Concorso apparente di norme e concorso di reati
Le S.U. hanno ribadito che il principio di specialità tra fattispecie astratte costituisce l’unico criterio per verificare se sussiste un concorso apparente di norme, mentre la prevalente dottrina ritiene necessario utilizzare anche criteri cd. valutativi. Così S.U. 23.2.2017, n. 20664, ha escluso l’apparenza del concorso ed affermato il concorso dei reati di malversazione a danno dello Stato e di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, mentre S.U. 22.6.2017, n. 41588, ha affermato che i reati di detenzione e porto di arma clandestina sono speciali rispetto ai reati di detenzione e porto illegale di arma comune da sparo e si applicano dunque in luogo di questi ultimi. Le due decisioni non sembrano tuttavia avere approfondito la tipicità dei reati esaminati e quindi la loro astratta applicabilità al medesimo fatto.
Le S.U. sono tornate ad occuparsi dei rapporti tra concorso apparente di norme e concorso di reati ed hanno ribadito che l’unico criterio in base al quale è possibile riconoscere l’apparenza del concorso è quello della specialità in astratto tra le norme che appaiono applicabili al medesimo fatto: non sono dunque utilizzabili criteri cd. valutativi – espressione del principio del ne bis in idem sostanziale – ed in particolare non rilevano criteri basati sulla valutazione del bene giuridico tutelato dalle norme nelle quali il fatto appare sussumibile. Rispetto alle precedenti, conformi, decisioni delle S.U.1, le due sentenze in esame contengono in più la precisazione che la giurisprudenza costituzionale e convenzionale in tema di ne bis in idem non impone un mutamento dell’esposto orientamento interpretativo, ormai consolidatosi.
Facendo applicazione di tali principi, le S.U. sono giunte a soluzioni diverse rispetto alle due questioni oggetto di rimessione. La sentenza S.U., 23.2.2017, n. 20664, Stalla, ha escluso l’apparenza del concorso tra il reato di malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis c.p.) ed il reato di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.), riconoscendo la sussistenza del concorso di reati. La sentenza S.U., 22.6.2017, n. 41588, La Marca, ha invece escluso il concorso tra i reati di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma clandestina (artt. 2, 4 e 7 l. 2.10.1967, n. 895, come modificati dagli artt. 10, 12 e 14 l. 14.10.1974, n. 497) e, rispettivamente, i reati di detenzione e porto illegale, in luogo pubblico o aperto al pubblico, della medesima arma comune da sparo (art. 23 l. 18.4.1975, n. 110), affermando l’apparenza del concorso stante il carattere speciale dei primi rispetto ai secondi.
L’ormai consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di concorso apparente di norme si caratterizza, quanto ai principi formulati, per un approccio concettuale di impronta – almeno in teoria – rigorosamente logico-formale che, in nome dell’esigenza di garantire il rispetto del principio di legalità anche con riferimento agli istituti di parte generale, nega ogni apertura a criteri di natura sostanziale.
Come dimostrano le due sentenze in esame, tale approccio comporta il riconoscimento dell’apparenza del concorso tra norme incriminatrici solo a fronte dell’identità del fatto (con esclusione quindi della categoria del post factum non punibile) e dell’esistenza di un rapporto di specialità tra le fattispecie che allo stesso appaiono astrattamente applicabili. Si consolida dunque il contrasto con la prevalente dottrina, la quale ritiene invece necessario integrare il criterio della specialità in astratto con criteri cd. valutativi di carattere sostanziale (sussidiarietà, consunzione o assorbimento, ne bis in idem sostanziale, ante-fatto e post-fatto non punibili), i quali, pur a fronte dell’eterogeneità delle definizioni proposte dai vari autori e di una terminologia spesso non univoca, sono espressione del principio secondo il quale è applicabile la sola norma incriminatrice in grado di esprimere compiutamente i diversi profili di disvalore del fatto, in ossequio al principio del ne bis in idem sostanziale2. Tale impostazione dottrinale era stata invece recepita in passato dalle stesse S.U. nella sentenza 28.3.2001, n. 22902, Tiezzi.
