflitte a quelle imprese che cercavano di segmentare i mercati all’interno dei confini nazionali tramite accordi di distribuzione e licenza di ostacolo al commercio e alle importazioni parallele tra Stati membri, e agli accordi tra concorrenti al fine di tenersi fuori l’uno dai ‘territori’ dell’altro.
D’altra parte le regole comunitarie sulla concorrenza al fine di promuovere lo sviluppo armonioso delle attività economiche, obiettivo al quale è ricollegato anche il conseguimento della coesione economica e sociale nell’insieme della Comunità, a differenza del diritto antitrust nordamericano non proibiscono per se qualsiasi tipo di accordo tra le imprese concorrenti che restringa la libertà di azione delle parti o di una di esse ma, anzi, codificano espressamente, all’art. 81, la possibilità di esonerare alcuni accordi potenzialmente lesivi della concorrenza. Affinché un determinato comportamento possa ritenersi esente dal divieto dovrà dimostrarsi in grado di recare vantaggi al mercato o ai consumatori ovvero, secondo il testo della disposizione sopra richiamato, l’accordo o la pratica concordata dovrà contribuire a «migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva». La radicale modifica della disciplina di applicazione del regime di deroghe previsto dall’art. 81, avvenuta con Regolamento nr. 1/2003 entrato in vigore il 1° maggio 2004, si propone, tra l’altro, di rendere più spedite ed efficienti le modalità di valutazione circa il ricorrere o meno delle condizioni e delle circostanze idonee a esentare un determinato accordo o pratica concordata. È stata prevista infatti l’introduzione di un sistema di eccezione legale direttamente e automaticamente applicabile che abolisce il precedente regime di autorizzazione necessaria e preventiva a opera della Commissione. Determinante appare la disposizione che trasferisce una buona parte delle competenze in merito all’applicazione dell’art. 81, ivi compreso il regime di deroghe, ai giudici e alle autorità garanti della concorrenza di ciascuno Stato membro che così potranno anch’essi autorizzare in deroga gli accordi. Se il modello descritto appare difficilmente riconducibile alla dicotomia tra per se rule e rule of reason, gli elementi di differenza con il diritto antitrust nordamericano, che non distingue tra attività produttive e servizi pubblici nell’applicazione della legislazione antimonopolistica e dei divieti di intese restrittive della concorrenza, paiono accentuarsi in ragione dell’esistenza nel diritto comunitario di settori che, per la particolare caratteristica dei servizi forniti dalle imprese che vi operano, in presenza di determinate condizioni possono essere parzialmente sottratti all’applicazione delle regole in materia di concorrenza in quanto ritenuti «servizi di interesse economico generale». È quanto previsto dall’art. 86 par. 2 che stabilisce come «le imprese incaricate della gestione dei servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte…alle regole di concorrenza nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata».
La liberalizzazione dei servizi di interesse economico generale
In effetti se il processo di liberalizzazione degli scambi delle merci e dei fattori della produzione, per la realizzazione di un mercato unico, progressivamente ha portato a una totale apertura dei mercati, con integrale applicazione per gli operatori economici della disciplina in materia di concorrenza, nei settori di interesse economico generale la rilevanza strategica per la vita economica e sociale degli Stati, ma anche le peculiari caratteristiche tecniche dei servizi forniti, ha rappresentato un limite alla piena applicazione delle regole di concorrenza e del mercato interno.
