Concorso esterno nei reati associativi
La sentenza resa nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Contrada c. Italia, ha rinnovato il dibattito sulla configurabilità del concorso esterno nei reati associativi, e sulle relative condizioni. Ecco dunque un’analisi della decisione e delle sue conseguenze, effettive o prevedibili, circa l’assetto della materia nell’ordinamento italiano.
SOMMARIO 1. La ricognizione 2. La focalizzazione 2.1 La sentenza della C. eur. dir. uomo nel caso Contrada
2.2 Le ricadute sull’ordinamento interno 3. I profili problematici 3.1 Il (discutibile) fondamento dell’analisi 3.2 La recente giurisprudenza sul concorso esterno
Il tema del concorso “esterno” nei reati associativi ha occupato per decenni il dibattito dei penalisti, e rischia, nella perdurante riluttanza del legislatore ad operare scelte di tipizzazione delle condotte di contiguità, di protrarsi ancora a lungo. Del resto, le ragioni del conflitto sono forti e molteplici. Trascurando in questa sede quelle sostanziali (la teorica del concorso esterno è valsa storicamente a colpire soggetti della cosiddetta “borghesia mafiosa”, oppure esponenti politici ed uomini delle istituzioni), si deve ammettere che, sul piano della tipicità, le difficoltà sono notevoli. Quella del concorso eventuale di persone nel reato è, in generale, una disciplina sospettata di illegittimità per l’asserita sua inefficienza nel delineare ex ante i comportamenti vietati. Innestata sul tessuto dei reati associativi, tale disciplina incontra fattispecie a bassissimo tasso di tipizzazione, visto che la condotta è, in sostanza, oggetto di mera enunciazione (sono associati coloro che si associano). Non bastasse, l’incontro genera una sorta di antinomia sul piano logico, poiché introduce una responsabilità per associazione nei confronti di persone che, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale, si riconoscono anzitutto per il fatto di non essersi associate: deve ammettersi che sono state e sono necessarie diverse mediazioni tecniche prima di pervenire ad un assetto ragionevole, e socialmente accettabile, della materia.
Nondimeno, la legge obbliga anche quando richiede mediazioni tecniche per l’interpretazione, ed il dibattito sulla configurabilità del concorso esterno, mai realmente decollato in giurisprudenza (infra), poteva considerarsi ormai assestato. Il primo intervento delle Sezioni Unite, innescato da alcune ed isolate sentenze contrarie, aveva subito confermato l’ammissibilità della contestazione, sia pure nel contesto d’una ricostruzione di sistema criticabile ed ormai obsolescente (sentenza Demitry)1. L’elaborazione circa i fattori integrativi della fattispecie si era poi affinata grazie alle sentenze Mannino2 e Carnevale3. Da notare che, pur non essendo mancata qualche sporadica eccezione4, la giurisprudenza successiva alla prima delle decisioni citate si era espressa univocamente per la configurabilità del concorso esterno, tanto che l’investitura ripetuta delle Sezioni Unite era stata determinata, più che altro, da incertezze su alcuni dei profili di identificazione del fatto illecito. In seguito il “viaggio” del concorso esterno era proseguito senza gravi scossoni5. Una rilevante e controversa decisione del 2012 aveva certo provocato l’ennesima ondata polemica6, risolta però, ancora una volta, nella tendenziale conferma di un assetto ormai piuttosto definito.
Si comprende a questo punto quale sia stato, e quale ancora rischi di essere, l’impatto provocato dalla sentenza pronunciata dalla C. eur. dir. uomo, nel 2015, su ricorso di Bruno Contrada7. La Corte ha deliberato che, nel procedimento celebrato in Italia a carico dell’interessato, vi sarebbe stata una violazione dell’art. 7 CEDU. Ciò per effetto dell’irrogazione di una pena in rapporto ad una fattispecie che sarebbe «risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry», e dunque riguardo ad un precetto che non sarebbe stato «sufficientemente chiaro e prevedibile» per il ricorrente. Dove il rimprovero – conviene dirlo subito – non risiede affatto nella pretesa matrice giurisprudenziale del precetto penale, quanto, piuttosto, nell’asserita sopravvenienza di quel precetto rispetto alla condotta. In altre parole, secondo i giudici di Strasburgo, un banale caso di (illegittima) applicazione retroattiva della legge penale.
