Abstract
La Costituzione italiana garantisce alle confessioni religiose una libertà eguale, e prevede la stipulazione di intese con lo Stato per la sua realizzazione. La Corte costituzionale afferma che anche le confessioni religiose senza intesa godono di eguale libertà religiosa. Questa eguaglianza implicita attiene al mero profilo negativo della libertà di culto. Solo una confessione religiosa, riconosciuta esplicitamente dallo Stato, può accedere ad una libertà religiosa più robusta o positiva. L’individuazione di queste confessioni religiose privilegiate dipende più dalle convenzioni sociali e dalla fortuna politica, che dalle loro qualità intrinseche.
L’art. 8 Cost., co. 1 dichiara che «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge». Cosa sono queste confessioni religiose, che possono essere egualmente libere davanti alla legge? E cos’è questa libertà di cui esse godono egualmente? Questa libertà è diversa dalle libertà espressive, associative e di pratica religiosa che sono già garantite a tutti i cittadini dalla Costituzione? È qualcosa di più? Le confessioni religiose hanno più diritto all’eguaglianza, in base all’art. 8, di tutti gli altri cittadini che sono già «eguali davanti alla legge» (art. 3, Cost.)? Inizialmente la confessione religiosa denota uno status giuridico relativo ad alcuni tipi di collettività identificate religiosamente. Per intendere il significato dello status giuridico della confessione religiosa dobbiamo esaminare ciò che la collettività e i suoi membri guadagnano mediante il riconoscimento in quanto tale. Questo status comporta più diritti e trattamenti privilegiati? Se sì, quali? Infine, nella misura in cui le confessioni religiose godono di trattamenti privilegiati negati ad altri individui e collettività, dovremo esaminare la legittimità di tali discriminazioni alla luce delle garanzie italiane ed europee di eguaglianza e della libertà religiosa.
È difficile identificare astrattamente il significato ontologico del termine “confessione religiosa”. Daremo conto dei tentativi fatti in tal senso. Ma qui ci concentreremo sul modo in cui lo status giuridico di una collettività identificata religiosamente può modellare i tipi di libertà religiosa di cui godono i suoi membri. Il profilo negativo della libertà religiosa fa riferimento alla libertà di credere o praticare senza l’interferenza statale; il suo profilo positivo, viceversa, include provvedimenti statali – comprese eventuali deroghe al diritto comune – o finanziamenti pubblici alla vita religiosa. Vedremo che tutti i cittadini, così come tutte le confessioni religiose, godono del diritto negativo alla libertà religiosa ex art. 19 Cost. Alcune confessioni religiose sono anche in grado di accedere alle protezioni più robuste della libertà religiosa positiva – come deroghe al diritto comune in nome della libertà religiosa e accesso a risorse pubbliche – mediante la stipula di un’intesa con lo Stato ex art. 8, co. 3, Cost.. Vedremo che la differenza tra le confessioni religiose ordinarie, da una parte, e quelle privilegiate, dall’altra, dipende principalmente da convenzioni sociali e dalla fortuna politica, piuttosto che dalle loro qualità intrinseche. Questo significa che lo Stato discrimina efficacemente le religioni su di una base fondamentalmente arbitraria, sollevando importanti questioni di giustizia.
Prima di esaminare i meccanismi esistenti per consacrare come confessioni religiose alcune comunità identificate religiosamente, gettiamo uno sguardo preliminare alla gamma delle libertà religiose garantite dalla Costituzione italiana. La libertà religiosa valorizzata nella Costituzione italiana ha due dimensioni, l’autonomia istituzionale (che può includere libertà positive) da una parte, e la libertà (principalmente negativa) di culto dall’altra. La Costituzione valorizza l’autonomia istituzionale della Chiesa cattolica nell’art. 7, con la garanzia della sua indipendenza e sovranità, e il riconoscimento della forza persistente dei Patti Lateranensi. L’art. 7 Cost. stabilisce un rapporto effettivo di “cooperazione”, secondo cui lo Stato italiano dà un sostegno materiale alla confessione religiosa cattolica: dall’insegnamento cattolico nelle scuole statali agli sgravi tributari e versamenti fiscali.
