Abstract
Si esamina la disciplina della causa di estinzione del reato conseguente a riparazione, con riguardo all’ipotesi di cui all’art. 35 del d.lgs. 28.8.2000, n. 274, focalizzando l’attenzione su alcune questioni controverse ed aperte. La seconda parte di questo lavoro, invece, analizza la recente proposta normativa in tema di estinzione del reato riparato, contenuta nell’ormai noto d.d.l. Orlando.
La profonda e nota crisi del sistema processual-penalistico, unita alla necessità di prevedere per reati di differente disvalore una risposta qualitativamente e quantitativamente diversa, ha determinato una modifica dell’equazione reato/pena, permettendo l’introduzione di istituti alternativi sia al processo, sia alla pena.
La traduzione normativa di tale ratio la si riscontra non solo nella disciplina della sospensione condizionale della pena, della liberazione condizionale, della riabilitazione, nonché nell’introduzione dei procedimenti speciali, della giurisdizione di pace, dei poteri conciliativi del giudice (sia ex artt. 2 e 29 d.lgs. n. 274/2000, sia ex art. 555, co. 3, c.p.p.); ma anche nei più recenti interventi legislativi. Infatti, negli ultimi tre anni, si è assistito alla trasmigrazione, nel rito ordinario, di istituti già sperimentati in altri procedimenti: basti pensare alle introduzioni della messa alla prova per adulti (l. 28.4.2014, n. 67) e della non procedibilità per tenuità del fatto (d.l. 16.3.2015, n. 28). Lo scopo – ormai noto – sotteso a tali novelle introduttive è quello di recuperare la “ragionevole durata” del processo e, nel contempo, attuare il “giusto processo”, finalità sottesa anche alle più recenti proposte normative (d.d.l. governativo n. 2798/2014, cd. Orlando).
Appare evidente che anche la causa di estinzione del reato conseguente a riparazione risponde alla necessità di deflazionare e di differenziare la risposta penale.
Nell’iniziare col dare una definizione del concetto di “condotta riparatoria” possiamo ritenere che questa sia un comportamento post delictum, posto in essere dall’indagato/imputato, che consiste in una attività contraria all’illecito e finalizzata a risarcire il danno, a riparare, ovvero ad eliminare le conseguenze del reato. Tale causa di estinzione incide latu sensu sulla punibilità dell’imputato, nonché sull’iter processuale e sul decisum: la condotta riparatoria, valutata dal giudice come adeguata, determina una deflazione dell’intera fase dibattimentale, con conseguente provvedimento di estinzione del reato. Il giudice non è chiamato a pronunciarsi sul merito, ma solo sull’idoneità della riparazione e sulla sussistenza dei requisiti per l’applicabilità della causa estintiva in esame. Da ciò deriva che, determinando l’immediata declaratoria di estinzione del reato, l’istituto si pone come forma alternativa al processo penale, ricalcando i tratti tipici di un meccanismo deflattivo.
Tra le diverse ipotesi di estinzione per riparazione (basti penare agli illeciti in materia ambientale, ovvero edilizia), quella disciplinata dall’art. 35 d.lgs. n. 274/2000 costituisce la fattispecie più interessante da analizzare.
Tale causa di estinzione risente dei principi ispiratori del procedimento davanti al giudice di pace, essendo anch’essa finalizzata a delineare il «volto mite» del diritto penale. L’istituto appare in perfetta sintonia con gli scopi del d.lgs. n. 274/2000: la riparazione sottolinea l’imprinting ristorativo e mite del giudice pacificatore; è ispirata sia al favor reparandi, sia al favor rei ed è conforme al principio di eccezionalità e sussidiarietà del processo e della pena, apparendo come un vero e proprio istituto deflattivo. Sottesa all’art. 35 si intravede la volontà di riequilibrare l’ordine violato attraverso un “sacrificio restauratore” dei diritti patrimoniali e non dell’imputato: la pretesa punitiva dello Stato sembra arretrare innanzi alla dimensione “privata” del fatto di reato e alla rivalutazione del rapporto umano.
I presupposti necessari per l’operatività della causa di estinzione sono: l’adempimento volontario e personale da parte dell’imputato della condotta riparatoria; il rispetto del termine perentorio antecedente all’udienza di comparizione (ex multis Cass. pen., sez. V, 10.7. 2014, n. 5023, in CED rv. n. 258640); la sussistenza del requisito della idoneità della riparazione, delineato dal secondo comma dell’art. 35.
Il requisito della personalità implica che la norma configuri una causa di estinzione a “carattere soggettivo” che opera in ragione di un comportamento sintomatico del sopravvenuto ravvedimento e della minore pericolosità sociale dell’imputato. Da ciò deriva l’inapplicabilità dell’istituto al correo inadempiente, pertanto se uno solo dei correi ha provveduto in modo integrale alla riparazione, l’altro concorrente, per fruire della menzionata causa di estinzione, deve contribuire al risarcimento, rimborsando il complice più diligente (Cass. pen., sez. I, 27.10.2003, n. 4177, in Cass. pen., 2004, p. 4076).
