CONCORSO
. Secondo l'etimologia della parola (dal latino concursus, da cum e curro "corro insieme") indica l'affluire simultaneo di più persone o cose a una stessa meta, a un medesimo fine. Il diritto penale contempla due figure di "concorsi": quella del reo colpevole di una serie di fatti illeciti e su cui confluiscono le sanzioni per essi fatti comminate dalle leggi (concorso di reati e di pene), e quella del reato alla consumazione del quale abbiano partecipato più delinquenti (concorso di più persone nel reato).
Per concorso s'intende anche la gara alla quale più persone addivengono perché fra esse sia scelta, con l'eliminazione delle altre, la persona ritenuta degna di occupare il posto o di possedere la cosa messi a concorso. Qui si considerereranno solo i concorsi banditi dalla pubblica amministrazione per adire la carriera burocratica.
Concorso di reati e di pene.
Il reato molto raramente si presenta nella sua forma elementare e schematica di violazione di una sola norma di legge. Quasi sempre il colpevole raggiunge il suo intento delittuoso attraverso una serie di fatti illeciti, tra di loro concatenati, che si sovrappongono e s'incrociano, sboccando infine nella definitiva, esecuzione dell'episodio di delinquenza. Il problema del concorso dei reati e delle pene sorge, può dirsi, per ogni fatto criminoso: e perciò è uno di quelli che più hanno affaticato l'attenzione dei giuristi.
Il diritto romano fu intransigente nella nozione del "concorso di più reati in una persona": e tutte le volte che a carico di un individuo risultavano più fatti delittuosi, infliggeva tante sanzioni quanti erano i reati (tot delicta quot poenae), perché, per la concezione autoritaria e assoluta dello stato e del diritto propria dell'epoca romana, numquam plura delicta concurrentiam faciunt ut ullius impunitas detur (Dig., XLVII, 1, de privatis delittis, 2). Si ammise perciò il "concorso ideale" cioè l'assorbimento di un titolo di reato nell'altro, unicamente nell'ipotesi di più violazioni di legge originate da unico fatto delittuoso.
Il diritto canonico cominciò a elaborare ne serve di attenuazioni del severo sistema romano, attraverso le nozioni del delitto continuato, del delitto collettivo, del delitto prevalente, ecc.; costruzioni o finzioni giuridiche tendenti a evitare eccessivi rigori di sanzione e a difendere il reo dai cumuli aberranti di pene. Così il diritto canonico, pur attraverso le resistenze degli statuti e delle costituzioni del tempo, e tra le opinioni discordi dei giureconsulti, prese a insinuare nel principio romano della pluralità delle pene, quello dell'unificazione di píù reati in un solo reato e in una sola sanzione, gettando i germi della modema dottrina del concorso.
Quando una stessa persona commette più violazioni di legge, si possono verificare diverse ipotesi. Se le violazioni sono disgiunte e indipendenti fra loro nel tempo e nello spazio e sono aggruppate soltanto dall'identità dell'autore, il concorso è materiale e si riduce in definitiva al regolamento delle pene che dovranno essere inflitte. Le norme che i codici fissano in proposito mirano in sostanza a evitare le iperboliche sanzioni che potrebbero derivare dalla somma aritmetica delle pene. Però il principio regolatore non è unico. Viene infatti adottato il sistema dell'assorbimento quando concorrono le pene supreme (ergastolo, pena di morte) tra loro o con pene minori. È logico che queste sanzioni non possano per la loro natura applicarsi che una volta sola, salvo eventuali inasprimenti nell'esecuzione, e perciò la pena massima assorbe in sé, in questo caso, tutte le altre concomitanti. Viene invece adottato il principio del cumulo materiale o aritmetico delle pene, quando le varie sanzioni inflitte per varî reati vengono applicate tutte per intero e successivamente. Infine il principio del cumulo giuridico - criterio di contemperamento politico - è quello che conduce alla fusione delle varie pene tra loro in una sola pena molto inferiore alla somma materiale di esse. Tale principio, accolto dal codice abrogato, è stato nettamente ripudiato dal nuovo codice penale, che ha invece sancito il sistema del cumulo materiale con opportuni temperamenti.
La nozione del concorso di più reati fra di loro, deve essere tenuta nettamente distinta da quella del concorso di più disposizioni della medesima legge penale nel regolare la stessa materia. In altri termini, altro è la pluralità delle violazioni di legge, altro è la pluralità delle norme che reprimono una determinata forma delittuosa. Nel primo caso si ha concorso di reati, nel secondo caso si ha unico reato e concorso di norme giuridiche su di esso; nel primo, il problema è di regolare il modo di repressione delle varie violazioni di legge, nel secondo invece è di scegliere quale sia, tra le varie, la disposizione da applicare al caso. La lesione giuridica è una, uno e il reato, una dev'essere la sanzione; e il concorso delle norme giuridiche in relazione al fatto si scioglie col far prevalere la disposizione particolare su quella generale.
Il concorso di reati si ha invece quando l'azione delittuosa, quasi irradiando la sua energia antisociale, produce varie lesioni all'ordine giuridico, e colpisce più volte il bene o interesse giuridico che lo stato penalmente tutela; in altre parole: quando concorrono più violazioni di legge, intendendo violazione di legge nel senso che essa va riferita all'azione nel suo complesso e non ai singoli attimi delittuosi che la compongono. Va dunque circoscritto il concetto del concorso di reati alla pluralità delle violazioni di legge determinate dall'azione o dall'omissione di uno stesso autore.