Per comprendere l’esatta portata dell’intervento compiuto dalla Corte di Strasburgo occorre anzitutto ricordare, nei suoi termini essenziali, la vicenda concernente Bruno Contrada. Era stato, quest’ultimo, un alto funzionario di polizia, in servizio dapprima presso la Questura di Palermo, poi presso l’Alto Commissariato per il coordinamento della lotta alla criminalità mafiosa e, infine, presso i Servizi interni di informazione. Secondo l’accusa, Contrada aveva intrattenuto illeciti rapporti con “Cosa nostra” fin da epoca risalente (fine degli anni ‘70), e la condotta era stata qualificata come concorso esterno in associazione mafiosa a partire dal 1982 (anno di introduzione dell’indicata figura associativa). In particolare, avvalendosi del proprio ufficio, il funzionario aveva reso ripetutamente “favori” al gruppo criminale. Contrada era stato arrestato nel 1992, e tratto a giudizio nel 1994. Il più recente episodio focalizzato nella contestazione risaliva al febbraio del 1988, ed intorno a quello s’era sviluppata la discussione relativa ad ipotetici eventi di prescrizione del reato.
L’andamento del giudizio penale era stato tormentato. Condannato dal Tribunale (1996), Contrada era stato assolto in secondo grado (2001), con sentenza però annullata dalla Corte di cassazione (2002). Nel giudizio di rinvio, la Corte d’appello palermitana aveva dichiarato colpevole l’ex funzionario (2006), argomentando sulla qualificazione della sua condotta anche in base alla giurisprudenza sopravvenuta delle Sezioni Unite, non senza valorizzarne l’asserita continuità rispetto alle elaborazioni più risalenti della giurisprudenza. Nel 2007, la Corte Suprema aveva respinto il conseguente ricorso difensivo, determinando quindi il passaggio in giudicato della sentenza di condanna8.
A quel punto, Contrada aveva presentato ricorso innanzi alla C. eur. dir. uomo, lamentando tra l’altro l’asserita violazione dell’art. 7 della Convenzione: l’Autorità giudiziaria italiana avrebbe applicato nei suoi confronti una sanzione “non prevedibile”, perché collegata ad un reato delineato con chiarezza solo da giurisprudenza successiva alla sua condotta.
Per la verità, l’applicazione retroattiva del precetto penale non aveva costituito l’oggetto focale della difesa di Contrada, il quale, nel procedimento interno, aveva semmai obiettato sulla configurabilità della fattispecie concorsuale, concentrandosi poi sulla qualificazione alternativa di favoreggiamento per le condotte ascrittegli. La sfasatura del nuovo argomento speso a Strasburgo era apparsa tale che il Governo italiano aveva negato l’esaurimento dei rimedi interni, in base proprio all’asserita novità del tema proposto. Ma la Corte europea ha rigettato l’eccezione, in sostanza argomentando sullo stretto collegamento esistente tra principio di tassatività (invocato nel giudizio nazionale) e divieto di applicazione retroattiva della legge penale.
Respinta l’eccezione di inammissibilità, com’è noto, la Corte ha accolto nel merito il ricorso. Premessa logica centrale, nel suo ragionamento, è stata la convinzione che il «concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale», convinzione tratta addirittura dalla pretesa convergenza sull’assunto di tutte le parti del giudizio. Ma l’asserita matrice extralegale dell’incriminazione non focalizza l’addebito mosso alla parte convenuta, che si riferisce piuttosto all’applicazione retroattiva del precetto sanzionato penalmente. E di applicazione retroattiva, in particolare, la Corte ha voluto parlare collegando la “nascita” della fattispecie alla sentenza Demitry delle Sezioni Unite (supra). In precedenza vi sarebbero state affermazioni episodiche del concorso esterno, avviate quando la condotta del ricorrente era ormai quasi esaurita, e contrastate, per alcuni anni, da un preponderante orientamento di segno contrario9.