Da un punto di vista tecnico la naturale tendenza al monopolio nella gestione di tali servizi si spiega in quanto, nella maggior parte dei casi, essi presuppongono la realizzazione di strutture, le reti, la cui installazione, gestione e manutenzione richiede costi talmente elevati da rendere antieconomica la duplicazione delle infrastrutture per assicurare l’accesso al mercato di nuovi operatori. Non rileva sotto tale profilo la circostanza che il servizio a rete sia fornito tramite un’infrastruttura fissa, come nel caso delle rotaie, degli elettrodotti, dei gasdotti, dei cavi telefonici, o tramite reti non infrastrutturali, come accade invece per il servizio postale. Gli oneri anche in quest’ultimo caso rimangono troppo elevati, come testimoniato dal servizio di recapito a domicilio, al quale, proprio per gli alti costi, è riconosciuto il carattere di monopolio naturale, con conseguente maggiore difficoltà di apertura alla concorrenza all’interno dei singoli Stati. L’altro motivo alla base della particolare ‘resistenza’ dei servizi di interesse economico generale al processo di liberalizzazione è dovuto alla preminente esigenza di soddisfare interessi di tipo collettivo che ha indotto gli Stati a utilizzare le imprese pubbliche, o quelle titolari di diritti speciali o esclusivi, quali strumenti per realizzare scelte di politica economica nazionale; non è un caso quindi che al momento attuale alla Comunità non è stata attribuita in tale ambito una competenza a carattere generale, ma sono invece i singoli Stati che hanno la facoltà di individuare al proprio interno le attività da considerare di interesse economico generale. La ratio dell’art. 86 risiede proprio nel tentativo di contemperare il funzionamento di un mercato interno pienamente concorrenziale con le esigenze di politica economica degli Stati.
Già la struttura della norma dà indubbiamente una prima chiave di lettura di come debba avvenire tale bilanciamento; in effetti la regola base stabilita è nel senso di ritenere assoggettate alle norme del Trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, anche le imprese incaricate della gestione di interesse economico generale. La loro applicazione è ammessa nei limiti in cui non sia di ostacolo all’adempimento, in linea di fatto e di diritto, della specifica missione affidata alle imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale. La possibilità però di invocare tale regime derogatorio è subordinata al ricorrere di determinate condizioni, la cui presenza o meno rende la deroga, a seconda dei casi, lecita o non lecita. La giurisprudenza della Corte e la prassi della Commissione hanno fornito il principale contributo nell’interpretazione della disposizione cimentandosi nel difficile compito di cercare di conciliare, nei limiti loro consentiti dal dato testuale, le esigenze, apparentemente contrapposte, di garantire da una parte il libero gioco della concorrenza e il rispetto delle libertà fondamentali, e dall’altra un livello accettabile per prestazioni affidate dalle autorità pubbliche a operatori che assolvono in questi casi missioni di interesse generale. In alcuni casi, invece, sono state le direttive che hanno liberalizzato i singoli settori di interesse economico generale, come quello dell’energia, che hanno dettato in materia una serie di principi e di parametri che guidano l’azione delle istituzioni comunitarie e dei loro organi giurisdizionali. In tale prospettiva è ancora da verificare l’impatto che il contenuto dell’art. 36 della Carta dei Diritti fondamentali, rimasto inalterato nel Trattato che adotta la Costituzione Europea e in forza del quale «al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione, questa riconosce e rispetta l’accesso ai servizi di interesse economico generale quale previsto dalle legislazioni e prassi nazionali», potrà avere sull’acquis in questo modo già maturato. Sorvolando necessariamente sulle ampie problematiche interpretative che la disposizione pone, la novità introdotta dall’articolo sembrerebbe doversi individuare nel fatto che le garanzie assicurate dai servizi di interesse economico generale non possono più essere semplicemente considerate come un limite alla piena operatività dei principi del mercato interno e delle regole di concorrenza, ma devono invece considerarsi come un insieme di elementi e di valori che ispirano e connotano in positivo l’azione della Comunità all’atto dell’elaborazione e dell’attuazione dell’insieme delle sue politiche e nel raggiungimento degli obiettivi fondamentali dell’UE, tra i quali sicuramente rientra la promozione della coesione sociale e territoriale.
