Condanna in appello e rinnovazione del dibattimento
La sentenza di appello che, riformando l’assoluzione di primo grado, condanna sulla base della rivalutazione delle medesime fonti probatorie costituisce quasi un ossimoro per il rito accusatorio. Il contributo che segue ricostruisce gli interventi su tale problematica della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ed i riflessi suscitati sulla giurisprudenza nazionale di legittimità.
Non occorre particolare fiuto rabdomantico per avvedersi che – nella stagnante inerzia (ed endemica debolezza) del legislatore nazionale – le autentiche riforme “di sistema” del rito penale − o, quantomeno, i suoi più significativi mutamenti − sono e saranno essenzialmente quelli cui ci “obbliga” la giurisprudenza di Strasburgo. È stato così per il processo in absentia come per l’ampliamento della nozione di contraddittorio; per la legalità della prova dichiarativa come per l’ispessimento dell’incidente probatorio; per la tutela dei “soggetti deboli” nella fase dell’indagine come per l’emendabilità del giudicato per “ingiustizia” del processo. È stato così, perfino, per le alternative alle condizioni non umane della detenzione carceraria. Sembra insomma che, senza la propulsione della C. eur. dir. uomo, il rito italiano sia condannato ad una stasi senza tempo: immoto, di fronte tanto ad appariscenti disarmonie di sistema, quanto a sue circoscritte disfunzioni. Logico, quindi, ritenere che anche per l’impianto delle impugnazioni ed, in particolare, per l’appello, si torni a pensare (sognare?) a Strasburgo come al motore immobile di possibili riforme: specie dopo che il fallimento di quella tentata autonomamente dal legislatore nazionale con la l. 20.2.2006, n. 46 (la cd. legge Pecorella) è stato certificato dagli interventi demolitivi del Giudice delle leggi, proprio sui punti qualificanti di tale novella. Speranza che si ha ben ragione di coltivare, per una serie di motivi, talora persino antitetici tra loro, ma tutti egualmente consistenti: perché i tre gradi “integrali” di giurisdizione costituiscono sfarzo estremo ed insostenibile per le risorse del rito penale; perché l’appello rappresenta, statisticamente, l’imbuto dell’attuale disciplina della prescrizione; perché, se è vero che la legge Pecorella mortificava irragionevolmente i poteri impugnatori dell’accusa, è altrettanto indubbio che un processo cartolare − che non è di mera legittimità, ma neppure conosce la scansione tra fase rescindente e rescissoria – evoca, per usare le parole del Giudice delle leggi, «tensioni interne al vigente ordinamento processuale, connesse al mantenimento di impugnazioni di tipo tradizionale nell’ambito di un processo a carattere tendenzialmente accusatorio». Problema, questo, acutamente avvertito nell’ipotesi di reformatio in peius da parte del giudice di appello: di modifica, cioè, in seguito ad impugnazione del p.m. di una pronuncia assolutoria di primo grado in sentenza di condanna. Matura, in questa ipotesi, l’istintivo timore che una condanna fondata sul rapporto solo “mediato” che il giudice dell’appello ha con le prove, integra – per usare ancora i sintagmi della Corte – «una situazione di diminuita garanzia in rapporto ai principi di oralità e immediatezza, ispiratori del processo penale nel modello accusatorio».
È noto che il Giudice delle leggi, più che escludere tale timore, lo ha sterilizzato ai fini della decisione dell’incidente di costituzionalità relativo alla legge Pecorella, sul rilievo che il rimedio all’eventuale deficit delle garanzie di una parte processuale va rinvenuto – in via preliminare – in soluzioni che escludano quel difetto, e non già in una eliminazione dei poteri della parte contrapposta, vale a dire dell’appello del p.m. Ma è altrettanto noto che il Giudice di Strasburgo ha prospettato proprio quella soluzione “che esclude il difetto” vagheggiata dalla Consulta, attraverso un filone giurisprudenziale che, anche nell’anno appena decorso, si è ingrossato e consolidato. Ad esso ed alle sue ricadute sulla più recente giurisprudenza di legittimità sono dedicate le considerazioni che seguono.
