Abstract
Si richiamano in apertura i princìpi generali in tema di conferimenti ed il favor della legge per i conferimenti in denaro; si commenta poi la parziale deroga che il principio dell’effettività del capitale subisce in proposito.
Poi ci si sofferma sulla disciplina del socio moroso e sull’alternativa fra l’azione di diritto comune e quella speciale prevista dalla legge. Di quest’ultima, che si apre con la diffida pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, si passano quindi in rassegna le varie fasi: offerta delle azioni del socio moroso agli altri soci, vendita al pubblico delle stesse, dichiarazione di decadenza del socio, rimessa in circolazione delle azioni e riduzione del capitale. Si commenta infine la sospensione del diritto di voto a carico del socio moroso.
1. Princìpi generali. L’effettività del capitale
I conferimenti sono necessari in ogni società e costituiscono l’apporto patrimoniale (denaro o altre entità) che ogni socio trasferisce alla società per formare le risorse necessarie per l’attività di impresa per cui la società è costituita.
Principi generali in proposito sono dettati dagli artt. 2253, 2254 e 2255 c.c. con riferimento alla società semplice: il primo stabilisce il generale obbligo di ogni socio di conferire, la finalizzazione dei conferimenti al conseguimento dell’oggetto sociale ed il criterio (derogabile) della ripartizione in parti uguali fra i soci di quanto appunto necessario al fine predetto; il secondo detta norme in tema di garanzia per i conferimenti in proprietà e per quelli in “godimento”, rinviando, rispettivamente, alle norme sulla vendita e a quelle sulla locazione; il terzo consente e regola il conferimento di crediti, richiamando l’art. 1267, c.c. in tema di garanzia del nomen bonum.
Dunque, i conferimenti sono la parte del proprio patrimonio di cui ciascun socio decide di privarsi e di rischiare nell’impresa comune. Nelle società di capitali, poi, sono tema strettamente connesso a quello del capitale, rispetto a cui vige ancora il principio dell’effettività.
In sintesi: il “numero” che i soci, all’atto della costituzione della società, indicano a capitale deve trovare corrispondenza nel patrimonio di cui, all’inizio, la società è effettivamente dotata dai soci e dunque, da un lato, le entità investite dai soci devono essere trasferite alla società sin dal momento in cui questa “nasce” (art. 2331, co. 1, c.c.), vale a dire sin dal momento della sua iscrizione nel registro; dall’altro, il valore complessivo di quelle entità (cioè la loro espressione in moneta avente corso legale) non dev’essere inferiore al numero indicato a capitale. Se, insomma, viene indicato un capitale pari a 100.000 euro, la valutazione in denaro dei cespiti patrimoniali acquisiti dalla società deve essere complessivamente pari, appunto, quanto meno a quella cifra.
2. Il favor della legge per il conferimento in denaro
Ai conferimenti in denaro sono dedicate alcune delle disposizioni della norma di apertura (l’art. 2342, c.c.) della sezione (la IV del capo V del titolo V del libro V) del codice che disciplina i conferimenti nella s.p.a. È dedicato poi l’art. 2344, c.c. che attiene all’aspetto patologico, vale a dire al parziale o totale inadempimento del socio rispetto all’obbligo assunto con la sottoscrizione dell’atto costitutivo.
«Se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in denaro» (art. 2342, co. 1, c.c.); identica regola è prevista per le s.r.l. (art. 2464, co. 3, c.c.). È improbabile che nell’atto costitutivo di una società per azioni o di una s.r.l. non si dica alcunché in ordine ai conferimenti (specie tenendo conto che va redatto, in entrambi i casi, per atto pubblico, e che la società risulterebbe nulla, a mente dell’art. 2332, co. 1, n. 3, c.c., qualora mancasse ogni indicazione riguardante i conferimenti). Tuttavia, la predetta disposizione di default conserva un suo significato quale indicazione del favor della legge per i conferimenti in denaro.
È interessante notare subito che, proprio con riferimento ai conferimenti in denaro, che pur sono i più frequenti, si registra una parziale deroga al principio di effettiva ed immediata formazione del capitale. Il secondo comma dello stesso art. 2342, traducendo così subito in un ulteriore precetto il favor di cui si è detto, dispone che in ipotesi di conferimento in denaro sarà sufficiente trasferire alla società, al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo, il 25% dell’importo promesso.
Il predetto trasferimento deve essere eseguito secondo le modalità stabilite (inderogabilmente, perché c’è dietro un interesse pubblico) dalla stessa norma in esame e cioè col versamento dell’importo necessario «presso una banca». Il versamento deve avvenire mercé (di norma) un bonifico che il socio dispone su un conto corrente bancario di cui è titolare la società e di cui dunque possono disporre solo gli amministratori di questa, come si comprende anche dall’inciso di cui al secondo comma dell’art. 2344, c.c., per cui gli amministratori possono trattenere (e dunque far restare nella disponibilità della società), una volta dichiarato decaduto il socio moroso, le “somme riscosse”, vale a dire il 25% già versato all’atto della sottoscrizione, nonché, eventualmente, gli ulteriori importi medio tempore versati per effetto di “richiami” poi effettuati degli amministratori.
