CONCORRENZA
(XI, p. 83)
Dei due sistemi in cui si articola la disciplina della c. (quello della repressione della c. sleale e quello della tutela della libertà di c.), il secondo è sicuramente quello soggetto alle maggiori pressioni evolutive. Il progresso del primo sistema è essenzialmente legato all'affinamento − da parte della giurisprudenza − della nozione di slealtà della c., e alla progressiva precisazione degli interessi tutelati dalla disciplina che reprime i comportamenti contrari alla ''correttezza professionale''. Crescente successo hanno registrato le tesi che attribuiscono rilevanza non solo agli interessi dei due imprenditori coinvolti, ma anche a interessi più generali (quello dei consumatori, per es., oppure quello a che la c. non venga comunque falsata da comportamenti scorretti, ecc.). In un prossimo futuro, è probabile che anche in questo ambito si eserciterà la potestà disciplinatrice della Comunità economica europea (esistono da tempo progetti di direttive del Consiglio, per es. in materia di pubblicità ingannevole e comparativa).
L'evoluzione della disciplina antimonopolistica è invece influenzata da continui ripensamenti aventi a oggetto non solo la nozione di c. protetta, ma la stessa opportunità di un intervento giuridico che inalbera il vessillo della libertà, ma intanto comporta un'interferenza dello stato nelle libere scelte delle imprese.
Venendo a registrare gli esiti attuali di questo processo di riflessione, sembra opportuno distinguere il piano dell'elaborazione teorica e giurisprudenziale da quello degli interventi legislativi.
Cominciando da quest'ultimo, va ricordato che in Italia è stata approvata una normativa di carattere generale ( (l. 10 ottobre 1990 n. 287: "norme per la tutela della concorrenza e del mercato") a completamento delle circoscritte discipline a livello settoriale (per es., editoria). A livello della Comunità economica europea (le cui norme in questa materia formano parte integrante del nostro ordinamento) si registra invece un'importante novità legislativa. È stato infatti approvato il Regolamento n. 4064/89 del Consiglio del 21 dicembre 1989, relativo al controllo delle operazioni di concentrazione tra imprese. Viene in tal modo colmata una lacuna dell'ordinamento comunitario, che ora può contare su una disciplina della c. articolata su tre pilastri: il divieto delle intese (previsto dall'art. 85 del Trattato, integrato dai regolamenti della Commissione, che riguardano materie come i contratti di esclusiva, gli accordi di specializzazione, le licenze di brevetto e know-how, ecc.); il divieto di abuso di posizione dominante (previsto dall'art. 86 del Trattato) e la possibilità che vengano vietate concentrazioni di dimensioni europee, quando siano idonee a costituire o a rafforzare una posizione dominante (come prevede il citato regolamento del Consiglio).
Sul piano teorico, invece, le novità più interessanti provengono da recenti sviluppi della dottrina economica, di cui tenteremo di dare succintamente conto.
Nell'impostazione tradizionale i mercati vengono classificati (e giudicati più o meno concorrenziali) in base a parametri come il numero e le dimensioni delle imprese presenti, l'esistenza di barriere all'ingresso, l'omogeneità o il grado di differenziazione dei prodotti, ecc. In questa impostazione il problema è quello di stabilire se sia possibile e se, eventualmente, sia opportuno un mercato di c. pura o perfetta (in cui esistono tante piccole imprese, i prodotti sono assolutamente omogenei, nessuna impresa è singolarmente in grado di agire coscientemente sul prezzo, ecc.). Molti sostengono che un simile mercato, oltre a essere irreale, sarebbe anche meno efficiente di altri, per es. dell'oligopolio allargato.
In alcuni studi più recenti (che potremmo etichettare come neoistituzionalisti) l'attenzione viene spostata su altri fattori, in particolare su quelli capaci di determinare l'entità dei cosiddetti ''costi di transazione''. Per comprendere il significato e l'importanza di quest'ultima nozione, occorre partire da una delle caratteristiche principali dei mercati tradizionalmente considerati concorrenziali. In questi mercati tutti i soggetti presenti contrattano e ricontrattano continuamente le condizioni alle quali sono disposti a scambiare le reciproche prestazioni. Questa caratteristica (contrattazioni istantanee e decentrate estese a tutte le risorse disponibili) è molto importante, perché da essa dipende la possibilità che ogni partecipante raggiunga il massimo vantaggio possibile. Ciascuno si priverà, infatti, di tutte le risorse che altri apprezzano più di lui, mentre tratterrà quelle che egli apprezza più di chiunque altro e per le quali − quindi − non riceve alcuna offerta tanto alta da indurlo allo scambio.