Insomma, come già accennato, il difetto della norma non consisterebbe nella sua natura di “legge” non parlamentare, e neppure nella sua attuale indeterminatezza, ma nella pretesa che tale indeterminatezza la segnasse all’epoca dei fatti contestati al ricorrente. Di qui la conclusione che l’Italia avrebbe violato il principio della conoscibilità del precetto, e della relativa sanzione, da parte di chi, successivamente, è stato accusato della relativa violazione; che, in altre parole, la condanna del ricorrente sarebbe intervenuta in assenza di una «base legale sufficientemente chiara».
La decisione di Strasburgo ha provocato reazioni a vario livello, determinando conseguenze, effettive o presunte, in almeno tre direzioni.
La prima attiene, naturalmente, agli effetti della sentenza sulla posizione giuridica del ricorrente, da valutare alla luce dell’obbligo per l’Italia di dare esecuzione ai provvedimenti della Corte europea (art. 46 CEDU).
Un secondo effetto potrebbe consistere nelle ipotetiche ricadute della sentenza sulla posizione di persone diverse dal Contrada, e però condannate per lo stesso reato ed in condizioni analoghe.
Infine, le implicazioni dell’assunto di fondo sotteso alla pronuncia (reato di «creazione giurisprudenziale»), che possono spaziare dall’effettiva insussistenza d’un divieto legale di concorso esterno alla compatibilità costituzionale delle norme che, secondo l’assunto corrente, pongono quel divieto.
Riguardo al primo dei tre argomenti. L’interessato (che al momento della decisione di Strasburgo aveva già espiato la pena inflittagli) ha proposto (una quarta) domanda di revisione della sentenza di condanna, argomentando sia sull’asserita sopravvenienza di nuove prove, sia sul disposto dell’art. 630 c.p.p. come integrato dalla sentenza della Corte costituzionale 7.4.2011, n. 113, e dunque invocando il «diverso caso di revisione» introdotto al fine di «conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario … per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo». La domanda è stata dichiarata inammissibile, però dalla competente Corte d’appello10.
Avrebbe potuto notarsi, per la verità, che la «revisione europea» costituisce soprattutto lo strumento per emendare inosservanze dei principi del giusto processo, mentre violazioni connesse all’applicazione della legge sostanziale vanno piuttosto corrette mediante il procedimento di esecuzione, e la manipolazione del giudicato consentita nell’ambito di tale ultimo procedimento11. La Corte d’appello, comunque, ha preferito “interpretare” il vulnus recato ai diritti del ricorrente secondo la decisione dei giudici europei. Questi, in sostanza, avrebbero rimproverato all’Italia di non aver verificato se Contrada fosse stato concretamente in grado di prevedere, al momento dei fatti, la qualificazione giuridica del proprio operato e la conseguente sanzione penale. La Corte italiana ha dunque ritenuto suo compito una verifica ex post della circostanza, concludendo come l’interessato, alto funzionario di polizia operante in Sicilia, ben potesse apprezzare lo specifico disvalore del proprio comportamento.
Non migliore fortuna ha sortito un tentativo del ricorrente di ottenere soddisfazione mediante lo strumento dell’art. 625 bis c.p.p., che prevede un ricorso straordinario al fine di emendare errori di fatto nei quali la Corte di cassazione sia incorsa nell’ambito del giudizio di legittimità. Il tentativo era stato comprensibilmente suggerito dalle notissime sentenze rese nei casi Drassich e Scoppola – frutto per altro di situazioni particolari, risolte in assenza della cd. «revisione europea» – ma la Cassazione ha facilmente negato che il “vizio” rilevato a Strasburgo potesse qualificarsi come errore di fatto12.