Contrariamente a quanto comunemente si ritiene, le (ormai famose) statuizioni contenute nella pronuncia della C. eur. dir. uomo, 5.7.2011 (n. 8999/07), Dan c. Moldavia – secondo cui: a) coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità; b) la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate; c) nel caso in cui, quindi, la corte d’appello, ribaltando l’assoluzione da parte del tribunale di primo grado, condanni l’imputato e gli infligga una pena, ciò non può avvenire, ai fini di equo processo, senza una diretta valutazione delle prove fornite dai testimoni dell’accusa – non costituiscono un inedito nella giurisprudenza di Strasburgo.
Già in precedenza, infatti, nella decisione Bricmont c. Belgio del 7.6.1989 (n. 10857/84) si era ritenuto «infringe[d]» il diritto garantito dal § 3 dell’art. 6 CEDU nell’ipotesi di mancata assunzione del teste nel giudizio di appello concluso con una reformatio dell’assoluzione di prime cure: ciò perché tale ipotesi – secondo la Corte – refluiva tra quelle «exceptional circumstances» che rendevano necessaria (e non solo discrezionale) l’escussione del teste in appello1. È poi nel § 55 della pronuncia Costantinescu c. Romania del 27.6.2000 (n. 28871/95), che la Corte afferma il principio in modo esplicito: vale a dire, che la corte d’appello la cui giurisdizione non è solo di legittimità, allorquando ribalta il giudizio di assoluzione di primo grado, non può omettere, per motivi di equità del processo, «l’apprezzamento diretto delle testimonianze» ed, in primo luogo, l’interrogatorio dello stesso imputato. Principio che sarà ribadito anche nel § 36 della pronuncia Sigurþór Arnarsson c. Islanda del 15.7.2003 (n. 44671/98) e soprattutto nella decisione Destrehem c. Francia del 18.5.2004 (n. 56651/00), il cui significativo § 45 stigmatizzava l’operato della corte d’appello che, in riforma dell’assoluzione di prime cure, «a fondé la condamnation du requérant sur une nouvelle interprétation de témoignages dont elle n’a pas entendu les auteurs», con violazione delle regole del giusto processo sotto il profilo del diritto di difesa. Non senza considerare l’ulteriore sentenza Danila c. Romania dell’8.3.2007 (n. 53897/00), dove ad essere censurato è – come si vedrà anche in altre pronunce – lo sconcertante potere cassatorio ed, insieme, decisorio dell’Alta Corte rumena, la quale sembra adusa a cassare i verdetti assolutori dei gradi precedenti e, senza reiterare l’istruttoria, a sostituirli con una condanna. Dunque, quella della sentenza Dan c. Moldavia non è affatto statuizione di novità − se è vero che il principio in essa affermato rimonta a diversi lustri precedenti − e, soprattutto, non è statuizione dirompente, se ad essa è applicata la corretta metodologia ermeneutica che si conviene alle pronunce di Strasburgo. Le quali – giova rammentarlo − recano una lettura delle norme della Convenzione «inevitabilmente funzionale alle peculiarità della fattispecie, in un gioco di reciproco condizionamento tra caso e legge, [che] è estremamente rischioso proiettar[e] fuori dal contesto, convertendola di fatto in una formula legislativa» (Ferrua, P., Il giusto processo, Bologna, 2012, 210). Ora, nel caso Dan, la peculiarità della fattispecie era ben evidente ed opportunamente rilevata dalla Corte di Strasburgo: l’unica e decisiva prova a carico era infatti la testimonianza della parte offesa asseritamente concussa («The Court notes that the main evidence against the applicant was the witness statements»), essendo il resto un insieme di prove indirette. Ma il teste d’accusa non era stato mai sentito nel contraddittorio; ci si era limitati a leggere la sua denuncia fatta alla Polizia (§ 12) ed il ricorrente lamentava appunto, presso la Corte di Strasburgo, che il giudice di seconda istanza lo avesse condannato senza esaminare la persona offesa, pur avendone egli rappresentato la non credibilità, per vari profili. È alla luce di tali specifiche circostanze di fatto che, nella pronuncia Dan, si afferma che, in linea di massima («in principle»), chi ha la responsabilità di decidere sulla colpa o sull’innocenza di un accusato, dovrebbe («ought»: dunque principio tendenziale e non precetto, che sarebbe espresso dal diverso «have to») avere la possibilità («to be able to») di ascoltare personalmente il testimone in persona e stabilire la sua credibilità («to hear witnesses in person and assess their trustworthiness»). Ciò soprattutto in ragione del più generale e fondante principio in tema di prova dichiarativa, a più riprese espresso dalla Corte di Strasburgo, secondo cui la prova “scritta” proveniente dalla fase delle indagini non può essere posta a fondamento della condanna – secondo la semantica della Corte europea – allorquando è prova esclusiva («solely») o determinante («mainly»), poiché, in tal caso, risulterebbe violata la norma di garanzia di cui all’art. 6, § 3, lett. d), CEDU (tra i numerosissimi precedenti, v., per quelli remoti, gli assai noti Saïdi c. Francia, 20.9.1993, §§ 43-44; Lucà c. Italia, 27.2.2001, § 40, e, per quelli più recenti, Al - Khawaja e Tahery c. Regno Unito, 15.12.2011, § 118 e Kostecki c. Polonia, 4.6.2013, §§ 59-62).