3. Le ragioni di una deroga
Come accennato, lo stesso art. 2342, al co. 3, secondo inciso, contiene, per i conferimenti diversi del denaro, una ben diversa regola: «le azioni corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione». Integrale liberazione significa integrale adempimento dell’obbligo assunto dal socio con la sottoscrizione dell’atto costitutivo e dunque, giuridicamente, definitivo trasferimento dal socio alla società della titolarità dell’entità oggetto del conferimento e, dal punto di vista fattuale, definitivo passaggio alla società della materiale disponibilità di quell’entità e conseguente possibilità di impiegarla da subito, senza alcuna interferenza del socio conferente, nell’esercizio dell’impresa sociale.
Le stesse regole (versamento alla sottoscrizione dell’atto costitutivo del solo venticinque per cento dei conferimenti in denaro, ma nelle mani degli amministratori) detta l’art. 2464, co. 1, c.c., in tema di s.r.l., modificandone però i lineamenti con l’ulteriore disposizione contenuta nel secondo periodo dello stesso comma, rimasta tuttavia sino ad ora inapplicabile non essendo stato emanato il decreto (che la norma prevede), recante le caratteristiche della polizza assicurativa e della fideiussione bancaria con cui potrebbe essere sostituito il versamento in contanti.
Dunque, all’interno degli artt. 2342 e 2464, c.c., convivono due regole opposte e che hanno diversi effetti sulla formazione del capitale: per quanto riguarda le quote di capitale sottoscritte da chi conferisce entità diverse dal denaro, il capitale deve essere integralmente formato sin dalla costituzione della società; per quanto riguarda, invece, le quote di capitale sottoscritte da chi conferisce denaro, il capitale può risultare formato solo nella misura minima di un quarto dell’obbligo assunto dal socio. Nel primo caso nessun debito residua a carico del socio, nel secondo, al contrario, residua un debito di importo maggiore di quanto adempiuto.
Nel primo caso le entità conferite possono essere da subito utilizzate per l’esercizio dell’impresa, nel secondo caso no e la società resta esposta al rischio di non riuscire mai più ad ottenere e ad impiegare tutte le risorse promesse. Perché tutto ciò?
Perché, si dice, il denaro è l’unico bene che, giuridicamente, non diviene mai impossibile ottenere. Tuttavia, di fatto numerosi debiti pecuniari, a carico di soggetti apparentemente più che rispettabili, restano definitivamente inadempiuti. D’altra parte, anche gli artt. 2344 e 2464, c.c., norme speciali appositamente confezionate per questa vicenda, non riescono ad escludere del tutto il rischio del definitivo inadempimento.
In effetti, qualche volta l’entità diversa dal denaro risulta indispensabile per l’esercizio dell’impresa sociale e dunque bisogna preoccuparsi della sua effettiva acquisizione. Quel che è certo è però che il denaro è sempre indispensabile a tal fine, proprio perché è l’unico, sicuro mezzo per procurarsi qualunque bene (patrimoniale) e qualunque servizio. Senza denaro contante disponibile, non solo non si può esercitare l’impresa, ma neppure si riesce a pagare il notaio che stipula l’atto costitutivo e la Camera di Commercio dove lo si deve depositare per l’iscrizione.
Allora possiamo dire che vi è in proposito una disparità di trattamento non razionale. Perché è vero che le situazioni diseguali possono essere trattate diversamente, ma nel caso di specie il trattamento riservato all’una (l’integrale ed immediato adempimento), dovrebbe sussistere a fortiori (ed anzi irrobustito) per l’altra. Soprattutto nell’interesse dei terzi.
Possiamo dire ancora che, poiché non è ipotizzabile un obbligo di consentire conferimenti in denaro per tre quarti inadempiuti solo ai soci che abbiano un patrimonio capiente e facilmente aggredibile, vi potrebbero essere (e vi sono infatti) molte società che nascono insolventi e tali restano, danneggiando immancabilmente i terzi.
Ma forse si può dire che questa antinomia non tanto è espressione del favor per i conferimenti in denaro, quanto e soprattutto lo è di un favor per il capitale finanziario, per tale intendendo quello dei finanziatori istituzionali: le banche, cioè, favorite nella loro attività di raccolta dall’obbligo di versare presso (una o più) di esse il 25% dei conferimenti in denaro, potrebbero esserlo anche sul versante dell’erogazione del credito, perché di quest’ultimo si troveranno ad aver bisogno le società che nulla o quasi dei residui tre quarti dei conferimenti in denaro riusciranno ad incassare, nonché quelle che magari vi riusciranno al termine di lunghi ed estenuanti tentativi (giudiziali o non), ma che medio tempore avranno immancabilmente bisogno di risorse finanziarie per sopravvivere.