Altrettanto è accaduto – e si viene con questo al tema delle possibili ricadute “generali” del dictum di Strasburgo – riguardo al ricorso straordinario proposto da un altro condannato per fatti di concorso esterno in associazione mafiosa, cioè Marcello Dell’Utri: anche in tal caso la Corte di legittimità ha dichiarato inammissibile l’impugnazione, di nuovo negando che la violazione riscontrata nella sede europea possa ricondursi al vizio che legittima la «correzione» prevista dall’art. 625 bis c.p.p.13.
Lo stesso Dell’Utri, per altro, ha praticato anche la via dell’incidente di esecuzione, invocando in quella sede la revoca della sentenza di condanna in suo danno, quale mezzo per l’esecuzione della decisione assunta, dalla Corte di Strasburgo, nel caso Contrada. La relativa domanda è stata però giudicata inammissibile dal competente giudice territoriale, e la conseguente impugnazione difensiva è stata rigettata dalla Corte di cassazione14.
Il provvedimento di legittimità, piuttosto complesso, ha negato l’ammissibilità dell’incidente di esecuzione promosso al fine di valutare la «legittimità convenzionale» della condanna riportata dal ricorrente. Ciò attraverso una elaborata ricostruzione del dictum dei giudici europei, ed un insistito ricorso alla tecnica del distinguishing, al fine di dimostrare, non senza una pacata e puntuale correzione delle semplificazioni operate a Strasburgo sullo stato della giurisprudenza all’epoca dei fatti contestati, che per Dell’Utri la questione di “prevedibilità” riguardava l’an della rilevanza penalistica (e non il quantum della pena, come invece sarebbe stato per Contrada). Insomma, la sentenza della Corte europea non potrebbe essere letta come giudizio di «illegalità convenzionale» di tutte le condanne per concorso esterno deliberate riguardo a fatti antecedenti al 1994.
Resta da dire degli effetti “di sistema” del provvedimento adottato a Strasburgo, cioè dell’influenza che sta esercitando nel dibattito generale sulla configurabilità del concorso esterno, e sui presupposti per la relativa contestazione. Che riprendesse fiato l’orientamento critico verso l’applicazione giurisprudenziale dell’istituto, molto ricorrente nell’esercizio delle difese ma ben presente anche sul versante dottrinale, era ampiamente prevedibile. Era ovvio, in particolare, che l’assunto d’una «matrice giurisprudenziale» dell’incriminazione portasse per un verso a negare la rilevanza penale di condotte ormai usualmente qualificate nel senso del concorso esterno, e per altro verso a denunciare le norme evocate nelle contestazioni come non sufficientemente tassative, e quindi contrastanti con i principi di legalità e determinatezza sanciti dal secondo comma dell’art. 25 Cost.
Al momento, tuttavia, la giurisprudenza ha respinto tentativi operati in entrambe le direzioni.
L’inesistenza di una norma sanzionatrice per i casi di concorso esterno è stata affermata in sede di merito, per effetto della sentenza Contrada, con una sola e discussa decisione di non luogo a procedere15, per altro prontamente annullata, in sede di legittimità, su ricorso del pubblico ministero16, mediante una sentenza che evidenzia come la stessa Corte europea avesse limitato le proprie censure alla fase che aveva preceduto la sentenza Demitry.
Non migliore fortuna hanno ottenuto questioni di legittimità costituzionale proposte, riguardo agli artt. 110 e 416 bis c.p., per l’asserito contrasto con gli artt. 25, co. 2, e 117, co. 1, Cost. (il secondo in relazione all’art. 7 CEDU). In almeno due occasioni la Corte di cassazione ha dichiarato tali questioni manifestamente infondate, sull’assunto che il concorso esterno «non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, bensì conseguenza della generale funzione incriminatrice dell’art. 110 cod. pen.», e riprendendo uno degli argomenti storici a sostegno della configurabilità dell’istituto (l’art. 418, co. 1, c.p., nel prevedere la figura dell’assistenza agli associati, ne esclude espressamente l’applicazione nel caso di «concorso nel reato» associativo)17.
Se la risposta degli studiosi alla sentenza della Corte di Strasburgo è stata variegata, dunque, la reazione della giurisprudenza è ispirata alla netta chiusura verso ogni ipotesi di “propagazione” degli effetti della decisione.