Entrambe le sentenza in commento ribadiscono i principi affermati dalle più recenti sentenze delle S.U., da esse ampiamente richiamate, principi sintetizzati come segue3. Il concorso apparente di norme penali è regolato dall’art. 15 c.p. che, fatti salvi i casi regolati da clausole di riserva, prevede il principio di specialità come unico criterio per stabilire l’apparenza del concorso. Lo stesso criterio è dettato dall’art. 9 l. 24.11.1981, n. 689, quanto ai rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo. Nel caso di convergenza di più norme sul medesimo fatto si applica dunque la sola norma speciale, per tale intendendosi «quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale»; infatti il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico-formale, in quanto «risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato». Il riferimento è dunque, nel passo citato, al criterio della specialità unilaterale, ma ad esso viene aggiunto quello della specialità reciproca con alcune limitazioni.
A tal fine viene innanzitutto precisato che per “stessa materia”, ai sensi dell’art. 15 c.p., deve intendersi «la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità». Posta tale premessa, viene precisato che l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, nonché «nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra l’art. 581 c.p. (percosse) e l’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia), ovvero di specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui all’art. 605 c.p. (sequestro di persona) e all’art. 630 c.p. (sequestro di persona a scopo di estorsione). L’identità di materia è invece da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo». Le S.U.4 ribadiscono poi l’inaccettabilità dell’elaborazione dottrinale «tendente ad ampliare il concorso apparente di norme alle figure dell’assorbimento, della consunzione e dell’ante-fatto o post-fatto non punibile: classificazioni ritenute tuttavia prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrimine, come l’identità del bene giuridico tutelato dalle norme in comparazione e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti», stante anche «la mancanza di riferimenti normativi che consentano un collegamento di tale ricostruzione alla voluntas legis».
Come accennato, le due sentenze in esame escludono che il rifiuto dei criteri valutativi contrasti con il divieto del ne bis in idem, che trova riconoscimento quale diritto fondamentale dell’individuo nell’art. 4, Prot. 7, CEDU e nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte costituzionale. Quanto alle pronunce della C. eur. dir. uomo (sentenza 4.3.2014, Grande Stevens c. Italia e sentenza, Grande Camera, 15.11.2016, A e B c. Norvegia), esse «fondano la necessità di una comparazione di quanto contestato con l’oggetto di un precedente giudizio, sottolineano la funzione processuale di tale limite e non escludono che la regolamentazione sostanziale del fatto possa essere descritta in più di una disposizione incriminatrice (penale o amministrativa), stante la più ampia libertà decisionale riconosciuta allo Stato nazionale in argomento»; quindi «l’essenza del divieto espresso dalla giurisprudenza della Corte EDU in materia è individuabile nella necessità di non sottoporre ad accertamento due volte l’interessato per il medesimo fatto storico, divieto che non ha natura assoluta, non essendo precluso il perseguimento della persona sottoposta a controllo in due autonome procedure, pur auspicandosi una trattazione unitaria, ma solo la sottoposizione ad autonomo giudizio quando sia stato definito uno dei due»5. Quanto alla giurisprudenza della Corte costituzionale, le S.U.6 richiamano la sentenza 21.7.2016 n. 200, osservando tra l’altro che la Corte: «ha rilevato che la CEDU impone certamente agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, senza peraltro collocare quest’ultimo nella sfera della sola azione o omissione posta in essere dall’agente e trascurando l’evento naturalistico verificatosi per effetto della condotta ed il relativo nesso di causalità»; «ha escluso che un’interpretazione dell’art. 649 c.p.p., svincolata dalla sola condotta ed estesa all’oggetto fisico di essa o all’evento in senso naturalistico, realizzi un contrasto con il vincolo derivante dalla CEDU»; ha richiamato altresì «l’insegnamento espresso dalle Sezioni Unite, in base al quale l’identità del fatto, ai fini preclusivi imposti dalla regola del ne bis in idem, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (S.U. n. 34655 del 28.06.2005), ribadendone la compatibilità con la richiamata giurisprudenza Europea». Questa la conclusione: «Le argomentazioni espresse dalla Corte Costituzionale, nel delineare la nozione di idem factum, si collocano nell’alveo del richiamato orientamento espresso dalle S.U. nell’interpretazione dell’articolo 15 c.p., in base al quale il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici da porre in comparazione non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità; e attualizzano tale insegnamento, in conformità ai limiti imposti dalla cornice convenzionale».
