Abstract
Viene esaminata la struttura del delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, così come introdotto dalla l. 6.11.2012, n. 190. Si tratta in particolare del delitto di cui all’art. 319 quater c.p. che punisce le forme meno gravi di concussione poste in essere tanto dal pubblico ufficiale che dall’incaricato di un pubblico servizio, frutto dello scorporo della condotta di induzione dalla originaria previsione nell’art. 317 c.p. La norma in questione si caratterizza, inoltre, come dato assolutamente innovativo, per la previsione della punibilità del privato che aderisce alle richieste del pubblico agente. Viene infine analizzata la problematica relativa alla distinzione fra il delitto di induzione indebita ed il delitto di corruzione posto che è con riferimento al delitto in esame che si porranno non pochi problemi applicativi, pur con la precisazione che, a differenza di quanto avveniva in passato, resta ferma in tutti i casi la punibilità del privato.
Nella sua originaria formulazione, l’art. 317 c.p. puniva le condotte del pubblico ufficiale e dell’incaricato di un pubblico servizio che, abusando delle sue qualità o dei sui poteri, costringeva o induceva il privato a dare o promettere, a lui o a un terzo, denaro od altra utilità. La l. 6.11.2012, n. 190 (disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) ha separato in due distinte ipotesi criminose le condotte di costrizione e di induzione, introducendo l’art. 319 quater c.p. (induzione indebita a dare o promettere utilità), nella quale viene sanzionata con la reclusione da 3 ad 8 anni la condotta del «pubblico ufficiale o (del) l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità». La condotta di induzione prende forma in una autonoma e specifica ipotesi di reato, con l’ulteriore novità per cui, nel capoverso dell’art. 319 quater c.p., si è previsto che «nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità, è punito con la reclusione fino a tre anni». Si tratta, com’è evidente, di una nuova incriminazione con cui il legislatore ha inteso adottare una norma che, in funzione propulsiva, lancia al privato il chiaro messaggio per cui, nel rapporto con la pubblica amministrazione, lo stesso non potrà più cedere alle richieste del p.a., se queste si caratterizzano in forma più blanda, se non vuole essere coinvolto nella responsabilità penale (Pellissero, M., La nuova disciplina della corruzione tra repressione e prevenzione, in Mattarella, B.G.-Pellissero, M., a cura di, La legge anticorruzione, Torino, 2013, 350).
Per la sua collocazione nel capo I del titolo secondo del codice penale, il delitto di induzione indebita si inscrive a pieno titolo nei delitti dei pubblici agenti contro la pubblica amministrazione che si caratterizza, al pari di quanto accade per la concussione, per la strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri e delle qualità del suo servizio per ottenere dal privato la dazione o la promessa di una utilità non dovuta.
In quest’ottica si può senz’altro affermare che il delitto in questione danneggia innanzitutto la p.a. Abbandonando tuttavia l’idea secondo cui il bene giuridico tutelato del delitto sarebbe il prestigio della p.a. (idea sostenuta in passato con riferimento al delitto di cui all’art. 317 c.p. pre-riforma da, Antolisei, F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, II ed., 1986, 778), va invece affermato che oggetto di tutela sia il buon andamento e l’imparzialità della p.a. (con riferimento all’art. 317 c.p. v. Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, I, III ed., 2002, 205; Pagliaro, A., Principi di diritto penale, parte speciale, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, IX ed., 2000, 106; Contento, G., La Concussione, Milano, 1970, 7 ss.; Fornasari, G., Sub Art. 317 - Concussione, in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 169; Palombi, E., La concussione, Torino, 1998, 117; in giurisprudenza, Cass., S.U., 11.5.1993, n. 7, in Riv. pen. economia, 1994, 248; Cass. pen., 12.7.2001, in Cass. pen., 2002, 1394; Cass. pen., 25.9.2001, ivi, 3455; Cass. pen., 15.12-1992, ivi, 1994, 1517).
Deve invece escludersi che possa parlarsi, come è stato invece sostenuto con riferimento al previgente art. 317 c.p., di reato plurioffensivo (in tal senso, v. da ultimo, Cass. pen., S.U., 24.10.2013, n. 1228). Invero, la possibilità di configurare anche in relazione all’art. 319 quater c.p. quale oggetto di tutela la libertà di autodeterminazione della vittima si pone in termini di assoluta incompatibilità con la previsione della sua punibilità. Anche, infatti, a voler estendere l’induzione in relazione a quelle ipotesi in cui la libertà del privato pur se non compressa è, al più, limitata, appare un controsenso affermare da una parte che oggetto di tutela è la autodeterminazione del privato (la cui offesa implica, appunto, una limitazione nei termini della effettiva messa in pericolo) e, dall’altra, prevedere la punibilità di quest’ultimo nel caso in cui aderisca alle richieste del p.a.