L’individuazione del termine perentorio pone l’istituto come una vera e propria ipotesi deflattiva, che costituisce una scelta dell’imputato, strettamente collegata al suo diritto di difesa e rappresenta una delle opzioni premiali a cui ricorrere per uscire rapidamente dal circuito penale. Il comma 3 dell’art. 35 prevede, come unico caso di proroga, l’ipotesi in cui l’imputato dimostri al giudice di non aver potuto adempiere alla condotta riparatoria.
Il requisito della “idoneità a soddisfare le esigenze di prevenzione e riprovazione nel reato” conferisce alla condotta riparatoria un quid pluris in termini di oneri per l’imputato, dovendo quest’ultimo, con il proprio comportamento ristorativo, soddisfare non solo il danno derivante dal reato (inteso come danno cd. criminale e non civile), ma anche le esigenze preventive, sia generali che speciali, nonché quelle riparative.
Con la previsione della “idoneità” si effettua una vera e propria ponderazione di interessi: da un lato quelli pubblici e privati, sottesi alla fattispecie incriminatrice; dall’altro quelli che concernono più da vicino l’autore del reato; inoltre, si cerca di evitare il pericolo di “monetizzazione” della responsabilità penale e, nel contempo, di valorizzare (espressamente) il fine di prevenzione generale e speciale, ampliando l’efficacia rieducativa e deterrente dell’istituto.
La condotta, per essere idonea, deve essere proporzionata alla gravità e al disvalore complessivo dell’illecito. Il giudice, nel valutare la congruità dell’offerta riparatoria, deve tener conto «del contesto nel quale si inseriscono le condotte criminose, del grado di colpa, del significato di concreto ravvedimento, dell’offerta effettiva, dell’efficacia preventiva e dell’attività riparatoria posta in essere» (Cass. pen., sez. IV, 9.12.2003, n. 11522, in CED rv. n. 228030).
La valutazione de qua implica che, ove il reato sia stato commesso con modalità particolarmente gravi o insidiose, ovvero sia evidente una spiccata capacità a delinquere dell’autore, il giudice, anche in presenza di un ristoro del danno, può negare l’applicabilità della causa di estinzione.
La norma non presuppone, per l’operatività della causa di estinzione, il consenso della persona offesa; pertanto, qualora il giudice valuti congrua e idonea la riparazione, nonché rispettato il termine perentorio e il requisito della personalità, può dichiarare estinto il reato anche in caso di dissenso dell’offeso. Infatti, sussiste una vera e propria potestà di “scavalcamento” – da parte del giudice – della pretesa punitiva della vittima, in tutte le ipotesi di indebita persistenza della domanda di punizione del querelante/ricorrente, il quale abbia comunque visti soddisfatti i suoi interessi attraverso l’adempimento di una condotta riparatoria.
Per quanto concerne il contenuto della condotta riparatoria, la norma parla espressamente di una riparazione del danno effettuata mediante restituzioni o risarcimento, nonché l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.
Questione interpretativa attiene, pertanto, alla sussistenza di un cumulo necessario ovvero alternativo tra le condotte suddette. È noto, infatti, che per talune fattispecie criminose non sono eliminabili le conseguenze dannose o pericolose (si pensi alle ipotesi di percosse, lesioni, diffamazione); di converso, in altre ipotesi di illecito manca il danno (si pensi ai reati senza vittima). La soluzione più condivisa appare quella di ritenere che le due condotte (riparazione ed eliminazione delle conseguenze), unite dalla congiunzione «e» e non «o», siano da considerarsi come soggette a “cumulo necessario” solo quando questo sia oggettivamente realizzabile. Qualora non sussistano conseguenze dannose e pericolose, ovvero queste non siano eliminabili, il risarcimento del danno deve essere considerato come “idoneo” – di per sé – ad integrare l’ipotesi estintiva; di converso, nei reati senza danno, l’imputato deve provvedere alla sola eliminazione delle conseguenze del reato. Pertanto il cumulo necessario è operante solo se possibile (Guerra, S., L’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, in Il giudice di pace: un nuovo modello di giustizia penale, a cura di A. Scalfati, Padova, 2001, pag. 505).
Nell’ipotesi in cui l’offerta venga rifiutata, non sussistendo alcun potere di veto della vittima, l’imputato potrà procedere con l’offerta reale.