Il quadro comprende l’intero tema dei rapporti tra fonti e giurisdizioni, e rappresenta un momento, non secondario e probabilmente non transitorio, delle tensioni nascenti dall’impatto dei sistemi nazionali (specie quelli di matrice continentale) con la giurisprudenza delle Corti europee. Non a caso, nelle pronunce interne seguite alla sentenza Contrada, parte della dottrina vede l’espressione di resistenze più generali ad una piena osservanza degli obblighi nascenti dalle sentenze dei giudici sovranazionali.
In questa sede interessa, per la verità, solo verificare l’attuale fisionomia dei fenomeni di concorso esterno. Ma deve ben notarsi, per quanto sinteticamente, la seria inadeguatezza dell’impegno profuso dalla Corte europea nella valutazione delle ricadute generali del proprio assunto, che sembra spiegare le resistenze interne assai meglio di presunte prevenzioni riguardo al sistema multilivello di garanzia dei diritti umani.
Il principio di legalità implica tra l’altro, e non secondariamente, l’obbligatorio rispetto della legge penale da parte dei consociati. Se i contrasti di giurisprudenza bastassero a rendere “imprevedibile” l’irrogazione di una pena, addirittura in senso retrospettivo (e dunque a prescindere dalla concreta possibilità, al momento del fatto, di letture divergenti del dettato normativo), l’efficacia del sistema di tutela penale dei beni giuridici sarebbe rapidamente dispersa. Con conseguenze altrettanto perniciose, fra l’altro, in punto di capacità evolutiva del diritto giurisprudenziale. Di più. Se un effetto di delegittimazione della condanna si collegasse addirittura a contrasti sulla qualificazione del fatto, comunque penalmente illecito (ché tali erano, comunque, quelli ascritti al Contrada), la stessa funzione di garanzia del principio di legalità risulterebbe stravolta. Vero che la giurisprudenza europea ha sostenuto, non sempre in modo univoco, che il principio implica la possibilità per i consociati di prevedere anche la natura delle conseguenze giuridiche del proprio agire, ciò che viene tradotto, forse troppo sommariamente, in una ragionevole sicurezza circa il quantum della pena irrogabile18. Ma qui si misurano gli effetti davvero gravi della sommarietà dell’indagine condotta a Strasburgo. Per quanto possa sembrare paradossale, ormai, le poche decisioni pronunciate contro la configurabilità del concorso esterno si erano invariabilmente fondate su una concezione puramente “causale” della condotta associativa, tale da indurre la considerazione degli apporti recati dai singoli alla vita di un gruppo criminale come condotte dell’intraneo, cioè come fattispecie “ordinarie” di partecipazione al reato pluripersonale. In altre parole, il dubbio ipoteticamente indotto nei consociati dalle sortite giurisprudenziali antecedenti alla sentenza Demitry poteva riguardare la loro condanna come intranei o come estranei all’associazione, ma non già l’identificazione della fattispecie applicabile, e dunque i valori edittali della pena comminata dal legislatore.
Le reazioni della giurisprudenza nazionale sembrano condizionate anche dalla sproporzione tra la portata delle potenziali conseguenze e la consistenza, storica e concreta, del contrasto che la Corte europea ha inteso valorizzare. Come già si è accennato, una prima decisione di segno avverso al concorso esterno aveva fatto seguito a vari decenni di applicazione incontrastata dell’istituto19. Alcune altre decisioni, sostanzialmente riferibili ad un unico contesto di tempo e di concezione, erano sopravvenute a distanza di anni, ed erano state rapidamente smentite da altre, compresa alla fine la decisione Demitry.
Tanto questo è vero che i giudici di Strasburgo, a ben guardare, hanno finito per concentrare l’asserito difetto di prevedibilità non tanto sul contrasto di giurisprudenza (del resto successivo all’agire del ricorrente), quanto piuttosto sull’asserita novità dell’applicazione del concorso esterno ai casi di criminalità mafiosa. Ma, di nuovo, il carattere sbrigativo dell’analisi desta sorpresa.