Quello di induzione indebita è reato proprio, il cui soggetto attivo può essere tanto il pubblico ufficiale quanto l’incaricato di un pubblico servizio. La qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio deve sussistere al momento della commissione del delitto, nel senso che al momento della commissione del reato il soggetto deve essere già investito.
Non occorre, naturalmente, una investitura formale, dovendosi ritenere la configurabilità del reato anche in capo al funzionario di fatto (ad es., con riferimento al previgente art. 317 c.p., v. Di Giovine, O., Le qualifiche pubblicistiche, in Manna, A., a cura di, Materiali sulla riforma dei reati contro la Pubblica Amministrazione. La tutela dei beni collettivi. I delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Padova, 2007, 431), sempreché lo stesso eserciti effettivamente, seppur di fatto, quei poteri di cui egli abusae sempreché il concreto esercizio non abbia ragione in una usurpazione di pubbliche funzioni (con riferimento al previgente art. 317 c.p., Pioletti, G., Concussione, in Dig. pen., III, Torino, 1989, 5; Contento, G., La concussione, cit. 35 ss.; Marini, G., Concussione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1995, 2).
Quello in esame è un reato a concorso necessario in senso proprio, dove, cioè, per la sua configurazione è necessario l’apporto di almeno due soggetti, entrambi punibili. Come anticipato, il capoverso dell’art. 319 quater c.p. estende la punibilità, seppur con la pena della reclusione fino a tre anni, a chi dà o promette denaro o altra utilità. Si tratta senz’altro di una nuova incriminazione che, in virtù del divieto di retroattività di norme incriminatrici, varrà solo per il futuro, pur se debba certamente ravvisarsi una ipotesi di continuità normativa fra il 317 c.p. pre-riforma ed il nuovo art. 319 quater c.p. (continuità normativa affermata da Cass. pen., 3.12.2012, n. 3251; Cass. pen., 11.2.2013, n. 12388; Cass. pen., 11.2.2013, n. 11792; in dottrina Palazzo, F., Gli effetti “preterintenzionali” delle nuove norme penali contro la corruzione, in Mattarella, B.G.-Pelissero, M., a cura di, La legge anticorruzione, cit., 18; Benussi, C., I delitti contro la P.A. – I delitti del pubblico ufficiale, in Mannucci, g.- Dolcini, E., diretto da, Trattato di diritto penale. Parte speciale, I, t. I, Padova, 2013, 903).
Nella descrizione della condotta del reato l’art. 319 quater c.p. individua, quale elemento espresso della induzione indebita, l’abuso da parte del p.a. delle sue qualità o dei suoi poteri. L’abuso individua nell’economia della fattispecie un elemento costitutivo avente la funzione di delimitare e specificare la condotta di induzione. Venendo ad occuparci delle nozioni di abuso di qualità e di abuso di poteriva innanzitutto precisato come la loro previsione alternativa da parte del legislatore lascia chiaramente intendere la valenza omogenea ad esse attribuita nell’economia della fattispecie. Questo lascia ovviamente sfumare tutti gli sforzi interpretativi volti ad attribuire una netta distinzione fra i due concetti posto che nelle ipotesi dubbie è comunque ravvisabile una rilevanza della condotta posta in essere dal p.a.
Ciò chiarito, va comunque ricordato che il criterio tradizionalmente accolto nella distinzione fra i due concetti fa riferimento alla “competenza”, nel senso che solo l’abuso dei poteri e non quello delle qualità postulerebbe il collegamento all’esercizio dei poteri (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, parte speciale, II, XIII ed., Milano, 307; in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., 20.1.2003, in Cass. pen., 2004, 2808). Di qui, l’orientamento più diffuso individua l’abuso delle qualità allorché il p.a. faccia ‘pesare’ sul privato il proprio status – sia dichiarandolo espressamente senza ragione, sia evidenziandolo chiaramente nel proprio comportamento. Ciò che rileva è che la prospettazione abbia efficacia motivante dal punto di vista psicologico sul privato e si qualifichi in termini di ingiustizia. A sua volta, l’abuso di poteri è ravvisabile allorché il p.a. faccia un uso illegittimo delle attribuzioni del suo ufficio al fine di indurre il privato ad una dazione o promessa indebite(in generale, cfr., Fornasari, G., Sub Art. 317 - Concussione, cit., 171; Benussi, C., I delitti contro la P.A. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 868). Si ha così abuso dei poteri quando il p.a. utilizzi i suoi poteri al di là dei limiti stabiliti ovvero per fini diversi da quelli legittimamente attribuiti o, ancora, non utilizzandolio, infine, usandoli in violazione delle regole giuridiche di imparzialità, legalità e buon andamento.