La questione decisa dalla sentenza S.U. Stalla, relativa ai rapporti tra il reato di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’art. 640 bis c.p. (riguardante la fase percettiva della provvidenza economica) ed il reato di malversazione a danno dello Stato di cui all’art. 316 bis c.p. (riguardante la fase esecutiva del progetto finanziato), vedeva contrapposti due orientamenti interpretativi. Il primo affermava il concorso dei due reati, osservando che tra gli stessi non vi è un rapporto di specialità, che sono realizzati con condotte distinte e che le relative norme incriminatrici tutelano beni giuridici diversi (il patrimonio e il buon andamento della p.a.)7. Il secondo affermava per contro la configurabilità del solo reato di truffa aggravata, in applicazione del principio di sussidiarietà, che ricorre quando due fattispecie criminose sanzionano comportamenti diversi, che offendano il medesimo bene giuridico secondo stati o gradi diversi, cosicché il reato che arreca l’offesa minore rimane assorbito nel reato che arreca l’offesa maggiore e costituisce post factum non punibile8. Come con chiarezza evidenziato dalla sentenza S.U. Stalla, entrambi gli orientamenti muovono dal comune presupposto che tra le due fattispecie in esame non sussiste un rapporto di specialità, né unilaterale né bilaterale: un assunto indiscutibile, che ha inevitabilmente portato le S.U. a riconoscere il concorso di reati, stante l’affermato principio di diritto secondo il quale il rapporto di specialità costituisce l’unico criterio per riconoscere l’apparenza del concorso. Le S.U. ribadiscono infatti che l’apparenza del concorso «può ravvisarsi solo ove vi sia un identico contesto di fatto ed una delle norme contenga necessariamente gli elementi dell’altra», il che pacificamente non ricorre nel caso di specie, posto che vengono in considerazione condotte cronologicamente distinte e che nessuna norma contiene gli elementi costitutivi dell’altra più elementi specializzanti. Poiché l’orientamento favorevole all’apparenza del concorso fonda l’applicazione del principio di sussidiarietà sull’assunto che la condotta incriminata dall’art. 316 bis c.p. costituisce, secondo l’id quod plerumque accidit, l’inevitabile prosecuzione della condotta incriminata dall’art. 640 bis, che prevede la pena più grave, le S.U. si soffermano sugli elementi costitutivi delle due fattispecie. Per dimostrare l’autonomia esistente tra le stesse, le S.U. osservano che «si possono verificare almeno tre tipi di situazioni diverse: a) il privato ottiene un finanziamento illecitamente e, successivamente, utilizza la somma per scopi privati (l’ipotesi più frequente); b) il privato ottiene con mezzi fraudolenti l’erogazione, ma la destina effettivamente ad opere o attività giustificanti il sostegno economico richiesto (ipotesi più rara, ma non certo impossibile); c) il privato ottiene legittimamente il finanziamento, ma omette di destinarlo all’attività o all’opera di pubblico interesse per cui era stato erogato»9. È agevole osservare in proposito che le ipotesi sub b) e c) confermano che non esiste un rapporto di specialità in astratto tra le due fattispecie, perché nessuna di esse implica necessariamente la realizzazione dell’altra. Quanto all’ipotesi sub a), indicata dalle S.U. come “la più frequente”, essa conferma il presupposto fattuale della tesi che ritiene applicabile il principio di sussidiarietà, tesi che tuttavia secondo le S.U. non è accoglibile in punto di diritto.