Questo, dunque, il quadro in cui si innesta il dictum rivolto al giudice di appello di “lavorare” su materiale dichiarativo direttamente apprezzato: ma è regola affermata in relazione a quei presupposti, perché da essi definita.
2.1 Gli ulteriori sviluppi della giurisprudenza della Corte europea
La (immeritata) fama della pronuncia Dan ha – paradossalmente – offuscato, nella riflessione dottrinale ed, in parte, in quella giurisprudenziale, gli ulteriori sviluppi (probabilmente più importanti) di tale tematica: a dimostrazione che anche il diritto non si sottrae alla modernità liquida delle mode, per dirla con Zygmunt Bauman.
Meno frastagliata quanto a presupposti – e, dunque, più apprezzabile per la fruibilità dei principi affermati – è infatti la decisione Manolachi c. Romania del 5.3.2013 (n. 36605/04), nella quale – a fronte di una species facti omologa (vale a dire: assoluzione, per un’imputazione di furto, in primo grado; condanna in appello, confermata dall’Alta Corte, senza riapertura dell’istruttoria dibattimentale, possibile, in quell’ordinamento, anche nel grado più alto) – la Corte europea ha rilevato come il ricorrente fosse stato condannato senza che né lui né i testimoni di accusa fossero interrogati in appello e nel successivo giudizio dinnanzi all’Alta Corte; rinnovazione – si badi – cui le due giurisdizioni di impugnazione non erano obbligate, ma che risultava ben possibile per entrambe considerata la natura fattuale dell’accertamento. Di più, l’opportunità di risentire i testi di accusa (e l’imputato) originava proprio – secondo la Corte – dalla circostanza che, nella specie, un’iniziale decisione di proscioglimento era stata sostituita con una di condanna «senza che i giudici disponessero di alcun nuovo dato probatorio»: ciò che collide con i principi del processo equo, «dans la mesure où les observations du juge en ce qui concerne le comportement et la crédibilité d’un témoin peuvent avoir des conséquences pour l’accusé». Violazione, dunque, dell’art. 6, § 1, CEDU: e ciò a prescindere dal rilievo governativo della mancanza di una richiesta dell’imputato di assunzione del proprio interrogatorio e dell’esame dei testi. In proposito, la sentenza Manolachi – che richiama sul punto l’importante precedente Gaitanaru v. Romania del 26.6.2012 (n. 26082/05)2 – afferma che tanto la corte d’appello quanto l’Alta Corte rumena avrebbero dovuto adottare d’ufficio le statuizioni istruttorie. Come dire che le regole del fair trial non si veicolano attraverso il principio dispositivo, ma sono, per certi aspetti, imperative e di esse è garante il giudice nazionale: a prescindere – sembra di capire – dall’espressa previsione di uno specifico potere officioso stabilito dal diritto nazionale.