4. Conferimenti in denaro nelle società unipersonali
La regola (derogatoria) sin qui discussa, per cui è possibile versare, all’atto della costituzione della società, solo il 25% dei conferimenti in denaro, subisce a sua volta una deroga nel caso di società costituita per atto unilaterale, vale a dire qualora la società sia sin dall’inizio costituita da un solo socio: in tal caso, infatti, il conferimento (nonostante sia) in denaro, deve essere versato, sin dalla costituzione della società, per il suo «intero ammontare» (art. 2342, co. 2, c.c.; la stessa regola vale in tema di s.r.l.: art. 2464, co. 4, c.c.). La ratio di questa disposizione (alquanto ingenua) non può rinvenirsi (solo) nel principio dell’effettiva formazione del capitale, perché quest’ultimo è derogato in ipotesi di conferimento in denaro e non vi è differenza, in ordine al rischio di una soltanto parziale formazione del capitale, se ciò accade in presenza di un solo o di più soci.
Dunque, la ratio è nel “sospetto” che circonda ancora la società unipersonale, posto che l’unico socio ha di certo su di essa un’influenza particolarmente pressante, che potrebbe spingersi sino a determinare una confusione fra le funzioni dei diversi organi di cui è costituita una società e che dovrebbero attribuire ai terzi una qualche garanzia sull’efficace e corretto funzionamento della società. Se è questa la sua ratio, la deroga alla deroga qui in esame è, appunto, ingenua perché di fatto, almeno nelle tante società azionarie familiari o di piccole dimensioni, quella confusione avviene ugualmente, come l’esperienza insegna, e comunque l’influenza di un socio sulla società è la stessa se, anziché rivestire solo se stesso della responsabilità limitata, si maschera dietro una pluralità costituita dal coniuge e dal figlio titolari di porzioni minime del capitale.
Com’è ovvio, anche il quarto comma dell’art. 2342 c.c. si riferisce solo ai conferimenti in denaro quando dice: «se viene meno la pluralità dei soci, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro novanta giorni». Versamenti è espressione che si riferisce solo al pagamento delle obbligazioni pecuniarie.
Riterrei che il termine di novanta giorni, entro cui vanno effettuati i versamenti ancora dovuti, debba decorrere dall’iscrizione della dichiarazione di cui all’art. 2362, co. 1, c.c. La legge dice che, entro il termine suddetto, i versamenti vanno effettuati, cioè eseguiti, quasi presupponendo un adempimento spontaneo.
Il richiamo dei versamenti residui (presupposto implicito, ma necessario della disciplina dell’art. 2344, c.c.) deve essere effettuato immediatamente dopo l’iscrizione di cui si è detto, proprio per consentire che, entro il termine predetto, i versamenti residui siano eseguiti e non solo richiesti, cosa che il legislatore sembra prevedere nell’interesse dei terzi.
Naturalmente anche qui può accadere che il socio, benché unico e quindi padrone della situazione, resti inadempiente. Ed allora l’organo amministrativo dovrebbe dare corso, per quanto applicabile, alla disciplina prevista dall’art. 2344, c.c. (dall’art. 2466, c.c., per le s.r.l.). Poiché nulla vieta che il socio unico sia altresì amministratore unico, accade che questi dovrebbe chiedere a se stesso il pagamento e, se del caso, anche agire contro se stesso. Com’è evidente, aumentano qui le probabilità che i versamenti residui restino definitivamente inadempiuti. Certo, il socio diventa così illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali, ma non è detto che, per i terzi, questo sia in ogni caso un esito equivalente all’integrale formazione del capitale.
La regola di cui al co. 4 dell’art. 2342, c.c. è replicata con le stesse parole, in tema di s.r.l., dall’art. 2464, co. 7, c.c.
5. L’inadempimento del socio. Le azioni esercitabili
La disciplina dei conferimenti in contanti è completata dalle altre, non felicissime disposizioni dell’art. 2344, c.c. (non identica è la disciplina dettata per la s.r.l. dall’art. 2466, c.c.: v. infra).
La norma regola l’ipotesi che il «socio non esegua i pagamenti dovuti» e l’opinione di gran lunga prevalente, forte sia del riferimento ai pagamenti (modo di adempimento delle obbligazioni pecuniarie), sia di quello alla stessa eventualità di un solo parziale adempimento del conferimento (eventualità esclusa per legge, come si è detto, per i conferimenti non in contanti) sostiene l’inapplicabilità della norma ai conferimenti di entità diverse dal denaro.