Il caso più sottile, si ha quando le diverse violazioni di legge sono cagionate da una sola azione fisica. Colui che ingiuria un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, deve render conto dell'offesa arrecata alla persona e di quella inferta al prestigio della carica. È evidente che qui si trovano nel medesimo fatto gli elementi costitutivi di diverse violazioni di legge; e la logica dei principî avrebbe preteso che per ciascuna infrazione arrecata all'ordine giuridico, il reo avesse subito la relativa pena, perché nonostante l'apparente "unicità del processo esecutivo", si realizza una "pluralità effettiva di beni violati". Giuristi e legislatori, invece, considerando che la pluralità delle violazioni giuridiche è una concezione astratta ideale o formale del pensiero che determina una coincidenza del tutto simultanea delle violazioni, escogitarono il sistema dell'assorbimento delle violazioni minori in quella più grave, cosicché il colpevole veniva in concreto punito soltanto per il reato maggiore. Il nuovo codice italiano ha abbandonato questo istituto del "concorso formale" dei reati, e ha affermato l'esigenza che nei reati a violazione plurima debbano applicarsi tante pene quante sono le lesioni giuridiche diverse. Lo stesso principio viene applicato a una diversa forma di concorso ideale di reati, che si ha quando l'unica azione od omissione importa più violazioni della medesima disposizione di legge, come nel caso di colui che con un sol colpo di fucile ferisca, intenzionalmente, più persone.
Può darsi però il caso che l'azione, senza essere a rigor di temini unica, come nei precedenti esempî, sia composta di varî fatti delittuosi, violatori ciascuno di una diversa norma di legge, che sono però strettamente fusi tra loro in un nesso organico che li salda l'uno all'altro, onde, nonostante la pluralità delle violazioni di legge, non si riesce a scomporre l'azione in una vera e propria serie di reati distinti. L'omicidio a scopo di furto è composto di due elementi delittuosi: l'omicidio e il furto. Ma questi sono entrambi così plasmati in un'unica entità criminosa che il considerarli separatamente condurrebbe a deformare il tipo del reato. Ecco perché in questi casi la razionale valutazione dei fatti criminosi ha condotto la dottrina e la legislazione a compenetrare tra loro i due fatti e a unificarli in un solo speciale titolo criminoso, costituendo il reato secondario (furto) in qualifica del reato principale (omicidio). È questa la figura giuridica del reato complesso, in cui si ha un concorso formale improprio, perché il fatto violatore di più norme non è unico, ma costituito da più fatti costituenti reato, che sono però unificati astrattamente dalla scienza mediante assunzione di uno di essi a elemento costitutivo o aggravante dell'altro.
Differiscono da questa ipotesi i casi di più azioni violatrici di legge che stanno tra loro in rapporto "occasionale" o di "mezzo a fine" senza però costituire un tipo giuridico particolare: il falso per commettere la truffa; la violazione di domicilio per consumare il delitto di lesione, ecc. In questi casi il reato mezzo non s'imprime nel reato fine con una forza tale da connaturarsi in esso e creare una figura autonoma, ma resta un'accidentalità concomitante, che dev'essere perciò valutata separatamente. E questo il concorso materiale di reati, che dà luogo a tante sanzioni quanti sono i reati.
Una difficoltà può sorgere quando le diverse azioni violatrici della legge sono previste da separate ipotesi d'una medesima norma penale: ad esempio è inosservante agli obblighi dell'ammonizione chi si associa a pregiudicati, chi si allontana di notte dal suo domicilio, chi dà luogo a sospetti e non tiene buona condotta, ecc. L'ammonito che commette tutte le dette trasgressioni, è colpevole di altrettanti reati o di un'unica complessiva trasgressione. Deve riconoscersi che le varie forme o ipotesi d'inosservanza previste dalla legge non sono che manifestazioni diverse di un medesimo stato antigiuridico, come le varie ipotesi di bancarotta previste dalla legge non sono che segni rivelatori di un medesimo fatto delittuoso costituito dal fallimento colposo o doloso. In questi casi dunque non si ha una vera e propria pluralità di fatti delittuosi o contravvenzionali, e quindi non è da parlarsi di concorso tra le varie ipotesi di reato. Il reato sarà unico, e nella latitudine della pena si terra calcolo della varietà delle sue manifestazioni.
Anche la figura del concorso materiale ha le sue forme improprie allorquando le ripetute azioni criminose ledono sempre una medesima norma di legge. Sorgono così le specie improprie del concorso materiale: reato collettivo, reato permanente, reato continuato.
a) Se un certo genere di fatti viene assunto a reato appunto e soltanto in considerazione della ripetizione di essi, si ha il reato collettivo, in cui è il concorso dei varî fatti che genera l'incriminazione, unificandosi nel titolo. Il reato di "maltrattamenti in famiglia", ad esempio, non è concepibile se non si abbia una serie di malvagità, un sistema continuato di persecuzioni. È il concorrere dei singoli episodî che dà origine a un unico titolo di maltrattamenti.
b) Il reato permanente invece risulta da uno stato immanente di violazione per cui ogni istante che passa, indipendentemente da nuove iniziative del reo, concorre a rinnovare e a perpetuare la lesione del diritto. Il renitente alla leva, il contravventore alla libertà vigilata, si trovano in uno stato di persistenza attuale nella condizione antigiuridica, fino a quando, con l'arresto o con la costituzione, s'interromperà il prolungarsi della violazione di legge.
c) Quando infine il delinquente commette varî fatti criminosi dell'identica specie, ciascuno di per sé completo e autonomo, separati nel tempo fra loro, ma in esecuzione di una stessa concezione criminosa, si dice che egli commette un reato continuato. Certamente nessun motivo logico al di fuori della più volte ripetuta benignità per la condizione del colpevole può giustificare questa creazione giuridica, perché anche la stessa realtà psicologica della persistenza nell'identico disegno delittuoso dovrebbe servire più a segnalare il pertinace delinquente a particolare severità di pena, che a mitigarne la condizione. Viceversa una serie anche numerosissima di reati, se la si considera come un reato continuato, è punita come se si trattasse di un solo reato, salvo un aumento nella misura della pena inflitta.