Principi, questi, che vengono ulteriormente ribaditi (e, per molti aspetti, amplificati) nella quasi coeva Fleuraş c. Romania del 9.4.2013 (n. 17520/04). L’interesse per la pronuncia – che interviene in una fattispecie assai complessa, nella quale, in ragione di una modifica procedurale e di altri eventi processuali (tra cui un’eccezione di costituzionalità), alle due pronunce assolutorie maturate nell’aprile e nel settembre del 2003 era seguita, addirittura nel febbraio 2011, una pesante condanna per il ricorrente – è essenzialmente per taluni particolari argomenti difensivi prospettati dal Governo rumeno e per gli argomenti della loro confutazione da parte della Corte di Strasburgo. Nel corso del giudizio, infatti, era stato sollevato incidente di costituzionalità della norma del rito penale rumeno che consente alla giurisdizione di appello di pronunciare, per la prima volta, la condanna di un soggetto sulla base di prove raccolte unicamente dinnanzi alla giurisdizione inferiore. La Corte costituzionale rumena, con sentenza del 19 maggio 2009, aveva dichiarato infondata la questione, sul rilievo che fosse sempre possibile all’interessato la produzione in appello di prove utili e conducenti, ciò che rendeva dunque ammissibile (pare di intendere) la reinterpretazione di quelle assunte in primo grado. Su tale profilo – che manifesta appieno e senza equivoci il conflitto insanabile e radicale tra i dicta di una Corte costituzionale nazionale e quelli Corte di Strasburgo, con i poderosi problemi di ingegneria delle fonti che esso reca – la sentenza di Strasburgo, naturalmente tace: con un silenzio, peraltro, dalle ragioni assai intuibili. È invece puntuale ed assai affilata la risposta con cui i Giudici di Strasburgo confutano un duplice argomento difensivo del governo rumeno. Quest’ultimo, con non poco coraggio, aveva rivendicato (v. § 42) quale esclusiva attribuzione della giurisdizione nazionale la funzione di apprezzamento degli elementi probatori raccolti: soprattutto, di stabilire la pertinenza di quelli prospettati dagli accusati, rientrando in essa anche un potere di diversa valutazione della prova da parte della giurisdizione di impugnazione. Per altro verso (ma in logico sviluppo), si era sostenuto che nessuna norma del diritto nazionale stabiliva “un ordine di preferenza” tra le varie e successive dichiarazioni testimoniali in caso di contrasto tra esse, cosicché la corte d’appello, in ogni caso, ben avrebbe potuto fondare la propria decisione sulle prove legalmente raccolte, se ritenute dimostrative della colpevolezza del ricorrente. A tanto, la sentenza Fleuraş oppone, con altrettanta risolutezza, che se è indubbio il potere di apprezzamento probatorio (sotto il profilo, innanzitutto, della valutazione di pertinenza del mezzo richiesto), è altrettanto certo che «il ricorrente è stato riconosciuto colpevole sulla base di testimonianze che avevano fatto sufficientemente dubitare i primi giudici sul fondamento dell’accusa», al punto da poter motivare la sua assoluzione in due diversi gradi di giudizio. Come dire: ai sacri ma eterei principi si oppone il pessimo risultato della loro distorta applicazione.
La rassegna della giurisprudenza della Corte europea sul tema si chiude (per ora) con la pronuncia Hanu c. Romania del 4.6.2013 (n. 10890/04). Anche tale statuizione conferma, innanzitutto, il principio generale della oralità/immediatezza quale garanzia del giusto processo, posto che – si afferma – allorquando il giudice «competente per l’appello è chiamato a esaminare una causa sulle questioni di fatto e di diritto e a compiere una valutazione complessiva sulla colpevolezza o innocenza del ricorrente, non può, per il processo equo, determinare in modo corretto tali questioni senza una diretta valutazione delle testimonianze». Regola, questa, di stretta osservanza nell’ipotesi in cui il giudice di appello, basandosi unicamente sulle deposizioni rese in primo grado, ha annullato l’assoluzione dell’imputato: e ciò, peraltro, a prescindere da qualsiasi richiesta al riguardo avanzata dall’imputato. Merita attenzione la notazione (§ 36) dei Giudici di Strasburgo sui poteri dell’Alta Corte di cassazione rumena: si evidenzia come l’ambito dei poteri di tale organo giurisdizionale fosse pieno, risultando i procedimenti dinanzi ad esso «disciplinati dalle stesse norme di un processo sul merito, nel quale al tribunale fosse richiesto di esaminare sia i fatti di causa che le questioni di diritto». Come dire, un organo bifronte: con il potere «di emettere una nuova sentenza sul merito anche se esaminava un appello su questioni di diritto», come si legge in sentenza.