Salvo casi rarissimi, nell’atto costitutivo non è stabilito alcun termine per il versamento dei residui tre quarti dei conferimenti in denaro e perciò sarà normalmente compito degli amministratori stabilire quando procedere al predetto “richiamo” e quanto chiedere ai soci. Fermo però l’obbligo di parità di trattamento dei soci.
La norma pone innanzi tutto agli amministratori, qualora «il socio non esegue i pagamenti dovuti», la scelta fra l’azione di diritto comune «per l’esecuzione del conferimento» e l’azione speciale di diritto societario, prevista appunto dall’art. 2344 c.c., che parte con una diffida da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale.
L’azione di diritto comune si articolerà presumibilmente, come di consueto, nella richiesta di un decreto ingiuntivo e poi nella successiva procedura di esecuzione. È chiaro che l’utilità di questa strada è limitata all’ipotesi in cui il socio inadempiente abbia un patrimonio capiente ed agevolmente aggredibile.
L’azione esecutiva di diritto comune può essere intrapresa, stando alla lettera della legge ed all’assenza di ostacoli in senso contrario, prima ed a prescindere dalla diffida ex art. 2344 c.c. Ma è altrettanto certo che sarà prudente procedere prima a tale diffida, che ha effetti nei confronti di tutti, e poi eventualmente depositare il ricorso per ingiunzione, facendo leva anche sull’inutile decorso del termine che il primo comma dell’art. 2344, c.c. prevede. Non è possibile, secondo l’opinione che appare preferibile, agire nei confronti dello stesso socio, nel contempo, sia con l’azione di diritto comune, sia con quella ex art. 2344, c.c., ma non credo che la parità di trattamento fra i soci, possa spingersi sino ad imporre che nei confronti di tutti i soci si debba necessariamente agire allo stesso modo: l’azione speciale ex art. 2344, c.c. è un favor concesso alla società, a tutela di un interesse che può ritenersi di ordine generale (quello relativo all’integrale formazione del capitale) e non avrebbe senso imporla qualora se ne possa fare a meno, né impedire di percorrerla nei confronti di alcuni soci solo perché agli amministratori sia parso opportuno agire, nei confronti di altri soci e sotto la propria responsabilità, con l’azione di diritto comune.
In linea generale, più o meno per le stesse ragioni, dovrebbe ritenersi consentito agli amministratori di abbandonare, medio tempore, l’azione di diritto comune per intraprendere quella di diritto speciale. In concreto, tuttavia, occorrerà che quest’ultima non sia già partita nei confronti degli altri soci, perché le fasi e gli atti che l’art. 2344, c.c. prevede richiedono appunto, anche per effetto del principio di parità di trattamento, di essere attuati una sola volta e nei confronti di tutti i soci.
Più agevole potrebbe apparire la scelta opposta (abbandonare medio tempore l’azione speciale per intraprendere quella di diritto comune), ma alquanto improbabile in pratica, quanto meno tutte le volte che non ci si ritrovi dinanzi a pochi soci, ben individuati e sicuramente capienti.
Sotto altro aspetto si può ancora in limine notare che la norma lascia sottintendere, con l’inciso iniziale «se il socio non esegue i pagamenti dovuti», che prima della diffida ex art. 2344, c.c. possa esservi qualcos’altro e cioè la richiesta di richiamo inviata ai soci con modalità più o meno formali. Tuttavia, è chiaro che, quand’anche tale richiamo sia avvenuto mercé una vera e propria diffida stragiudiziale ex art. 1454, c.c., l’azione di diritto speciale non potrà partire in mancanza della diffida pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ex art. 2344, c.c. Si è discusso molto sul confronto fra la diffida ex art. 2344, c.c. e quella di diritto comune (art. 1454, c.c.). Per quanto può qui interessare, conviene notare che le differenze rilevanti fra di esse sono che la prima e non la seconda produce, trascorso il termine assegnato, lo scioglimento del contratto e che nella prima il termine assegnato per adempiere è rimesso alla discrezionalità (nei limiti della correttezza e buona fede) di chi la sottoscrive, nella seconda è inderogabilmente quello di quindici giorni previsto dalla norma.
6. L’offerta delle azioni del socio moroso agli altri soci
Una volta pubblicata la diffida ed optato per il procedimento speciale, la legge scandisce, secondo un ordine non derogabile, gli adempimenti che gli amministratori devono attuare: prima l’offerta delle azioni non liberate agli altri soci, poi la vendita in danno («a rischio e per conto») del socio moroso.
L’offerta delle azioni va rivolta a tutti gli altri soci: riterrei che con il riferimento agli altri soci la legge intenda escludere tutti i soci morosi (quando siano più di uno) e non solo quello le cui azioni non liberate siano oggetto dell’offerta. Anche perché è possibile e corretto (ed anche opportuno) offrire agli altri soci in una sola volta tutte le azioni di tutti i soci morosi.