È arduo stabilire la nozione astratta dell'unità d'intenzione, onde il midollo di questa figura giuridica resta impreciso, affidato, nella pratica giudiziaria, all'opinione individuale che ne abbiano magistrati e difensori. Basta consultare i più noti trattatisti per rilevare questa lacuna.
V'ha chi afferma che, per aversi in una serie discontinua di delitti un delitto continuato, occorre che la risoluzione non rinasca e non si rinnovi ogni volta, ma che si possa ravvisare nella pluralità dei delitti l'esecuzione per fasi successive di un disegno unico. Rimane però da indagare che cosa significhi praticamente il "rinascere" della risoluzione, e quale sia in fatto l'atteggiamento mentale del delinquente, che, compiendo più delitti, non rinnova in sé ogni volta la risoluzione di commetterli.
Altri, dopo aver premesso trattarsi di apprezzamento di fatto (ma ognun vede quale groviglio di problemi giuridico-psicologici esso involga), afferma che l'unità di risoluzione - da non confondersi né con l'unità di passione né con le volizioni speciali a ciascun reato - è costituita dalla "determinazione unica". Ma il contenuto reale di questa "unicità di determinazione" non appare più chiaro e più accessibile della frase: "unità di risoluzione". Il Pessina ravvisa l'unità di risoluzione nell'unica coscienza di reato, in quanto i varî delitti siano diretti all'attuazione di un medesimo proponimento. In sostanza anche l'insigne penalista sostituisce alla dicitura "unità di risoluzione", le frasi "unità di coscienza di reato" "unità di proponimento": ma resta impregiudicata l'ardua questione sulla portata pratica di queste parole.
Il Carrara, dopo aver ravvisato l'unità di determinazione quale elemento caratteristico del reato continuato, riconosce che nelle applicazioni pratiche tale criterio non può riuscire completamente vero, perché, data una serie di delitti, ogni delitto sarà sempre frutto di una determinazione sua propria, onde la necessità di distinguere fra "determinazione generica" unica e determinazioni speciali singole, e l'opportunità di sostituire alla cosiddetta "unità di determinazione" la formula "unità di disegno".
Né maggior lume dànno alla soluzione di questo, che piuttosto che problema giuridico è problema di psicologia giudiziaria, il Manzini, il Florian, l'Impallomeni, l'Alimena, il Lucchini, i quali tutti si aggirano sul criterio della "unità di risoluzione" sancito nell'art. 79 dell'abrogato codice penale italian0, esprimendolo con parole più o meno equivalenti.
Questa incertezza è tanto più pericolosa, in quanto - mancando la precisazione scientifica dell'unità di risoluzione - è facile confonderla nei singoli casi con l'unità del motivo psicologico, con l'identità della causa a delinquere o, come suol dirsi, della "passione delittuosa", tutti elementi che con essa e col reato continuato nulla hanno giuridicamente a che fare pur avando aderenze psicologiche evidenti.
Ma non è questa l'unica disputa cui dà luogo il reato continuato. Dottrina e giurisprudenza infatti non sono concordi sul quesito se sia ammissibile la concezione giuridica della continuazione nei reati di sangue per i quali parve ad alcuno che fosse inconcepibile una vera unità di risoluzione. Così pure si esclude che la continuazione possa essere ammessa nei reati colposi e nelle contravvenzioni, in cui di regola manca addirittura una "risoluzione" a delinquere e quindi non è ipotizzabile una "unità di risoluzione"; il che conduce all'assurdo che l'istituto della continuazione concede ai più pericolosi delinquenti e nei reati più gravi una mitigante di pena che nega invece ai colpevoli minori.
Nel nuovo codice (art. 81) si è mantenuta la figura del reato continuato, ma ne è stata precisata l'essenza, ponendosi la formula che le varie violazioni di legge derivino da un "medesimo disegno criminoso" anziché dalla "medesima risoluzione" (art. 79 cod. 1889). Si è cioè considerato che nel reato continuato quello che veramente persiste a sorreggere e guidare l'attività criminosa, non è la risoluzione, né la volona, né la deliberazione delittuosa, che ad ogni atto criminoso necessariamente si rinnovano, ma è l'ideazione del progetto di cui i singoli reati non sono che la progressiva esecuzione.
Questa nozione dà un reale e concreto fondamento psicologico alla "continuazione" e tronca così molte questioni (se possa sussistere continuazione tra reati di sangue, tra reato consumato e reato tentato, tra reato semplice e reato qualificato). Precisa inoltre i llmiti di questo istituto, di cui troppo si è abusato, rendendolo inapplicabile a tutte quelle azioni che, pur sorgendo da una medesima attività delittuosa, non sono però legate fra loro dal medesimo processo intellettivo e dalla stessa unità di preparazione e di attuazione.