È storicamente vero, con riguardo per altro alla sola giurisprudenza postbellica, che le contestazioni di concorso esterno avevano riguardato prevalentemente casi di terrorismo separatista (in Alto Adige) e poi di associazionismo con finalità eversive. Tuttavia, restando al caso di specie, la giurisprudenza ha già ricordato che, tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio del successivo decennio, contestazioni del genere erano state operate, nei giudizi di merito, anche con riguardo ad organizzazioni mafiose, proprio nell’ambito regionale ove Contrada aveva operato come alto funzionario di polizia.
Sono comunque le implicazioni generali, ancora una volta, a destare un allarme che pare tutt’altro che ingiustificato. Il principio di legalità penale vieta interpretazioni analogiche od estensive, ma non preclude la ricerca di nuovi significati nella legge, e men che meno preclude, più semplicemente, l’applicazione della legge stessa a fattispecie concrete che si manifestano per la prima volta. L’atteggiamento contrario parrebbe tanto più irrazionale quando – come nel caso in esame – non ricorre alcuna ragione letterale o sistematica che possa suggerire una stabile coincidenza tra l’applicazione abituale di una norma e quella potenziale. Le condotte associative, nel nostro ordinamento, sono descritte (poco) tutte allo stesso modo, nella loro dimensione obiettiva e soggettiva, ed altrettanto generale è la clausola normativa che regge il fenomeno della compartecipazione criminosa. Non v’era e non v’è alcuna ragione per distinguere20.
Quando l’essenza del principio di legalità viene degradata a questione di colpevolezza (cioè di rimproverabilità), è doveroso il riferimento concreto all’attendibilità della condizione di incertezza rappresentata dall’agente. La stessa Corte europea aveva fatto chiara applicazione del principio in un caso eclatante21, nel quale aveva respinto il ricorso proposto contro una condanna deliberata mediante l’applicazione della norma penale sull’insider trading, per la prima volta, ad una nuova classe di fattispecie concrete: un professionista può e deve interrogarsi sui rischi penali della propria condotta, anche quando la relativa descrizione legale non sia molto precisa ed anche in assenza di precedenti applicazioni della norma a casi come il suo; e la regola vale, a maggior ragione, quando l’agente abbia od avrebbe potuto valersi di «consulenti illuminati», ciò che aumenta i doveri di cautela e diligenza nella creazione del rischio penale22.
Nel caso Contrada i giudici di Strasburgo hanno considerato imprevedibile lo sviluppo sul piano del contrasto alla mafia dei molti precedenti in tema di concorso esterno (§ 71 della sentenza), ma hanno completamente omesso di interrogarsi sul rilievo delle elevatissime e specifiche competenze personali del ricorrente, che agiva a stretto contatto con l’Autorità giudiziaria penale, nella sede e nel tempo delle prime applicazioni giurisprudenziali dell’istituto a fatti di criminalità mafiosa.
In realtà il possibile effetto destabilizzante della sentenza Contrada – se si eccettuano i riflessi sui casi (ormai molto lontani nel tempo) di condanna per fatti antecedenti al 1994 – si connette ad un “vizio” che i giudici di Strasburgo non hanno affatto considerato tale, cioè l’asserita matrice non legislativa del precetto penale. Tradotto in termini interni al nostro ordinamento, ad una alternativa tra la violazione di legge (che sarebbe applicata oltre i casi dalla stessa previsti) e l’illegittimità della legge medesima, per l’elusione del precetto costituzionale di determinatezza delle fattispecie penali. Di questo vizio la sentenza di Strasburgo potrebbe essere la spia, ma non certo la riprova, tanto che – anzi – la sentenza stessa è piuttosto esplicita nel “convalidare” l’applicazione dell’istituto a far tempo dal 1994 e fino ai giorni nostri.
Ad ogni modo, la temuta (o sperata) destabilizzazione non si manifesta ancora. Dei provvedenti assunti sulle rinnovate questioni di legittimità costituzionale si è già dato conto. Per il resto, la giurisprudenza conserva saldo il riferimento agli approdi più recenti delle Sezioni Unite (ed alla sentenza Mannino in particolare)23, e continua ad interrogarsi, in base al forte condizionamento esercitato dalle fattispecie concrete, sui residui spazi di discussione intorno alla fisionomia dell’istituto.
