Abstract
La voce analizza le scelte compiute dal legislatore del codice civile per proteggere l’aderente alle condizioni generali di contratto, che – per la loro predisposizione unilaterale e per l’uniformità del contenuto – determinano situazioni di squilibrio normativo a suo svantaggio, soffermandosi in particolare sul primo comma dell’art. 1341 c.c.
La disciplina è considerata anche nei suoi rapporti con la normativa sui contratti dei consumatori, che ha fornito al ‘contraente debole’ una tutela più soddisfacente di quella, solo formale, offerta dalla norma su citata e dall’art. 1342 c.c., allo scopo di trarre da essa indicazioni per una soluzione, sistematicamente coerente, di alcuni nodi interpretativi non ancora compiutamente risolti. Vengono infine segnalate le principali questioni applicative derivanti dall’uso massivo della contrattazione per adesione nel contesto telematico.
L’espressione «condizioni generali di contratto», contenuta nella rubrica dell’art. 1341 c.c., anche se priva di una sua propria definizione, traduce sul piano normativo il fenomeno della ‘standardizzazione’ del contratto, ed in particolare il connesso profilo della predisposizione unilaterale del testo contrattuale. Questo fenomeno incarna il passaggio dall’economia ottocentesca fondata sugli scambi individuali ad un più maturo assetto incentrato sull’offerta generalizzata di servizi e, prima ancora, sulla realizzazione in serie di beni, con la conseguente immissione sul mercato di prodotti di largo consumo. Ciò ha suscitato l’esigenza, intrinsecamente funzionale all’interesse delle imprese, specie di grandi dimensioni, di semplificare la stipulazione dei contratti tramite la predisposizione di un contenuto identico per tutti i destinatari (le condizioni sono, appunto, generali) e destinato a valere per una pluralità di futuri contratti.
Proprio questi presupposti – il contenuto uniforme e la sua valenza ‘moltiplicata’ – si elevano a elementi costitutivi della disciplina dettata in merito dal codice civile. In particolare, la conclusione di siffatto tipo di contratti non necessita più delle trattative, posto che il regolamento di interessi non può essere discusso dal destinatario (consumatore, cliente, utente), che deve solo aderire o meno allo schema (da qui la nota espressione ‘contratti per adesione’), risultando questo non negoziabile».
Spiccata è la lontananza dal prototipo ideale di contratto accolto nel codice, frutto di una piena estrinsecazione della volontà delle parti e nitida è la compressione dell’autonomia contrattuale del contraente non predisponente, che mantiene una libertà solo formale di negoziare.
Il legislatore del ’42 risolse i dubbi già sorti tra gli studiosi in merito alla validità di questa forma di contrattazione che cominciava a diffondersi nella prassi disciplinando, con lungimiranza tra i codificatori europei, il fenomeno della ‘contrattazione di massa’. Nonostante i già riscontrati abusi perpetrati nella pratica dei contratti per adesione, la relazione al Codice dichiarava di volere privilegiare la sollecita conclusione degli affari – condizione di acceleramento del sistema produttivo e dunque di sviluppo commerciale delle imprese – sacrificando consapevolmente ad essa la libertà di trattativa. Questo ha dato luogo ad una normativa, condensata negli artt. 1341 e 1342 - cui va correlato, sul versante dell’interpretazione, l’art. 1370 – che mira a garantire la razionalità degli scambi tra contraenti ‘senza aggettivi’. Dietro l’assenza di un’esplicita connotazione soggettiva delle parti del contratto, la stessa relazione al Codice individuava comunque un soggetto – quello predisponente le condizioni – ben determinato (per l’appunto l’imprenditore), mentre imprecisata rimaneva l’identificazione dell’altro contraente, che il legislatore dell’epoca certo non avrebbe potuto connotare nei più moderni termini di consumatore ma che travasava in un contenitore capace di racchiudere persone fisiche, professionisti, imprenditori individuali, come pure imprese collettive, specie piccole e medie e enti non profit, personificati o meno.