Tale espressa restrizione dei limiti del reato continuato, ripristinerà indirettamente l'applicazione del concorso materiale dei reati a tutti quei delitti che si susseguono non per esplicare unico disegno, ma per reiterazione professionale, e che costituiscono la triste fioritura, sempre rinascente, di nuovi e distinti disegni criminosi. Tali delitti, singolarmente ideati, saranno singolarmente puniti, secondo le norme del concorso materiale.
Bibl.: B. Alimena, in Enciclopedia del diritto penale, a cura di E. Pessina, Milano 1904, p. 576; S. Longhi, in Scuola positiva, 1912, p. 14; L. Maino, commento al cod. pen. ital., 3ª ed., Torino 1915, I, p. 233; V. Manzini, Trattato di dir. pen., Torino 1920, II, p. 375 segg.; F. Carrara, Programma, parte generale, par. 536; L. Impallomeni, in Riv. pen., XXV, p. 297 segg.; Lavori preparatori del nuovo cod. pen. it., e relaz. di A. Rocco al testo definitivo del cod., Roma 1930.
Concorso di più persone nel reato.
È la partecipazione di più persone al reato, cioè l'alleanza, anche solo momentanea e contingente, di più delinquenti fra loro, allo scopo comune di unire le loro attitudini e le loro forze, per sopraffare la resistenza che l'ordinamento sociale oppone alla perpetrazione di un determinato delitto.
Con l'argomento della compartecipazione nel reato veniva, però confuso il cosiddetto "concorso postumo", cioè l'azione di coloro che, quando il delitto è già stato consumato e l'azione criminosa esaurita, intervengono per portare il delitto a conseguenze ulteriori o per sottrarre il delinquente e le tracce del reato alle indagini dell'autorità.
Non si ha in questo caso un vero e proprio concorso perché la volontà e l'azione di costoro, essendo entrate in opera a violazione di legge già consumata, non possono logicamente essere considerate come causa determinante della violazione stessa. Il favoreggiamento (v.) e la ricettazione (v.) perciò, pur essendo due forme d'intervento di più persone nella sfera del reato, restano fuori della nozione giuridica del concorso.
Vi è però la speciale figura dei "continuatori", i quali sono davvero partecipi del reato, pur sopravvenendo a violazioni di legge già avvenute. Ciò può verificarsi nei cosiddetti delitti successivi, in cui la violazione di legge si ripete e si perpetua infinite volte, in modo che l'azione criminosa è da ritenersi sempre in corso. Colui che interviene in questi reati prima che l'azione sia esaurita, e quando cioè il diritto, pur essendo già stato violato, è pur sempre violabile, concorre effettivamente a porre in essere il fatto costituente il delitto: è un partecipe attuale e non un ausiliatore postumo. L'esempio più comune è presentato nel fatto di colui che, dopo il ratto di una minore, sopraggiunge ad aiutare il rapitore a prolungarne la ritenzione o a trasportare la vittima dall'uno all'altro rifugio.
Fondamento intenzionale del concorso. - Qualsiasi forma di concorso, anche la più vaga, deve sempre trarre origine e avere la sua base psicologica nella volontà di cooperare in quel delitto, e nella coscienza dell'efficienza della propria partecipazione per il raggiungimento del fine delittuoso. Sennonché questo concetto accolto nel diritto romano venne poi via via abbandonato. Le scuole vollero distinguere le forme di concorso nel reato secondo il grado d'influenza, e secondo l'intensità impressa dai varî partecipi alla forza fisica del delitto. Nella categoria giuridica del concorso si differenziò così la correità (partecipazione al fatto "consumativo" del reato) dalla complicità (partecipazione indiretta, mediante aiuto secondario, o ausilio, nell'attività preparatoria e fiancheggiatrice del delitto).
Correità materiale: coautori, cooperatori immediati. - La correità si dice materiale quando il concorso si manifesta nell'esecuzione materiale del reato. La sua espressione più visibile e semplice si ha allorquando più persone concorrono tra loro nell'eseguire insieme il fatto consumativo del reato: allora costoro si chiamano esecutori o coautori. Ma nei casi più frequenti di concorso, i colpevoli, anziché concentrare tutti la loro azione nell'atto consumativo, si distribuiscono il compito delittuoso in modo che mentre uno compie l'atto costitutivo del reato, gli altri prestano l'opera loro così da renderlo possibile, rapido, efficace. I briganti che fermavano le diligenze e tenevano a bada i conducenti e la scorta col fucile spianato, non compivano l'atto consumativo della rapina, ma rendevano possibile il compierlo ai proprî compagni. Costoro vengono chiamati "cooperatori immediati" e considerati dalla legge e dalla dottrina allo stesso livello dei veri e proprî esecutori o autori del reato.
Correità morale. - Una forma particolare di correità è quella puramente morale che delinea la figura giuridica degli "autori intellettuali" del delitto. Chiamata anche "provocazione a delinquere", essa è la somma degli sforzi che compie un individuo perché altri esegua il reato da lui voluto (Longhi). Il comando delittuoso, dato dal superiore ed eseguito dall'inferiore fuori di ogni suo dovere funzionale; il mandato, per cui tra mandante e mandatario si pattuisce la convenzione del delitto; l'istigazione, per cui taluno suscita nell'animo altrui l'odio o l'ira, inducendo e indirizzando al delitto, sono le forme classiche di questo aspetto di partecipazione criminosa (v. istigazione a delinquere). Non può esitarsi a ritenere la correità morale come la più repugnante e la più pericolosa forma di delinquenza. Sennonché occorre spiegare che questa forma di concorso presuppone che l'esecutore, quantunque sospinto dalla volontà del correo intellettuale, abbia piena libertà e coscienza di delinquere: in caso contrario non avremmo più l'accordo di più volontà, ma saremmo nel caso del reato commesso da una sola volontà: quella dell'autore morale di esso.