Ha trovato recenti conferme, in particolare, il criterio distintivo tra condotta di appartenenza (che non richiede contributi concreti ma esige una inclusione, in senso anche dinamico, nella compagine sociale) e condotta di concorso esterno, che si fonda sulla concretezza dell’apporto recato alla conservazione od al rafforzamento del gruppo criminale, in un contesto privo della volontà di inclusione per entrambi i soggetti della relazione presa in esame24. Una condizione qualificante della responsabilità dell’extraneus è data dai profili soggettivi del suo comportamento, che sono ormai espressamente definiti in termini di dolo diretto, e dunque consistono nella consapevolezza e nella volontà di produrre un contributo causale nella specifica sua valenza di supporto qualificato per l’attività dell’associazione criminale25.
Note
1 Cass. pen., S.U., 5.10.1994, n. 16.
2 Cass. pen., S.U., 27.9.1995, n. 30 e, successivamente, S.U., 12.7.2005, n. 33748.
3 Cass. pen., S.U., 30.10.2002, n. 22327.
4 Cass. pen., 21.9.2000, n. 3299, dep. 23.1.2001; Cass. pen., 14.2.2001, n. 15158.
5 Nello stesso procedimento a carico di Bruno Contrada la discussione sulla relativa configurabilità era stata relativamente marginale, tanto che la decisione finale di legittimità (Cass. pen., 10.5.2007, n. 542, dep. 8.1.2008) l’aveva risolta mediante un sostanziale richiamo ai precedenti conformi.
6 Cass. pen., 9.3.2012, n. 15727, ric. Dell’Utri.
7 C. eur. dir. uomo, IV sez., 14.4.2015, Contrada c. Italia. La decisione è stata variamente commentata. Tra gli altri, Donini, M., Il caso Contrada e la Corte edu. La responsabilità dello Stato per carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva di formazione giudiziaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 346; De Francesco, G., Brevi spunti sul caso Contrada, in Cass. pen., 2016, 12; Leacche, M.T., La sentenza della corte edu nel caso contrada e l’attuazione nell’ordinamento interno del principio di legalità convenzionale, ivi, 2015, 4611; Manna, A., La sentenza Contrada ed i suoi effetti sull’ordinamento italiano: doppio vulnus alla legalità penale?, in www.penalecontemporaneo.it, 4.10.2016; Marino, G., La presunta violazione da parte dell’Italia del principio di legalità ex art. 7 Cedu: un discutibile approccio ermeneutico o un problema reale?, in www.penalecontemporaneo.it, 3.7.2015.
8 Si tratta della già citata Cass. pen. n. 542/2008.
9 Il riferimento iniziale attiene a Cass. pen., 19.1.1987, n. 8092, e poi a Cass. pen., 27.6.1989, n. 8864; Cass. pen., 27.6.1994, nn. 2342 e 2348. La stessa Corte europea menziona, tra le decisioni favorevoli alla configurabilità del concorso esterno, Cass. pen., 13.6.1987, n. 3492; Cass. pen., 23.11.1992, n. 4805; Cass. pen., 18.6.1993, n. 2902; Cass. pen, 31.8.1993. Per lo stesso periodo avrebbe potuto aggiungersi, ad esempio, Cass. pen., 4.2.1988, n. 9242.
10 App. Caltanissetta, 18.11.201517.3.2016, in www.penalecontemporaneo.it, 26.4.2016, con nota critica di Viganò, F., Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani: sulle prime ricadute interne di una scomoda sentenza della corte edu.
11 Argomento in realtà complesso, ed oggetto ad esempio di soluzione parzialmente diversa nella recentissima decisione sul caso Dell’Utri, citata alla nota 13 che segue.