La riparazione deve, altresì, essere proporzionata al danno criminale e, pertanto, al grado di colpa, in modo da soddisfare le esigenze di prevenzione e riprovazione di cui al comma secondo dell’art. 35 d.lgs. n. 274/2000. Pertanto, il positivo apprezzamento ai fini satisfattivi dell’idoneità complessiva della condotta riparatoria prescinde dall’integrale risarcimento del danno, la cui valutazione è correttamente devoluta al giudice civile che può essere adito dalla persona offesa, essendo impregiudicata la possibilità di un nuovo e completo accertamento (in sede civile) circa l’esistenza del danno (Cass., S.U., 23.4.2015, n. 33864, in CED rv. n. 264238).
La norma è astrattamente applicabile a tutti i reati di competenza del giudice di pace, indipendentemente dal regime di procedibilità.
È applicabile altresì alle ipotesi di reato continuato. Rispetto a tale ipotesi, il problema attiene alla necessità di una riparazione del danno cagionato da ogni singolo episodio criminoso, ovvero alla necessità di una riparazione del danno cagionato dal solo reato più grave. La soluzione più conforme alla norma, sembrerebbe essere la prima, pertanto il reato continuato va considerato come un pluralità di reati e la causa estintiva potrà operare esclusivamente in relazione alla fattispecie criminosa a cui si riferisce (Bartoli, R., Le definizioni alternative del procedimento, in Dir. pen. e processo, 2001, 172 e ss).
La norma è, tuttavia, inapplicabile, alle ipotesi di reato permanente, a causa della protrazione degli elementi costitutivi dell’illecito e, di conseguenza, dell’offesa; pertanto, la cessazione della permanenza deve costituire il presupposto per l’applicazione della causa estintiva (Cass. pen., sez. I, 24.1.2012, n. 7758; in CED rv. n. 252425).
Relativamente ai reati di pericolo, seppure parte della dottrina ha ritenuto astrattamente applicabile la causa estintiva delle condotte riparatorie (Murro, O., Riparazione del danno ed estinzione del reato, Padova, 2016), la giurisprudenza si è espressa in termini negativi, ritenendo che l’art. 35 non sia applicabile ai reati di pericolo, per i quali le condotte riparatorie appaiono oggettivamente incompatibili, non costituiscono un «actus contrarius» rispetto alla condotta incriminata e non sono in grado di realizzare una qualche forma di compensazione nei confronti della persona offesa (Cass. pen., sez. IV, 26.10.2007, n. 39563; Cass. pen., sez. IV, 6.10.2005, n. 3636). Tuttavia, nei reati di pericolo si potrebbe individuare un soggetto giuridico in grado di rappresentare gli interessi collettivi messi in pericolo.
Un profilo problematico attiene alla rilevanza della riparazione adempiuta dall’ente assicuratore. Il quesito da dissipare è se il risarcimento – posto in essere dall’ente – sia idoneo a determinare il beneficio dell’estinzione del reato, ovvero se sia necessaria una riparazione personale dell’imputato, anche a fronte di risarcimento già operato dall’assicurazione.
La questione era sorta relativamente all’applicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, co. 1, n. 6, c.p. nell’ipotesi in cui – a seguito di un sinistro stradale – la compagnia assicurativa aveva risarcito il danno.
Sul punto, è intervenuta la Corte costituzionale (C. cost., 10.4.1998, n. 138), la quale ha ritenuto che l’esegesi della norma non esclude l’applicabilità dell’attenuate, nell’ipotesi in cui il risarcimento venga effettuato dall’ente assicuratore, in forza del contratto di assicurazione contro la responsabilità civile verso terzi. Infatti, l’istituto dell’assicurazione obbligatoria svolge, nel nostro ordinamento, una insostituibile funzione riequilibratrice, in attuazione degli imperativi contenuti nell’art. 3 Cost. Pertanto, la Consulta conclude nel ritenere operante l’attenuante del risarcimento del danno anche quando l’intervento risarcitorio, comunque riferibile all'imputato, sia compiuto, prima del giudizio dall'ente assicuratore.
Nel seguire tale linea interpretativa, la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che non può non riconoscersi che l’assicurazione, in determinati casi, abbia il carattere dell’obbligatorietà e, pertanto, sarebbe «insensato pretendere che una persona proceda ad un risarcimento personale, in presenza di un contratto di assicurazione, sulla base del quale sia avvenuto un risarcimento integrale» (Cass. pen., sez. IV, 24.9.2008, n. 4104; Cass. pen., sez. IV, 18.2.2010, n. 9194). Si potrebbe, infatti, ritenere che già l’aver predisposto un’assicurazione rechi in sé una volontà risarcitoria dell’agente. Tuttavia, il risarcimento ad opera della compagnia assicuratrice, per assurgere a causa estintiva del reato, deve essere adempiuto entro i termini previsti dall’art. 35 d.lgs. n. 274/2000 e deve, altresì, essere conforme alle caratteristiche tipiche previste per la singola fattispecie riparativa.