Il concetto giuridico della correità morale è inoltre precisato dai seguenti limiti: a) la provocazione a delinquere per rientrare nella figura del concorso deve avere per oggetto un atto delittuoso determinato, definito, concreto; b) la correità morale giuridicamente apprezzabile è quella che si riferisce a un reato effettivamente commesso, almeno nella forma di tentativo, perché la sua incriminazione, data la sua natura puramente intellettuale, non può basarsi che sull'accertamento di essere stata effettivamente causa del reato. Solo eccezionalmente, e in relazione a particolari specie di delitti (delitti contro lo stato), anche l'istigazione semplice, non seguita dal reato, viene incriminata dalle leggi; c) se l'esecutore eccede nella consumazione del reato (quando, ad es., avendo avuto mandato di percuotere e ferire soltanto, uccide la vittima) sorge un ginepraio di questioni diversamente risolte dalle varie scuole e dai varî sistemi legislativi. La dottrina italiana più moderna, accolta nel nuovo codice penale, afferma la responsabilità oggettiva dell'istigatore, nel senso che la sanzione per lui si misura sull'evento seguito anche se più grave e diverso da quello da lui voluto, purché tra l'evento e l'istigazione sussista un rapporto ininterrotto di causalità, e non siano intervenute cause intermedie, indipendenti dall'istigazione e sufficienti da sole a determinare l'evento; d) se l'esecutore dopo avere iniziato gli atti esecutivi, per volontario ravvedimento, desiste dal compiere il reato, egli non soggiace alla pena per il tentativo commesso. Ma la volontarietà della desistenza - che è il motivo giuridico e morale che presiede all'impunità dell'esecutore - è personale a questi, e non può quindi comunicarsi a colui che lo provocò al delitto: la desistenza dell'esecutore avrà solo l'effetto di addossare all'istigatore una responsabilità per semplice tentativo, anziché per reato consumato. È chiaro invece che se l'istigato, dopo avere accettato l'incarico delittuoso, si pente prima di avere compiuto qualsiasi atto di esecuzione del reato, questo pentimento gioverà anche all'istigatore; e) va infine prospettato il caso del pentimento dell'istigatore. Questo solo allora può esonerare il provocatore a delinquere dalla responsabilità per l'istigazione, quando si esplicò attivamente col distruggere e annullare l'operata istigazione, spegnendo nell'istigato la volontà criminosa in lui suscitata, e impedendo cosi l'attuarsi del disegno delittuoso.
Complicità. - La partecipazione secondaria o indiretta nel reato, chiamata complicità, o ausilio, è quella che non si estrinseca mediante cooperazione concomitante negli atti consumativi del delitto, ma con altri aiuti concertati antecedentemente e con assistenza - non immediata e non diretta - durante lo svolgersi del fatto.
In questa specie di concorso la dottrina classica trovò una minore gravità che nella correità, considerando principalmente che la maggior forza criminosa autrice del delitto andasse ravvisata in coloro che, direttamente e personalmente, s'impegnarono nella violazione della legge. Criterio questo di dosimetria teorica, che cede ormai davanti alla concezione positiva del reato e alla valutazione unitaria delle volontà che lo idearono e lo eseguirono. Ad ogni modo questa forma secondaria di concorso, la complicità esiste.
La scienza ne ha individuato e classificato varie forme che possono ricondursi a due: la complicità morale e quella materiale.
La complicità morale consiste nel perfezionamento e nell'elaborazione che taluno fa dell'intenzione delittuosa dell'autore e delle possibilità di costui per l'attuazione del disegno criminoso, sia incoraggiandolo a commettere il reato, sia distogliendolo dai superstiti ritorni degli scrupoli onesti; sia istruendolo nel modo migliore per eseguire il reato. Naturalmente è cosa ben diversa dalla correità morale o istigazione; perché questa determina e crea un'intenzione delittuosa che non preesisteva, mentre il complice morale interviene a fortificare un'intenzione già generatasi spontaneamente, e già affermatasi nell'animo dell'autore principale.
Non è da nascondersi che, se il principio teorico è chiaro, la sua applicazione pratica è uno dei problemi più paurosi della psicologia giudiziaria. Uno degli aspetti più comuni della complicità morale è la "promessa di aiuto da prestarsi prima o durante il fatto". La promessa è ausilio di per sé stessa, indipendentemente dall'adempimento effettivo, perché, se anche non sarà mantenuta, si traduce pur sempre in un incoraggiamento al delitto.
Quanto alla complicità materiale, essa si esplica in forme infinite. Il fornire la scala al ladro, l'indicare al malvivente le abitudini di casa della vittima designata, il dare il segnale del momento propizio per il delitto, ecc., sono tutti fatti di aiuto materiale nella preparazione del reato e dei mezzi ad esso occorrenti, purché siano commessi con la scienza del fine delittuoso perseguito dall'agente, e purché siano efficienti nel raggiungimento dell'intento delittuoso. Un'altra forma di ausilio materiale si ha nel facilitare l'esecuzione del reato "prestando assistenza o aiuto prima o durante il fatto".