Per contenere la soggezione del ‘cliente’ alla ‘mercé dell’imprenditore’ conseguente all’uso di schemi prestabiliti di contratto, il legislatore ha optato per una strategia difensiva ancorata a presupposti differenti, affidata ai due commi dell’art. 1341, accomunati dall’intento di sollecitare la consapevolezza dell’aderente, evitandogli l’’effetto sorpresa’ di rimanere vincolato a condizioni ignote o non puntualmente considerate.
Il primo intende assicurare al contraente aderente almeno la possibilità di conoscere il contenuto delle condizioni generali di contratto cui lo stesso si vincola, ponendo un duplice onere di comportamento: in capo al predisponente, da assolvere sul piano informativo anche attraverso il rinvio a accessibili condizioni esterne (regolamenti a stampa affissi nei locali dell’impresa, biglietti, depliants, cataloghi ecc.); a carico dell’aderente, cui è richiesto – diversamente dalla stipulazione di un contratto non predisposto – di attivarsi, impiegando la normale diligenza, per pervenire a conoscenza di tali condizioni (ma le condizioni vincolerebbero l’aderente anche se la loro conoscenza fosse del tutto fortuita).
Il secondo impone uno specifico onere di forma, tradotto nella sottoscrizione delle condizioni generali che – anche quando inserite in un modulo o formulario (arg. ex art. 1342, co. 2) – costituiscono clausole cd. vessatorie (infra, § 5) e soddisfatto da ciò che verrà ben presto definito il ‘rito’ della doppia firma.
La formazione consapevole del consenso cede dunque il passo alla semplice possibilità di conoscere le condizioni generali del contratto e alla effettiva conoscenza delle clausole più impegnative per il contraente, che dovrebbe essere garantita dalla loro approvazione per iscritto. In difetto di tale conoscenza – ‘virtuale’ nel primo caso, ‘qualificata’ nel secondo – il contratto non è invalido, ma si priva delle clausole non colpevolmente ignorate e di quelle specificamente non approvate, che «non hanno effetto» per il contraente aderente.
Neppure la preveggenza del legislatore dell’epoca avrebbe potuto immaginare l’ambito di rilevanza che il fenomeno ha progressivamente assunto, dilagando in tutti i principali settori della contrattazione, tanto che difficilmente utenti e consumatori possono accedere a beni e a servizi al di fuori dell’adesione a clausole contenute in prospetti, avvisi o formulari. Dopo avere conformato le relazioni giuridiche dell’era industriale, la contrattazione standardizzata ha continuato a plasmare le relazioni giuridiche dell’epoca post-industriale, contrassegnando anche verticalmente i rapporti contrattuali. Lo schema contrattuale può infatti essere predisposto da chi non è l’effettivo contraente ma rimane terzo rispetto alle parti. È, questo, quanto accade, ad esempio, allorché le condizioni contrattuali vengono approntate dalla grande impresa o dalla casa madre e utilizzate nelle rivendite, ovvero vengono predisposte da associazioni di categoria e impiegate dalle imprese aderenti, o, ancora, imposte da organizzazioni sovranazionali a compagnie nazionali e da queste ai proponenti finali, come accade nel trasporto aereo (Cass., 10.7.2013, n. 17080).