Va però rilevato che non può costituire fatto idoneo a determinare l’applicazione dell’art. 35, il risarcimento corrisposto dalla compagnia assicuratrice del proprietario del veicolo, qualora questi sia estraneo al processo e non sia, pertanto, la persona imputata (Cass. pen., sez. IV, 23.5.2014, n. 38957, in CED rv. n. 262091).
L’art. 35, nell’individuare quale termine perentorio quello dell’udienza di comparizione, non esclude che tale attività possa essere compiuta anche in fase di indagine; ci si chiede quindi se l’attuale disciplina legittimi il pubblico ministero a formulare una richiesta di archiviazione nell’ipotesi reato riparato.
Il silenzio normativo potrebbe far analizzare in modo estensivo l’art. 17 d.lgs. n. 274/2000, legittimando il pubblico ministero a formulare una richiesta di archiviazione per intervenuta riparazione. Il supporto logico di tale tesi è àncorato alla ratio deflattiva dell’istituto; sarebbe, infatti, illogico imporre al pubblico ministero di esercitare l’azione penale per un reato che, di fatto, si sarebbe estinto per riparazione.
Questa tesi non sembra, però, condivisibile in quanto la deroga ai principi costituzionali dovrebbe comunque avvenire all’interno di parametri normativi ben individuati.
La dichiarazione di estinzione del reato presuppone, infatti, che vengano «sentite le parti e l’eventuale persona offesa». Già l’utilizzo della parola «parte» suggerisce una fase processuale distinta da quella delle indagini. La norma espressamente parla di «imputato» e non di indagato, di «sospensione del processo» e di «sentenza» dichiarativa di estinzione del reato e la scelta terminologica sembra tutt’altro che casuale.
Oltre all’ostacolo terminologico, sussistono anche criticità pratiche; infatti, l’assenza di disciplina non consente di comprendere come dovrebbe operare il meccanismo estintivo in fase di indagine, né se sia ammissibile il decreto di archiviazione per reato riparato. Invero, la dichiarazione di estinzione, pronunciata in sentenza, permette alle parti di impugnare il provvedimento, facoltà che sarebbe, invece, limitata ai soli casi di cui all’art. 127 c.p.p. nell’ipotesi di ordinanza di archiviazione, ovvero preclusa nella ipotesi di decreto di archiviazione.
Un richiamo alla disciplina dell’archiviazione prevista dall’art. 17 del d.lgs. n. 274/2000 sembra doveroso; la norma, infatti, disciplina i casi di archiviazione nella giurisdizione di pace e fa espresso riferimento all’ipotesi di cui all’art. 34, tuttavia serba il silenzio nell’ipotesi in cui l’indagato abbia posto in essere le condotte riparatorie di cui all’art. 35. Tale silenzio normativo non consentirebbe una deroga al principio costituzionale di cui all’art. 112 Cost.
La questione si presta ad essere analizzata in un’ottica di proposte di riforma: si potrebbe, infatti, prospettare un intervento legislativo che estenda i casi di archiviazione disciplinati dall’art. 17, oltre che alle ipotesi di «tenuità del fatto», anche a quelle di «estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie».
Il Giudice delle leggi, investito della questione di incostituzionalità dell’art. 35 d.lgs. n. 274/2000 in relazione agli artt. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevede, nel caso di modifica dell’imputazione, la remissione in termini per l’imputato al fine di adempiere le condotte riparatorie, si è pronunciato in termini di inammissibilità della questione.
Nel ripercorrere le ragioni poste a fondamento della decisione (C. cost., 13.7.2011, n. 206), si rileva che queste appaiono plurime e la principale causa ostativa è data dalla natura dell’art. 35, non assimilabile ai «riti speciali», quanto piuttosto ad una «fattispecie estintiva complessa» e, pertanto, non assoggettabile all’orientamento additivo relativo alle ipotesi di cui agli artt. 438, 444 c.p.p. e 162 e 162 bis c.p. In seconda battuta, si considera che le condotte riparatorie non siano strettamente collegate all’imputazione, come nell’ipotesi di patteggiamento o oblazione; sicché, una nuova contestazione «tardiva», non pregiudicherebbe il diritto di difesa, potendo l’imputato adempiere tali condotte anche prima della formulazione dell’imputazione. Ulteriore motivo di inammissibilità è dato dal limite temporale, ritenuto invalicabile.