I servizi di interesse generale e il regime delle deroghe
Se i principi richiamati saranno in grado di caratterizzare i processi di liberalizzazione, oltre che in termini economici e di creazione di un mercato interno, più marcatamente in funzione della tutela degli interessi dei cittadini, che in veste di utenti di tali servizi sono al «centro della politica comunitaria in materia di servizi di interesse generale» e si attendono garanzie di accesso universale, qualità elevata e prezzi accessibili, al momento attuale però qualsiasi riflessione circa la portata della nozione di servizio di interesse generale deve tener conto delle indicazioni di diritto positivo. Ecco che allora la disposizione cardine, ancora oggi, è costituita dall’art. 86 del Trattato, che in maniera assai chiara e lineare richiama l’applicabilità delle regole di concorrenza anche nei confronti delle imprese pubbliche o alle imprese alle quali sono riconosciuti diritti speciali o esclusivi. È bene premettere che nell’ambito dell’ordinaria attività di impresa, una volta individuate le singole attività economicamente rilevanti, per definire il servizio di interesse economico generale è necessario che ricorra un ulteriore elemento; l’offerta di beni e servizi deve, infatti, essere oggetto di un obbligo di servizio pubblico ovvero l’impresa deve essere stata incaricata da un pubblico potere di erogare una prestazione in genere particolarmente onerosa e poco remunerativa che nessun operatore in un regime di concorrenza pura fornirebbe. È necessario cioè un atto autoritativo esplicito con il quale lo Stato, per usare le parole della Corte di Giustizia, instaura un particolare legame con un’impresa. La prestazione dei servizi di interesse economico generale, che le autorità pubbliche si preoccupano di assicurare anche quando il mercato non è sufficientemente incentivato a provvedervi da solo, a differenza dei servizi ordinari, richiede l’adozione di una disciplina ad hoc in grado di porre a carico delle imprese obblighi di servizio pubblico necessari in alcuni casi a soddisfare le richieste provenienti dagli utenti di tali sevizi. A fronte dell’onere sostenuto dall’impresa destinataria di un obbligo di servizio pubblico i singoli Stati possono, per compensare la scarsa redditività connaturata a prestazioni di tal tipo, ricorrere principalmente a due tipi di misure in favore dell’operatore del servizio: a) assicurare un adeguato finanziamento per permettere l’assolvimento dei compiti assegnati; b) riconoscere diritti speciali o esclusivi per la prestazione del servizio di interesse economico generale, tramite concessioni a termine o gare di appalto.
A questo punto occorre vedere in presenza di quali requisiti le stesse godono del regime di esenzione previsto al par. 2 dell’art. 86. La Corte di Giustizia, nel tentativo di assicurare il giusto equilibro tra le diverse esigenze che la norma cerca di conciliare, ha adattato tale formula a seconda delle fattispecie sottoposte al suo giudizio verificando l’ammissibilità delle restrizioni alla concorrenza caso per caso. Questo esame è definito test di legalità o efficienza, alla luce dei principi di necessità e di proporzionalità. Per la prassi della Commissione la loro osservanza implica che gli strumenti utilizzati per adempiere alla missione di interesse generale non devono dare origine a distorsioni non indispensabili degli scambi. Le restrizioni alla concorrenza e le limitazioni delle libertà del mercato unico non devono cioè eccedere quanto necessario per garantire l’effettivo assolvimento della missione: sotto questo profilo è evidente lo stretto legame esistente tra le due nozioni.