La rete dei contratti per adesione lega dunque imprese a imprese e imprese a utenti e consumatori finali, anche se qualcosa sfugge alle sue maglie. Pacifico è il diniego di applicazione dell’art. 1341 c.c. ai contratti predisposti per uso individuale (Cass., 14.2.2006, n. 318), ed altrettanto – si ritiene generalmente – per le clausole d’uso, che s’intendono inserite nel contratto per integrazione legale, che purtuttavia non possono vincolare l’aderente se vessatorie e non sottoscritte. Oscillante si rivela invece la giurisprudenza in ordine all’impiego di tale norma dinanzi ai rapporti contrattuali della P.A., dei quali viene ancora messa in discussione la loro riconduzione ai contratti ‘in serie’ (Cass., 10.7.2013, n. 17073). Tutto ciò giustifica l’intensa attenzione che la dottrina ha dedicato al tema, ravvisando nella soluzione dei molteplici problemi posti dalle norme uno dei profili di maggiore rilevanza nel moderno diritto dei contratti (Morello, U., Condizioni generali di contratto, in Dig. Civ., III, Torino, 1988, 336) e uno dei passaggi obbligati sulla riflessione riguardante la portata attuale del concetto di autonomia privata.
Questa considerazione, che è durata per oltre mezzo secolo, ha scandito varie ‘stagioni’.
In estrema sintesi, la prima è stata quella della verifica della compatibilità delle nuove norme con la formazione del consenso, specie qualora le condizioni generali si fossero presentate come esterne al testo dell’accordo, che ha fatto sorgere dubbi sulla stessa qualificazione di questi ‘sedicenti contratti’ in termini di veri e propri accordi giuridicamente vincolanti. Le spinte all’allontanamento dal contesto contrattuale hanno fatto leva, in estrema sintesi, sull’attribuzione alle condizioni generali e unilaterali di un carattere normativo nonché sul richiamo al principio dell’autoresponsabilità che sostituirebbe la volontà, ma, alla fine, non sono state atte a scalfire la riconduzione del fenomeno nella dimensione contrattuale, che la stessa scelta del legislatore del ’42 ha confermato.
Voci meno lontane hanno posto questo tipo di contrattazione al centro di un noto dibattito sulla sussistenza di ‘scambi senza accordo’ – non a caso vivacizzato dalla diffusione della contrattazione automatica e telematica – nel quale si sono nuovamente contrapposti l’orientamento che evidenzia l’oggettivizzazione dello scambio e quello che riporta lo scenario nel solco della tradizione consensualistica del contratto. In questo contesto, il proprium delle condizioni generali di contratto è stato ravvisato nella loro configurazione di speciale procedimento di formazione dell’accordo.
In coincidenza con una fase di grande fermento normativo e di notevole vivacità dottrinale, gli anni Settanta hanno inaugurato la stagione del controllo sociale dell’autonomia privata, solcata da voci decisamente critiche verso le timide scelte di protezione operate dal legislatore e il suo silenzio – che perdura inspiegabilmente ad oggi, secondo i più – dinanzi a sollecitazioni per una più efficace tutela dell’aderente. L’acquisita consapevolezza degli indiscutibili abusi prodotti dall’imposizione di condizioni generali, con la relativa conclusione di contratti iniqui, si è posta a fondamento delle numerose proposte che, da diversi versanti, hanno ipotizzato nuovi modelli di decisione per i giudici o per il legislatore, volti a superare la sostanziale diseguaglianza tra il predisponente – contraente ‘forte’ in quanto economicamente più solido – e il contraente aderente, ‘debole’ perché incapace di modificare a suo favore il regolamento contrattuale e di dettare condizioni.
La contrattazione standardizzata o di massa è infatti imparziale ma diseguale e la conoscenza, ridotta alla sua mera potenzialità, come pure l’adempimento formale della sottoscrizione, non rappresentano una effettiva difesa per chi subisce l’imposizione delle clausole, specie quando manchino alternative di mercato.
Nella discussione teorica dell’epoca, consapevole e matura, si rinvengono tutti i tratti salienti delle problematiche che attraversano l’attuale riflessione sul contratto: la necessità di un controllo giudiziale delle condizioni basato su principi che stabiliscono limiti all’autonomia privata; il ruolo svolto, nel contemperamento tra la libertà di iniziativa economica e l’esigenza di ‘giustizia’ del regolamento contrattuale, da regole quali la buona fede, da criteri come l’equità o l’ordine pubblico o, ancora, dagli stessi limiti costituzionalmente previsti alla libertà di iniziativa economica (cfr., per una testimonianza, i materiali raccolti da Alpa, G., e Bessone, M., I contratti standard nel diritto interno e comunitario, Torino, 1991, 31 ss.).