La decisione apre, tuttavia, alcune criticità, infatti, seppure è noto che il procedimento disciplinato dall’art. 35 non sia un rito speciale attivabile con una richiesta dell’imputato, appare aperta la questione circa la sua natura, in quanto, l’istituto sembrerebbe spingersi ben oltre il mero epilogo estintivo. A sottolineare ciò è anche la rubricazione normativa, nel capo V, sotto l’eloquente nomenclatura «Definizioni Alternative del Procedimento». La causa di estinzione sembra rientrare nell’espressione del diritto di difesa, consentendo all’imputato di percorrere una strada “alternativa” rispetto al processo e alla pena, al fine di ottenere un vantaggio processuale. Sulla questione diviene necessario un richiamo alla sentenza della Consulta n. 530/1995, con la quale si analizza la problematica relativa alla remissione in termini, per accedere all’istituto dell’oblazione (anch’esso rubricato tra le cause di estinzione del reato), nell’ipotesi di nuove contestazioni. In tale sentenza, il Giudice delle leggi (C. cost., 29.12.1995, n. 530), seppure ritiene che l’oblazione non sia un rito speciale, lo assimila a questi, allo scopo di consentire la restituzione in termini nelle ipotesi ex artt. 516 e 517 c.p.p.
Per quanto concerne il secondo aspetto ostativo alla remissione in termini, questo attiene alla relazione tra l’art. 35 e l’imputazione, infatti la Corte ritiene che sussista un legame «indissolubile» soltanto tra l’imputazione e l’istanza di patteggiamento; mentre le condotte riparatorie non sembrano essere condizionate dalla fattispecie di reato contestata nell’azione penale. Anche tale argomentazione non appare scevra da censure, in quanto, proprio il secondo comma della norma in esame sembrerebbe imporre una proporzione tra le condotte riparatorie e l’illecito commesso. Il dettato normativo presuppone una stretta connessione tra riparazione ed imputazione, in quanto la condotta post factum, come già detto, deve essere proporzionata al fatto e al grado di colpa.
Relativamente all’ultimo ostacolo – individuato dalla Consulta – ossia quello connesso al superamento del termine perentorio, si segnala l’orientamento costituzionale che, affrontando la medesima questione relativa al patteggiamento, all’oblazione e al rito abbreviato, ha dato un’interpretazione più ampia del termine preclusivo previsto dagli artt. 438, 446 c.p.p. e 162, 162 bis c.p., con lo scopo di evitare che le nuove contestazioni potessero originare situazioni di disparità tra l’imputato che vede esattamente e correttamente contestato il reato fin dalla richiesta di rinvio a giudizio e colui che, invece, a fronte di una diversa qualificazione giudica del fatto, vede precluso l’accesso ai riti speciali.
La decisione della Consulta, invero, apre diversi interrogativi, soprattutto in considerazione della situazione di disparità in cui si troverebbe l’imputato che subisce la contestazione suppletiva rispetto a colui che, della stessa imputazione, sia chiamato a rispondere fin dall’atto introduttivo del giudizio.
La parte civile può impugnare la sentenza di estinzione qualora, comparsa in udienza, non sia stata sentita; ovvero qualora non siano stati rispettati, dall’imputato, i termini perentori indicati dal comma 1 dell’art. 35.
Tuttavia, è più complessa la questione relativa al potere – riservato alla parte eventuale – di impugnare gli effetti penali e civili di tale sentenza, infatti, la giurisprudenza si è aperta a diverse soluzioni e il contrasto è culminato in una recente sentenza a Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 23.4.2015, n. 33864).
Nell’analizzare succintamente il contrasto, si rileva che, inizialmente la giurisprudenza si era espressa legittimando la parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato conseguente a riparazione, poiché detta pronuncia, contenendo valutazioni incidenti nel merito della pretesa civilistica, era da considerarsi potenzialmente pregiudizievole per gli interessi della persona offesa (Cass. pen., sez. IV, 14.5.2008, n. 23527). Oltre a legittimare l’impugnazione per gli effetti civili, un successivo intervento dei giudici di legittimità, ha ampliato il potere impugnatorio della parte eventuale, prevedendo un’impugnazione ammissibile anche agli effetti penali, in quanto questi sono coinvolti (in un unico effetto) con quelli civili, non essendo consentito dalla legge al giudice di scindere i due effetti (Cass. pen., sez. V, 23.9.2010, n. 40876,).
Frapposto a tale orientamento, si registra un’inversione di tendenza della Corte, culminata nella pronuncia restrittiva delle Sezioni Unite. Invero, il potere impugnatorio della parte civile è stato gradualmente limitato: preliminarmente, si è precluso il potere di proporre impugnazione agli affetti penali, in quanto tale impugnazione è ammissibile solo avverso la sentenza di proscioglimento e nei soli casi in cui la citazione a giudizio dell’imputato sia stata richiesta dalla persona offesa con ricorso immediato ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. n. 274/2000 (Cass. pen., sez. V, 7.11.2013, n. 50578). Dopo tale prima limitazione, la Corte si avvia verso una preclusione anche per gli effetti civili (Cass. pen., sez. V, 26.6.2014, n. 30535).