Il contenuto dei criteri di necessità e proporzionalità, in mancanza di una definizione a carattere generale ed esaustiva da parte della Corte di Giustizia, è specificato caso per caso e per relationem, ovvero quale parametro di legittimità delle misure che gli Stati possono adottare per mettere in grado le imprese di sostenere gli oneri specifici e i costi supplementari che derivano dalla prestazione del servizio di interesse economico generale. Dall’esame delle pronunce della Corte di Giustizia in merito emerge la spiccata preferenza per un utilizzo in chiave prevalentemente economica di tali concetti. Così per esempio per quanto riguarda i finanziamenti statali, il classico test di legalità, che induce a considerarli leciti non potendosi applicare il divieto previsto per gli aiuti di Stato nei limiti in cui sono necessari a compensare i costi supplementari derivanti all’impresa dall’adempimento della sua missione di interesse economico generale, non appare più in grado di esaurire il giudizio sulla ammissibilità della deroga; in ogni caso, infatti, il rispetto degli obblighi di servizio pubblico non deve pregiudicare il complessivo equilibrio economico dell’impresa, dovendo pertanto la corresponsione dell’aiuto di Stato assicurare anche il rispetto di tale ulteriore condizione. In realtà l’attenzione posta all’insieme delle attività condotte dall’impresa nei diversi comparti produttivi è un’acquisizione abbastanza recente della Corte di Giustizia che prima, invece, aveva sostenuto un’interpretazione delle regole di concorrenza sicuramente più rigorosa di quella or ora enunciata: l’applicazione delle norme in materia di concorrenza e mercato unico infatti doveva spingersi fin quando la loro osservanza non risultasse incompatibile con l’assolvimento dei compiti di interesse economico generale affidati alle imprese, senza riferimento alcuno alla situazione economica dell’impresa. La rigidità della formula non lasciava spazio a eccezioni di sorta; per esempio affinché l’impresa potesse godere dell’esenzione prevista dall’art. 86 non era ritenuto sufficiente che l’adempimento della missione fosse reso più difficile dall’applicazione delle norme del Trattato, ma era considerato necessario che queste la rendessero in assoluto impossibile.
Già con la sentenza Corbeau (10 maggio 1993, causa 320/91), subito seguita dalla sentenza Comune di Almelo (27 aprile 1994, causa 393/92) questo approccio assai formale e poco adatto a rendere ragione dell’avvenuta diversificazione delle attività delle imprese viene abbandonato. Il presupposto giustificativo dell’esclusione della concorrenza transita così dall’ipotesi di assoluta incompatibilità di tali norme con la missione dell’impresa, alla previsione di un obbligo in capo al titolare della funzione di interesse generale di garantire i suoi servizi in condizione di equilibrio economico che può comportare «la possibilità di una compensazione tra i settori di attività redditizi e quelli meno redditizi, e giustifica quindi una limitazione della concorrenza da parte di imprenditori privati nei settori economicamente redditizi». In tal modo le valutazioni circa le condizioni economiche generali dell’impresa assumono un ruolo centrale ai fini dell’ammissibilità delle deroghe.
Anche per quanto riguarda il conferimento di diritti speciali o esclusivi, quali misure che lo Stato può adottare per compensare la scarsa redditività delle prestazioni fornite nell’ambito dei servizi di interesse economico generale, l’abbandono di un criterio esclusivamente giuridico-formale ha portato i giudici di Lussemburgo a mutare rapidamente indirizzo. Se in base a un primo orientamento della Corte di Giustizia la concessione di diritti esclusivi non veniva ritenuta di per sé stessa fonte di distorsioni sul mercato, ma anzi godeva di una sorta di presunzione di legittimità, ben presto si è pervenuti a ritenere che il cumulo in capo allo stesso soggetto di funzioni di regolazione e di gestione del servizio conducesse inevitabilmente, per il titolare dei diritti esclusivi, a un abuso di posizione dominante. In sostanza la Corte di Giustizia ha ritenuto che, in alcuni casi, la semplice esistenza di un diritto speciale o esclusivo conducesse a una condotta anticoncorrenziale da parte dell’impresa titolare del diritto. L’esigenza di precisare gli elementi in presenza dei quali si perviene inevitabilmente a un abuso, anche per distinguerli da quelle situazioni nelle quali