I neo-istituzionalisti condividono questo apprezzamento, ma rilevano l'esistenza di diffuse situazioni nelle quali il sistema di scambi istantanei e decentrati non consente di raggiungere risultati efficienti; ciò a causa della presenza di ''costi di transazione'' che impediscono agli agenti di individuare e realizzare quegli scambi che pure sarebbero per essi vantaggiosi.
La nozione di ''costi di transazione'' può essere utilmente illustrata con un esempio. Si consideri l'acquisto di merci sofisticate, la cui produzione richiede investimenti molto specifici. Qui esiste la possibilità che tra i due contraenti, a ogni rinnovo delle ordinazioni, si attivi un meccanismo di ricatto reciproco: il fornitore sarà vulnerabile per aver fatto investimenti che non può facilmente ''riciclare'', mentre il committente deve tener conto della possibilità che nessun altro sia disposto a effettuare gli investimenti compiuti dall'attuale fornitore. Se le parti fossero dotate di una razionalità illimitata (potessero cioè prevedere ogni possibile evenienza), esse potrebbero redigere dei contratti contenenti la soluzione di ogni possibile conflitto futuro. Se, inoltre, non esistesse il pericolo di comportamenti opportunistici, le parti potrebbero stipulare contratti ''incompleti'' e confidare sulla possibilità di trovare accordi equi per risolvere le questioni eventualmente impreviste.
La presenza di questi due fattori (razionalità limitata-opportunismo) rende, invece, potenzialmente inefficiente il ricorso a semplici contratti di scambio. Una situazione del tipo di quella ipotizzata richiede la previsione di sistemi di arbitraggio o, addirittura, l'instaurazione di rapporti di tipo associativo. Richiede comunque sistemi di coordinamento dei comportamenti delle due parti, diversi dalla continua ricontrattazione delle condizioni di scambio.
Questa riflessione, opportunamente generalizzata, finisce per accreditare una tesi in base alla quale la c. (il sistema di scambi decentrati e istantanei) è uno strumento efficiente di allocazione delle risorse solo quando i costi di transazione non esistono o sono trascurabili. Invece nelle situazioni in cui detti costi sono rilevanti, più efficienti sarebbero altri strumenti: l'assunzione di impegni di lungo periodo, arbitrati, varie forme di cooperazione, o, addirittura (all'estremo opposto rispetto alla contrattazione decentrata), la coordinazione gerarchica, cioè quella coordinazione nell'allocazione delle risorse che si realizza all'interno di una singola unità economica.
L'indicazione che emerge sul piano della disciplina della c. è decisamente permissivista: molte delle fattispecie che la dottrina tradizionale considerava potenzialmente illecite, vengono giustificate dai neo-istituzionalisti invocando la necessità di consentire alle imprese tutte quelle intese con cui esse tentano di prevenire o di controllare gli effetti negativi conseguenti dalla presenza di elevati ''costi di transazione'' (ciò vale in particolare per molte ipotesi di intese verticali e di concentrazioni).
Questa impostazione economica ha esercitato a livello giuridico un'influenza disomogenea. Queste teorie hanno riscosso un discreto successo nell'ambito della dottrina, specialmente quella degli Stati Uniti (patria delle teorie in questione), ma hanno anche suscitato forti resistenze.
Complessivamente più cauto è stato l'orientamento della giurisprudenza: quella europea non sembra essere stata investita a fondo dalle problematiche suscitate da questa diversa prospettiva, mentre la giurisprudenza statunitense, pur essendo stata pesantemente (dagli stessi organi incaricati di curare l'applicazione delle leggi antitrust!) sollecitata a riformare i suoi precedenti in direzione di una maggiore tolleranza, ha accolto tali inviti solo sporadicamente e solo relativamente a questioni tradizionalmente molto incerte, riuscendo invece a evitare di pronunziarsi esplicitamente su questioni in cui cambiamenti di giurisprudenza avrebbero avuto più rivoluzionaria portata (questo giudizio vale per la Corte Suprema; nella giurisprudenza delle Corti inferiori la battaglia sembra più accanita, e gli aderenti alle diverse scuole contano i rispettivi successi come si contano le battaglie vinte o perdute in una guerra in atto).
Nel complesso non sembra allo stato prevedibile quel completo rovesciamento di tendenza che i più recenti orientamenti dottrinali sollecitano. L'antica finalità di proteggere i consumatori contro indebite limitazioni della loro libertà di scelta e, più in generale contro gli abusi perpetrati dai monopolisti, difficilmente potrà essere cancellata dal novero degli strumenti d'interpretazione del diritto antitrust.
Bibl.: G. Ghidini, M. Libertini, G. Volpe Putzolu, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, diretto da F. Galgano, Padova 1981; O. E. Williamson, Le istituzioni economiche del capitalismo, trad. it., Milano 1987; F. Denozza, Antitrust. Leggi antimonopolistiche e tutela dei consumatori nella CEE e negli USA, Bologna 1988.