Abstract
La voce fornisce un inquadramento della condanna in futuro all’interno della tutela di condanna e ne tenta una sistemazione di carattere generale, che superi le ipotesi tassativamente previste.
Quella della condanna in futuro è una categoria processuale non codificata; è fonte, così, di incertezze e divergenze interpretative, in dottrina ed in giurisprudenza, delle quali il punctum dolens è rappresentato dal dilemma tra corrispondenza esclusiva ad ipotesi tipizzate, o possibile elaborazione di una categoria generale, pur non disciplinata all’interno di una o più norme (non in tutti gli ordinamenti, il tema è privo di disciplina positiva; il codice di rito tedesco, per esempio, contiene ben tre norme a ciò dedicate: il § 257, di carattere generale, che consente di «promuovere un’azione di pagamento o di rilascio in futuro» a tutela di un credito pecuniario, o del rilascio di un bene immobile per uso non abitativo, allorché il termine di scadenza di essi sia stabilito per un giorno fisso; il successivo § 258 contempla espressamente l’azione di condanna in futuro in favore di prestazioni periodiche ed infine il § 259 consente la stessa azione, al di fuori dei casi disciplinati nelle norme precedenti, «quando le circostanze giustifichino il timore che il debitore si sottrarrà all’adempimento nei termini stabiliti»).
Essa appartiene certamente all’ambito della condanna, per cui l’attenzione deve essere inevitabilmente focalizzata su due profili: quello relativo al contenuto, in base al quale il giudice obbliga il soccombente a pagare una somma di denaro, o a dare/fare alcunché; quello dell’idoneità del provvedimento – il quale può anche non assumere la forma della sentenza – a costituire titolo per l’esecuzione forzata, in uno dei tipi previsti dal codice di rito.
I limiti della presente voce non consentono di ripercorrere l’iter seguito dalla migliore dottrina per giungere ad un’esegesi della condanna. È imprescindibile, tuttavia, il riferimento alla norma che esprime l’essenza di quella tutela e che consente, in certo qual modo, di darne una definizione: l’art. 2818 c.c., secondo il quale la relativa sentenza può disporre il pagamento di una somma di denaro, l’adempimento di altra obbligazione (senza ulteriore specificazione, quindi senz’altro riferibile anche al fare ed al non fare, o alla consegna), oppure il risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente (all’interno di questo inquadramento generale, è sicuramente chiarificatore il pensiero di Montesano, L., Condanna civile e tutela esecutiva, Napoli, 1965, 15 s., che attribuisce un ruolo centrale all’art. 2818 c.c. ed alle parole, ivi contenute, «condanna all’adempimento», le quali fanno ritenere all’interprete che si tratti di «uno strumento di difesa giurisdizionale diretto a far conseguire al creditore – indipendentemente dalla prestazione del debitore – il risultato proprio dell’adempimento stesso»). La norma citata, in realtà, disciplina l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale e sancisce che ogni sentenza che «porti condanna» nei sensi appena visti, è titolo per quella iscrizione; essa è chiara, quindi, sul contenuto di una sentenza di condanna, ma non si esprime sull’eventuale idoneità della stessa a fondare l’esecuzione forzata; così come non si esprime, in quel senso, l’art. 474 c.p.c., che pure rassegna proprio la disciplina dei titoli esecutivi, ponendo al primo posto le sentenze, delle quali, però, non precisa che debbano essere di condanna.
È lecito, tuttavia, osservare che l’idoneità ad essere titolo esecutivo è endemica alla sentenza di condanna, malgrado il non specifico disposto del citato art. 474 c.p.c.; nella misura in cui la stessa sia funzionale alla soddisfazione di un diritto di credito – specificabile nei modi descritti dallo stesso art. 2818 c.c. – è evidente che, ove non venga adempiuta spontaneamente da colui che risulti in essa obbligato, la soddisfazione di quel diritto dovrà avvenire coattivamente, nelle forme dell’esecuzione forzata.
Gli interpreti si sono a lungo dibattuti sul tema della cd. correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata, che rappresenta, mi pare, quasi l’esasperazione della soluzione sopra descritta, di per sé piana (la richiamata soluzione è stata espressa da Attardi, A., Diritto processuale civile, Padova, 1997, 100; Calamandrei, P., La condanna, in Opere giuridiche, V, Napoli, 1972, 493; in maniera più articolata, da Montesano, L., Condanna civile e tutela esecutiva, cit., 19 s., il quale precisa che la condanna assoggetta il debitore alla sanzione giurisdizionale satisfattiva, accertando i presupposti di quella sanzione e specialmente il credito insoddisfatto e da soddisfare, credito che subisce una «modificazione rafforzativa»; Mandrioli, C., Sulla correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata, in Riv. dir. proc., 1976, 1342 ss.).
Oggi quel dibattito appare superato. La sentenza di condanna è certamente titolo esecutivo, sia per il coattivo pagamento di somme di denaro, sia per la coattiva realizzazione di un facere (inteso in tutte le sue declinazioni) fungibile; non è indispensabile, pertanto, stabilire se sussista o non sussista il principio di correlazione necessaria sopra detto, e soprattutto se esso sia qualificante della tutela in esame; ciò che conta, è il dato di fatto rappresentato dalla sicura efficacia esecutiva della sentenza de qua.