L’ampio contrasto sul tema, nonché la diametrale diversità tra gli orientamenti esistenti, ha determinato un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, le quali, nel propendere per l’orientamento restrittivo, hanno escluso l’impugnazione della parte civile sia agli affetti penali che a quelli civili. Il principio di diritto trova la sua ratio essendi nella valutazione dell’interesse ad impugnare: questo consiste nella discordanza tra la decisione impugnata e la pronuncia a cui si tende mediante il gravame, occorrendo che, l’eliminazione del provvedimento ritenuto pregiudizievole, comporti, per colui che impugna, una situazione più vantaggiosa rispetto a quella esistente. Nell’ipotesi di sentenza di estinzione per riparazione, la Corte ritiene che non sussista alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile; sicché nell’eventuale giudizio civile di danno, la parte non risente del pregiudizio dalla sentenza predetta.
La Suprema Corte sottolinea il distinguo tra la sentenza di proscioglimento nel merito e quella di proscioglimento di natura processuale. La prima, giudicando sulla responsabilità penale, contiene un espresso rigetto della domanda civile ed ha effetti pregiudizievoli sulla richiesta di risarcimento; in tale caso sussiste un interesse della parte civile ad impugnare. Nel caso di sentenza di proscioglimento di natura processuale (come quella in esame), il provvedimento rimane privo di efficacia preclusiva in sede civile in ordine al richiesto risarcimento, salvo la presenza, nel corpo della sentenza, di un capo civile da impugnare.
La norma, infatti, nel prevedere un potere di scavalcamento da parte del giudice della volontà punitiva del querelante/ricorrente, nonché nel privare la condotta riparatoria del requisito della integralità, lascia intendere che l’istituto sia stato strutturato per porre in relazione l’attività riparatoria con la gravità del fatto (e non con le esigenze risarcitorie della vittima), in modo da soddisfare gli obiettivi di rieducazione, prevenzione generale e speciale a cui tende il sistema penale. Pertanto, la valutazione del danno, prosegue il Supremo consesso, può essere correttamente devoluta ad giudice civile, essendo «impregiudicata la possibilità di un nuovo e completo accertamento (in sede civile) circa l’esistenza e l’entità del danno».
Relativamente alla liquidazione delle spese di costituzione di parte civile, la norma serba il silenzio. La questione ha interessato i giudici di legittimità, i quali hanno escluso che sia necessaria, ai fini della declaratoria di estinzione del reato, la refusione delle spese eventualmente sostenute dalla persone offesa (Cass. pen., sez. V, 7.3.2013, n. 21012, in CED rv. n. 255440), essendo necessaria una proporzione tra risarcimento e reato, ma non tra risarcimento e danno civile. Alla parte eventuale, tuttavia, non è preclusa la facoltà di agire nel giudizio civile per il risarcimento del danno (Cass. pen., sez. IV, 15.1.2015, n. 75, in CED rv. n. 294610).
La causa di estinzione del reato conseguente a riparazione rientra nella proposta di articolato, nota come d.d.l. governativo Orlando che, nell’art. 1, prevede l’introduzione dell’art. 162 ter c.p., che recita: «nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato».
La finalità della proposta è resa nota fin dalle prime battute della relazione di accompagnamento: recuperare i tempi ragionevoli del processo penale, nel rispetto del giusto processo, ma senza determinare la dispersione di alcuna garanzia. La struttura dell’art. 162 ter c.p. richiama l’art. 35 del d.lgs. n. 274/2000, seppure con i dovuti distingui.
Nel partire dall’ambito di applicazione, si riscontra una scelta del legislatore di non voler prevedere una causa di estinzione speciale, bensì un istituto generale, idoneo ad essere esteso ad un numero indeterminato di reati e, nello specifico, tutti quelli procedibili a querela soggetta a remissione. Tale scelta appare strettamente connessa alla volontà di introdurre, oltre alla messa alla prova per l’imputato adulto e alla improcedibilità per fatto tenue, anche altri strumenti deflattivi e rieducativi, ad ampia portata, che possano porsi come valide alternative al processo penale.
Relativamente all’ambito di applicazione si segnala una prima criticità, connessa alla limitazione della causa di estinzione ad un numero circoscritto di reati, per i quali potrebbe già operare – a seguito di risarcimento – l’istituto della remissione di querela. Invero, l’originario testo prevedeva, attraverso l’introduzione dell’art. 649 bis c.p., l’estensione del beneficio in esame anche ad alcuni reati contro il patrimonio procedibili d’ufficio, quali quelli rubricati dagli artt. 624 c.p., nei casi aggravati dal primo comma dell’art. 625 c.p. ai numeri 2, 4, 6, 8 bis; nonché ai delitti di cui agli artt. 636 e 638 c.p. Nel corso dei lavori parlamentari l’art. 649 bis è stato soppresso, limitando così l’ambito di applicabilità ai soli reati procedibili a querela soggetta a remissione.