Bisognerà tener conto (ed escludere dall’offerta) le azioni di coloro che, nei quindici giorni assegnati con la diffida, abbiano provveduto all’integrale liberazione (i quali pure, dunque, saranno destinatari dell’offerta) e bisognerà altresì tener conto, in ipotesi di versamento da parte di un socio di una somma insufficiente a liberare tutte le azioni dallo stesso sottoscritte, di come questi voglia imputare il parziale pagamento effettuato e dunque quali (quante) azioni egli intenda liberare (ciò che peraltro è conforme al dettato dell’art. 1193, c.c.): non sarebbe possibile, in altri termini, imputare, contro la volontà del socio, il parziale pagamento effettuato in modo proporzionale a tutte le azioni da questi sottoscritte, anche perché ciò significherebbe privarlo integralmente del diritto di voto (art. 2344, ult. co.), ritenuto (a torto o a ragione) diritto fondamentale del socio, nonostante l’avvenuto pagamento sia idoneo a conservarlo, sia pure solo per alcune azioni.
L’offerta, come detto, deve essere rivolta ai soci non in mora «in proporzione della loro partecipazione» e quindi secondo il meccanismo previsto per l’aumento del capitale ex art. 2441, co. 1, c.c. L’offerta va fatta al prezzo di cui la legge predetermina la soglia minima: «non inferiore ai conferimenti ancora dovuti». Nonostante la lettera della norma, si tende a “tradurre” il riferimento ai versamenti ancora dovuti in quello ai versamenti richiamati, al fine di aumentare le chances di coprire il capitale nella misura in quel momento ritenuta necessaria dagli amministratori. Peraltro, secondo questa logica, potrebbero non essere messe in vendita tutte le azioni del socio moroso, ma solo quelle funzionali al limitato richiamo. Resta però che probabilmente il socio dovrebbe ormai considerarsi debitore dell’intero (anche argomentando ex art. 1186, c.c.) e ciò potrebbe comportare soluzioni diverse. La lettera della legge e gli interessi tutelati consentono agli amministratori di richiedere un prezzo superiore qualora ciò corrisponda al reale valore delle azioni al momento dell’offerta, ma non di proporre rilanci di prezzo e/o di organizzare un’asta fra tutti i soci non adempienti interessati. Perché pure in questo caso l’espressione della legge lascia intendere anche l’obbligo di rispettare la parità di trattamento, che sarebbe violata qualora non fosse identico il prezzo pagato da ciascuno dei soci non morosi interessati all’acquisto.
Non credo invece che violi il predetto principio l’instaurazione di un subprocedimento del tipo di quello dettato dal terzo comma dell’art. 2441, c.c. e cioè una prelazione sulle azioni non liberate e non assegnate in seguito all’offerta, per non aver aderito ad essa uno o più soci potenzialmente legittimati. Anche in questo caso, il prezzo da pagare dovrà essere uguale per tutti e pari o superiore ai conferimenti richiamati ed ancora dovuti. L’offerta in prelazione riguarderà appunto, sulla scorta dell’art. 2441, co. 3, c.c., solo i soci non morosi che, nell’aderire all’offerta, abbiano altresì fatto richiesta di acquisto delle azioni eventualmente “inoptate”.
Il problema di questo primo ed obbligatorio adempimento previsto dal procedimento ex art. 2344, c.c. è che la legge, a parte gli aspetti innanzi commentati, non lo regola. In primo luogo: come si rivolge ai soci non morosi l’offerta? Per ragioni di certezza, si può pensare ad una raccomandata a.r. o via pec, ma entrambe le suddette modalità contrastano con l’esigenza per cui, nello stesso comma dell’art. 2344 c.c., è prevista, per la messa in mora, una diffida sulla Gazzetta Ufficiale. In effetti, in società con azionariato diffuso raggiungere tutti i soci non morosi con una raccomandata o una pec potrebbe essere esercizio assai costoso e complesso. Ed anzi, per questa tipologia di società, è ormai anacronistica la stessa ratio che, secondo i commentatori, regge l’offerta in esame, quella cioè di mantenere l’omogeneità della compagine sociale.
Ugualmente indefiniti sono altri aspetti, come il termine entro cui l’offerta deve giungere alla società, il contenuto della stessa e così via. Sul punto la cosa più logica sarebbe dettare le regole nello statuto (ma è cosa rara); meno convincente è scriverle nella diffida (perché si snaturerebbe questo atto e si ricorrerebbe ad una fictio – la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale assicura conoscenza – che in passaggi così delicati appare inadeguata); ancor meno convincente è ricorrere ad un’altra pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Queste comunque sono le possibili soluzioni e non è il caso di indugiare ulteriormente sul punto anche perché si tratta di aspetti che la pratica frequenta poco.