12 Cass. pen., 6.7.2016, n. 43886.
13 Cass. pen., 14.3.2016, n. 28676, ric. Dell’Utri.
14 Cass. pen., 11.10.2016, n. 44193, ric. Dell’Utri.
15 GIP Trib. Catania, 21.12.201512.2.2016, in www.penalecontemporaneo.it, 6.5.2016, con nota critica di Marino, G., Nuove incongruenze giurisprudenziali sul concorso esterno in associazione mafiosa: gli effetti della sentenza Contrada della Corte EDU.
16 Cass. pen., 14.9.2016, n. 42996; in precedenza, negli stessi termini di esplicita reazione all’asserzione sulla matrice giurisprudenziale del concorso esterno, Cass. pen., 13.10.2015, n. 2653, dep. 21.1.2016.
17 Cass. pen., 30.4.2015, n. 34147; Cass. pen., 13.4.2016, n. 18132.
18 Ad esempio, C. eur. dir. uomo, 10.10.2006, Pessino c. Francia, e 21.10.2013, Del Rio Prada c. Spagna.
19 Il dato è richiamato, anche in modo analitico, da alcune delle sentenze citate fino a questo punto. Le prime decisioni che esprimono l’idea del concorso nell’attività associativa di terzi risalgono addirittura ai Codici preunitari. Nel dopoguerra, la configurabilità dell’istituto era stata solennemente enunciata con la sentenza Muther (Cass. pen., 27.11.1968, n. 1569), e poi più volte ribadita: ad esempio, Cass. pen., 7.6.1977, n. 1475; Cass. pen., 10.3.1978, n. 588; Cass. pen., 5.3.1980, n. 768; Cass. pen., 31.3.1980, n. 1081; Cass. pen., 14.11.1980, n. 2840; Cass. pen., 25.10.1983, n. 617, dep. 23.1.1984.
20 Di opinione tendenzialmente contraria, isolatamente, una decisione di legittimità (Cass. pen., 13.5.2016, n. 42043), con la quale, anche con riferimento alla sentenza Contrada della C. eur. dir. uomo, si è rimessa alle Sezioni Unite la questione se il concorso esterno sia configurabile anche riguardo alla figura ordinaria di associazione per delinquere, nonostante le differenze del tipo legale rispetto all’associazione di stampo mafioso (art. 416 c.p.). Si apprende però che il ricorso è stato riassegnato alle sezioni semplici, per l’asserita carenza di un significativo contrasto sul tema.
21 C. eur. dir. uomo, 6.10.2011, Soros c. Francia.
22 Concetti del resto già espressi in altre occasioni, sia quanto al dovere di “particolare attenzione” dei professionisti (10.10.2006, Pessino c. Francia), sia relativamente al rilievo di “consigli illuminati” (23.10.2013, Varvara c. Italia). Nella sentenza citata da ultimo si legge: «Non si può interpretare l’articolo 7 della Convenzione come una norma che vieta il graduale chiarimento delle norme della responsabilità penale attraverso l’interpretazione giuridica da una causa all’altra, a condizione che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile».
23 Per una ricognizione relativamente recente può vedersi, volendo, Leo, G., Il concorso esterno nei reati associativi, in Libro dell’anno del Diritto 2013, Roma, 2013.
24 Tra le altre, di recente, Cass. pen., 10.12.2014, n. 53675; Cass. pen., 30.4.2015, n. 34147; Cass. pen., 1.12.2015, n. 49093; Cass. pen., 8.1.2016, 21642.
25 Dolo diretto ma non intenzionale, bastando che l’agente operi con la sicura consapevolezza delle conseguenze del suo apporto: Cass. pen., 13.4.2016, n. 18132. In altri casi però la Suprema Corte considera dirimente, in senso negativo, l’indifferenza dell’agente riguardo agli interessi dell’organizzazione che si avvantaggia della sua condotta, motivata piuttosto dall’esclusivo movente del vantaggio per la propria organizzazione di appartenenza (Cass. pen., 14.1.2016, n. 8316), o addirittura prospetta la necessaria «condivisione delle finalità perseguite dal gruppo» (Cass. pen., 10.7.2015, n. 49067).