Sennonché l'aiuto che si presta durante il fatto, per costituire complicità, deve essere solo indiretto e mediato, e deve portare solo a facilitare il reato; ché, se si risolvesse nell'esecuzione stessa del delitto e nel suo atto consumativo, o nella cooperazione immediata negli atti costitutivi del reato, costituirebbe vera e propria correità. Il male è che l'interpretazione e la valutazione dei singoli fatti di concorso durante il fatto, non è così agevole e uniforme come sarebbe necessario, perché non esiste un qualche criterio misuratore fisso che definisca fino a qual punto un fatto di aiuto cooperi all'esecuzione dell'atto consumativo, e da qual punto invece lo faciliti soltanto. È eloquente in proposito il caso del "palo", il socio del ladro che sta in vedetta sulla porta, pronto a lanciare il fischio d'allarme, mentre l'autore principale è intento a commettere il furto. Il "palo" coopera all'atto consumativo dell'asportazione delle cose, o solo ne facilita l'esecuzione? È cooperatore immediato (correo) o è solo un complice? Nonostante la chiarezza dei principî, dottrina e giurisprudenza sono discordi: gli scrittori tendono a ritenerlo un complice, la magistratura a ritenerlo un correo. Forse la soluzione adottata dalla giurisprudenza è più corrispondente a quello che è in realtà il meccanismo del furto col "palo".
Aspetti particolari nella teorica del concorso. - Il problema generale del concorso ha alcuni lati speciali, comuni tanto alla correità quanto alla complicità, e che bisogna accennare. Vi sono delitti che acquistano maggiore o minore gravità per la legge, a seconda di particolari rapporti personali tra la vittima e il reo, di qualità personali inerenti al colpevole, di circostanze obiettive attinenti al modo di consumazione del reato. Per esempio l'omicidio diviene parricidio ed è punito con la pena dell'ergastolo se tra la vittima e il colpevole corre rapporto di filiazione; il furto non è procedibile se commesso dal figlio a danno del padre; l'appropriazione di somma diviene peculato se l'autore era pubblico ufficiale; ecc. Ora, tali influenze giuridiche si esplicheranno solo in rapporto a quello dei varî colpevoli nei cui riguardi sussiste la circostanza, o estenderanno la loro efficacia anche ai suoi correi e complici?
Opposte dottrine si contesero il campo sostenendosi da una parte (teoria della incomunicabilitä delle circostanze personali) che il concorrente dovesse rimanere estraneo agli inasprimenti di pena dovuti alla condizione tutta personale del suo socio; sostenendosi da altri invece (teoria della criminosità derivata) che il compartecipe debba rispondere anche della qualifica che la condizione personale del suo compagno di azione imprime al delitto, perché l'azione del socio riceve l'impronta e il titolo della criminosità dal "fatto" commesso dall'autore principale.
Il diritto scaturito dall'attrito di queste e di altre teorie, e tuttora vigente, si può cosi riassumere: le qualità personali che servono a costituire il reato (la qualità di coniugato nell'adulterio, di commerciante nella bancarotta, ecc.) si comunicano al correo; quelle invece che escludono la pena senza escludere la responsabilità (come nel furto commesso dal figlio in danno del padre) producono, effetto, dato il loro carattere personalissimo, solo in riguardo delle persone nelle quali si riscontrano, e giammai dei compartecipi. Le circostanze e qualità personali poi che aggravano il reato si comunicano soltanto quando servirono ad agevolare l'esecuzione del delitto, trasformandosi esse in un elemento fisico del reato che rientra perciò nell'obiettività del fatto cagionato dai concorrenti (la qualità di servo nell'autore rende qualificato il furto anche per i suoi concorrenti estranei al servizio del derubato), mentre non si comunicano se stanno a sanzionare una maggiore malvagità, derivante da particolari condizioni personali (rapporto di filiazione nel parricidio, circostanze della premeditazione nell'omicidio e nelle lesioni), e che perciò deve restare solo a carico di colui cui dette condizioni sono proppe. Infine, le circostanze materiali aggravanti (scasso nel furto) si comunicano a tutti i correi.
La comunicabilità delle circostanze personali e materiali era subordinata, secondo il vecchio codice, all'effettiva conoscenza di esse da parte dei compartecipi. Secondo però il nuovo codice penale italiano, la comunicazione si effettua indipendentemente da detta cognizione, in applicazione di un principio eccezionale di "responsabilità oggettiva" e ispirato a un'esigenza di maggior rigore nella repressione dei reati.
Si è disputato sull'ammissibilità del concorso nei reati colposi e nelle contravvenzioni; dato infatti che la compartecipazione è basata sul "concorso della volontà in unico fine", nei reati commessi per imprudenza. negligenza, ecc. non pareva possibile formulare l'ipotesi del concorso perché in essi non esiste un fine che possa unificare i varî fatti. Il nuovo codice penale (art. 113) ha risolto in senso affermativo la dubbia questione agitatasi sotto l'impero del codice penale abrogato e alla quale la dottrina inclinava a dare risposta negativa. Quanto alle contravvenzioni invece un vero concorso è possibile, limitatamente a quelle contravvenzioni dovute a specifica determinazione (lanciare un cavallo a corsa pazza per una strada frequentata, turbare la quiete privata di taluno, ecc.), perché è possibile un accordo di volontà nel fine illecito.