7. Vendita delle azioni. Decadenza. Risarcimento del danno
Se l’offerta delle azioni ai soci adempienti non ha successo (o per la parte in cui non ha successo), il successivo step previsto dalla legge è la vendita delle azioni «a rischio e per conto del socio».
Questa volta l’offerta in vendita non riguarda più solo i soci, ma il pubblico. Tant’è che bisogna per legge ricorrere all’opera di una banca o di un intermediario autorizzato «alla negoziazione in mercati regolamentati».
In proposito sorge il dubbio relativo al prezzo per cui la vendita a terzi deve avvenire. Sulla base della lettera della legge, si potrebbe pensare che in questo caso il prezzo sia libero, anche al fine di assicurare maggiori probabilità di successo all’operazione.
Mi sembra tuttavia preferibile l’opinione opposta, sia perché altrimenti i soci (che hanno pur sempre la possibilità di acquistare successivamente le azioni sul mercato) potrebbero avere interesse a non aderire alla precedente offerta loro riservata, sia perché l’esigenza cui si tenta di rispondere, cioè la copertura effettiva del capitale, sfugge alla disponibilità sia dei soci, sia della società. Dunque, anche la vendita al pubblico delle azioni non liberate può avvenire ad un prezzo pari o superiore, ma non inferiore ai conferimenti ancora dovuti.
Per ogni altro aspetto il mandatario appare libero di organizzarsi come meglio crede, salvo naturalmente ciò che prevederà l’accordo con la società.
Il mandato è conferito infatti dalla società, nel cui interesse è previsto, ma per conto del socio. uestiQuesti resta perciò il soggetto su cui ricadranno rischi o benefici della vendita: se cioè la vendita non abbia successo, rimarrà a suo carico il debito per i conferimenti ancora dovuti (come a suo carico, evidentemente, graveranno comunque le spese dell’operazione); se invece, cosa meno probabile, la vendita avvenga per un corrispettivo maggiore di quel che occorre per coprire integralmente i conferimenti ancora dovuti (e le spese), il socio potrà incassare il margine positivo. Benché, dunque, avvenga “per conto” del socio, il mandato è comunque conferito prevalentemente nell’interesse della società ed è perciò irrevocabile dal socio.
Se si tiene conto che il socio diviene moroso, come si tornerà a dire, solo trascorso vanamente il termine assegnatogli con la predetta diffida e che quest’ultima potrebbe avvenire molto dopo la costituzione della società, potrebbe nascere il problema delle azioni eventualmente trasferite dal socio moroso ad un terzo in buona fede. Ma il principio della causalità “forte” cui soggiacciono i titoli azionari, comporta che la vendita avvenga sempre in danno di chi sia attualmente socio, sicché nel conflitto fra avente causa dal socio moroso ed avente causa dalla banca mandataria, prevale il secondo.
Se anche la vendita al pubblico non ha successo, i tentativi di recuperare i conferimenti ancora dovuti non termineranno qui.
Intanto perché gli amministratori, come prevede il co. 2 dell’art. 2344, c.c., devono dichiarare decaduto il socio e devono agire nei confronti dello stesso, non più per i «conferimenti ancora dovuti», ma per il risarcimento del danno e cioè per una somma pari ai conferimenti ancora dovuti, maggiorata degli interessi a decorrere dal quindicesimo giorno successivo all’iniziale diffida, nonché dei costi sopportati per i due precedenti tentativi (offerta ai soci; vendita al pubblico) e dell’eventuale maggior danno, se esistente e documentabile, tenendo tuttavia conto delle somme versate dal socio (e dunque almeno il 25% previsto dall’art. 2344, co. 2, c.c.). Somme che, a mente della disposizione in esame, gli amministratori sono abilitati a trattenere.
La richiesta di risarcimento deve tradursi altresì in un’azione giudiziaria: tutto ciò comporta tempi e costi che potrebbero rivelarsi inutili qualora la situazione patrimoniale (immobiliare o mobiliare) dell’ex socio non offra speranza di successo. Anche questa scelta compete ovviamente agli amministratori.