L’art. 8, co. 1, Cost., cerca di elevare anche le altre confessioni religiose allo status di quella cattolica, riconoscendo loro un «diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano» (co. 2). Infine l’art. 8, co. 3, Cost., annuncia che i rapporti delle confessioni non cattoliche «con lo Stato sono [cioè “possono essere”] regolati per legge, sulla base di intese con le relative rappresentanze». Questo profilo positivo della libertà religiosa autorizza lo Stato ad intervenire attivamente al fine di rafforzare la struttura di autogoverno dei gruppi religiosi, il finanziamento delle loro attività e la concessione di particolari trattamenti ai loro membri. Permettendo alle confessioni religiose acattoliche di godere di una relazione bilaterale con lo Stato, analoga a quella della Chiesa cattolica, il sistema delle intese previsto dall’art. 8, co.3 innesta il principio fondamentale del pluralismo religioso dentro il tronco costituzionale.
La Costituzione italiana garantisce anche un profilo negativo della libertà religiosa intesa come la libertà di praticare la propria religione senza interferenza statale. Tutti i gruppi e tutti gli individui godono del diritto «di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto…» (art. 19 Cost.); ciò comprende la libertà di coscienza interiore, la libertà di uscire da una comunità religiosa, quella di esentarsi dall’ora di religione a scuola, e anche il diritto dell’apertura di luoghi di culto (sentenza della Corte costituzionale, 23.2.2016, n. 63, par. 4.2). Questa libertà religiosa negativa si sovrappone ad altri diritti fondamentali, quali le libertà di espressione e di associazione. A differenza di altri ordinamenti, la libertà di culto in Italia non implica un diritto positivo della libertà religiosa, intesa non solo come aiuti materiali ma anche come deroghe all’applicazione di norme comuni che gravano sulla pratica religiosa di minoranze, in modo da temperare comandamenti religiosi in aree come il vestire, il digiunare, il riposare, il circoncidere gli uomini.
Una consapevolezza di queste diverse tipologie di libertà religiosa, positive e negative, complica il nostro compito di intendere il significato costituzionale della formula “eguale libertà religiosa”, visto che il beneficio principale può essere goduto solo dalle confessioni religiose. Tutte le confessioni religiose hanno diritto all’eguale accesso alla libertà positiva strutturata da un’intesa con lo Stato, ex art. 8, co. 3? Oppure eguale libertà religiosa è soltanto un’eguale libertà negativa? Nel secondo caso, non è chiaro cosa l’art. 8, co. 1 aggiunge all’eguaglianza e alla libertà già garantite dagli artt. 3 e 19. Tuttavia, se il significato è quello del primo caso, cioè se tutte le confessioni religiose hanno un diritto alla libertà positiva permessa da un’intesa con lo Stato, come possiamo rendere conto dello stato attuale in cui uno dei maggiori culti religiosi non cattolici – l’Islam – non ne ha una? Per spiegare questi paradossi dobbiamo considerare fin dall’inizio che le previsioni costituzionali sull’eguale libertà religiosa non erano state concepite per regolare il pluralismo religioso che sempre di più caratterizza la società italiana contemporanea.
I partecipanti dell’Assemblea costituente del 1946-7 avevano tratto il loro modello di confessione religiosa dalla Chiesa cattolica. Per quanto riguarda le confessioni religiose non cattoliche, quelle presenti davanti ai Costituenti «erano solo due: i ‘protestanti’… e gli ebrei». Organizzate in un consiglio federale (i protestanti) e in un’unione di comunità locali (gli ebrei), esse intervennero attivamente nelle discussioni sulla libertà religiosa nei lavori dell’Assemblea costituente. Per questo, «coloro che votarono l’art. 8 erano convinti che, a parte il Concordato, sarebbero bastate un paio di intese per chiudere la ‘questione religiosa’ in Italia: una con i protestanti (visti unitariamente e spesso identificati tout court con i valdesi) e una con gli ebrei...Altri non erano percepiti come possibili soggetti di intese» (Long, G., Alle origini del pluralismo confessionale, Bologna, 1990, 365).
