confessione
. Il sostantivo, a differenza del verbo ‛ confessare ' (v.), non ha mai nell'uso dantesco lo stesso senso penitenziale di " manifestazione e accusa " dei propri peccati al sacerdote (per il quale v. oltre). A tale valore si accosta soltanto in Pg XXXI 6, quando Beatrice richiede a D. un' esplicita rivelazione delle sue colpe: a tanta accusa / tua confession conviene esser congiunta (" imperò che 'l peccato non si può purgare se non si confessa prima ", chiosa il Buti).
In Cv IV VIII 12 vale " riconoscimento ", " accoglimento " di una verità: Puote l'uomo disdicere la cosa doppiamente: per uno modo puote l'uomo disdicere offendendo a la veritade, quando de la debita confessione si priva. Analogamente in IV VIII 11 vale " riconoscimento ", " ammissione " di una condizione, di uno stato: Dico che reverenza non è altro che confessione di debita subiezione per manifesto segno (cfr. Ep V 14 Praeoccupetis faciem eius in confessione subiectionis).
In Pd III 9 vale genericamente " dichiarazione ": D., dopo aver appreso da Beatrice la natura delle macchie lunari, alza il capo per dichiarare di essere corretto dell'errore e persuaso della verità; ma, apparsagli una improvvisa visione, non si ricorda poi di questa sua confessione: di mia confession non mi sovvenne.
La parola ricorre infine in Cv I II 14, come titolo dell'opera di s. Agostino: e questa ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sé.
* *
La confessione come sacramento. - Nella disciplina penitenziale della Chiesa, la c. è non solo l'atto del peccatore che si accusa di una colpa presso il ministro della penitenza, ma anche l'atto del ministro che ascolta quest'accusa, e in genere tutto il complesso del sacramento della penitenza. D. descrive minutamente questo sacramento (Pg IX 70-147), seguendo qualche Ordo reconciliationis poenitentium o Ordo ad dandam poenitentiam, cioè rituale o manuale usato dai penitenzieri romani incaricati di confessare i romei (letteratura non ancora studiata dai liturgisti per l'epoca di Dante). Nel complesso della conversione progressiva dell'uomo peccatore, la confessione della colpa grave non è solo una tappa decisiva, ma anche un rito sacro. Onde D., accingendosi a descrivere con figure e simboli tutti gli atti sia del penitente sia del ministro, avverte: Lettor, tu vedi ben com' io innalzo / la mia matera, e però con più arte / non ti maravigliar s'io la rincalzo (Pg IX 70-72).
La porta che chiude la fenditura nella roccia (v. anche PORTA) simboleggia la confessione sacramentale come accesso al sentiero della purificazione progressiva dell'uomo peccatore durante questa vita, prima di giungere all'unione perfetta con Dio. L'angelo portiere, cioè il ministro del sacramento, tiene in mano la spada della giustizia, perché è anche giudice. Non si muove immediatamente per schiudere la porta al penitente, ma con volto severo gli chiede dove sia la sua scorta (v. 86), cioè con quali intenzioni e disposizioni egli si presenti. D. risponde che una donna del cielo, Lucia (v. 59), ossia la luce di una grazia, gli ha suggerito di andare a confessare il suo peccato. Allora il ministro pronuncia la formula dell'antico Ordo reconciliationis poenitentium (citata anche nella leggenda di s. Teofilo): Venite, invitando il penitente a compiere i tre atti simboleggiati dai tre gradini che conducono all'entrata: il primo, bianco pulito e terso, indica la confessione schietta e completa del peccato commesso; il secondo, tinto più che perso, di pietra ruvida e arsiccia, tutta crepata, designa l'atto di contrizione (" scindite corda vestra ", ecc. [Joël 2,13], cantato anche il mercoledì delle ceneri); il terzo gradino è di porfido rosso, fiammeggiante come sangue, per designare la decisione di riparare ed espiare il fallo a costo di qualche ‛ martirio ', ossia sacrificio morale o materiale, a mo' di soddisfazione. La soglia della porta è di diamante, per simboleggiare la carità, ossia l'amicizia con Dio, ricuperabile con l'assoluzione. Davanti al giudice, seduto sulla soglia con ambo le piante sul terzo gradino (v. 103), il penitente s'inginocchia per chiedere umilmente l'assoluzione (lo scioglimento del serrame); recita il Confiteor battendosi il petto tre volte, cioè a ogni " mea culpa ", e implora il giudice di aprirgli misericordiosamente la porta. Questi risponde con la formula " Misereatur ", e poi, con il punton de la spada, traccia sulla fronte del penitente sette P, corrispondenti ai sette vizi capitali, cioè alle sette inclinazioni che rimangono nella natura umana come conseguenza del peccato originale, anche dopo il battesimo e dopo la remissione dei gravi peccati attuali. Il penitente dovrà guarire progressivamente queste piaghe per mezzo della penitenza postsacramentale. L'atto di incidere i sette P, e le parole del ministro (Fa che lavi, / quando se' dentro, queste piaghe, vv. 113-114) significano l'ammaestramento impartito al penitente prima dell'assoluzione. Il confessore veste un abito che ha il colore della cenere o della terra secca, per simboleggiare l'umiltà con la quale egli deve compiere il suo ufficio di giudice. Estrae poi due chiavi, entrambe necessarie per aprire la porta, cioè per dare l'assoluzione: una d'oro, più nobile, che significa la " potestas ligandi atque solvendi " che gli è stata data, e un'altra, d'argento, più difficile da adoperare, che simboleggia l'arte e l'ingegno necessari per ‛ digroppare ' il nodo del caso di coscienza sottopostogli. Ha avuto queste chiavi dal papa (da Pietro), il quale lo ha avvertito, come suo giudice delegato o subdelegato, che sbaglierebbe più facilmente negando che non concedendo l'assoluzione a chi la chiede umilmente. Poi, aprendo la porta, cioè dando l'assoluzione, egli dice: Intrate; - e aggiunge - ma facciovi accorti / che di fuor torna chi 'n dietro si guata, perché " nemo respiciens retro aptus est regno Dei " (Luc. 9, 62), cioè chi commette di nuovo lo stesso peccato grave, ritornerà come prima nello stato d'inimicizia con Dio.
La dottrina teologica, poeticamente espressa da D., era quella della semplice catechesi, ben altrimenti sviluppata dai grandi teologi dell'epoca. Se non vi troviamo ancora la distinzione tra contrizione e attrizione, è perché questa fu elaborata sistematicamente dai teologi più tardi.