Cosa ricavare, quanto ai princìpi, dalla giurisprudenza della Corte europea sull’appello overturning? E come la giurisprudenza nazionale ha recepito tali princìpi?
Si impone una prima avvertenza. Oltre ad essere – come già detto – inevitabilmente funzionale alle peculiarità della fattispecie, la giurisprudenza di Strasburgo trova spesso la propria ragion d’essere, più che in essenze teoriche, in specifiche contingenze storiche. Nella materia che ci occupa, queste ultime sono costituite da un’anomala peculiarità del sistema rumeno (tale, perlomeno, fino alle modifiche del settembre 2006), il cui organo di vertice giurisdizionale risulta assommare funzioni di controllo di legittimità, con poteri di annullamento, e funzioni di merito, con poteri decisori diretti: con l’inaccettabile conseguenza che, all’azzeramento della pronuncia assolutoria, si può contestualmente accompagnare l’irrogazione di una condanna, che esaurisce anche i gradi della giurisdizione. L’imputato è così privato di ulteriori, possibili rimedi: la prima condanna è cioè anche quella definitiva3. Tutto ciò spiega la ricorrenza casistica delle condanne allo Stato rumeno: ma tranquillizza anche circa l’improbabile traslazione di tale giurisprudenza, in blocco, al rito penale italiano. Troppo ovvie le ragioni per rubare spazio con la loro esplicitazione.
Pure depurata dalla contingenza storica, tuttavia, la giurisprudenza della C. eur. dir. uomo sulla reformatio dell’assoluzione in appello esprime un indubbio principio di fedeltà al modulo accusatorio, che postula – salve limitate eccezioni – identità soggettiva tra organo che assume ed organo che valuta la prova e stretta consecuzione delle due operazioni. Esigenza, questa dell’oralità/immediatezza, tanto più intensa quanto più l’opposta metodologia “cartolare” conduca a valutazioni in peius della prova orale da altri amministrata. Tuttavia, il corto circuito non è di livello logico – come si vorrebbe ventilare affermando che lo stesso materiale che ha generato un’assoluzione, non può partorire anche il suo contrario – e neppure di ordine metodologico – per non essere concesso al giudice di apprezzare la comunicazione non verbale della testimonianza, che “vale” probatoriamente quanto e più delle parole riferite –: sono, queste, prospettive di una qualche veridicità, ma essenzialmente calibrate sul processo (e sulla cultura processuale) anglosassone. Dove il jury trial esige che i giurati (non obbligati alla motivazione) osservino l’aggrottare della fronte da parte del teste di fronte a una domanda o l’imperlato di sudore del suo viso su di una risposta, al fine di stabilirne la credibilità e di emettere un verdetto di colpevolezza o assoluzione privo di motivazione. Il corto circuito è invece più sottile e di tipo strutturale: chi deve motivare la colpevolezza sulla base delle prove assunte (come il giudice italiano), al contempo censurando la correttezza della loro esegesi del giudice di grado inferiore, lavora con grande difficoltà su di un testo cristallizzato. Salvo evidenti (quanto rari) travisamenti dei dicta dichiarativi, il giudice che si va convincendo (nulla è un lampo definitivo nello ius dicere …), anche attraverso la valutazione di quella testimonianza, della colpevolezza dell’imputato, ha necessità di una serie di verifiche fattuali, di riscontri, di incroci di circostanze storiche che solo un esame “rinnovato” del teste può fornirgli, perché è ben raro (possibile, ma casuale) che un testo già “ingabbiato” (non solo da un verbale, ma soprattutto) dal percorso mentale di chi lo ha formato possa, appunto, risultare esaustivo in tal senso.