8. La rimessa in circolazione delle azioni
La dichiarazione di decadenza del socio moroso priva quest’ultimo della titolarità delle azioni che aveva sottoscritto, ma non annulla le azioni stesse e dunque non determina lo scioglimento particolare del rapporto sociale. Le azioni restano nella disponibilità della società. Su questa base logico-giuridica si fondano gli ultimi adempimenti previsti dal co. 3 dell’art. 2344, c.c. e cioè il tentativo di «rimettere in circolazione» le azioni (che erano del socio decaduto) e l’eventuale assegnazione delle stesse ad un nuovo titolare o la riduzione del capitale. La dichiarazione di decadenza, dunque, si pone come una sorta di spartiacque, essendo il presupposto sia della decisione di trattenere le somme versate dal socio (e, se del caso, di agire per il risarcimento del danno), sia dell’ultimo possibile rimedio per evitare la riduzione del capitale, consistente nel rimettere in circolazione le azioni. Non credo che queste due residue opportunità siano fra loro alternative, né che fra le stesse sussista un ordine di priorità. Dopo la dichiarazione di decadenza, in altri termini, si incamerano definitivamente le somme versate dal socio moroso e si può sia chiedere il risarcimento del danno, sia rimettere in circolazione le azioni. Tuttavia, poiché la rimessa in circolazione può avvenire solo in un termine abbastanza stringente («entro l’esercizio in cui fu pronunziata la decadenza», da intendersi fino e non oltre l’assemblea che discuterà del bilancio di quell’esercizio) e potrebbe escludere o ridurre il danno, mentre l’azione risarcitoria sconta il normale termine di prescrizione (che qui è a mio avviso quello decennale ordinario) e richiederà tempi lunghi, sarà opportuno, nella maggior parte dei casi, una volta formulata la richiesta in via stragiudiziale, posporre l’esercizio dell’azione risarcitoria in sede giudiziale agli esiti del tentativo di rimettere in circolazione le azioni.
Anche la decisione sul se e quando rimettere in circolazione le azioni spetta agli amministratori e, in assenza di prescrizioni in proposito, ad essi spetterà altresì la scelta delle modalità con cui procedervi. L’opinione prevalente è che si possa procedere a trattativa privata sia con gli altri soci, sia con terzi e si possa (e si debba) mirare anche ad una soltanto parziale rimessa in circolazione delle azioni del socio moroso.
Quanto, infine, al prezzo con cui rimettere in circolazione le azioni si discute se esso debba essere pari ai conferimenti ancora dovuti sulle azioni in oggetto o soltanto ai conferimenti effettivamente richiamati (che potrebbero non essere tutti quelli residui) e non versati. Riterrei che la seconda, meno drastica soluzione possa essere anche in questo caso accolta, perché ci si trova ora, per così dire, all’ “ultima spiaggia” prima di procedere alla riduzione del capitale. Ed anzi, proprio perciò, si può pensare che qui sia lecito agli amministratori accettare un prezzo inferiore sia all’uno, sia all’altro dei parametri accennati.
9. La riduzione del capitale
L’ultimo rimedio è quello della riduzione del capitale. La riduzione prevista dall’art. 2344, c.c. è, ovviamente, obbligatoria: ed entro l’esercizio in cui è stata dichiarata la decadenza del socio moroso o, al più tardi, in occasione dell’assemblea deputata all’approvazione del bilancio del medesimo esercizio, deve sia porsi in essere ed esaurirsi il tentativo di rimessa in circolazione, sia deliberarsi la riduzione del capitale.
Questi ultimi due adempimenti, dunque, devono entrambi concludersi entro un termine abbastanza rigoroso, che tuttavia decorre da un momento – la dichiarazione di decadenza del socio – che si sa quando può logicamente avvenire, cioè dopo che si è esaurito il secondo tentativo di vendita, quello da espletare tramite banca o intermediario autorizzato, ma che non è altrettanto rigorosamente scandito sotto l’aspetto temporale. Insomma, per trovare un po’ di “respiro” prima di vedersi costretti a ridurre il capitale, gli amministratori potrebbero, da un lato assegnare alla banca (o all’intermediario) un mandato caratterizzato da un termine non troppo stringente, dall’altro prendersi un po’ di tempo prima di accertare il definitivo e infelice esito (anche) di questo tentativo e dichiarare la decadenza.
10. La sospensione del diritto di voto
«Il socio in mora con i versamenti non può esercitare il diritto di voto»: così l’ultimo comma dell’art. 2344.
A prescindere da se e cosa abbia preceduto la diffida ex art. 2344, c.c., il socio, come si è accennato, è in mora una volta vanamente trascorso il quindicesimo giorno dalla pubblicazione della diffida stessa sulla Gazzetta Ufficiale.
In virtù del meccanismo di cui all’art. 2344 c.c., sarà identico per tutti i soci il momento della decadenza e, dunque, quello in cui saranno da considerarsi in mora. Resta fermo che il socio potrebbe solo parzialmente rispondere al richiamo e liberare, come si è detto, alcune sue azioni e non altre, e quindi vedersi sospeso il diritto di voto per le seconde, non per le prime.
Si discute se la sospensione in parola possa essere statutariamente esclusa o diversamente regolata. Opterei per la prima soluzione, non essendovi qui un problema di tutela di interessi generali, ma solo di rapporti fra i soci.