Questa impostazione si è incentrata sulla tutela del contraente debole, spostando anche l’accento sul contenuto delle condizioni imposte all’approvazione dell’aderente. Proprio l’ottica sostanziale con la quale in questo modo si è guardato al problema ha successivamente generato, quale frutto significativo, quello della disaggregazione del fenomeno: si è avvertito cioè che il problema della protezione dell’aderente si configura in termini diseguali a seconda delle sue caratteristiche e di quelle del mercato di riferimento, constatando che la disciplina delle condizioni generali di contratto non è deputata a tutelare sempre e comunque il contraente più debole, ma evidenziando altresì, quando il contraente è effettivamente più debole, tutta l’inadeguatezza da essa mostrata.
La predisposizione di condizioni generali di contratto si rivela, ad un’analisi più disincantata, un fattore organizzativo proprio dell’agire imprenditoriale e gli artt. 1341 e 1342, specie se confrontati con la sopraggiunta legislazione ‘consumeristica’, si elevano a primo momento di regolamentazione dei rapporti contrattuali di mercato (Roppo, V., Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2011, 848) atto a configurare un’embrionale – benché insoddisfacente – disciplina della problematica dell’asimmetria contrattuale.
Dopo questa accurata riflessione, la considerazione più attuale dell’art. 1341 ritiene la norma deputata a definire, più che uno ‘speciale’ procedimento di formazione dell’accordo, che – equiparando la conoscenza alla conoscibilità – prescinde dalla volontà dell’aderente, un particolare modo di formazione del regolamento contrattuale. Il decretato scollamento tra la fase formativa dell’accordo e il contenuto sostanziale dello stesso ha portato a ritenere che le condizioni generali possano formare oggetto dei noti schemi procedimentali di formazione del contratto, identificabili ad esempio – e indifferentemente – in una proposta a contrarre, in un’offerta al pubblico, nell’inizio dell’esecuzione (e occorre aggiungere che il proponente resta tale, anche se abbia rivolto alla controparte un invito a offrire, con il conseguente, ma solo formale, rovesciamento di ruoli: Cass., 22.5.1986, n. 3407).
In tale accezione la norma si lega semmai, con gli opportuni distinguo, a quelle che la precedono – gli artt. 1339 e 1340 – in quanto diretta ad inserire nel testo contrattuale questa volta regole anche estranee alla proposta o al testo contrattuale, delle quali si abbia avuto almeno la possibilità di conoscenza (Bargelli, E., Sub art. 1341 c.c., in Navarretta, E.-Orestano, A., a cura di, Commentario al codice civile. Dei contratti in generale, Milano, 2011, 548).
Se il contratto può perfezionarsi anche se il contraente aderente non ne abbia conosciuto il contenuto, per propria colpa, non è tanto questione di un contratto senza accordo, quanto di un contratto senza possibile accordo sul contenuto.
L’avvento della normativa di matrice europea che considera la posizione del principale destinatario delle condizioni generali di contratto, ossia il consumatore, ha mutato non poco i termini del dibattito, cui ha contribuito anche l’accresciuto controllo in settori regolamentati, come il risparmio e gli investimenti.
Quello che era stato invano chiesto al legislatore italiano – un intervento di effettiva protezione del contraente debole – riesce all’Europa, che impone una valutazione di merito delle clausole non oggetto di trattativa individuale quando quel contraente si qualifichi come consumatore.