Prima dell’intervento delle S.U., la costante giurisprudenza escludeva l’assorbimento dei reati di detenzione e porto illegale di arma comune da sparo (artt. 2, 4 e 7 l. 2.10.1967, n. 895 come modificati dagli artt. 10, 12 e 14 l. 14.10.1974, n. 497), rispettivamente nei reati di detenzione e porto di arma clandestina (art. 23 l. 18.4.1975, n. 110). L’affermazione del concorso di reati era basata sulla diversità delle condotte criminose e soprattutto sulla diversità del bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici: quelle di cui alla l. n. 895/1967 soddisfano l’esigenza di porre l’autorità in grado di conoscere con tempestività l’esistenza di armi, i luoghi ove esse si trovano e le persone che le posseggono, mentre quelle di cui alla l. n. 110/1975 sono dettate per escludere in modo assoluto e senza possibilità di deroghe od autorizzazioni, la presenza nel territorio dello Stato di armi prive di segni o contrassegni di identificazione e tutelano quindi l’interesse della pubblica amministrazione a che tutte le armi esistenti sul territorio nazionale siano controllate e munite dei prescritti segni di identificazione10. La sentenza S.U. 41588/2017, La Marca, ha completamente capovolto tale orientamento e facendo applicazione dei principi in diritto sopra sintetizzati (§ 2.1) ha affermato che: l’argomento basato sul bene giuridico tutelato appare irrilevante nella valutazione dell’identità del fatto; l’asserita diversità delle condotte in realtà non sussiste, posto che la condotta di detenzione di arma comune da sparo rispetto alla detenzione di arma clandestina risulta naturalisticamente identica e differisce unicamente per il dato relativo alla clandestinità dell’arma oggetto di detenzione; il medesimo principio vale per le condotte di porto dell’arma in luogo pubblico o aperto al pubblico; il dato della clandestinità dell’arma integra dunque un elemento specializzante per aggiunta unilaterale. Obbligata la conclusione: «i reati di cui alla l. n. 110 del 1975, articolo 23, commi 1, 3 e 4, costituiscono ipotesi criminose speciali, rispetto a quelle di cui alla l. n. 895 del 1967, articoli 2, 4 e 7, giacché contengono tutti gli elementi costitutivi della condotta detenzione e porto di un’arma comune da sparo e in più, quale elemento specializzante, il dato della clandestinità dell’arma comune da sparo, che risulta non catalogata o sprovvista dei segni identificativi previsti dalla L. n. 110 del 1975, articolo 11». Le S.U. precisano tuttavia che «resta impregiudicata la possibilità di ritenere sussistente, in concreto, il concorso tra i diversi reati citati, qualora l’agente ponga in essere una pluralità di condotte, nell’ambito di una progressione criminosa, nella quale alla detenzione o al porto illegali di un’arma comune da sparo faccia seguito la fisica alterazione della medesima arma, che venga resa clandestina in un secondo momento».
Le sentenze in commento, nel ribadire l’ormai consolidato orientamento delle S.U. in tema di concorso apparente di norme, ne hanno anche riproposto i limiti. Va innanzitutto sottolineato lo scarso approfondimento di alcune delle categorie esposte: è il caso ad esempio del criterio della specialità bilaterale, ritenuto applicabile dalla sentenza S.U. La Marca sulla scia di un orientamento dottrinale11. Un approfondimento di tale categoria appariva invero tanto più necessario se si considera che essa non è di agevole applicazione (come conferma il suo scarsissimo utilizzo da parte della giurisprudenza) e che inoltre appare problematica l’individuazione del criterio in base al quale scegliere la norma prevalente: è ben vero che della specialità bilaterale le sentenze in esame non hanno fatto applicazione, ma è altrettanto vero che esse pretendono di formulare un quadro completo dei principi che regolano i rapporti tra concorso apparente di norme e concorso di reati. Sbrigativa appare poi la svalutazione delle esigenze di giustizia sostanziale sottese all’ampia elaborazione dottrinale dei criteri valutativi, tanto più se si considera che, significativamente, la stessa Corte di cassazione continua a farne frequente applicazione, utilizzando ad esempio il criterio della diversità del bene giuridico tutelato per giustificare il concorso di reati, anche solo come criterio che integra quello della specialità in astratto12. Del resto, quando la sentenza S.U. La Marca, affronta il problema della compatibilità dell’orientamento accolto con i principi affermati nella sentenza della C. cost., 21.7.2016, n. 200, nel richiamarne la motivazione ricorda come in detta sentenza «si osserva che soltanto qualora il giudice abbia escluso che tra le norme incriminatrici viga un rapporto di specialità (ex articoli 15 e 84 c.p.), ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro, è dato attribuire all’imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o omissiva, se pure il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico». Un passo della sentenza del Giudice delle leggi che sembra avallare, anche se in forma sintetica, proprio quei criteri valutativi – ed in particolare il principio di assorbimento – che le S.U. ritengono contrari al principio di legalità. Tuttavia, il problema che richiedeva un maggior approfondimento in entrambe le sentenze in esame riguarda il presupposto stesso della problematica del concorso apparente: l’astratta applicabilità di più norme al medesimo fatto e quindi il profilo della tipicità dei reati da esse previsti.