I Costituenti davano per scontato che tutte (e due) le confessioni religiose non cattoliche sarebbero state in grado di stipulare un’intesa con lo Stato per le rivendicazioni dei propri diritti di libertà religiosa. Perciò, non percepivano una possibile distinzione tra quelle confessioni religiose privilegiate, capaci di stringere un’intesa per la piena realizzazione della loro libertà religiosa eguale, e quelle confessioni religiose ordinarie, prive di intese ma ancora egualmente libere. Nella sentenza n. 59 del 18.11.1958, la Corte costituzionale invece ha districato questi due possibili ordini di confessione religiosa: privilegiate alcune, ordinarie le altre. Riconoscendo una distinzione fra la libertà negativa di culto da un canto, e la libertà positiva di collaborare con lo Stato dall’altro, la Corte ha dichiarato che la possibilità aperta ad alcune confessioni religiose di collaborare con lo Stato ex art. 8, co. 3 non incideva sulla libertà religiosa di quelle altre confessioni che non volevano o non potevano raggiungere un’intesa. La Corte ha recentemente ribadito questo indirizzo nella sentenza n. 52 del 10.3.2016, in cui ha insistito che tutte le confessioni religiose, con o senza intesa, godono della garanzia fondamentale di eguale libertà. Per quanto l’estensione di eguale libertà religiosa a tutte le confessioni appaia generoso, è importante riconoscere che la Corte può intendere la generalizzazione del solo profilo negativo della libertà religiosa. Ma siccome ognuno gode già del diritto di questa libertà negativa, sia che si tratti di confessioni religiose, sia che si tratti di gruppi informali, associazioni o individui, lo status di confessione religiosa non sembra conferire un autentico valore aggiunto.
Per accedere alle prestazioni e ai privilegi ulteriori rispetto a quelli garantiti dall’art. 19, una collettività identificata religiosamente necessita di essere riconosciuta dallo Stato come una confessione religiosa consolidata. I criteri sostanziali e i requisiti procedurali per tale riconoscimento sono indeterminati, e sempre più contestati. Iniziando dai criteri più generali, possiamo dire che una confessione religiosa è una comunità unita intorno alla cristallizzazione, allo sviluppo e all’espressione di fede. Essa si distingue dalle altre formazioni sociali in virtù della sua identità collettiva, ancorata in un atteggiamento verso una dimensione trascendente (Colaianni, N., Confessioni religiose, in Enc. Dir., Agg., IV, Milano, 2000, 377 ss.).
Avendo coniato il concetto di confessione religiosa sul modello della Chiesa cattolica, i costituenti non l’avevano intesa in modo così indeterminato. Essa appariva loro piuttosto come un gruppo di persone, organizzato gerarchicamente e unito da un orientamento comune verso il trascendente. Negli anni Ottanta del secolo scorso, alcuni gruppi iniziarono ad ottenere i privilegi e le prestazioni relative al profilo positivo della libertà religiosa mediante il raggiungimento di un intesa con lo Stato.