È insomma assai difficile che, di fronte ad un risultato dichiarativo cartolare, il giudice d’appello possa trovare e percorrere tutti i sentieri dimostrativi ed argomentativi (il che significa: il riferimento a tutte le circostanze storiche necessarie, anche marginali) idonei a giungere ad una decisione diversa (e colpevolista), fondata unicamente sul quel contributo dichiarativo. Per questo, in tali casi, la motivazione sulla affermazione di responsabilità pronunciata per la prima volta in appello si traduce più in un confronto critico della valutazione effettuata dal giudice di prime cure che in un apprezzamento diretto del risultato probatorio. È insomma, una meta-valutazione, filtrata dalla confutazione: «la mediatezza dell’immediato», per usare un’espressione di Theodor Adorno.
3.1 La giurisprudenza di legittimità: il confronto con Strasburgo
Può ben affermarsi che la giurisprudenza di legittimità sia stata complessivamente sensibile a tale problematica, pur affrontandola quasi a prescindere dall’applicazione (e dal richiamo) alla giurisprudenza di Strasburgo. Mentre la teoria della cd. “motivazione rinforzata” nel caso di reformatio in pieus in appello (di cui si dirà immediatamente) temporalmente precede (o comunque ignora) il “soffio delle garanzie” della Corte sovranazionale, gli ultimi interventi di quest’ultima sembrano sottoposti dalla Cassazione italiana ad una seria e severa esegesi quanto ai presupposti di operatività, quasi a contenerne la portata.
Iniziando proprio da questi ultimi – perché maggiormente significativi per la tematica affrontata – va rilevato come innanzitutto la Corte di legittimità abbia considerato e cerchiato con attenzione l’àmbito delle possibili ricadute sul sistema nazionale della giurisprudenza di Strasburgo. Così, innanzitutto, la Corte di cassazione – con la pronuncia relativa ai fatti relativi all’irruzione nella scuola Diaz durante il G8 di Genova: Cass. pen., sez. V, 5.7.2012, n. 38085, Luperi ed altri, rv. 253541 – ha disatteso, ritenendola manifestamente infondata, l’eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 603 c.p.p. per contrasto all'art. 117 Cost. e all'art. 6 CEDU nella parte in cui non prevede la preventiva necessaria obbligatorietà della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per una nuova audizione dei testimoni già escussi in primo grado, nel caso in cui la corte di appello intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione dell'imputato. In motivazione, la Corte ha rilevato che l'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 5.7.2011, nel caso Dan c. Moldavia, impone di rinnovare l'istruttoria soltanto in presenza di due presupposti, assenti nell'ipotesi in trattazione, quali la decisività della prova testimoniale e la necessità di una rivalutazione da parte del giudice di appello dell'attendibilità dei testimoni.
Sotto un profilo finitimo, si è affermato che il giudice di appello, per riformare in peius la sentenza di assoluzione, non è obbligato – in base all’art. 6 CEDU, così come interpretato sempre nella sentenza Dan – alla rinnovazione delle prove dichiarative assunte in primo grado quando il diverso apprezzamento (e, con esso, la diversa decisione) cada sua altro risultato probatorio, ad esempio, le conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione (Cass. pen., sez. II, 17.5.2013, n. 29452, s.m.). È poi da escludere ogni necessità di rinnovazione secondo gli “obblighi” della Corte europea allorquando il diverso esito del giudizio di appello non è legato ad una diversa valutazione delle prove – poiché i fatti storici sono incontestati – ma ad una diversa valutazione giuridica dei fatti. Nondimeno, se tale distinzione è agevole, ad esempio, in tema di diversa qualificazione da parte del giudice di appello della natura di un atto (per un esempio riferito alla cartella clinica, v. Cass. pen., sez. V, 29.5.2013, dep. 11.9.2013, n. 37314, s.m.), essa è assai più complessa (e quasi inestricabile, in punto di logica) allorquando si postula l’invarianza della premessa storica «diversamente valutata dai giudici di merito»: cosicché il giudice di appello «lasciando sostanzialmente invariata la valutazione delle dichiarazioni testimoniali e prendendo atto delle innegabili ammissioni del D.B., ha conseguentemente lasciata inalterata la ricostruzione dei