Detta efficacia, peraltro, non viene meno allorché l’oggetto della condanna sia rappresentato da un facere infungibile o da un non facere. In tali casi, però, il titolo conduce verso forme indirette di realizzazione del diritto che, in anni recenti, hanno trovato generale consacrazione con l’entrata in vigore dell’art. 614 bis c.p.c. Oggi è inevitabile riconoscere che le macroaree dell’esecuzione forzata sono due, entrambe codificate: quella diretta – nelle forme corrispondenti all’espropriazione ed all’esecuzione in forma specifica di obbligazioni fungibili – e quella indiretta, consistente nella possibilità di far ricorso alla misura coercitiva generale di cui all’art. 614 bis c.p.c., ogni volta che oggetto della condanna sia rappresentato da un facere infungibile o da un non facere, ma anche da un facere fungibile, con esclusione del solo pagamento di somme (così dopo la riforma attuata con d.l. 27.6.2015, n. 83). Nel secondo ambito, pertanto, sono ricomprese – al di là dell’apertura recentemente disposta dal legislatore – tutte quelle situazioni di inadempimento spontaneo al dictum del giudice, non coercibili direttamente, quindi non surrogabili attraverso l’opera di un terzo, le quali, però, non si possono sottrarre al principio, quello sì insuperabile, di effettività della tutela giurisdizionale, per cui debbono essere ricondotte nei ranghi della coercizione indiretta, attraverso l’uso di un mezzo di pressione – economica, nella fattispecie – che induca il debitore ad adempiere, pena l’accollo di un onere ulteriore, quale il pagamento di una somma di denaro, destinata a crescere, in favore del creditore. Con la conseguenza, assolutamente di non secondario rilievo, che si è riusciti, così, a superare l’impasse provocata da quelle soluzioni interpretative in base alle quali è ipotizzabile che la prestazione del fare infungibile si converta, per poter essere soddisfatta in favore del creditore, in prestazione di denaro; soluzione non astrattamente impossibile, ma divenuta difficilmente accoglibile dopo l’entrata in vigore dell’art. 614 bis c.p.c. (opzione favorevole a quanto qui prospettato è quella di Capponi, B., Introduzione, in L’esecuzione processuale indiretta, a cura di B. Capponi, Padova, 2011, spec. 8 s.; ma anche quella di Luiso, F.P., Diritto processuale civile, III, Milano, 2013, 232 ss., secondo il quale il provvedimento con cui è disposta la misura coercitiva di cui all’art. 614 bis c.p.c. è «un provvedimento a contenuto processuale», pur se impartita dal giudice della cognizione, poiché trova la sua radice nel processo «in quanto non è configurabile un diritto sostanziale ad ottenere la misura coercitiva»; essa ha funzione esecutiva e consiste in un provvedimento di rito produttivo di un risultato che le parti non potrebbero conseguire per via negoziale; opzione contraria è, invece, quella prospettata, in maniera molto articolata, da Chizzini, A., Patrimonialità dell’obbligazione tra condanna ed esecuzione forzata, in Giusto proc. civ., 2009, 659 ss., secondo il quale, la misura coercitiva non rientra nell’esecuzione e la coercizione indiretta non è tutela esecutiva).
Il secondo profilo problematico e caratterizzante della condanna – come ho già accennato – inerisce più strettamente all’oggetto della tutela. È necessario sempre ripartire dall’art. 2818 c.c. che, come già sottolineato, fa riferimento al pagamento di somma di denaro, in adempimento di un’obbligazione – quindi debito di fonte contrattuale – oppure a titolo di risarcimento danni da liquidarsi successivamente, o all’adempimento di altra obbligazione, di tipo, evidentemente, diverso da quelle. L’interesse che muove il creditore in quella direzione risiede, puramente e semplicemente, nell’essere creditore e quindi nella legittima aspettativa di ricevere dal debitore la prestazione ivi descritta. In conseguenza, è tutela di condanna quella che consente al creditore la soddisfazione del suo diritto, il quale nasce, normalmente, nel momento in cui si realizza quella situazione di fatto che, di volta in volta, qualifica più esattamente il suo interesse ad agire: la scadenza del termine di pagamento di una certa somma, o di compimento di una certa attività (un fare o un dare), oppure la realizzazione di un fatto dannoso che fa sorgere automaticamente il diritto al risarcimento. Se il fatto, infine, è semplicemente causa di pericolo per il titolare del diritto, la condanna assumerà un contenuto complesso, innanzitutto inibitorio – per evitare che il pericolo si tramuti in danno – ma anche risarcitorio, allorché quella paventata evoluzione abbia già trovato almeno parziale realizzazione (per l’approfondimento di dette tematiche, rinvio a Basilico, G., La tutela civile preventiva, Milano, 2013, 67 ss., 109 ss.).
Tutto ciò realizza, a mio avviso, la differenza tra la tutela dichiarativa e quella di condanna. Essa ha riguardo innanzitutto all’oggetto dell’accertamento, che potremmo sintetizzare nell’illecito; nell’accertamento, cioè, di un comportamento contra ius tenuto dal convenuto e dell’incidenza che quello abbia avuto sulla sfera giuridica dell’attore, ma anche del diritto dell’attore ad ottenere, dalla controparte, quanto dovuto. Pertanto il quid pluris che la condanna presenta, rispetto al mero accertamento, ha riguardo innanzitutto alla sanzione di responsabilità del debitore in confronto del creditore, di talché il primo ne risulta obbligato a fare qualcosa (corrispondere denaro, od altro) in suo favore; solo secondariamente, ed in conseguenza, quel quid pluris è rappresentato dalla sanzione esecutiva, dalla capacità di essere titolo per la realizzazione coattiva dello stesso diritto, in mancanza di spontaneo adempimento.
Partendo da queste poche, generalissime nozioni sulla tutela di condanna, si può tentare di ricavare una prima definizione della condanna in futuro, che si cercherà successivamente di precisare.
Verosimilmente, ci troviamo di fronte ad una pronuncia giudiziale che non sancisce (non può) una situazione attuale di (inadempimento e quindi di) illecito, fonte di obbligo esigibile di una parte in favore dell’altra. Se quell’obbligo è completamente proiettato nel futuro, può significare solo che c’è, dal lato attivo, un diritto che il legislatore riconosce e tutela nel momento attuale, ma la realizzazione di quanto rappresenta la fonte dell’obbligo – non già dell’obbligo stesso – è differita ad un momento successivo (si chiede Fornaciari, M., La sentenza in futuro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 1318, se sia possibile l’accertamento di un diritto la cui fattispecie non si sia ancora completamente integrata).
Per intendere correttamente la ratio di tale intricata vicenda processuale, è necessario innanzitutto analizzare alcuni dei casi, tipizzati dalla legge, di condanna in futuro, per capire se essi debbono essere relegati nelle rispettive norme disciplinatrici, o se ne può parlare come di un istituto di portata generale.