Un ripensamento circa l’ambito di applicazione, con un’estensione dell’istituto anche ad alcuni delitti contro il patrimonio e procedibili d’ufficio, sembrerebbe auspicabile. Nello specifico, giova richiamare la proposta di articolato sulla revisione del sistema penale, cd. Commissione Fiorella del 23 aprile 2013 (non coronata da successo), che prevedeva, attraverso l’introduzione dell’art. 649 bis c.p. di estendere la causa di estinzione del reato per riparazione a tutti i delitti contro il patrimonio procedibili d’ufficio, fatta eccezione delle ipotesi più gravi disciplinate dagli artt. 628, 629, 630, 644, 648 bis, 648 ter, nonché nei casi di delitti contro il patrimonio commessi con violenza sulle persone.
Per quanto concerne gli aspetti generali dell’istituto, la norma prevede che, prima della dichiarazione di estinzione, siano sentite dal giudice le parti, nonché la persona offesa. L’assonanza con l’art. 35 del d.lgs. n. 274/2000 appare forte. Tuttavia, anche in tale ipotesi l’audizione della persona offesa non è finalizzata a verificare la sussistenza del consenso. Si può quindi concludere che, l’eventuale dissenso della persona offesa non abbia efficacia preclusiva alla declaratoria di estinzione del reato e l’assenza di un suo potere di veto tutela l’imputato da un’indebita volontà punitiva del querelante, nei confronti del quale siano state efficacemente poste in essere le condotte riparatorie.
La persona offesa ha il diritto di interloquire, ma non un dovere; di conseguenza se vuole essere sentita, deve comparire. Ci si chiede se la mancata audizione della persona offesa, presente in udienza, possa costituire motivo di impugnazione, alla stregua di quanto è espressamente previsto nella disciplina della messa alla prova per adulti (art. 464 quater, co. 7, c.p.p.).
Per quanto concerne il termine per adempiere la condotta riparatoria, questo, nel caso di specie, è rappresentato dalla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, termine che dovrebbe essere considerato come perentorio.
Il contenuto della condotta riprende parzialmente quello delineato dall’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, in quanto si prevede una riparazione del danno mediante restituzioni, risarcimento ed eliminazione delle conseguenze dannose. Elemento distintivo tra le due ipotesi è la previsione – nell’art. 162 ter c.p. – della integralità della riparazione. Tale requisito apre un interrogativo: la riparazione deve essere integrale in considerazione del grado di colpa, ovvero del danno civile? Abbiamo già analizzato come nelle ipotesi di estinzione del reato, di cui all’art. 35, la giurisprudenza propende per una riparazione proporzionata rispetto al grado di colpa; facendo, tuttavia, salvi i diritti della persona offesa ad agire nel giudizio civile, al fine di valutare l’esistenza e l’entità del danno. La proposta normativa in esame potrebbe, pertanto, essere interpretata in tal senso; ossia prevedere una condotta riparatoria integrale rispetto al grado di colpa, facendo salva la possibilità per la vittima di agire nel giudizio civile.
Un aspetto problematico attiene alla rubricazione di tale istituto nel solo codice penale. Appare, invero, innegabile la sua natura alternativa e deflattiva, nonché il suo porsi come scelta difensiva dell’imputato; pertanto, seppure l’istituto non sia attivabile su richiesta dell’interessato e non integri un’ipotesi di procedimento speciale, meriterebbe – in considerazione delle sue caratteristiche e dei suoi effetti – una disciplina tanto sostanziale quanto procedurale. Tale vulnus di tutela apre diversi interrogativi, che si aggiungono a quelli sopra segnalati.
Nel partire dalla previsione del termine perentorio, per adempiere la condotta riparatoria, abbiamo visto che questo deve essere antecedente alla dichiarazione di apertura del dibattimento. La previsione del termine è, però, lacunosa in quanto nulla si dispone nell’ipotesi in cui sia stato emesso un decreto penale di condanna, ovvero nei casi di giudizio immediato; si apre, quindi, la questione circa la possibilità di ricorrere all’istituto della riparazione estintiva con l’atto di opposizione, ovvero nelle forme e nei termini di cui all’art. 458, co.1, c.p.p.
Nel caso di decreto penale di condanna, potrebbe essere utile integrare l’art. 460, lett. e), c.p.p. in modo da inserire, tra gli avvisi da fare all’interessato, anche quello di poter usufruire della causa di estinzione.