Una forma speciale di concorso è quella in rapporto ai delitti di omicidio e di lesioni: la cosiddetta complicità corrispettiva. Quando un individuo venne raggiunto da diversi colpi di rivoltella esplosi dalle armi di più aggressori, e uno solo di questi colpi fu mortale, ma si ignora da quale arma sia partito, si crea una particolare condizione di cose. Sarebbe eccessivo considerare tutti i concorrenti quali autori o coautori della ferita mortale, perché è certo che da uno solo di essi, questa fu inferta; sarebbe pure illogico considerarli tutti come cooperatori immediati, presupponendo questa figura giuridica la previa identificazione dell'esecutore materiale. Nell'impossibilità quindi di dare una soluzione realistica del problema, si è adottata una specie di transazione di prova, per cui si considerano tutti i partecipi come complici corrispettivamente fra loro, e si puniscono con una pena un po' più alta di quella che competerebbe alla complicità comune.
Sanzioni. - La materia del concorso era regolata dagli art. 63, 64, 65 e 66 del cod. pen. Zanardelli; ora è disciplinata dagli articoli 110-119 del nuovo codice penale. Il vecchio codice fissava come regola l'eguaglianza di pena tra l'esecutore materiale e i suoi correi; e una forte riduzione di pena (metà di quella stabilita per il reato commesso: o reclusione da 12 anni in su invece dell'ergastolo) per i complici. Questa diminuzione non si applicava però alla complicità necessaria, cioè a quella cooperazione che, dato il modo come il delitto venne ideato ed eseguito, va considerata come elemento predominante e determinatore nella consumazione del reato: ad es. la partecipazione del chimico o del farmacista che fornì all'avvelenatore il tossico senza del quale il delitto non si sarebbe potuto commettere. La complicità necessaria era dunque punita alla stessa stregua della correità: cioè come l'autore principale. Restava dunque la notevole differenza di trattamento a favore del complice non necessario.
Contro questa concezione giuridica si levò la scuola positiva, sostenendo, fra l'altro, che siccome il carattere psicologico di agire in unione di più è costante nei delinquenti abituali, e cioè nei più pericolosi, la complicità dev'essere considerata come un'aggravante del reato. Il nuovo codice penale italiano però, contemperando la verità contenuta nei postulati della scuola positiva con i principî fondamentali della scuola classica e col sistema adottato nella nuova codificazione, ha fissato il principio dell'unità del reato commesso da più delinquenti, e della eguaglianza di responsabihtà penale per tutti indistintamente coloro che vi hanno concorso, sopprimendo così la tradizionale distinzione tra concorso primario e secondario (correità e complicità), analogamente a quanto si è fatto nel progetto del cod. pen. tedesco e di quello austriaco.
Il principio giuridico accolto a base di questa notevole innovazione è ispirato a un più severo rigore nella repressione dei delitti, e si può formulare così: ciascuno dei concorrenti è una causa coefficiente del reato; perciò le azioni di ognuno sono "cause associate nella produzione dell'evento" in modo che l'una è condizione dell'altra, e sono tutte legate insieme da un vincolo di solidarietà. Sotto questo aspetto non è possibile distinguere quale delle varie azioni abbia avuto un'efficienza maggiore. L'atto consumativo dell'uccisione evidentemente ebbe come premessa il fatto del complice che preparò l'arma e l'agguato: non vi è perciò motivo per sostenere che l'atto esecutivo sia più efficiente dell'atto di complicità. È l'insieme delle azioni e delle volontà che ha prodotto il reato, ed è perciò giusto che ai concorrenti - ben consapevoli di questo convergere di ogni minimo atto al loro delitto - si applichi identità di sanzione.
Bibl.: S. Longhi, Repressione e prevenzione nel diritto penale attuale, Milano 1911, nn. 174-197; L. Maino, Commento al cod. pen. italiano, 3ª ed., Torino 1915, I, nn. 321-333; F. Carrara, Grado nella forza fisica del delitto (opuscoli), I, 5ª ed., Firenze 1898; E. Pessina, Elementi di diritto penale, 2ª ed., Napoli 1882-83, Parte generale; S. Sighele, La teoria positiva della complicità, 2ª ed., Torino 1894; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, II, 2ª ed., Torino 1920, nn. 469-493; A. Pozzolini, Per una costruzione giuridica della dottrina della partecip. al reato, Pisa 1906; Lavori preparatori del nuovo cod. pen. ital., e relaz. di A. Rocco al testo definitivo del codice, Roma 1930.
Il concorso amministrativo.
È uno dei modi di scelta delle persone fisiche per l'esercizio delle pubbliche funzioni e consiste in una gara per conseguire un pubblico ufficio destinato, al più idoneo. Esso è comunemente adottato in tutti gli stati moderni, ad eccezione della Germania.
In Italia per gl'impiegati statali il concorso fu accolto come sistema generale nella legge 25 giugno 1908, n. 290, la quale, fusa con altre leggi speciali vigenti in materia, venne a costituire il testo unico delle leggi sullo stato degl'impiegati civili 22 novembre 1908, n. 693, cui fu, poi, sostituita la legge delegata 30 dicembre 1923, n. 2960. Per gl'impiegati degli enti locali fu accolto nel regolamento per l'esecuzione della legge comunale e provinciale del 12 febbraio 1911, n. 297, e poi ribadito con maggiore larghezza, e in forma costituzionalmente più corretta, nella legge delegata 30 dicembre 1923, n. 2839. Le norme che disciplinano il concorso sono determinate in leggi, regolamenti, statuti degli enti autonomi, capitolati di servizio, bandi di concorso.