I casi tipizzati, tradizionalmente noti, di condanna in futuro, non sono particolarmente numerosi, almeno quelli sui quali l’opinione, in tal senso, degli interpreti, risulti pressoché unanime.
I primi due, sui quali soffermare l’attenzione, sono disciplinati all’interno del codice di rito, nella parte dedicata ai processi sommari non cautelari tipizzati, in particolare a quelli destinati alla tutela dei rapporti derivanti da contratti di locazione di immobili, o di affitto di fondi rustici. Funzione essenziale della tutela, in entrambi i casi, è quella della risoluzione del contratto di locazione o di affitto, sia pure per motivi diversi, nell’uno e nell’altro caso.
Si tratta innanzitutto dell’art. 657 c.p.c. , rubricato «Intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione», in particolare del co. 1, a norma del quale il locatore o il concedente può intimare, al conduttore o all’affittuario, «licenza per finita locazione, prima della scadenza del contratto, con la contestuale citazione per la convalida»; ai sensi del successivo art. 663 c.p.c., «se l’intimato non comparisce, o comparendo non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto», apponendo, in calce alla citazione, la formula esecutiva.
La forma del provvedimento è quella dell’ordinanza, ma produttiva degli stessi effetti di una sentenza, quindi assoggettata agli ordinari mezzi di impugnazione e destinata al passaggio in giudicato (tra i classici, sull’argomento, Andrioli, V., Commento al codice di procedura civile, III, Napoli, 1957, 320 ss.; Satta, S., Commentario al codice di procedura civile, IV, Milano, 1965, 108 ss.; Fazzalari, E., Cosa giudicata e convalida di sfratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, 1304 ss., spec. 1328; Garbagnati, E., I procedimenti di ingiunzione e convalida di sfratto, Milano, 1979, 293; Rognoni, V., La condanna in futuro, Milano, 1958, 52 ss.; Proto Pisani, A., La tutela di condanna, in Id., Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 133 s.).
Molto vicina a quella appena descritta è la disciplina contenuta nell’art. 30 l. 27.7.1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani): l’ipotesi ivi contemplata presuppone l’intenzione, del locatore, di impedire la rinnovazione del contratto alla scadenza, per adibire l’immobile ad altro uso; egli deve, pertanto, effettuare comunicazione in tal senso al conduttore, specificando una data a sé utile per il rilascio, dopodiché, può convenire in giudizio lo stesso ai sensi dell’art. 447 bis c.p.c., sia dopo la naturale scadenza del contratto, sia dopo l’inutile decorso del termine che gli aveva indicato, sia, infine, prima di quella data; alla prima udienza, se il convenuto non si oppone, il giudice pronuncia ordinanza di convalida del rilascio, munita di efficacia esecutiva.
La seconda norma è l’art. 664, co. 1, c.p.c., intitolato «Pagamento dei canoni», a norma del quale «nel caso previsto dall’art. 658», che consente al locatore di intimare, al conduttore, lo sfratto secondo le modalità di cui all’articolo precedente – il già citato art. 657 c.p.c. – anche nel caso di mancato pagamento del canone di affitto alle scadenze, «il giudice adito pronuncia separato decreto di ingiunzione per l’ammontare dei canoni scaduti e da scadere fino all’esecuzione dello sfratto, e per le spese relative all’intimazione» (secondo alcuni, l’esecutività immediata ne consente l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, ma non il pignoramento immediato, senza la previa autorizzazione di cui all’art. 482 c.p.c.: così Andrioli, V., Commento, loc. cit.; Garbagnati, E., I procedimenti, cit., 324, nt. 116; contra, Satta, S., Commentario, loc. cit.).
Le norme appena segnalate sanciscono, secondo l’opinione tradizionale, due ipotesi di condanna in futuro: la prima disciplina una condanna ad un facere (consegnare), conseguente alla risoluzione – o meglio, alla cessazione ex art. 1596 c.c. – del contratto di locazione per scadenza dei termini in esso indicati; più precisamente, la sequenza consta di un atto sostanziale, l’intimazione della licenza, che corrisponde al preavviso di voler impedire la tacita rinnovazione del contratto, e della citazione per la convalida, atto di natura processuale, che condurrà all’ordinanza del giudice, contenente l’ordine di rilascio dell’immobile locato, in mancanza di comparizione o di opposizione dell’intimato (sulla natura dei due atti, cfr., in tal senso, Proto Pisani, A., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014, 563; contra, in posizione risolutamente negativa dell’afferenza, dei descritti istituti, alla condanna in futuro, Satta, S., Diritto processuale civile, Padova, 1973, 639, nt. 1, secondo il quale il procedimento speciale de quo, nelle diverse forme, ha solo la funzione di consentire al locatore di rientrare in possesso dell’immobile senza subire le more del processo di cognizione; si tratterebbe, dunque, di tutela della proprietà e non di condanna in futuro).
La seconda, delle norme menzionate, contiene, invece, una condanna, in forma ingiunzionale, al pagamento di somma di denaro, corrispondente a canoni di locazione dovuti dal conduttore.
Nessun dubbio sul fatto che siamo di fronte a due titoli esecutivi, per espressa precisazione del legislatore, il quale, anche nell’art. 664 c.p.c., dice che il decreto ingiuntivo è immediatamente esecutivo. L’art. 657, co. 1, c.p.c. precisa che l’intimazione della licenza viene effettuata «prima della scadenza del contratto»; siamo di fronte, pertanto, ad una domanda di condanna ad un facere, proposta prima dell’insorgenza dell’obbligo corrispondente, che si concretizzerà solo alla scadenza del termine.