Nell’originaria formulazione dell’art. 317 c.p. l’induzione, affiancandosi la costrizione, rappresentava, in via alternativa, la condotta che il p.a., abusando delle sue qualità o dei suoi poteri, compiva per ottenere dal soggetto passivo la dazione o la promessa indebite. La l. n. 190/2012 ha invece, come visto, sdoppiato le due condotte, limitando la fattispecie più grave di cui all’art. 317 c.p. alle sole ipotesi di costrizione, confluendo invece le meno gravi condotte di induzione nella più blanda fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p.
Va però chiarito che lo spostamento della condotta induttiva in una autonoma ipotesi criminosa abbia determinato il manifestarsi di una questione, fino ad ora priva di rilevanza pratica, oggi di fondamentale importanza, vale a dire quella della distinzione fra costrizione e induzione (è qui che si gioca non solo il quantum di pena per il pubblico agente, ma la stessa punibilità del privato). Si è inoltre assistito allo spostamento della distinzione fra corruzione e concussione nella distinzione fra corruzione e induzione indebita. Alle difficoltà collegate all’esatta enucleazione del contenuto si sono dunque aggiunte il rilievo delle conseguenze collegate al risultato di tale operazione ermeneutica. Come facile e pacifico, infatti, risulta il concetto di costrizione, all’opposto, la nozione di induzione è molto problematica essendo difficile determinarne i confini stante la presenza nel nostro ordinamento di ipotesi di corruzione dove la condotta del p.a. può configurarsi anche in termini di ‘sollecitazione’ (si pensi al delitto di istigazione alla corruzione posta in essere dal p.a.). Si spiega così come mai sia diffusa l’affermazione secondo cui per fissare la distinzione tra corruzione e concussione è sufficiente precisare la nozione di concussione per induzione (cfr. Manna, A., Corruzione e finanziamento illegale ai partiti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 130).
Indiscussa è certamente l’ampiezza del concetto di induzione, tanto che la sua rilevanza vada selezionata ab externo – finendosi diversamente per ricondurre nella concussione ogni dazione o promessa indebite effettuate dal privato e ricollegabili alla condotta del p.a. in quanto tale – attraverso il riferimento all’abuso realizzato all’uopo dal p.a.
Non si dimentichi, infatti, che è pur sempre la condotta abusiva – che viceversa manca in ipotesi comuni quali la truffa – a garantire all’intraneus una posizione di preminenza e che attribuisce rilevanza offensiva specifica – in relazione cioè al buon andamento e all’imparzialità della P.A. unitamente alla libertà di autodeterminazione della vittima – a condotte che altrimenti si porrebbero quali strumenti di lesioni di obiettività giuridiche diverse (si pensi al patrimonio o all’autonomia privata). Quello che tuttavia viene a mancare (o, comunque, ha minore portata dirimente) è l’esigenza di tutela della vittima, divenendo egli, seppur in via autonoma, coautore del reato. Non potrà, infatti, più incentrarsi la portata del termine sull’esigenza di tutelare la libertà di autodeterminazione della vittima. Certo è che a fronte di tale novum, non è stata superata nelle prime applicazioni l’idea per cui l’induzione si manifesta pur sempre con le forme della minaccia, seppur caratterizzata da una forza più limitata. A tale ambito vanno aggiunte inoltre quelle forme di comportamento che si caratterizzano per la forza di persuasione o di suggestione di cui si avvale il p.a. in virtù dell’abuso messo in atto. Quello che invece viene introdotta come costante nuova, che invece mancherebbe nella costrizione, è la possibilità di opporsi da parte del destinatario della pretesa, che nella induzione non viene meno.
Rinviando alla voce Concussione 1. Costrizione indebita a dare o promettere utilità il tema della distinzione fra concussione ed indebita induzione, va in questa sede dato conto del dibattito giurisprudenziale che si è manifestato nelle prime applicazioni del delitto di cui all’art. 319 quater c.p. ed in cui si assiste alla non pacifica delineazione dei confini applicativi del concetto di induzione.
Secondo un primo orientamento solo la induzione si caratterizzerebbe per la mancanza dell’idoneità a determinare nel privato uno stato di soggezione tale da limitarne la libera determinazione (Cass. pen., 18.12.2012, n. 3093). Partendo dal presupposto per cui la previsione in una autonoma fattispecie della condotta di induzione non abbia portato con sé la modifica del suo significato, l’induzione continua, come per il passato, a riferirsi alle condotte del pubblico agente che si manifestano nelle forme più varie di attività persuasiva, di suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori e che determinino taluno, consapevole dell'indebita pretesa, a dare o promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità (Cass. pen. 4.12.2012, n. 8695; Cass. pen., 25.2.2013, n. 11942; Cass. pen., 11.1.2013, n. 16154).