Emblematica è, anche, la previsione di cui all’art. 162 ter, co. 2, c.p., ove si prevede che qualora il giudice consenta una sospensione del processo con proroga dei tempi di adempimento della riparazione, possa imporre, se necessario, «specifiche prescrizioni». La disposizione sembra richiamare sia l’art. 28, co. 2, d.P.R. 22.9.1988, n. 448, sia l’art. 35, co. 3, d.lgs. n. 274/2000, sia l’art. 464 bis, co. 5, c.p.p. Va rilevato, però, che l’art. 162 ter c.p. non specifica in che cosa si debbano estrinsecare le prescrizioni imposte dal giudice e tale vulnus impone qualche breve riflessione. Preliminarmente va osservato che la prescrizione riparatoria è una libera e volontaria scelta dell’imputato; pertanto, non ha i requisiti della sanzione, ma costituisce un comportamento spontaneo post factum. Di converso, le prescrizioni imposte dal giudice, di cui al comma 2 dell’art. 162 bis c.p., non sono connesse a scelte spontanee dell’interessato; pertanto, lasciano al giudicante un ampio spazio discrezionale, alterano la natura dell’istituto riparatorio ed appaiono generiche ed indeterminate, andando a stridere con il principio di tassatività (art. 25, co. 2, Cost.), qualora si riconosca a tali prescrizioni la natura di “cripto-pena”. Inoltre, l’imposizione di altre prescrizioni snaturerebbe l’istituto, trasformandolo in una forma ibrida di messa alla prova.
Altro problema attiene al fatto che la norma in esame prevede una dichiarazione di estinzione del reato, senza un esplicito richiamo all’art. 129 c.p.p. Il silenzio normativo apre la questione sulla necessità di una valutazione – seppur sommaria – sull’esistenza di una causa di proscioglimento. Un’integrazione sul punto – in una prospettiva de iure condendo – sembrerebbe necessaria, apparendo imprescindibile una valutazione sui presupposti per l’applicazione del proscioglimento con le formule «il fatto non sussiste, non costituisce reato, non è previsto dalla legge come reato, l’imputato non l’ha commesso», ovvero per mancanza di una condizione di procedibilità.
Non mancano criticità neanche nella previsione dell’audizione delle parti e della persona offesa, poiché la norma non specifica la modalità di ascolto (art. 162 ter, co. 1, c.p.), né disciplina eventuali inutilizzabilità di tali dichiarazioni nelle ipotesi in cui la riparazione non sortisca l’effetto estintivo.
Appare inoltre necessaria una previsione di incompatibilità del giudice nelle ipotesi in cui la condotta riparatoria non sia reputata sufficiente (ovvero non idonea) a legittimare una dichiarazione di estinzione del reato. Infatti, l’adempimento di una condotta riparatoria, l’audizione delle parti e della persona offesa, la valutazione della congruità della riparazione rispetto al fatto, potrebbe aver minato l’imparzialità del giudice.
Allorquando il giudice ritenga non congrua la riparazione, non si comprende quale sia la forma del provvedimento (ordinanza ovvero decreto), né se questo debba avere dei requisiti motivazionali. Non è neanche previsto se, “fallita” la condotta riparatoria, l’imputato possa opzionare per gli altri riti premiali (patteggiamento, oblazione, messa alla prova, ecc). Nello specifico, la problematica attiene alla coincidenza tra il termine finale per adempiere alla riparazione e quelli entro i quali possono essere richiesti gli altri riti premiali. Infatti, non è dato comprendere se l’intento del legislatore sia quello di prevedere alternatività, ovvero incompatibilità, tra riti strettamente connessi a scelte dell’imputato.
Gli aspetti procedurali che sollevano criticità e dubbi attengono anche all’assenza di una disciplina in tema di acquisizione di prove durante il periodo di sospensione; infatti, nel caso in cui il processo venga sospeso per consentire la riparazione (sospensione che può durare fino sei mesi), l’art. 162 ter c.p. non disciplina alcuna ipotesi di acquisizione delle prove non rinviabili. Medesima lacuna era stata riscontrata nei lavori preparatori dell’istituto della messa alla prova per adulti, lacuna che, con la l. n. 67/2014, veniva colmata dall’introduzione dell’art. 464 sexies c.p.p. («Acquisizione di prove durante la sospensione del procedimento con messa alla prova»).
Altro vulnus attiene alla mancanza di una disciplina sull’archiviazione del reato riparato.
La proposta normativa è scevra, infine, di un coordinamento con le ipotesi già previste e la principale criticità attiene alla coesistenza con l’art. 35 d.lgs. n. 274/2000: ci si chiede, infatti, se nella giurisdizione di pace si potrà applicare l’art. 162 ter c.p. Le problematiche di coordinamento tra le due ipotesi attengono a questioni pratiche dovute ad una differenza di disciplina (diverso è il termine perentorio, diversi sono i parametri valutativi a causa della previsione della idoneità delle condotte nel solo art. 35).
Gli spunti di integrazione e le problematiche segnalate non rendono l’istituto meno appetibile, stante la sua auspicabile introduzione; tuttavia quello che emerge è la necessità sia di un coordinamento con le ipotesi previgenti, sia di un inquadramento normativo non solo sostanziale, ma anche procedurale.
Art. 35 d.lgs. 28.8.2000, n. 274.
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