L’art. 664, co. 1, c.p.c., invece, contiene la disciplina della pronuncia di un’ingiunzione di pagamento di somma di denaro, per canoni non solo scaduti, ma anche da scadere: è chiaro che prima della scadenza, non sussiste l’obbligo di pagamento da parte del conduttore, o meglio, sussiste in linea generale, in quanto contrattualmente assunto come corrispettivo della disponibilità dell’immobile, ma non sussiste ancora con particolare riferimento ai canoni non scaduti: si tratta di una prestazione da corrispondere con periodicità prestabilita e con indicazione di precise date di scadenza; l’obbligo di corrispondere ciascuna prestazione – e quindi ciascun canone – sorgerà ad ogni scadenza contrattualmente determinata.
Altri casi tassativi di condanna in futuro, pressoché unanimemente riconosciuti, si possono rintracciare nell’ambito delle relazioni familiari; le corrispondenti norme si trovano, pertanto, nel codice sostanziale.
La prima è l’art. 316 bis c.c. (introdotto con d.lgs. 28.12.2013, n. 154 e che ha sostituito l’art. 148 c.c.), il quale disciplina il concorso dei diversi soggetti obbligati al mantenimento e all’educazione della prole, a cominciare, naturalmente, dai genitori, per arrivare agli ascendenti, «in ordine di prossimità», allorché i genitori stessi non dispongano di adeguate risorse economiche. Individuato, in ogni singola fattispecie, il soggetto obbligato, nel caso di inadempimento, il tribunale può ordinare, con decreto emesso «su istanza di chiunque vi abbia interesse», che una quota dei redditi dell’obbligato «sia versata direttamente all’altro coniuge o a chi sopporta le spese per il mantenimento…» (secondo Cass., 16.10.1991, n. 10901, l’obbligazione di mantenimento dei figli tiene conto non solo dei redditi degli obbligati, in primis dei genitori, ma anche di ogni altra loro risorsa economica, a prescindere da un criterio automatico di determinazione; secondo Trib. Pistoia, 15.5.2012, in Foro it., 2012, I, 926, l’ordine di pagamento emesso dal presidente del tribunale, in caso di inadempimento rispetto all’obbligo di cui all’art. 148 c.c., può essere emanato anche in relazione alla richiesta di rimborso delle spese sostenute per il minore; per la dottrina, cfr. da ultimo, Trisorio Liuzzi, G., Centralità del giudicato al tramonto?, in Giusto proc. civ., Quaderni, 2016, 50 ss., che esamina funditus la natura del procedimento e l’efficacia del provvedimento che lo conclude).
Le peculiarità dell’istituto sono due: la prima ha riguardo alla sussistenza di una condanna in futuro, evidenziabile nel fatto che il giudice, di fronte ad (almeno) un inadempimento – trattandosi, ancora una volta, di un’obbligazione periodica – ordina la corresponsione, in favore della prole, di una quota dei redditi dell’obbligato, con periodicità e per il futuro, quasi a prevenire il verificarsi di ulteriori inadempimenti; la seconda ha riguardo, invece, alla realizzazione di un meccanismo, di natura processuale e con funzione satisfattiva, per il quale la quota di reddito dell’obbligato, che è oggetto della condanna, venga corrisposta direttamente, dal suo debitore (per es. il suo datore di lavoro), al soggetto che materialmente si occupa del mantenimento della prole (per es. l’altro coniuge): si tratta di un’ipotesi di cd. azione diretta, del creditore in confronto del debitor debitoris, cioè di colui che è, a sua volta, obbligato in favore del proprio debitore (per un caso concreto di azione diretta, cfr. Trib. min. Catania, decr. 23.5.2008, in Foro it., 2008, I, 3111, secondo il quale, in caso di inadempimento da parte del genitore onerato, può essere ordinato il versamento diretto del relativo importo dell’assegno, da parte del terzo tenuto a corrispondere periodicamente somme di denaro al genitore in questione; ritiene, invece, che la lettera della legge consenta la condanna del coniuge inadempiente e, contemporaneamente, la possibilità di riferirla al terzo debitor debitoris, Salvaneschi, L., In tema di legittimazione passiva nel procedimento ex art. 148 c.c., in Riv. dir. proc., 1988, 830 ss., la quale conclude nel senso che quella norma consente di «esperire due azioni di condanna tra loro in rapporto di concorso oggettivo proprio, caratterizzato dalla diversità dei soggetti passivi»).
Sempre in materia di relazioni familiari, è rilevante, ai nostri fini, l’art. 156, co. 6, c.c., relativo ai rapporti patrimoniali tra coniugi separati, secondo il quale, in caso di inadempienza, da parte di quello obbligato a corrispondere il “mantenimento” all’altro coniuge, il giudice può, su richiesta dell’avente diritto, disporre sequestro di (parte dei) beni del coniuge obbligato e ordinare, ai terzi obbligati nei suoi confronti, di corrispondere una parte delle somme dovute, direttamente all’altro. Anche qui, come nel caso precedente, il profilo della condanna in futuro è associato a quello dell’azione diretta in confronto del debitor debitoris. Il quid pluris, rispetto alla precedente è rappresentato dalla previsione di un sequestro (conservativo) sui beni del coniuge obbligato, sostanzialmente irrilevante ai fini dell’analisi della previsione tassativa di condanna in futuro; è uno strumento ulteriore che il legislatore mette a disposizione del coniuge creditore, laddove si dovesse riscontrare anche il rischio di futuro inadempimento, da parte dell’altro, rafforzato dalla sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, che giustifichino la pronuncia cautelare ai sensi dell’art. 671 c.p.c.