fatti compiuta dal primo giudice» (così, testualmente ed assai cripticamente, Cass. pen., sez. V, 22.3.2013 – dep. 25.7.2013, n. 32463, s.m.). In altre ipotesi, “lo schema” della sentenza della C. eur. dir. uomo (ancora una volta era stata invocata la pronuncia Dan) è stato ritenuto non applicabile alla fattispecie sul presupposto che il giudice di appello aveva sì «effettivamente rivalutato il materiale probatorio a sua disposizione», ma previa integrazione di materiale documentale, cosicché non si trattava «di pura e semplice rivalutazione delle dichiarazioni» della p.o. , ma «dell’apprezzamento di tali dichiarazioni alla luce degli ulteriori elementi trascurati dal primo giudice e valorizzati dal secondo» (v. Cass. pen., sez. V, 11.1.2013 – dep. 8.3.2013, n. 10965, s.m.). Analogamente, in altra pronuncia della sez. VI (Cass. pen., sez. VI, 26.2.2013, dep. 12.4.2013, Caboni, s.m), si afferma che il principio di diritto espresso nella sentenza Dan (analizzato bene e funditus nella pronuncia) non si applica allorquando entrambi i giudici di merito abbiano ritenuto attendibile la deposizione della p.o. (senza “divergenza” dunque tra i due giudizi), ma la condanna in appello è scaturita dalla diversa considerazione di taluni «elementi esterni di contrasto», ritenuti dal giudice di prime cure idonei ad contrastare la dichiarazione della p.o., a differenza di quanto ritenuto dal giudice di appello sulla scorta di una intercettazione ambientale non considerata nella prima decisione. In altri casi, infine, la soluzione appare ancor più radicale: non vi è spazio per i dicta della Corte europea poiché il giudice d'appello non ha compiuto una rivisitazione in senso peggiorativo delle prove già acquisite, ma ha fornito «una lettura corretta e logica degli elementi probatori palesemente travisati dal primo giudice» (Cass. pen., sez. IV, 6.12.2012, dep. 25.1.2013, n. 4100).
Ciascuna di queste traiettorie teoriche meriterebbe di essere seguita e classificata con identica misura di attenzione, ovviamente impossibile in questa sede. Nella quale, piuttosto, occorre dar conto di una sorta di “alternativa” a Strasburgo che, come detto, la giurisprudenza nazionale coltiva da tempo per l’identica ipotesi di condanna in appello a seguito di reformatio dell’assoluzione. Ci si riferisce a quell’indirizzo – cui si accennava in premessa – della cd. “motivazione rinforzata” cui il giudice di appello è obbligato in tal caso. Come si legge in una recente pronuncia del S.C. (Cass. pen., sez. VI, 10.7.2012, n. 46847, che richiama significativi precedenti della medesima sezione), il principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” presuppone che «in mancanza di elementi sopravvenuti, l'eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello … sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull'affermazione di colpevolezza». In breve, per riformare un’assoluzione non basta una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla lettura del primo giudice «occorrendo invece … una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio». Ciò perché, mentre la condanna «presuppone la certezza della colpevolezza, l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza» (in questi termini Cass. pen., sez. VI, 3.11.2011, n. 40159, Galante, rv. 251066; e, in senso conforme, tra molte Cass. pen., sez. VI, 26.10.2011, n. 4996 Abbate, rv. 251782).
Si tratta, probabilmente, degli inconsapevoli prolegomeni alla giurisprudenza di Strasburgo.
1 Nondimeno, il germe di tale pronuncia è già nel § 32 di Ekbatani c. Svezia del 26.5.1988.
2 Decisione in cui la Corte di Strasburgo – in un’ipotesi in cui l’Alta Corte di cassazione rumena, ribaltando le due pronunce assolutorie di merito, condanna (anche) per concussione il direttore del mercato pubblico di Focsani, senza interrogarlo e senza escutere nuovamente i testi – statuisce che l’Alta Corte ha fondato la condanna «su di una diversa interpretazione delle testimonianze, di cui essa non ha sentito gli autori», che avevano fatto dubitare i giudici di primo grado e di appello del fondamento dell’accusa, sì da emettere pronuncia assolutoria.
3 A ciò si aggiunga che, in quel sistema, l’art. 378 del codice di rito penale faculta espressamente il giudice di appello ad «un nuovo apprezzamento degli elementi di prova contenuti nel fascicolo».