In un primo tempo, l’assimilazione delle collettività non cattoliche al modello gerarchico della Chiesa cattolica «non suscitò particolari apprensioni». Infatti, «…il primo decennio di applicazione dell’art. 8 Cost. riguardò chiese storiche o, comunque, ben radicate nella tradizione occidentale», cioè cinque confessioni protestanti e quella ebraica (Ferrari, A., La libertà religiosa in Italia, Roma, 2012, 78). Negli anni Novanta però, la comparsa di gruppi religiosi nuovi, come la Chiesa di Scientology, ha sfidato la concezione dominante secondo cui il problema della libertà e del pluralismo religioso poteva essere risolto con “un paio di intese” con i pochi gruppi tradizionalmente presenti in Italia. Lo Stato era spinto per la prima volta a riflettere sulla definizione e sulla limitazione della libertà religiosa garantita, per «identificare un criterio utile a distinguere ciò che è e ciò che non è confessione religiosa» (Ferrari, S., La nozione di confessione religiosa (come sopravvivere senza conoscerla), in Parlato, V.-Varnier, G.B., a cura di, Principio pattizio e realtà religiose minoritari, Torino, 1995, 19ss). Ma è ancora possibile notare, come ha fatto la Corte costituzionale nel 2002, «l’assenza, nell’ordinamento, di criteri legali precisi che definiscano le ‘confessioni religiose’» (C. cost., 16.7.2002, n. 346). La Corte ha recentemente elaborato che «la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione» (C. cost., 10.3.2016, n. 52, par. 5.3). Ma, sempre in assenza di criteri definitivi attraverso cui dedurre quali gruppi sono confessioni religiose, titolari delle libertà religiose positive permesse da un’intesa, possiamo tentare di procedere induttivamente: quali sono, se ci sono, le caratteristiche comuni degli undici gruppi che sono riusciti a stipulare un’intesa con lo Stato? Innanzitutto, una confessione non cattolica deve possedere una struttura istituzionale atta a trattare con esso. La costruzione di una tale organizzazione rappresentativa può richiedere un grado di omogeneizzazione fra tradizioni religiose internamente pluralistiche. A prescindere da quest’aspetto, è difficile individuare ragioni basate su principi che permettono di privilegiare un gruppo rispetto ad un altro.
Sugli undici gruppi forniti di intese, otto sono cristiani, di cui sette protestanti. Questi gruppi protestanti hanno ciascuno la propria storia, teologia e struttura organizzativa. Ma si può notare che le differenze tra loro somigliano alle varietà interne che esistono tra i francescani, i domenicani e i benedettini all’interno della confessione cattolica. Quattro di queste confessioni protestanti riconosciute singolarmente sono derivazioni di chiese evangeliche americane migrate in Italia. La Tavola valdese, invece, unisce due gruppi religiosi distinti, i valdesi e i metodisti, in un singolo accordo con lo Stato. Altre confessioni religiose organizzate corrispondono ai movimenti religiosi transnazionali che hanno preso piede in Italia a partire dagli anni novanta, come l’Ortodossia cristiana, l’Induismo e il Buddismo. La struttura dalla comunità ebraica è sui generis, essendo stata istituita dal regime fascista per rappresentare e disciplinare le diverse comunità locali in Italia. Osservando il divario esistente tra le confessioni religiose fornite di un’intesa ed il maggiore pluralismo religioso italiano, ci accorgiamo che «...la stipulazione di intese…presuppone…la qualità di confessione religiosa,…[ma] non si identifica con essa» (C. cost., 16.7.2002, n. 346). Questo divario è clamoroso nel caso dell’Islam, la seconda minoranza religiosa in Italia. Pur essendo indubbiamente formata da una o più confessioni religiose, neanche una di loro è stata finora capace di raggiungere un’intesa con lo Stato italiano.