Una situazione molto vicina a quella appena descritta, è disciplinata dall’art. 8, co. 3-4, l. 1.12.1970 n. 898, sullo scioglimento del matrimonio, secondo il quale, di fronte all’inadempimento del coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno periodico, l’altro coniuge può, ottenuto dal giudice il provvedimento che definisce la misura dell’assegno stesso – si tratta della sentenza di scioglimento degli effetti civili – notificarlo a colui che risulti periodicamente obbligato nei confronti dell’inadempiente, per ottenere il versamento diretto del denaro in proprio favore; ove il debitor debitoris risultasse inadempiente, «il coniuge creditore ha azione diretta esecutiva nei suoi confronti». Siamo, qui, di fronte ad una fattispecie che non è, a mio avviso, di vera e propria condanna in futuro; non lo è dal punto di vista formale, perché l’avente diritto non propone domanda giudiziale in quel senso, bensì notifica stragiudizialmente un atto, ancorché trattasi di un provvedimento giurisdizionale, o di un stralcio di esso: il giudizio si è, infatti, concluso con l’emanazione della sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio e la stessa notifica è preceduta dalla costituzione in mora dell’obbligato, per mezzo di lettera raccomandata. Dal punto di vista funzionale, tuttavia, ci avviciniamo molto ad essa, poiché, dalla lettura dell’art. 8, co. 4, l. cit. si evince chiaramente che il risultato prodotto da quella stragiudiziale attività consiste nella formazione di un titolo esecutivo – di dubbia collocazione nei ranghi di quelli giudiziali o stragiudiziali, con propensione per i primi, almeno quanto alla provenienza – azionabile direttamente nei confronti del terzo, obbligato in favore del debitore. Quindi la vera azione diretta, qui, è quella esecutiva.
Altra ipotesi che, pur con qualche incertezza, si può avvicinare alle prime sin qui esaminate, è quella disciplinata dall’art. 18, co. 4, l. 20.5.1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori - st. lav.), nella versione attualmente in vigore, dopo la riforma attuata con l. 28.6.2012, n. 92.
In esso si prevede che, con la sentenza che dichiara l’inefficacia o la nullità del licenziamento e ordina la reintegra del lavoratore, il giudice condanni il datore di lavoro alla corresponsione, in favore del lavoratore, di un’indennità a titolo di risarcimento danni, «commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione». Dalla segnalata lettura, emerge la possibilità di una duplice considerazione della condanna al pagamento di somme, cui si è fatto, fin qui, riferimento: essa rappresenta innanzitutto condanna all’adempimento del contratto di lavoro e da taluno è stata considerata uno strumento di pressione, finalizzato ad indurre il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, il più presto possibile; è strutturata, di fatto, come una misura coercitiva – essendo esclusa, qui, l’applicazione dell’art. 614 bis c.p.c. – attraverso la quale è imposto il pagamento di una somma per ogni giorno trascorso, fino al reintegro, che si aggiunge a quanto dovuto dal giorno del licenziamento a quello della sentenza di illegittimità dello stesso. Accanto alla suddetta funzione, che essa, di fatto, svolge, è rinvenibile anche quella di condanna in futuro, avendo riguardo ad una corresponsione di denaro proiettata verso un tempo non preventivamente calcolato né calcolabile, essendo rimesso alla decisione dell’obbligato; ma mi sembra una funzione secondaria, rispetto all’altra dianzi enunciata (vede la disposizione dell’art. 18 st. lav., riferita nel testo, proprio come una misura coercitiva, ma anche come un’ipotesi tipica di condanna in futuro, Proto Pisani, A., La tutela di condanna, cit., 139; più di recente, Dalfino, D., Le novità per il processo civile del 2009 e il rito del lavoro, in www.judicium.it, 2010, § 11).
È peculiare, infine, la riconduzione della previsione contenuta nell’art. 28 st. lav. ai canoni della condanna in futuro. Dalla lettera della citata norma si evince chiaramente la funzione inibitoria del comportamento antisindacale del datore di lavoro, svolta dal decreto con il quale il giudice ne ordina la cessazione, oltre alla rimozione degli effetti sanzionata da una contestuale previsione di condanna ad un facere. Secondo una parte della giurisprudenza, l’ordine di cessazione manifesta una chiara proiezione futura ogni volta che le manifestazioni del comportamento antisindacale siano reiterate o quel contegno sia persistente nel tempo, concretandosi, così, in una condanna in futuro (in tal senso Pret. Busto Arsizio, 11.9.1994, in D. & L., 1998, 74; Pret. Nola, sez. Pomigliano d’Arco, 12.1.1999, ivi, 1999, 511). La soluzione mi sembra condivisibile, in ragione della duplice funzione riconoscibile al decreto: repressiva – «tendente ad eliminare gli effetti della violazione già compiuta» – e preventiva – «diretta ad ottenere l’adempimento spontaneo (e futuro), da parte del datore di lavoro, degli obblighi di fare o non fare» in esso contenuti (così Proto Pisani, A., Lezioni, cit., 575).
Dall’esame di quelle che rappresentano, in qualche modo, figure condivise di condanna in futuro si evince un dato importantissimo, ancorché non assolutamente uniforme: la tutela de qua, proiettata in un tempo a venire, è somministrata dopo il verificarsi di almeno un episodio di inadempimento. Il che significa che ci troviamo di fronte ad un rapporto obbligatorio – indifferentemente ex contractu o ex delicto – con prestazioni continuate o periodiche, all’interno del quale si è verificato almeno un episodio di inadempimento, da parte dell’obbligato, che legittima il creditore a domandare un provvedimento di condanna, il quale gli fornisca un titolo esecutivo spendibile non appena si renderà necessario; a sanzione, cioè, di ulteriori inadempimenti.
A questa situazione fanno eccezione: il disposto del citato art. 657 c.p.c., che non contempla l’avvenuto inadempimento, ma, come ho già precisato sopra, la domanda giudiziale si accompagna (è contestuale) all’intimazione della licenza, atto stragiudiziale, con la quale si dà atto al conduttore che, alla scadenza, non si intende rinnovare il contratto di locazione; di talché il conduttore, formalmente preavvertito, oltre che chiamato in giudizio, potrebbe sottrarsi a quest’ultimo provvedendo al rilascio dell’immobile entro il termine di scadenza del contratto; se non lo fa, poiché il diritto del locatore, a quel termine, è sicuramente maturato, la fase processuale della convalida servirà proprio a munirlo del titolo esecutivo per il rilascio coattivo dello stesso. Ma anche la previsione di cui all’art. 18, co. 4, st. lav., poiché il diritto all’indennità risarcitoria è maturato, per il lavoratore, nel momento stesso del licenziamento illegittimo: si tratta solo di calcolarne il quantum, conteggiando i giorni fino all’effettiva reintegrazione ed in ottemperanza a quanto stabilito dallo stesso co. 4 in esame.