Il primo problema che in merito si è posto ha riguardato il raccordo tra gli artt. 1341 e 1342 e le nuove norme contenute negli artt. 1469 bis e ss., poi divenuti artt. 33 e ss. c. cons., che si sono innestati nel fenomeno della contrattazione per condizioni generali. Presto accantonata l’ipotesi di un’implicita abrogazione delle prime disposizioni, pur da taluno prospettata, le due discipline – quando il contratto per adesione vede contrapporsi un professionista e un consumatore – si considerano applicabili congiuntamente e non alternativamente.
Ne deriva che la clausola contrattuale, prima di essere assoggettata al giudizio sostanziale di abusività proprio degli artt. 33 e ss., deve essere stata conoscibile, mentre la sua specifica sottoscrizione ai sensi dell’art. 1341, co. 2, per la diversità di ratio tra i due gruppi di norme, non potrà valere a superare la presunzione di vessatorietà posta dall’art. 33 c. cons. La coesistenza delle discipline è peraltro tracciata dall’ultimo comma dell’art. 34 per ciò che riguarda i contratti conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, anche se la norma si sofferma sulla specificazione del soggetto (il professionista) sul quale grava l’onere di provare lo svolgimento di una concreta trattativa.
Altro profilo connesso al raccordo tra le norme del codice civile e la disciplina a tutela dei consumatori concerne la possibilità di qualificare la predisposizione di condizioni generali di contratto come pratica commerciale sleale. Recenti sviluppi giurisprudenziali europei inducono a fornire una risposta positiva al riguardo, condivisa dalla dottrina che finora si è occupata del tema, finanche in ordine allo stesso utilizzo di clausole vessatorie perché tali da indurre il consumatore-cliente a compiere le scelte di carattere commerciale sulla base di un contesto falsato dei suoi diritti e dei suoi obblighi.
In prospettiva più generale, l’ulteriore angolo di osservazione impone una considerazione della norma alla stregua del dibattito in corso sul tema della giustizia contrattuale: questo, non perché l’art. 1341 c.c. potrebbe costituire uno strumento all’uopo impiegabile, tant’è che se ne auspica tuttora una riforma, sulla scia del modello tedesco, quanto in quello – esattamente opposto – dell’influenza sulla disciplina del codice del ’42 della normativa posta nel codice del consumo, che ha ormai perso le stimmate di lex specialis.
La più recente disciplina rafforza gli obblighi di trasparenza, rende più incisivo l’onere della conoscibilità, specifica il significato della trattativa atta ad escludere l’operatività dell’art. 1341, pone in termini diversi dal passato il significato dell’inefficacia che attraversa i due commi della norma.
I primi due profili erano già giunti a soluzioni pienamente convincenti: l’opinione diffusa aveva dipanato l’onere di informazione – definito correttamente «complesso» (Roppo, V., Il contratto, cit. 850) – nella conoscibilità, nella accessibilità e nella trasparenza del testo contrattuale. Da tempo questo onere, pur di modesto effetto, non era più considerato assolto dalla mera pubblicazione delle condizioni ma dalla pubblicazione di condizioni comprensibili. La comprensibilità della clausola, nella quale si traduce il principio della trasparenza, si collega alla tematica delle cd. clausole di sorpresa, posto che il contraente non potrà dirsi vincolato da condizioni, che (per il loro contenuto incomprensibile, ad esempio perché eccessivamente tecnico), anche se pubblicizzate, non possono dirsi effettivamente da lui conosciute prima della conclusione del contratto. Con questo si era già introdotto, all’interno di una norma tutta votata alla forma, un presupposto sostanziale, esteso persino a considerare impropria la tecnica di redazione delle clausole quando queste si presentano sotto forma di esortazione e consiglio, e non già di divieto, così da non rendere edotto il contraente dell’esatto confine dei propri obblighi e delle conseguenze della loro violazione.