Si tratta, di posizione che tuttavia non può dirsi pacifica, specie in considerazione delle difficoltà probatorie connaturate al concetto di induzione e della non persuasività delle argomentazioni addotte per giustificare la punibilità del privato.
Si spiega il perché al citato orientamento se ne sia affiancato altro che, proprio valorizzando la scelta del legislatore di punire il privato nell’ipotesi di cui all’art. 319 quater c.p., incentra la portata del termine indurre in quelle forme di pressione meno pesanti in cui può individuarsi il perseguimento da parte del privato di un proprio interesse o vantaggio (Cass. pen. Sez. VI, 3.12,2012 n. 3251; Cass. pen. 3.12.2012, n. 7495; Cass. pen., 25.2.2013, n. 13047). Di qui l’affermazione per cui è induzione l’azione del p.a. consistente nella prospettazione, anche in forma minacciosa, di una conseguenza sfavorevole che possa ritenersi secundum jus. A differenza che nella costrizione, nella induzione indebita il danno minacciato può definirsi giusto (perché previsto dalla legge). Mancherebbe, dunque, una forma di prevaricazione ai danni del privato. Poiché in questi casi il p.a. non minaccia un danno originariamente ingiusto, ma, anzi, offre al privato l’opportunità ed il vantaggio di commerciare l’atto cui egli sarebbe obbligatoriamente tenuto, si configurerà una ipotesi di induzione perché il privato, pur se coartato dal timore di subire una «giusta» denuncia (di qui la non configurabilità della corruzione), non è per ciò meritevole di essere considerato quale vittima di un comportamento concussivo, avendo egli tratto un vantaggio ingiusto da tale mercimonio. In tali ipotesi il privato non si determina alla ingiusta dazione o promessa perché la sua volontà è stata coartata o viziata dal p.a. a fronte della minaccia di un fatto ingiusto né quest’ultimo sfrutta le sua qualità o i suoi poteri per fuorviarne la libertà di scelta. Il privato si trova semplicemente a scegliere tra il dover subire le conseguenze connesse alla propria pregressa condotta illecita ed il retribuire il p.a. onde ottenere un ingiusto vantaggio. La volontà del privato è, in fin dei conti, libera nell’aderire ad una opzione che gli permette di subire il minor danno.
Secondo un terzo orientamento, che può definirsi intermedio, si ha induzione nel caso in cui la condotta del p.a. si manifesti con forme di pressione in cui al destinatario è lasciato un significativo margine di autodeterminazione ed in cui la richiesta viene formulata con forme meno aggressive, in modo suggestivo ovvero in cui il privato aderisce alle richieste del p.a. perché ha autonomamente valutato l’esistenza di un interesse a soddisfare la pretesa del p.a. (cfr. Cass. pen., 11.2.2013, n. 11794; Cass. pen., 25.2.2013, n. 11944).
La l. n. 190/2012 ha determinato non solo l’acuirsi del dibattito in ordine alla definizione del concetto di induzione, ma anche la rimodulazione di un’altra fondamentale tematica che da sempre ha affaticato dottrina e giurisprudenza che si sono occupati del tema della concussione, vale a dire quello della distinzione fra concussione e corruzione (sul punto cfr. Padovani, T., Il confine conteso. Metamorfosi dei rapporti fra concussione e corruzione ed esigenze “improcrastinabili” di riforma, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1302 ss.).
Si rammenti, infatti, che fra i due reati sussiste infatti una ‘zona d’ombra’ caratterizzata dalla esistenza di una costellazione di azioni che possono inquadrarsi, secondo le modalità, ora nella concussione ora nella corruzione e che spetta necessariamente alla discrezionalità dell’interprete illuminare, stante, peraltro, l’incapacità di schemi logico-giuridici rigidi ad adattarsi alle esigenze del singolo caso concreto, ricco di sfumature alle quali l’interprete deve volgere lo sguardo per valutare al meglio il fatto posto alla sua attenzione. Si comprende, allora, come mai la storia della distinzione fra i due reati si caratterizzi per la strenua ricerca di criteri distintivi che ora sottolineano elementi tipici caratterizzanti i due reati, ora prendono spunto dalle modalità fenomenologiche dei due reati per risolvere il tutto sotto una visuale più propriamente probatoria.