Nei casi appena descritti non siamo di fronte ad una vera e propria condanna in futuro poiché, pur venendo in considerazione una prestazione che si realizzerà in futuro, il diritto sottostante del destinatario di essa è, in entrambi i casi, già maturato; si tratta solo di predisporre materialmente, in giudizio, il titolo esecutivo, che sarà, così, immediatamente spendibile per iniziare l’esecuzione forzata che, nel primo caso, è per rilascio, nel secondo caso, è per espropriazione.
Qualche altra riflessione esige il tema delle obbligazioni tutelabili attraverso lo strumento della condanna in futuro.
Proprio partendo dalle ipotesi tassative brevemente descritte, si evidenzia immediatamente che è sanzionabile in futurum l’obbligazione di pagamento di una somma di denaro, continuata o periodica; la prestazione dovuta, cioè, deve protrarsi per un certo periodo di tempo o comunque essere corrisposta, periodicamente, per un certo tempo: esempio del primo tipo, può essere un contratto di somministrazione, ma innanzitutto gli obblighi di mantenimento ed alimentari.
In conseguenza, se ci troviamo di fronte ad una prestazione destinata a realizzarsi uno actu, non c’è spazio per la tutela di condanna fin qui esaminata; allorché si verifichi l’inadempimento, si farà luogo ad una condanna ordinaria, che munirà il creditore di un titolo esecutivo nei confronti dell’inadempiente.
L’ambito sostanziale di applicazione della condanna speciale in esame, è rappresentato, quindi, dalle prestazioni durature, continuate o periodiche, che comunque non si esauriscano in un’unica attività, positiva o negativa che sia. Ambito che, almeno in parte, coincide con quello degli obblighi negativi di fare o delle inibitorie, tanto che, da una parte degli interpreti, si tende ad una trattazione uniforme dei due istituti.
In realtà, dal punto di vista sostanziale, l’ambito di applicazione delle inibitorie è senz’altro più limitato, rispetto alla condanna in futuro, avendo riguardo esclusivamente alla violazione di obblighi di non facere e quindi alla cessazione dell’attività illecita, così posta in essere, ed all’interdizione della ripetizione o continuazione della stessa, per il futuro.
Quello, invece, della condanna in futuro, come ho già evidenziato e come emerge con chiarezza dalle ipotesi tassative esaminate, è sicuramente più ampio, con riguardo alle situazioni soggettive così tutelabili, purché si tratti, però, ancora una volta di rapporti, e quindi situazioni, di durata.
È preferibile parlare di rapporti di durata, piuttosto che di contratti di durata; quello che si sviluppa nel tempo, infatti è il rapporto giuridico, generalmente sinallagmatico, che trova la sua fonte in un contratto, ma potrebbe trovarla anche nella legge, come nel caso della prestazione alimentare o di mantenimento (è fondamentale, sul tema dei rapporti di durata, il contributo di Oppo, G., I contratti di durata, in Riv. dir. comm., 1943, 200 ss., spec. §§ 1-6; nel § 24, l’autore chiarisce che gli effetti della risoluzione del rapporto di durata sono irretroattivi, in particolare quando essa avvenga per inadempimento di una delle parti (art. 1458 c.c.): «la risoluzione o lo scioglimento trova l’interesse contrattuale già soddisfatto e l’obbligazione già adempiuta per il tempo trascorso e non può che rispettare gli effetti economici e giuridici già prodotti dal contratto»; sulla scia di Oppo, si esprime Caponi, R., L’efficacia del giudicato nel tempo, Milano 1991, 88 ss.; Id., In tema di limiti temporali del giudicato civile sulle situazioni soggettive che proteggono un interesse durevole nel tempo, in Foro it., 1998, I, 1193 ss., in nota a Cass., S.U., 7.11.1997, n. 10933; nello stesso senso, Cass., 16.8.2004, n.15931, e Cass., sez. lav., 11.11.2003, n. 16959).
Il tema di un’eventuale condanna in futuro, in tale contesto, si affianca a quello di altre soluzioni, essenzialmente di tipo rimediale, predisposte dall’ordinamento; essa avrà ad oggetto quegli adempimenti cui il creditore avrebbe diritto, ma che non sono stati effettuati spontaneamente dall’obbligato. In molti casi, in conseguenza del comportamento inadempiente della controparte, l’ordinamento non mette a disposizione dell’avente diritto solo lo strumento dell’azione di condanna, generale o speciale, a seconda dei casi; ma predispone anche strumenti di carattere rimediale – in primis la risoluzione del contratto per inadempimento – evidentemente effettuando implicita valutazione di preminenza di quell’interesse, in capo al creditore, piuttosto che dell’interesse alla realizzazione coattiva di quanto gli è dovuto.
La ratio, quindi, della condanna in futuro, va cercata, ancora una volta, nell’identificazione della situazione, di fatto, che ha generato l’esigenza di tutela, addirittura proiettata cronologicamente in avanti, la quale non potrà che riguardare il contegno tenuto dalla controparte obbligata e quindi, lato sensu, l’interesse ad agire.
La nozione di interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c. si incardina su un significato piuttosto uniforme che, per le azioni (di condanna) a tutela di un diritto di credito, fa riferimento al contegno inadempiente dell’obbligato. Occorre, però, subito precisare che la situazione tipicamente generatrice dell’interesse ad agire in condanna ordinaria (irrilevante perché si confonde con il merito), non può essere la stessa generatrice dell’interesse ad agire in condanna in futuro.