La sospensione del voto comporta di per sé anche quella del diritto di intervento in assemblea: sia perché questo diritto è pur sempre funzionale al voto, sia perché la stentorea formula dell’art. 2370, co. 1, c.c. mi sembra prevalere su quella dell’art. 2368, co. 3, c.c., attenendo la prima - direttamente - al rapporto fra intervento e voto, riguardando invece la seconda il connesso, ma distinto problema del computo del quorum costitutivo dell’assemblea (ritenere a tal fine computabili le azioni prive del diritto di voto risponde alla ratio di facilitare l’attività deliberativa, ma non significa necessariamente attribuire il diritto di intervento).
Sempre con salvezza di quanto eventualmente previsto sul piano statutario, a mio avviso, la sospensione del voto, disposta dalla norma in esame, non comporta, di per sé, l’inibizione all’esercizio di altri diritti del socio, che rimane tale (benché moroso) sino alla formale dichiarazione di decadenza di cui al secondo comma dell’art. 2344, c.c.: resta dunque il diritto di impugnare le delibere (fermi i quorum a tal fine dettati dall’art. 2377, c.c.) e resta altresì il diritto a percepire gli utili, una volta che l’assemblea ne abbia deliberato la distribuzione. Ma resta anche il diritto - dovere degli amministratori, di nuovo sotto la propria responsabilità, di
formulare l’exceptio inadimpleti contractus o quella di compensazione col credito per conferimenti.
11. Le peculiarità per le s.r.l.
Le cose vanno un po’ diversamente in tema di s.r.l.
L’art. 2466, co. 1, c.c., si limita a prevedere una diffida che gli amministratori dovranno inviare al socio moroso. Non vi è cenno alla Gazzetta Ufficiale.
Il termine assegnato al socio per sanare la morosità è di trenta giorni che decorrono – è da ritenersi – dalla ricezione della predetta diffida (che andrà dunque inviata per pec o raccomandata a.r.).
Anche l’art. 2466, co. 2, c.c., prevede, qualora alla diffida non segua l’adempimento del socio, un’alternativa fra l’«azione per l’esecuzione dei conferimenti dovuti» e la vendita delle quote del socio moroso agli altri soci «in proporzione alla loro partecipazione».
La vendita è effettuata «a rischio e pericolo» del socio moroso (art. 2466, co. 2, c.c.): anche nella s.r.l., dunque, la vendita è effettuata (nell’interesse della società, ma) per conto del socio. La formula dell’art. 2344, co. 1, c.c. è però riferita all’ipotesi della vendita a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla negoziazione in mercati regolamentati, che non è ripetuta (e non pare ripetibile) in tema di s.r.l.
Mentre nella s.p.a. sia l’offerta agli altri soci, sia la vendita tramite banca o intermediario debbono avvenire per un corrispettivo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti (e cioè, si è detto, richiamati), nella s.r.l. la vendita ai soci deve avvenire «per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato» e dunque, all’esito, il socio potrebbe o risultare ancora debitore di qualcosa (pur se la vendita ha avuto pieno successo) o aver incassato qualcosa in più del suo debito per conferimenti.
Se la vendita ai soci non riesce, si può passare al tentativo (di cui invece non parla l’art. 2344, c.c.) della vendita all’incanto (art. 2466, co. 2, c.c.), ma solo se l’atto costitutivo lo consente. In mancanza di questa clausola statutaria o se neppure la vendita all’incanto riesce, gli amministratori escludono il socio; si tratta di un passaggio obbligato.
Dopo non resta che ridurre il capitale (art. 2466, co. 3, c.c.) in misura corrispondente al debito da conferimenti rimasto inadempiuto. Dunque qui, a differenza di quel che accade nella s.p.a., l’esclusione comporta de iure l’estinzione della quota del socio moroso e l’impossibilità di rimetterla in circolazione.
Con norma che riflette l’ultimo comma dell’art. 2344, c.c., l’art. 2466, co. 4, c.c. dispone che «Il socio moroso non può partecipare alle decisioni dei soci»: la diversa formula letterale adoperata è idonea a ricomprendere nel divieto anche le modalità diverse dalla delibera assembleare previste dall’art. 2479, co. 3, c.c.
L’ultimo comma dell’art. 2466, c.c. stabilisce che tutte le disposizioni dettate dai precedenti commi devono applicarsi anche qualora siano scadute o siano divenute inefficaci la polizza assicurativa o la fideiussione bancaria eventualmente prestata da qualche socio e sempre che questi non provveda al versamento in denaro del «corrispondente importo».
L’art. 2464 c.c. parla di polizza o fideiussione con riferimento sia ai conferimenti in denaro (co. 4), sia a quelli di opera o di servizi (co. 6). I secondi non sono qui in discussione. Per i primi la norma suddetta è inapplicabile, non essendo stato emanato il d.p.c.m. che avrebbe dovuto determinare le caratteristiche delle suddette garanzie.
Fonti normative
Artt. 2342, 2344, 2346, 2370, 2464, 2466 c.c.
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