Il concorso può assumere varie forme. In rapporto alla qualità di coloro che sono ammessi a parteciparvi si distingue in concorso interno e concorso pubblico. Al primo possono partecipare i soli dipendenti dello stesso ente; al secondo tutti i cittadini aventi i requisiti richiesti. Entrambe le forme di concorso, essendo rivolte alla designazione del più capace, si attuano per mezzo di prove, le quali possono essere precostituite o da costituirsi nel concorso medesimo, o a un tempo le une e le altre. Ne derivano tre tipi di concorso: a) concorso per titoli; b) concorso per esame; c) concorso per titoli e per esame.
Gli atti preliminari del concorso sono: a) l'atto deliberativo; b) il bando; c) la nomina della commissione giudicatrice e dei cosiddetti comitati di vigilanza. L'atto deliberativo può essere viziato per incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere; in rapporto agli elementi volitivi può essere difettoso per i normali vizî di volontà, più comunemente per il vizio di errore. Esso è revocabile, come ogni atto amministrativo, anche dopo la pubblicazione del bando, sebbene di ciò alcuno dubiti. Il bando, non avendo sostanziale contenuto volitivo, non può essere invalido per i vizî di volontà. Possono ricorrere vizî di contenuto e di forma. Il bando può revocarsi per motivi d'invalidità, come per ragioni di opportunità e convenienza amministrativa. Si disputa circa i limiti di tale revoca, la quale sembra consentita in modo assoluto, anche per ragioni di opportunità o convenienza, sino al momento dell'ammissione del cittadino al concorso. È consentita, inoltre, la sospensione della esecuzione dell'atto deliberativo, e quindi del bando di concorso. Con detta sospensione non deve confondersi la proroga del termine utile per la presentazione della domanda e dei documenti prescritti. La commissione giudicatrice e il cosiddetto comitato di vigilanza sono organi occasionali della pubblica amministrazione, costituiti "secondo gli ordinamenti di ciascuna amministrazione".
L'esecuzione del bando richiede a un tempo attività del cittadino e attività di amministrazione. Ne deriva un rapporto giuridico, che può denominarsi rapporto di concorso. Atto costitutivo di tale rapporto è l'atto di ammissione al concorso. Di questo la legge pone condizioni subiettive (cittadinanza, godimento dei diritti politici, età, sesso, capacità morale, capacità tecnica generale, idoneità fisica) e obiettive (domanda con firma autografa dell'aspirante e pagamento della tassa nella misura prescritta dal r. decr. 16 novembre 1922, n. 1546), nonché un complesso di forme relative alla documentazione. L'atto di ammissione è essenzialmente revocabile. La revoca può avvenire anche per incapacità sopravvenuta per effetto di nuove norme o del mutato status del concorrente, o preesistenti, ma non risultanti dalla documentazione della domanda.
Deliberata l'ammissione al concorso, questo si svolge, senza precisi limiti di tempo, a opera di un organo occasionale e tecnico denominato "commissione esaminatrice" o "giudicatrice". Per il regolare funzionamento di tale organo occorre l'intervento di tutti i commissarî, tranne che per espressa norma giuridica sia consentita la presenza della maggioranza o di un dato numero di membri. Nel concorso per titoli, compito preliminare della commissione è la determinazione dei criteri di giudizio. Segue la valutazione dei titoli, salvo limiti o modalità posti dall'ordinamento normativo del concorso. Più complessa è l'attività dell'amministrazione nel concorso per esami. Essa si concreta nell'invito ai concorrenti a partecipare alle prove, nella deliberazione dei temi per le prove scritte, nella comunicazione dei temi stessi ai candidati nel giorno dell'esame e infine nelle prove orali per i candidati che abbiano superato quelle scritte con un minimo di voti dalla legge stabilito. Nel concorso per titoli e per esame si procede come finora si è detto partitamente. Il risultato di cotesta attività è dato dal giudizio della commissione, che trova espressione concreta e formale nella classificazione dei concorrenti. Gli atti, poi, e fatti che si compiono nello svolgimento del concorso sono documentati nel verbale o processo verbale.
Bibl.: G. Pacinotti, L'impiego nelle pubbliche amministrazioni, Torino 1907, p. 158 segg.; G. Jèze, Le régime juridique des concours de présentation, Parigi 1909; id., Les principes généraux du droit administratif, parigi 1926; R. Bonnard, Le recrutement et la discipline des fonctionnaires, Bruxelles 1910; U. Borsi, Per una disciplina legislativa dei concorsi ad impieghi comunali, in Rivista di diritto pubblico, 1916, I; C. Cagli, Il rinnovamento burocratico, Roma 1918; O. Ranelletti, Relazione della Commissione per lo studio della riforma dell'amministrazione dello stato, Roma 1919; R. Vuoli, Il concorso a pubblico impiego, Roma 1922; C.F. Ferraris, Diritto amministrativo, Padova 1922-1924, II; I. Barthélemy, Traité de droit administratif, Parigi 1923; E. Tommasone, L'attività dell'amministrazione nel concorso a pubblico impiego, Firenze 1926; Haseim, voce Beamte, in Wörterbuch des deutschen Verwaltungsrechts di k. v. Stengel, Friburgo in B. 1892 segg.