Assente nella contrattazione per adesione, la trattativa è l’elemento al quale è affidato il superamento della presunzione di abusività delle clausole vessatorie ex art. 34, co. 4, c. cons. Il suo carattere di specificità può essere invocato anche per delimitare con più nitore del passato il campo di esclusione dell’art. 1341. Con ciò, deve ritenersi che il contratto, per non essere qualificato per adesione, dovrà essere il frutto di una effettiva trattativa tra le parti, a nulla valendo, ad esempio, la lettura alle parti del testo contrattuale effettuata dal notaio o la dichiarazione obbligatoriamente richiesta alle stesse, sempre dal notaio, che l’atto è conforme alla loro volontà (Maggiolo, M., Il contratto predisposto, Padova, 1996, 148).
Il rimedio dell’inefficacia, che unifica l’impossibilità della conoscenza e la mancanza di sottoscrizione delle clausole vessatorie, è stato a lungo altalenante tra la veste della nullità, cui per vero l’ha costantemente ricondotto la giurisprudenza, e una sua autonoma considerazione, volta ad espungere la sola clausola dal regolamento contrattuale, attraverso il richiamo alla sua irrilevanza oppure alla sua inopponibilità o inefficacia relativa, che attribuirebbero solo al contraente aderente la veste di legittimato all’azione. La definitiva configurazione della nullità di protezione introdotta dalla disciplina dei contratti del consumatore spinge la dottrina che più recentemente si è occupata del tema a ricondurre l’inefficacia dell’art. 1341 c.c. al paradigma della nullità a legittimazione limitata, nel convincimento che il nostro ordinamento ormai annoveri varie ‘forme’ della nullità.
Il maggiore potere contrattuale del predisponente si traduce nell’inevitabile confezionamento del testo contrattuale a suo favore. Su tale presupposto, il legislatore ha dettato un elenco di clausole la cui efficacia è subordinata non solo alla possibilità di conoscenza dell’aderente ma alla necessità di una specifica sottoscrizione.
Queste clausole, che la dottrina e la giurisprudenza chiamano vessatorie, aggravano la posizione dell’aderente rispetto a quanto contenuto nella disciplina legale del contratto o perché prevedono a suo carico obblighi o soggezioni (come la restrizione alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi) o perché favoriscono il predisponente (stabilendo, ad esempio, limitazioni della sua responsabilità).
È opinione condivisa che i due commi della norma in commento abbiano una diversa portata applicativa. L’art. 1342, a dispetto del suo tenore letterale, si considera infatti applicabile anche ad operazioni contrattuali individuali e non di massa. Di conseguenza, per effetto del richiamo operato dall’art. 1342 c.c., il co. 2 dell’art. 1341 risulta guadagnare un raggio di azione più ampio, estendendosi anche a questo tipo di contratti.
I due commi sono stati sostanzialmente divisi anche dall’evoluzione della giurisprudenza: tanto scarna per il primo quanto fiorente per il secondo, benché contenente affermazioni ripetute e inossidabili, quale la natura tassativa dell’elenco da esso dettato, ritenuto comunque suscettibile di interpretazione estensiva, ma con divieto di analogia, per la ragione identificata nell’impossibilità di estendere i vincoli di forma (Cass., 10.2.2005, n. 2719).
Soprattutto, gli stessi introducono, come si è detto (supra, § 2), due oneri ben diversi: da questo deriva che una clausola vessatoria conoscibile non avrà effetto se non specificamente sottoscritta (e a supplire alla mancanza della sottoscrizione neppure potrà valere la conoscenza effettiva della stessa da parte dell’aderente), ma altresì che una clausola vessatoria sottoscritta avrà effetto nonostante l’assenza di una reale consapevolezza sulla stessa da parte dell’aderente, a meno che non si tratti di clausola con formulazione del tutto incomprensibile (Bianca, C.M., Diritto civile. 3. Il contratto, Milano, 2000, 360).