Ci troviamo sempre nel contesto di un rapporto giuridico di durata. In conseguenza, se si verifica, una tantum, l’inadempimento di una delle prestazioni periodiche, o di una parte di quella continuativa, il creditore avrà diritto di ottenerla, nelle semplici vie ordinarie, anche coattive; il problema potrebbe sorgere, o di fronte alla ripetitività degli inadempimenti perpetrati, o, comunque, di fronte ad un atteggiamento dell’obbligato, espresso o tacito, che faccia chiaramente presupporre che quegli episodi verranno reiterati o, addirittura, che la situazione diverrà permanente: qui si inserisce la condanna in futuro; questa è la situazione che realizza la sussistenza dell’interesse ad agire in condanna in futuro, da parte del creditore minacciato di inadempimento. È ovvio, altresì, che, nei casi tipizzati di condanna in futuro, la ricerca dell’interesse ad agire è superflua, essendo esso preventivamente ed implicitamente individuato dal legislatore.
Alla situazione di parziale inadempimento appena descritta, si può senz’altro equiparare una situazione di pericolo o di prevedibilità dell’inadempimento, ancorché non preceduta da esso, ma generata comunque dal contegno dell’obbligato, il quale, anche in modo non dichiarato, abbia determinato le condizioni per quel tipo di previsione (la soluzione espressa nel testo è condivisa da Rognoni, V., La condanna in futuro, cit., 114 s.; per maggiore approfondimento della tematica in esame, v. Basilico, G., La tutela, cit., 14 ss., 67 ss.).
In ogni caso, nella disciplina di questo tipo di tutela, il legislatore mi pare prescinda dalla considerazione del danno. La tutela anticipata che esso consente al creditore, in previsione dell’inadempimento, tiene conto solo di quello, non delle eventuali conseguenze; si tratta di casi, pertanto, in cui, ai fini della tutela, rileva l’illecito, generalmente potenziale, ma non il danno, probabilmente ad esso conseguente. Il fondamento della suddetta azione, pertanto, si rinviene nel timore dell’inadempimento dell’obbligato, derivante da un comportamento tale da far legittimamente ritenere che la sua volontà spinga in quella direzione.
Dopo aver affrontato il tema dei presupposti della condanna in futuro ed averne, così, verificato anche la legittimità, occorre soffermarsi sulla funzione che essa svolge nel sistema e sull’efficacia concreta della tutela che realizza, in favore della parte che l’abbia domandata.
Sempre ripartendo dall’analisi dei casi tassativamente disciplinati, risulta evidente che la funzione del provvedimento in esame è quella di fornire, all’avente diritto, un titolo esecutivo.
Ma la tutela di condanna non è solo sanzione esecutiva, in quanto essa porta con sé, almeno se data nelle forme cognitive ordinarie, l’accertamento dell’esistenza di una certa situazione giuridica, nonché della sua violazione; per cui la sanzione esecutiva è necessariamente un posterius rispetto a quel complesso accertamento (rinvio, qui, alle considerazioni fatte da Caponi, R., L’efficacia del giudicato, cit., 88 ss.).
La condanna in futuro, invece, basandosi su di un’ipotesi prospettica, sul timore, cioè, che una certa violazione si realizzi, non si incardina esattamente sullo stesso presupposto della condanna ordinaria, né porta con sé lo stesso accertamento. Essa, pertanto, è sicuramente un minus rispetto a quella ordinaria, pur potendo assumere la forma, ordinaria, della sentenza. Non lo è, in particolare, dal punto di vista strettamente funzionale, in quanto lo scopo primario della stessa è rappresentato proprio dalla precostituzione di un titolo esecutivo, in favore dell’avente diritto attore, anticipato rispetto al momento della sua utilizzazione, che corrisponderà o succederà a quello in cui la paventata violazione si sia effettivamente realizzata.
L’idea sulla quale essa si fonda è senz’altro affine a quella che sorregge la tutela cautelare: ottenere un titolo esecutivo (ancorché la misura cautelare non possa esattamente definirsi tale, ma il profilo, qui, è funzionale), anticipatamente rispetto all’inadempimento, o, più in generale, alla violazione del diritto ad opera della controparte; entrambe, cioè, mirano alla protezione del diritto del creditore rispetto al tempo occorrente per l’ottenimento di una sentenza di condanna ordinaria: la misura cautelare opera attraverso l’emissione di un provvedimento provvisorio, esecutivo, destinato, anche se non necessariamente, a confluire in una sentenza di merito di cui avrà anticipato o assicurato gli effetti; in sede di condanna in futuro, invece, il giudice emette un provvedimento esecutivo ma non necessariamente provvisorio, la cui efficacia, però, è differita al momento in cui si realizzerà la condizione presupposta, rappresentata dall’inadempimento dell’obbligato; l’avente diritto disporrà, a quel momento, del titolo esecutivo, senza necessità di doverlo ricreare, attraverso un processo di cognizione (Caponi, R., In tema di limiti temporali, cit., 1163, parla chiaramente di «effetto futuro», che «non esiste attualmente», la cui affermazione non può essere oggetto di accertamento giudiziale attuale).
Essa non è, pertanto, una vera e propria tutela cautelare, ma le è comunque, in senso funzionale, molto vicina; non è una tutela anticipatoria in senso proprio, in quanto non anticipa l’efficacia esecutiva di un provvedimento finale, ma si esaurisce con la produzione di una propria efficacia esecutiva; è una tutela certamente preventiva della futura commissione di un illecito, esattamente individuabile in un inadempimento, dotata di funzione esecutiva e satisfattiva.