Così, quanto ai rapporti tra i reati di cui agli artt. 640 bis e 316 bis c.p., va premesso che oltre ad essere strutturalmente e cronologicamente diverse le condotte incriminate (rispettivamente: di ricezione o di mancata destinazione del contributo, ecc.), diverso è l’oggetto materiale dei due reati: molto ampio nel primo reato («contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee»), molto più ristretto nel secondo reato, posto che l’art. 316 bis prevede che gli stessi contributi, ecc. devono essere «destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di pubblico interesse». Si tratta di un vincolo di destinazione che costituisce il criterio fondamentale per verificare la sussistenza della condotta criminosa, tipizzata proprio come mancata destinazione del bene alla finalità indicata. Ora, diversamente da quanto affermato dalla sentenza S.U. Stalla, è la stessa tipicità del reato di malversazione che sembra essere esclusa nel caso in cui le provvidenze economiche di cui all’art. 316 bis siano state ottenute con artifici e raggiri. Infatti il dato letterale, con il riferimento ad una destinazione a favore di «iniziative dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di pubblico interesse», interpretato anche alla luce della ratio della norma, sembra richiedere una destinazione reale e legale e riferirsi dunque ad iniziative, opere e attività effettive e praticabili dal beneficiario, con esclusione dei casi di destinazione fin dall’inizio “sulla carta”13. Una conferma che l’art. 316 bis c.p. presuppone un legittimo e quindi non fraudolento conseguimento del contributo ecc. si trae dal fatto che, ricorrendo gli estremi del reato di cui all’art. 640 bis c.p., quanto ottenuto dal beneficiario è oggetto di confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 640 quater in relazione all’art. 322 ter c.p., in quanto profitto del reato, il che appare incompatibile con la sussistenza di quel vincolo di destinazione gravante sul beneficiario, che costituisce il presupposto fondamentale del reato di cui all’art. 316 bis c.p.14. È del resto significativo che nell’ambito della stessa dottrina che esclude il concorso tra i reati in esame (ritenendo configurabile il solo reato di cui all’art. 640 bis c.p. in base al principio di sussidiarietà o del ne bis in idem sostanziale o facendo applicazione della categoria del post factum non punibile), taluni autori riconoscano che «l’art. 316 bis – argomentando ex art. 640 bis – presuppone la regolarità dell’ottenimento da parte del privato dei finanziamenti diretti ad uno scopo di pubblico interesse, mentre i finanziamenti stessi, a prescindere da una siffatta finalità, sono stati ottenuti con artifici o raggiri nella truffa aggravata»15, e, ancora, che nell’art. 316 bis il finanziamento «è un presupposto della condotta che non è mai ingiusto, ma la cui ingiustizia deriva ex post non essendo destinato per il soddisfacimento di finalità pubbliche»16. In questa prospettiva, nel caso esaminato dalla sentenza S.U. Stalla non esisteva dunque in radice un problema di concorso apparente di norme o concorso di reati, non risultando applicabile l’art. 316 bis, ma solo l’art. 640 bis c.p. Non è tuttavia escluso che nella decisione delle S.U. abbia in realtà giocato un ruolo importante l’avvertita necessità di non compromettere un’esigenza di tutela degli interessi protetti che, si legge nella sentenza, «risulta ancora più cogente dalla considerazione, in entrambe le fattispecie, della possibile provenienza comunitaria dei fondi: circostanza, questa, che impone di non ignorare il costante richiamo della Corte di giustizia U.E. all’effettività di tutela che l’ordinamento degli Stati nazionali deve garantire agli interessi comunitari»17. Trattasi di un’esigenza – è agevole osservare – il cui soddisfacimento non può certo andare a discapito del rispetto del principio di legalità. Considerazioni analoghe valgono, con i necessari adattamenti, riguardo al rapporto tra i reati di detenzione e porto di arma comune da sparo e, rispettivamente, i reati di detenzione e porto di arma clandestina. Posto infatti che le fattispecie incriminatrici della detenzione e del porto di arma comune da sparo (artt. 2, 4 e 7 l. n. 895/1967, come modificati dagli artt. 10, 12 e 14 l. n. 497/1974) richiedono espressamente che le relative condotte siano poste in essere “illegalmente”, esse sembrano necessariamente presupporre che in taluni casi ed a certe condizioni l’arma sia detenibile o