Se la sottoscrizione delle clausole vessatorie deve essere specifica, occorre una separata sottoscrizione rispetto a quella che necessita per l’accettazione della totalità delle condizioni. Riguardo all’estensione del richiamo alle clausole vessatorie che deve precedere la segnatura, la giurisprudenza registra ancora decisioni che ritengono sufficiente il rinvio alle clausole attraverso il loro numero, ma sembra predominare la richiesta di un esplicito riferimento al contenuto e all’oggetto delle stesse, non potendosi altrimenti ritenere che sia garantita l'attenzione del contraente verso la clausola a lui sfavorevole compresa fra quelle richiamate (Cass., 11.6.2012, n. 9492, ma contra, Cass. 5-6-2014, n. 12708).
Da ultimo, specie in un settore – quello dei contratti di assicurazione – in ordine al quale i giudici hanno a lungo discettato, tra le critiche della dottrina, sulla sottile distinzione tra clausole che limitano il rischio garantito, inserite nell’elenco dell’art. 1341, co. 2, e clausole che invece lo specificano, attinendo all’oggetto del contratto e per ciò da quell’elenco escluse, la giurisprudenza di legittimità pare essersi indirizzata verso l’accertamento della vessatorietà in concreto, invocando una valutazione di merito o sostanziale della clausola (in questo senso, a proposito della discussa ‘claims made’ apposta ai contratti di assicurazione della responsabilità civile: Cass., 22.3.2013, n. 7273).
La contrattazione standardizzata continua a dominare le modalità di conclusione del contratto nel terzo millennio. In particolare, la stragrande maggioranza dei contratti telematici, conclusi nella forma del cd. tasto negoziale virtuale o point & click: tecnica che è considerata sufficiente a manifestare il consenso (id est, l’accettazione di condizioni di contratto da altri predisposte, contenute nei forms on line, che costituiscono moduli o formulari) in contratti a forma libera. Il settore dell’e-commerce, peraltro, presenta una concentrazione oligopolistica dei servizi nelle mani di grandi operatori (e-Bay, ad esempio), con una omogeneità pressoché totalizzante delle condizioni contrattuali, tratte da modelli a circolazione e uniformazione transnazionale, ma registra un impiego diffuso di questo tipo di contrattazione da parte di una miriade di fornitori, venditori o rivenditori che propongono operazioni economiche spesso di modesta o modestissima rilevanza economica, ponendo sotto un’angolatura ben diversa dai suoi esordi la disciplina della contrattazione per adesione.
L’uso dei dispositivi elettronici nella contrattazione genera un duplice ordine di problemi. Anzitutto, il soddisfacimento della conoscibilità delle condizioni generali, per il quale il d.lgs. 9.4.2003, n. 70 – che impone al prestatore di servizi già l’obbligo di rendere le informazioni generali (cfr. art. 7) «facilmente accessibili, in modo diretto e permanente» – prevede la messa a disposizione delle condizioni generali di contratto in maniera da consentire al destinatario la memorizzazione e la riproduzione. La conoscibilità può ritenersi assicurata, secondo un’opinione meno intransigente, anche dall’inserimento delle condizioni generali non all’interno del testo contrattuale che si approva con il testo virtuale negoziale, ma in altre schermate del sito o in pagine di secondo livello, purché queste siano raggiungibili con passaggi univoci e diretti, tramite link e non già mediante l’impiego di identificativi utente e di password o l’accesso ad altre sezioni del sito. La modalità di comunicazione telematica e l’uso di un linguaggio spesso tecnico e pieno di termini stranieri potrebbe poi incidere ancora più di quanto accada nel contesto non virtuale sulla sostanziale possibilità di conoscenza della clausola.