Di fronte alle varietà e complessità dei casi concreti, per trovare un discrimine essenziale tra le due figure di reato la dottrina più tradizionale ha fatto leva sull’elemento dell’iniziativa, incentrando in tal modo l’essenza distintiva tra i due reati in un criterio di carattere “tipicamente probatorio” (la tesi è tradizionalmente ricondotta a Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, Dei delitti contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, V, Torino, 1982, 214 ss. ed ha trovato ampio riscontro specie nella giurisprudenza degli anni trenta, grazie alla semplicità applicativa: cfr. Cass. pen., 23.6.1930, in Giust. pen., 1931, 643; Cass. pen., 20.1.1930, ivi, 649; Cass. pen., 18.11.1929, in Giust. pen., 1930, 139). Secondo tale impostazione si ha concussione e non corruzione tutte le volte in cui la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità è dovuta non alla iniziativa del privato, bensì a quella del pubblico ufficiale. Ricorre, viceversa, il reato di corruzione nel caso in cui il pubblico ufficiale non abbia fatto richiesta alcuna pur tenendo un comportamento tale da incoraggiare il privato a prendere l’iniziativa e ad offrire il denaro o l’utilità, perché in esso è sempre il privato che offre ed il pubblico ufficiale che accetta senza aver compiuta vera opera di persuasione.
Il criterio dell’iniziativa, dalla sua iniziale e più rigida formulazione, ha trovato seguito nella dottrina e nella prassi successiva in forma più temperata ed attenta alle tipologie concrete con cui le condotte criminose possono manifestarsi, venendo incentrata l’attenzione sul fatto che il pubblico ufficiale potrebbe realizzare egli stesso una causa determinante della volontà altrui (Pannain, R., I delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Napoli, 1966, ed. 1978, 128).
Il criterio dell’iniziativa, pur se ha visto riconosciuti indubbi vantaggi nella sua applicazione processuale quale indice da valutare unitamente agli altri elementi probatori, non è andato esente da critiche nella sua dimensione teorica tesa di evidenziare la differente essenza dei due reati. Si è osservato, infatti, che l’iniziativa del p.a. non è un estremo idoneo a concretare la costrizione o l’induzione, necessarie per realizzare il delitto di concussione, quando la stessa sia accompagnata dall’offerta al privato quale controprestazione di un indebito vantaggio (Amato, A., Sulla distinzione tra corruzione e concussione, in Foro pen., 1966, 447).
L’insufficienza del criterio dell’iniziativa ha indotto la dottrina e la giurisprudenza successive a ricercare un criterio differenziale che, anziché limitarsi a valutare i comportamenti esteriori dei soggetti, tenesse in maggior considerazione il clima psicologico caratterizzante i due delitti. Si è andata così rinforzando la tendenza, di cercare nei rapporti tra le volontà dei soggetti l’elemento più idoneo a differenziare i due delitti.
Al fine di meglio delineare il diverso disvalore che caratterizzerebbe il delitto di concussione viene argomentata la sua essenza in base al riferimento al c.d. metus publicae potestatis (sostengono il criterio del metus, Amato, A., Sulla distinzione tra corruzione e concussione, cit., 452; De Marsico, A., Sul valore dell'iniziativa, in Archivio Penale, 1948, 204; RONCO, Sulla differenza tra concussione e corruzione: note tra jus conditum . jus condendum, in Giust. Pen., II, 1998., 614 ss.; Cerquetti, G., Tutela penale della P.A. e tangenti, Napoli, 1996, 71; in giurisprudenza cfr. Cass., S.U., 27-11-1982, in Cass. pen., 1984, 260; Cass. pen., 13.1.2000, n. 2265, in Riv. pen.,, 2000, 712; Cass. pen., 13.10.2000, n. 44761; Cass. pen. 5.10.2010, n. 38650; Cass. pen., 18.10.2012, n. 4158). Si afferma così che mentre nella corruzione le parti agiscono in un piano di parità, così da dar vita ad un contratto illecito, nella concussione il privato è dominato dal metus in quanto il pubblico agente, attraverso l’abuso del suo potere o delle sue qualità, crea od insinua nel privato uno stato di soggezione psicologica, in tal modo costringendolo od inducendolo a soddisfare l’illecita pretesa.
Dunque, ciò che caratterizzerebbe, secondo tale impostazione, la corruzione sarebbe il cd. pactum sceleris, laddove, viceversa, la concussione si qualificherebbe per l’esistenza del metus.