portabile “legalmente”, il che non può avvenire per l’arma clandestina, la detenzione ed il porto della quale sono sempre vietati, tanto che nelle relative norme incriminatrici (art. 23 l. n. 110/1975) non compare l’elemento della “illegittimità”18. Ciò è riconosciuto paradossalmente dalla stessa sentenza S.U. La Marca, nella quale si legge testualmente che «l’arma clandestina non è mai legalmente detenibile, né può essere legalmente portata in luogo pubblico o aperto al pubblico» e che, «conseguentemente, sfugge la giuridica configurabilità dei reati di cui alla L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7, qualora la condotta abbia ad oggetto un’arma comune da sparo clandestina, posto che l’elemento della clandestinità esclude in termini la configurabilità stessa dell’uso legale dell’arma. Invero, proprio la possibilità di detenere o di portare in luogo pubblico o aperto al pubblico armi comuni da sparo, nel rispetto delle norme di pubblica sicurezza, di converso, costituisce il presupposto logico delle condotte incriminate dalle citate norme della L. n. 895 del 1967, qualificate dall’illegalità della detenzione o del porto». Se dunque le stesse S.U. riconoscono che rispetto ad un’arma clandestina non sono nemmeno astrattamente configurabili i reati di detenzione e porto di arma comune da sparo, è agevole osservare che nel caso esaminato non sussisteva quella convergenza di più norme incriminatrici sullo stesso fatto, costituente il presupposto imprescindibile della problematica dei rapporti tra concorso apparente di norme e concorso di reati. La giurisprudenza delle S.U. in materia di concorso apparente di norme e concorso di reati aspetta dunque ancora un adeguato approfondimento dei principi generali applicabili ed un rinnovato rigore nell’applicazione di quello stesso principio di specialità in astratto che le S.U. affermano essere l’unico criterio utilizzabile in questa materia19.
1 Cass. pen., S.U., 28.10.2010, n. 1963, Di Lorenzo; Cass. pen., S.U., 28.10.2010, n. 1235, Giordano; Cass. pen., S.U., 19.4.2007, n. 16568, Carchivi; Cass. pen., S.U., 20.12.2005, n. 47164, Marino.
2 V. tra gli altri, Romano, M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, 179 s. Sul principio di consunzione, v. Fiandaca, G.Musco, E., Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2014, 722s; Pagliaro, A., Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, 202s; Dolcini, E. Marinucci, G., Manuale di diritto penale, Milano, 2017, 572 s.; sul principio del ne bis in idem sostanziale, v. Mantovani, F., Diritto penale, Padova, 2017, 469 s.
3 I passi di seguito riportati sono tratti da S.U. n. 41588/2017, La Marca, § 4.
4 S.U. n. 20664/2017, Stalla, § 3.
5 S.U. n. 20664/2017, Stalla, § 4.
6 S.U. n. 41588/2017, La Marca, § 5.
7 Cass. pen., 16.6.2015 n. 29512; Cass. pen., 27.10.2011, n. 43349.
8 Cass. pen., 18.9.2014, n. 42934; Cass. pen., 12.5.2009, n. 23063.
9 S.U. n. 20664/2017, Stalla, § 7.4.
10 Cass. pen., 21.12.1982, n. 5224.
11 V. tra gli altri De Francesco, G., Lex specialis. Specialità ed interferenza nel concorso di norme penali, Milano, 1980, 45 s.; Padovani, T., Diritto penale, Milano, 2017, 443 s.
12 A mero titolo di esempio v. Cass. pen., 17.2.2017, n. 11979, in tema di concorso tra estorsione e turbata libertà degli incanti; Cass. pen., 23.9.2015, n. 40663 in tema di rapporti tra maltrattamenti e violenza sessuale; Cass. pen., 28.12.2016, n. 9960, in tema di rapporti millantato credito e truffa.
13 Così Vallini, A., Tracce di ne bis in idem sostanziale lungo i percorsi disegnati dalle Corti, in Dir. pen. proc., 2018, 4, 532.
14 Così Colucci, C., Le Sezioni Unite tornano sul principio di specialità: al vaglio la questione del rapporto tra truffa aggravata e malversazione, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 12, 59.
15 Così Romano, M., I delitti contro la Pubblica amministrazione, I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2013, 74.
16 Salcuni, G., Malversazione a danno dello Stato, in Trattato di diritto penale diretto da A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna e M. Papa, pt. sp., II, Torino, 2008, 98.
17 S.U. n. 20664/2017, Stalla, § 8.
18 Cosi Vallini, A., Tracce di ne bis in idem, cit., 533.
19 Per analoghe considerazioni critiche in ordine alle sentenze S.U., 20.10.2010, n. 1235, Giordano, e 20.10.2010, n. 1963 Di Lorenzo, v. Piffer, G., Principio di specialità e concorso apparente di norme, in Libro dell’anno del Diritto 2012, Roma, 2012, 185.