Non mi resta, a questo punto, che fare poche considerazioni su quello che è il problema più dibattuto della condanna in futuro: la sua corrispondenza a sole ipotesi tassativamente previste, o la possibilità di considerarla un istituto di carattere generale, configurabile ben oltre quelle ipotesi (quanto alle opinioni della dottrina, essa è per lo più sostenitrice della soluzione restrittiva, quella della tassatività di tale forma di tutela: Attardi, A., Diritto processuale civile, cit., 98; Andrioli, V., Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 341 s.; Lanfranchi, L., Note sull’interesse ad agire, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 1140 ss.; è quanto sembra emergere, più di recente, anche dalle considerazioni di Motto, A., Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 471 ss., testo e note; tra gli autori favorevoli al riconoscimento della condanna in futuro come tutela di carattere generale, si segnalano innanzitutto Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, rist., Napoli, 1960, 166 s., che dà atto dell’inesistenza di una norma corrispondente, ma condivide quella dottrina che deduce quel carattere generale, in particolare dalla riflessione sull’interesse ad agire; Calamandrei, P., Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, 16, dove, però, il problema non è affrontato in modo diretto; Montesano, L., Condanna civile, cit., spec. 188 ss., opinione confermata anche in Id., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, spec. §§ 80 e 81; quanto alla giurisprudenza, senz’altro in favore della tipicità è Cass., 31.5.2005, n. 11603, secondo la quale l’ordinanza di cui all’art. 664, co. 1, c.p.c. è ipotesi specifica di condanna in futuro «di carattere tipico e di natura eccezionale», a tutela del creditore prima ancora che si verifichi l’inadempimento; ma anche Cass., 9.6.2004, n. 10970, che ha escluso la possibilità di richiedere condanna in futuro in relazione alla domanda di restituzione di indebite maggiorazioni del canone di locazione, ritenendo inestensibile analogicamente il disposto dell’art. 664, co. 1, c.p.c.).
Tendenzialmente, sono favorevole alla seconda opzione, pur sulla base di non semplici motivazioni.
Ricorda Montesano (La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 204) che le regole generali sulla responsabilità patrimoniale impongono al debitore di comportarsi in modo tale da non indebolire le probabilità di soddisfazione del creditore, «fornite dal suo patrimonio all’atto della nascita dell’obbligazione»; si tratta, peraltro, di un dovere distinto da quello in base al quale egli è tenuto alla prestazione.
Credo che questo passaggio realizzi le fondamenta di qualsivoglia costruzione della condanna in futuro. Esiste un principio generale di correttezza nello svolgimento delle relazioni giuridiche, che nel senso più ampio, corrisponde a quel criterio di neminem laedere, di cui si è fatta portavoce una parte della dottrina civilistica tradizionale: i principi che governano la responsabilità patrimoniale riferiscono il dovere di non laedere, in particolare, a quello, dei soggetti di una relazione giuridica, che è obbligato ad una prestazione in confronto dell’altro, imponendogli di comportarsi in modo tale da non pregiudicare l’esercizio del proprio diritto ad opera della controparte e la conseguente soddisfazione dello stesso (Pugliatti, S., Alterum non laedere, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 98 ss.).
Nulla osta a ritenere, pertanto, che, pur se non si sia ancora realizzata la violazione del diritto, ma il soggetto astrattamente legittimato a porla in essere si comporti in modo tale da renderla probabile, e quindi da creare uno stato di pericolo di quella violazione, non si possa negare che il titolare del diritto debba avere tutela nei suoi confronti. Maiori causa, questo ragionamento può essere fatto a fronte di violazioni già perpetrate, che facciano più fondatamente prevedere la loro reiterazione (Cass., sez. lav., 5.6.2000, n. 7487 chiarisce che il giudice può condannare anche per il futuro – l’obbligo a monte è quello contributivo – solo se del rapporto obbligatorio si siano realizzati tutti i presupposti e sussista l’interesse della parte alla relativa pronuncia), in particolare nell’ambito dei rapporti obbligatori e di durata – cui le ipotesi tassative di condanna in futuro si riferiscono – allorché l’inadempimento dell’obbligato si sia in parte già verificato, oppure lo stesso abbia creato le condizioni perché si verifichi, mettendo, così, ancora una volta in pericolo il tutelando diritto di controparte: si tratta, in particolare, di un pericolo di futuro (magari ulteriore) inadempimento.
Come ho già precisato, dal punto di vista funzionale la condanna in futuro realizza la predisposizione anticipata, rispetto all’inadempimento od all’ulteriore inadempimento, di un titolo esecutivo. Ad una concezione atipica dell’istituto, potrebbe, a questo punto, ostare la previsione, contenuta nell’art. 474 c.p.c., in base alla quale il titolo esecutivo è tale se il diritto sottostante sia certo, liquido ed esigibile: qui si può pensare che faccia difetto il requisito della certezza – perché parliamo di un credito (futuro) che ancora non si è formato – forse anche quello dell’esigibilità, poiché l’inadempimento, condicio sine qua non per la spendita del titolo esecutivo, non si è ancora verificato. Ma anche un’obiezione di tal fatta è superabile: la certezza del diritto sottostante non corrisponde al previo accertamento giudiziale di esso, altrimenti si dovrebbe riconoscere la qualità di titolo esecutivo solo alle sentenze di condanna passate in giudicato e questo neanche sarebbe sufficiente per garantire l’attualità dell’inadempimento al momento dell’inizio della procedura esecutiva (Proto Pisani, A., La tutela di condanna, cit., 136, afferma che il titolo esecutivo «non offre mai la certezza in ordine all’attualità dell’inadempimento», ma solo «una certa qual certezza» sull’esistenza del credito). Quanto all’esigibilità (titolo non sottoposto a termine o condizione sospensiva), essa deve essere riferita non già al momento della formazione del titolo, quanto a quello della spendita di esso e quindi dell’esecuzione forzata: il titolo, pertanto, è dotato di un’efficacia differita al momento in cui il termine sarà scaduto o la condizione si sarà verificata (così Luiso, F.P., Diritto, cit., 23; Proto Pisani, A., Lezioni, cit., 695; tra gli autori che, di recente, hanno fatto opzione per una nozione generale di condanna in futuro, ancorché sulla base della necessaria sussistenza dell’interesse ad agire, Fornaciari, M., La sentenza in futuro, cit., 1340).
Artt. 156, co. 4, 316 bis e 2818 c.c.; art. 664, co. 1, c.p.c.; art. 28 l. 20.5.1970, n. 300.
Basilico, G., La tutela civile preventiva, Milano, 2013; Caponi, R., L’efficacia del giudicato nel tempo, Milano, 1991; Fornaciari, M., La sentenza in futuro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 1318 ss.; Montesano, L., Condanna civile e tutela esecutiva, Napoli, 1956; Proto Pisani, A., La tutela di condanna, in Id., Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 133 ss.; Rognoni, V., La condanna in futuro, Milano, 1958.