Nonostante il successo incontrato, anche la cd. ‘teoria della volontà’ ed il suo sviluppo costituito dalla teoria del metus publicae potestatis, non sono andate esenti da critiche. Se da una parte si è obiettato che è inesatto parlare a proposito della concussione di metus dal momento che «quel che avviene all’interno della psiche del privato non può avere effetto sulla responsabilità del p.u.» (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, Parte speciale, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, X ed., 2008, 121), dall’altra, si è aggiunto, la situazione di soggezione del privato, oltre che ‘diabolicissima’, è del tutto irrilevante ai fini della connotazione della condizione di vittima della concussione sia della condotta illecita del p.a. (cfr. Spena, A., Il ‘turpe mercato’. Teoria e riforma dei delitti di corruzione pubblica, Milano, 2003, 404). Dove, tuttavia, si sono mosse le critiche più efficaci al criterio è con riferimento all’affermazione per cui, colpendo l’art. 317 c.p. anche la condotta del p.a. che si estrinseca nella induzione del privato (critiche che, ovviamente, assumeranno un ben diverso rilievo con la espunzione della condotta dall’attuale art. 317 c.p.), è ben possibile che si verifichi l’ipotesi in cui la vittima si determini alla prestazione indebita non per timore del p.a., ma esclusivamente per evitare danni maggiori o per evitare noie. E ancora. Quello del metus è un orientamento che estende oltremisura il reato in quanto, nella ipotesi dell’induzione, la difficoltà della sua riscontrabilità allorché inteso in termini così rigorosi ha indotto gran parte della dottrina ad intenderlo quale generica sottoposizione psicologica del concusso rispetto al soggetto attivo (Palombi, E., La concussione per induzione e lo stato di soggezione della vittima, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1984, 349).
L’ipotesi in cui si sono riscontrate le maggiori criticità del criterio è con riferimento al caso in cui i soggetti, pur non essendo su un piano paritario, tendono entrambi a trarre un vantaggio ai danni della p.a. Il riferimento è a quelle costellazioni di ipotesi in cui il pubblico agente minacci di compiere il proprio dovere per estorcere una prestazione indebita al privato. In tali casi, il privato non si determina alla ingiusta dazione o promessa perché la sua volontà è stata coartata o viziata dal p.a. a fronte della minaccia di un fatto ingiusto né quest’ultimo sfrutta le sua qualità o i suoi poteri per fuorviarne la libertà di scelta. Il privato si trova semplicemente a scegliere tra il dover subire le conseguenze connesse alla propria pregressa condotta illecita ed il retribuire il p.a. onde ottenere un ingiusto vantaggio. La volontà del privato è, in fin dei conti, libera nell’aderire ad una opzione che gli permette di subire il minor danno.
Per risolvere le ipotesi prospettate rispetto alle quali il criterio del metus palesa i suoi indubbi limiti, la dottrina ha elaborato la c.d. teoria ‘del vantaggio e del danno’ (l’impostazione viene comunemente fatta risalire ad illustri autori quali Antolisei, F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, cit., 788; Ondei, E., Attuali dispute sul reato di concussione, in Nuovo Diritto, 1947, 221). In tale nuova prospettiva, il criterio del metus, per le indubbie difficoltà sopra prospettate, viene ad essere integrato con tale nuovo criterio. Si afferma così che anche quando la posizione tra il funzionario ed il privato non può dirsi paritaria, sussiste corruzione e non concussione se il privato tende a conseguire un vantaggio ingiusto a danno della p.a., sia che questo vantaggio consista nell’evitare un giusto provvedimento per lui pregiudizievole, sia che si concreti nel conseguire un utile che non gli compete. In un tale caso, non è possibile parlare di concussione perché il privato non è una vittima del p.a., ma coopera con questo in una azione che lede gli interessi della p.a.
In forma «sintetica ed efficace» questo ultimo concetto è stato espresso dicendo che «nella concussione il privato certat de damno vitando, mentre nella corruzione certat de lucro captando» (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, cit., 307). Tale postulato ha condotto ad escludere la concussione e ad ammettere la corruzione ogni qual volta il timore del privato non nasca rispetto ad un atto ingiusto, bensì rispetto ad un atto legittimo, poiché, in tal caso, egli non sarebbe stato vittima dominato dal metus pubblicae potestatis ma soggetto attivo anch’egli operante ai danni della p.a.
Si comprende allora come la teoria del vantaggio, più che un criterio diretto ad evidenziare la diversa essenza esistente fra i due reati, miri essenzialmente ad enucleare un criterio di valutazione da adottare nelle ipotesi in cui la teoria della volontà si palesi insufficiente.
