di Loris Zanatta
Dilma Rousseff è stata rieletta e così, alla fine del suo mandato, il Partito dei lavoratori avrà accumulato sedici anni di potere ininterrotto. Si vede che i brasiliani sono contenti, si dirà, e chiedono continuità. Mica tanto: tutti, in realtà, si attendono cambiamenti. Vale per chi Dilma non l’ha votata, preferendole Aecio Neves del PSDB, che per poco non la sorpassa sul filo di lana; e vale per chi invece il voto gliel’ha confermato, cui non sfugge però che se finora Dilma ha ‘vissuto di rendita’, godendo dell’eredità di Lula e di una congiuntura economica eccezionale, in futuro dovrà fare meglio. Molto meglio. Pena una grave crisi.
Fare meglio cosa? Come? Cosa serve al Brasile? Cosa si aspettano i brasiliani? Il brusco mutamento di clima intorno al Brasile è davvero grande. E può, chissà, mutare di nuovo quando di qui a due anni il paese tornerà ad essere vetrina mondiale per le Olimpiadi. Forse era eccessivo descriverlo due anni orsono come un fiore sbocciato; forse lo è altrettanto ora parlarne quasi fosse appassito. Ma tale è l’umore: la baldanzosa potenza cui tutti elevavano lodi e pronosticavano trionfi, mostra oggi serie rughe: l’economia stagna, la corruzione dilaga, la protesta è già più volte esplosa, le elezioni hanno fotografato un paese diviso a metà, dopo una campagna elettorale dai toni cupi e duri. Il Brasile d’oggi pare incatenato allo storico 7 a 1 patito dai tedeschi ai mondiali.
Dilma lo sa. Così come sa che il suo stile di governo non l’ha finora aiutata: troppo tecnocrate per alcuni, troppo supponente per altri. Non è dunque un caso che all’indomani della striminzita vittoria elettorale sia subito corsa ai ripari con toni e modi inediti finora, ora invocando l’unione del paese, ora avviando consultazioni con le organizzazioni della società civile per discuterne insieme attese e proposte. E lo stesso ha fatto nei confronti degli attori economici, perlopiù delusi dalla sua gestione, l’apertura ai quali s’è subito riflessa nell’andamento dei mercati azionari, che dopo avere accolto con pessimismo la sua rielezione hanno dato credito alle sue profferte di dialogo.
Il punto, però, rimane lo stesso: che fare? Il Brasile è cresciuto e non si può negare. Ma rimane forte l’impressione che le sue energie rimangano imbrigliate e che come già in passato compia brevi e intensi ‘miracoli’ seguiti da lunghe stagioni grigie. È quel che si vede oggi, con l’economia al palo e l’inflazione al 7%, gli investimenti in calo e l’occupazione a rischio, la società che scalpita e la politica impotente. L’allarme è rosso. Ma la medicina dipende dalla diagnosi, su cui non v’è alcun consenso. Da un lato, si staglia il Brasile che col Pt ha più prosperato, sia quello popolare che ha goduto della generosa spesa pubblica, sia quello impiegatizio, forte nel frondoso apparato pubblico. È facile immaginare che tale zoccolo duro del Pt chiederà a Dilma protezione. Dall’altro lato c’è un Brasile nuovo ed eterogeneo, perlopiù frutto della grande e ancora fresca modernizzazione. È un Brasile di ceti medi più produttivi ed esigenti, istruiti e cosmopoliti, che chiede migliori servizi più che beni di base, che reclama onestà e trasparenza amministrativi, più democrazia e, spesso, una società e un’economia più aperte, libere dalle pastoie corporative di cui il Pt è garante. Con questo Brasile che lui stesso ha tenuto a balia, il PT sta perdendo contatto: è il logorio del suo lungo potere. E ora che le vacche grasse dell’ultimo decennio appaiono smunte, la coperta per compiacere gli uni e gli altri è troppo corta. L’epoca di scelte dolorose, insomma, s’avvicina: la spesa pubblica andrà ridotta e razionalizzata; la produttività incentivata; la concorrenza stimolata; le rendite corporative toccate. A meno che Dilma non celi il sogno di limitarsi a tenere il paese in linea di galleggiamento per consegnarlo tra quattro anni nelle magiche mani di Lula, cui i brasiliani non negherebbero certo un nuovo mandato. Sarebbe un grave errore: quattro anni sono lunghi e il piccolo cabotaggio non farebbe che incancrenire le tare già emerse e gli scontenti già esplosi.
Su un punto, scabroso ma decisivo, potrebbe però crearsi un clima d’intesa da cui il Brasile possa riprendere il virtuoso cammino degli anni andati: la riforma della politica. I maggiori partiti e gran parte dell’opinione pubblica potrebbero trovare su questo piano un nuovo consenso, nutrito dalla speranza che tale riforma riduca l’ormai insopportabile fardello della corruzione, che tanto grava sulla performance economica del paese e tanto avvelena il clima nel paese. Il Brasile moderno non può più poggiare su una struttura politica primitiva, al cui centro sta il Parlamento più frammentato al mondo. Un Parlamento dove il Pt, primo partito, ha appena il 13% dei seggi e non v’è legge che non richieda opachi negoziati, il cui oggetto è più la soddisfazione di tutti coloro che vi partecipano che non la produzione di leggi utili al paese. Sarebbe un’intesa parziale, da cui tutti però trarrebbero vantaggi.