Riguardo infine alle clausole vessatorie contenute in un contratto telematico, attinenti quasi sempre alle limitazioni di responsabilità o alla deroga alla competenza territoriale, è discusso se la specifica sottoscrizione della clausola possa essere assolta dalla previsione di un secondo, specifico click ovvero dall’apposizione di una firma elettronica avanzata. La scarsa giurisprudenza in materia si sta orientando verso la necessità di utilizzo della firma digitale (Trib. Catanzaro, 30.4.2012, in I contratti, 2013, 41), con un significativo impatto pratico, criticamente evidenziato da chi segnala l’intralcio così posto alla diffusione del commercio elettronico e puntualizza che anche la firma elettronica «semplice» può soddisfare il requisito della forma scritta, se presenta i requisiti oggettivi di «qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità» elencati dall’art. 21, co. 1, c. amministrazione digitale, ma difeso da chi ritiene che la forma scritta prevista a pena di nullità non possa essere soddisfatta da un documento informatico insicuro, o la cui sicurezza deve essere valutata dal giudice ex post.
All’interpretazione del contratto concluso tramite moduli o formulari predisposti o attraverso il rinvio a condizioni generali di contratto si applicano le regole dettate dagli artt. 1362 ss. c.c., a partire dalla ricerca della comune intenzione delle parti. L’art. 1370 detta una particolare regola interpretativa, che, in caso di dubbio sulla clausola, impone l’adozione dell’interpretazione di questa più favorevole all’aderente (cd. interpretatio contra proferentem).
Elevata dal legislatore a ulteriore momento di protezione dell’aderente nel caso di contratti standard, la norma, oltre che incapace di consentire apprezzamenti sulla reale situazione di debolezza del contraente, si è rivelata di rara applicazione, soprattutto grazie alla giurisprudenza che, salvo qualche decisione di merito contraria, ne ha evidenziato il suo carattere sussidiario. L’onere da essa posto in capo al predisponente di utilizzare clausole non oscure, per evitare l’interpretazione meno benevola, si avvicina a quello di rendere conoscibili le condizioni generali attraverso la loro formulazione intellegibile, ma se ne distingue per la diversità di conseguenze in caso di inosservanza: nella seconda ipotesi la clausola non entra nel contenuto del contratto; nella prima la clausola ambigua soggiace ad un’interpretazione favorevole alla parte che ha ad essa solo aderito senza partecipare alla sua redazione.
Artt. 1341, 1342, 1370 c.c.; artt. 33 ss. c. cons.
In aggiunta alle opere già citate nel testo: Bianca, C.M., a cura di, Le condizioni generali di contratto, Milano, I, 1979, II, 1981; Alpa, G., Contratti di massa a) Profili generali, in Enc. dir. Agg., I, Milano, 1997, 403; Bianca, C.M., Condizioni generali di contratto: I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 2; Bianca, C.M., Condizioni generali di contratto (tutela dell’aderente), in Dig. Civ., III, Torino, 1988, 397 ss.; Cesàro, E., a cura di, Le condizioni generali di contratto nella giurisprudenza, Padova, I, 1989, II, 1993, III, 1997; De Cristofaro, G., L’inserimento nel BGB della disciplina delle condizioni generali di contratto, in Riv. Dir. civ., 2004, 667 ss.; De Nova, G., Le condizioni generali di contratto, in Tratt. Rescigno, X, Obbligazioni e contratti, t. 2, Torino, 1997, 127; Di Majo, A., Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, in Riv. Dir. comm., 1970, I, 192 ss.; Francario, L., Clausole vessatorie, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 8 ss.; Genovese, A., Condizioni generali di contratto, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 802; Irti, N., Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 1 ss.; Nuzzo, M., Condizioni generali di contratto, in Dizionario Irti, Milano, 1980, 157 ss.; Oppo, G., Disumanizzazione del contratto?, in Riv. dir. civ., 1998, I, 525 ss.; Patti, S., Le condizioni generali di contratto, Padova, 1996; Rodotà, S., Il controllo sulle condizioni generali di contratto, in Amato, G.-Cassese, S.-Rodotà, S., a cura di, Il controllo sociale delle attività private, Genova, 1972, 239 ss.; Scognamiglio, C., Condizioni generali di contratto nei rapporti tra imprenditori e la tutela del contraente debole, in Riv. dir. comm.. 1987, II, 433.