Se questo è il dibattito fino ad oggi, all’indomani della l. n. 190/2012 le cose sono in parte destinate, almeno in parte, a cambiare. Invero, facendo ricorso al criterio del metus nessuna questione potrà dirsi residuare nella distinzione fra concussione (vale a dire quella che nella formulazione attuale punisce la sola costrizione) e corruzione: solo nella prima ipotesi si assiste ad una posizione di vera e propria prevaricazione del p.u. sul privato, attuandosi una vera e propria intimidazione di quest’ultimo che, subendo la condotta abusiva dell’intraneus, si vede costretto a soddisfare le ingiuste richieste, salvo subirne le conseguenza. Nella corruzione invece il p.a. ed il privato agiscono su un piano paritario al fine di addivenire al mercimonio della pubblica funzione o del pubblico servizio. Dove invece i medesimi profili problematici sono destinati a riproporsi con le medesime criticità è nella distinzione fra induzione indebita ex art. 319 quater c.p. e corruzione, con l’ulteriore precisazione che in tutti i casi alla punibilità del p.a. si accompagna anche quella del privato.
Come in passato anche oggi il confine viene a collocarsi a seconda dell’ambito di significanza attribuito alla nozione di induzione. Nel momento in cui si accolga l’impostazione che legge nell’induzione, a differenza di quanto accade nella corruzione, una condotta a forma libera che si caratterizza per una pressione sul privato, per quanto blanda, ma che pur, tuttavia, non lo pone in un piano paritario con il p.a., l’ambito di rilevanza della corruzione viene ad essere limitato a tutte quelle ipotesi in cui il privato agisca alla pari con il p.a. e la mercificazione della funzione o del servizio non si manifesta come abuso dei poteri o delle qualità ma come semplice violazione del dovere di fedeltà e di probità (in tal senso, da ultimo, Benussi, C., I delitti contro la P.A., cit., 899) Laddove invece, come appare preferibile, stante la indubbia capacità selettiva del criterio, si aderisca all’orientamento che incentra l’induzione anche sulla giustizia/legittimità del danno minacciato, la distinzione fra corruzione e induzione indebita verrà a ricollegarsi all’adesione al criterio già analizzato del vantaggio e del danno. In questi termini, con il criterio del metus viene selezionata la sola condotta di concussione (per costrizione). Il criterio del vantaggio e del danno, lungi dal permettere di rilevare una corruzione, costituirà il criterio attraverso cui verranno selezionate le condotte induttive, che, caratterizzandosi come minaccia di un male giusto e, comunque, non contra ius, saranno rilevanti ex art. 319 quater c.p. Si inscriveranno infine nell’ambito della corruzione tutte quelle costellazione di casi in cui è da escludere ogni profilo di coartazione, pur minima, ed in cui il privato si trova ad agire sullo stesso piano del p.a., traendo per sé un vantaggio.
La dazione o la promessa sono le condotte realizzate dal soggetto passivo del reato a favore dello stesso p.u. o di un terzo, ricollegabili causalmente alla condotta abusiva dell’intraneus. Esse possono senz’altro qualificarsi come evento finale in senso proprio trattandosi di realtà naturalisticamente osservabile e causalmente ricollegabile alla condotta del soggetto attivo, che costituiscono, peraltro, il polo ultimo cui tende lo stesso p.a. nel momento in cui realizza la condotta abusiva. La dazione è il trasferimento di un bene dalla sfera di disponibilità del soggetto passivo a quella di altro soggettoe può manifestarsi anche attraverso la ritenzione. Essa è inoltre anche quella prestazione che può consistere in prestazioni, dichiarazioni od altro allorché abbia ad oggetto altre utilità non meglio individuabili materialmente.
La promessa consiste nell’impegno seriopreso dal soggetto passivo ad eseguire nel futuro una prestazione che sia realizzabile ed a favore di un destinatario. Essa può essere fatta in qualsiasi forma, direttamente o per interposta persona. Ai fini della consumazione del delitto non occorre che la promessa debba avere dei contorni definiti – cioè la precisione dell’oggetto invece richiesto come requisito di validità della obbligazione – riscontrandosi una promessa in senso proprio tutte le volte in cui il soggetto passivo si dichiari pronto a trasferire una qualche utilità o una qualche somma.
Oggetto materiale della dazione o della promessa del privato è il denaro o un’altra utilità. Va innanzitutto rilevato come il riferimento al denaro o ad altra utilità abbia indotto la dottrina a richiedere, quale requisito implicito nella struttura della fattispecie, il verificarsi di un danno anche non patrimoniale per il privato con conseguente non configurabilità del delitto in presenza di vantaggi talmente esigui da non risultare idonei ad integrare l’offesa tipizzata (con riferimento al previgente delitto di cui all’art. 317 c.p. v. Seminara, S., Sub art. 317, cit., 908). Di fronte, infatti, alla richiesta di esborsi irrisori appare davvero difficile la configurabilità di una vera e propria pressione psicologica da parte del concessore.