invece la concessione di un diritto speciale o esclusivo non conduce necessariamente alla condotta vietata dall’art. 82, ha fornito l’occasione alla Corte di Giustizia per temperare la rigidità della conclusione raggiunta. Anche in questa ipotesi, per valutare l’ammissibilità delle deroghe di cui all’art. 86, si è ricorso al criterio costituito dal rispetto dell’equilibrio economico dell’impresa. L’applicazione delle regole di concorrenza non può spingersi sino a comprometterne le complessive condizioni economiche e quindi gli obblighi incombenti ai soggetti, in quanto prestatori di un servizio di interesse economico generale, devono essere tali da consentire una compensazione tra attività remunerative e attività non remunerative. Conseguenza immediata dell’impostazione maturata in seno alla Corte è l’estensione del campo di applicazione delle eccezioni di cui all’art. 86: la deroga potrà esser invocata non solo in ragione della necessità di svolgere la missione affidata alle imprese che operano in questi settori, ma anche per garantire il loro equilibrio economico. Appare evidente quindi che se in una ipotesi, e cioè per i finanziamenti erogati, è la nozione di aiuto di Stato che costituisce il limite all’ammissibilità della deroga di cui al par. 2 dell’art. 86, nell’altra è l’abuso di posizione dominante che delimita l’ambito entro il quale si possono concedere in esclusiva i diritti in favore delle imprese che esercitano servizi di interesse economico generale. In entrambe le fattispecie siamo in presenza di istituti strettamente connessi alla realizzazione degli scopi del mercato comune, che incidono indirettamente sulla nozione stessa di interesse economico generale.
Alla luce di tali conclusioni il riferimento dell’art. 36 della Carta dei Diritti Fondamentali al ruolo che i servizi di interesse economico generale hanno per la realizzazione degli obiettivi dell’UE non sembra in grado di invertire quel rapporto di regola ed eccezione che attualmente definisce i rapporti tra la normativa in materia di concorrenza e di mercato comune e il regime delle deroghe consentite in favore delle attività esercitate per soddisfare scopi collettivi. Il presupposto di partenza per una rilettura dei servizi di interesse generale nel contesto europeo è rappresentato indubbiamente dal riconoscere che la loro funzione non sembrerebbe essere limitata al solo raggiungimento degli obiettivi del mercato comune, ma andrebbe invece definita avendo presente che tali servizi possono venir considerati quali strumenti, con un raggio di azione quindi di più ampia portata, indispensabili per la realizzazione dell’insieme dei valori comuni dell’Unione Europea, tra i quali la promozione della coesione economica e sociale. Ma un tale obiettivo, che anima anche il dibattito attualmente sviluppatosi in relazione al Trattato che adotta la Costituzione Europea e al suo sofferto iter di ratifica, potrà essere raggiunto più realisticamente al di fuori delle regole poste dall’art. 86 mediante la valorizzazione, anche grazie all’opera della giurisprudenza, della nozione di cittadinanza europea che acquisterebbe così una ricchezza di contenuti che attualmente non ha. Non può sfuggire infatti che all’imposizione alle imprese di obblighi di servizio pubblico, tramite l’adozione di normative di liberalizzazione nei diversi settori, corrisponde la titolarità in capo ai cittadini di situazioni giuridiche volte a tutelare l’accesso, agli stessi, a prestazioni connotate dal requisito dell’essenzialità che non sempre, come abbiamo in parte già visto, sono giustificate e giustificabili in termini puramente economici. La possibilità di far valere, anche giudizialmente, simili pretese potrebbe rappresentare un efficace strumento per assegnare, nel contesto disegnato dai Trattati, il giusto rilievo alle esigenze tutelate dai servizi di interesse economico generale, con l’indubbio vantaggio di rendere ancor più flessibile tale nozione e quindi adattabile ai diversi settori in cui deve applicarsi. In tale prospettiva il riconoscimento da parte della Corte di Giustizia della diretta applicabilità non già esclusivamente del par. 1 dell’art. 86, ma anche delle deroghe disciplinate dal par. 2 dello stesso articolo, potrebbe aprire la strada a una tutela giurisdizionale di tali istanze.
[Alcune parti di questo testo coincidono con quelle di F. Kostoris Padoa Schioppa, Lessico dell’economia III, Roma, Luiss University Press, 2006]