Per il dibattito che si è sviluppato in relazione alla interpretazione della nozione di utilità con riferimento al previgente art. 317 c.p. si veda la voce concussione 1. costrizione indebita a dare o promettere utilità.
La dazione o la promessa devono infine caratterizzarsi per l’ulteriore requisito del carattere indebito. Trattasi di un requisito di illiceità speciale che attribuisce alla norma un significato aggiuntivo ed ulteriormente selettivo facendo riferimento alla necessità che la prestazione che il privato effettua a seguito della condotta abusiva del p.a. non sia dovuta. Destinatario della prestazione del privato può essere tanto il soggetto attivo quanto un terzo diverso dagli attori in gioco. Terzo può essere considerato certamente un qualsiasi privato, un ente avente carattere privato o, anche, un altro pubblico funzionario, sia esso concorrente o semplice destinatario inconsapevole della prestazione. Discussa con riferimento al previgente art. 317 c.p. è la riconducibilità nella nozione di ‘terzo’ della p.a. – allorché si faccia però riferimento allo specifico ente cui appartiene il p.a., poiché, quando si tratti di ente cui il p.a. non appartiene non si pongono problemi particolari, trattandosi anche in questo caso di terzo in senso proprio. A ben vedere, non sussistono argomenti validi al fine di escludere anche in tali caso il disvalore specifico del delitto. Una volta che si è appurato, oltre alla sussistenza degli altri requisiti della norma, che la prestazione ha il carattere dell’indebito (nel senso che la stessa non è dovuta anche nei confronti della p.a.)non si comprende per quale motivo si debba ritenere non integrato il disvalore specifico del reato. Escludere in queste ipotesi, il delitto di concussione significherebbe frustrare quelle esigenze di democrazia e diritto che sempre devono improntare l’agire dello Stato nell’ottica dei principi sanciti dall’art. 98 Cost.
Sotto il profilo soggettivo, il delitto di induzione indebita non pone particolari problemi, richiedendo esso il dolo generico, nei termini della rappresentazione e della volizione da parte dell’agente di tutti gli elementi costitutivi del fatto. Il p.a. dovrà essere così consapevole del carattere abusivo della propria condotta e della sua efficacia induttiva nei confronti del privato, del carattere indebito della dazione o della promessa, dovrà essere infine consapevole di esercitare una pubblica funzione o un pubblico servizio. Trattandosi di reato a dolo generico l’elemento soggettivo potrà manifestarsi in tutte le sue forme, salvo, ovviamente, valutare la compatibilità di ognuna di esse con la particolare tipologia del reato in esame. Quello che conta è che la condotta del p.a. deve improntarsi per la direzione alla induzione altrui finalizzata all’ottenimento dell’indebito, con la conseguenza che non sarebbe individuabile un tale stato soggettivo qualora l’agire del p.a. si caratterizzi per le presenza di un dubbio sul carattere indebito di quanto richiesto o sulla natura della condotta osta in essere.
Il delitto si consuma nel momento in cui il privato effettua la promessa, laddove la successiva dazione diventa un post-factum irrilevante. La dazione individuerà il momento consumativo del reato solo allorché essa sia immediata e non sia preceduta da autonoma promessa. Va evidenziato come, con riferimento al previgente art. 317 c.p., non siano mancate prese di posizione diverse che, nel caso in cui alla promessa sia seguita la dazione, si assisterebbe ad un aggravamento del disvalore della fattispecie con conseguente spostamento del momento consumativo (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, Parte speciale, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 138; analogamente Cass. pen., 17.12.1996, in Riv. pen., 1997, 31). Venendo alla diversa questione del tentativo, va in questa sede evidenziato come l’attribuzione nell’economia della fattispecie alla promessa di un disvalore analogo a quello assunto dalla dazione ha determinato a sua volta l’anticipazione del momento consumativo del reato con la conseguenza che integra già di per sé l’ipotesi consumata la condotta abusiva del p.a. che induca il privato ad effettuare una promessa, a prescindere poi dalla percezione da parte sua della stessa. Allo stesso modo, nel caso in cui la promessa o la dazione avvengano a distanza, la semplice spedizione della somma richiesta comporterà la consumazione del reato a prescindere dalla ricezione della stessa proprio da parte del soggetto agente. L’ipotesi tentata sarà invece configurabile nel caso in cui il p.a., abbia realizzato, con abuso delle qualità o dei poteri, atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre taluno a dare o promettere denaro o altra utilità, indipendentemente dal realizzarsi in capo al privato di uno stato di soggezione.
Art. 319 quater, c.p.; Art. 317 c.p.; art. 1, co. 75, l. 6.11.2012, n. 190.
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