Il riconoscimento statale di gruppi religiosi come confessioni religiose meritevoli di libertà religiosa positiva non dipende dall’auto-qualificazione del gruppo come confessione religiosa, come ritiene parte della dottrina. Né dipende dall’applicazione di criteri oggettivi da parte delle autorità statali. Non stupisce quindi che lo Stato gode di immunità dal controllo giurisdizionale sulla relativa discrezionalità politica (C. cost., 10.3.2016, n. 52). La Corte ha difeso la discrezionalità incontrollata dello Stato di decidere con quali gruppi avviare le trattative per la stipula di un’intesa, in risposta al tentativo tormentato dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (“UAAR”) di chiederne una. Con la sua missione di promuovere i diritti civili laici, l’UAAR chiaramente non soddisfaceva i criteri minimi per essere considerata come una confessione religiosa. Volendo però sfidare il sistema ritenuto discriminatorio delle intese nel nome dei diritti civili laici, essa si era proposta ironicamente come confessione religiosa degna di un’intesa. In questa decisione, la Corte ha rigettato la pretesa dell’UAAR, in qualità di organizzazione filosofica o morale, di avere un diritto eguale a quello di altre confessioni religiose ad avviare delle negoziazioni con lo Stato, in vista del conseguimento di un’intesa. La Corte ha cercato di attutire l’impatto di questo rifiuto sottolineando l’inessenzialità dell’intesa per la «realizzazione dei principi di eguaglianza e pluralismo in materia religiosa» già sanciti dai primi due commi dell’art. 8.
Si ricorda però che i Costituenti videro le intese come strumentali alla libertà religiosa, la quale interpretavano come il diritto collettivo ad un trattamento egualmente privilegiato (rispetto a quello della Chiesa cattolica) da parte dello Stato. La Corte potrebbe essere nel giusto nell’enfatizzare che il profilo negativo della libertà religiosa non dipende da un’intesa. Ma nel dire che l’eguale libertà religiosa non dipende da un’intesa, la Corte occlude la dimensione positiva della libertà religiosa, il cui eguale godimento dipende proprio dall’intesa. Alla fine, il fatto che un gruppo religioso venga qualificato come una confessione religiosa potrebbe non essere così rilevante. Tutti i gruppi religiosi godono del profilo negativo della libertà religiosa, a prescindere dal loro status. È il passo successivo, quello di conquistare il riconoscimento statale, che può condurre ad un’intesa, che interessa una confessione religiosa alla ricerca di una libertà religiosa più robusta o positiva.
Un’intesa con lo Stato arreca importanti benefici alle confessioni religiose minoritarie tanto fortunate da averne una. Ogni intesa è diversa, ma alcune caratteristiche comuni includono il riconoscimento civile automatico dei matrimoni religiosi, le giustificazioni per le assenze – dalla scuola, dagli esami universitari, dai concorsi pubblici, ecc. – causate dalla necessità di celebrare festività religiose, la possibilità di seguire un’istruzione religiosa non cattolica nelle scuole statali e la presenza di propri ministri di culto nelle istituzioni pubbliche. Benché non più considerata una condizione legittima per l’accesso a benefici religiosi previsti da norme regionali e locali, come il terreno edificabile per i luoghi di culto, o per le sepolture religiose nei cimiteri pubblici (C. cost., 23.2.2016, n. 63), molte autorità locali ancora condizionano l’accesso a un previo riconoscimento concretizzato nell’intesa. Infine, ma non meno importante, la partecipazione al sistema delle intese comporta significativi benefici economici: essa permette alla collettività di accedere a erogazioni statali, raccolte e distribuite attraverso l’8 per mille, e di godere di detrazioni e di altre agevolazioni fiscali.
Il sistema delle intese è stato capace di riconoscere il pluralismo cristiano protestante, ma si è dimostrato incapace di affrontare il fenomeno multiforme dell’Islam in Italia; rimane da vedere con quanto successo affronterà anche le diversità interne delle altre confessioni religiose già munite d’intesa. Nella misura in cui le organizzazioni stabilite tendono a rappresentare gli elementi più tradizionali delle rispettive comunità religiose, i dissidenti progressisti potrebbero eventualmente cercare un riconoscimento proprio.
Le confessioni religiose prive di intesa sono regolate dalla l. 24.6.1929, n. 1124, sui “culti ammessi”, e dalle norme per la sua attuazione contenute nel r.d. 28.2.1930, n. 289. Seconda questa legge, «sono ammessi nello Stato culti diversi dalla religione cattolica apostolica e romana, purché non professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume» (art. 1). Queste norme stabiliscono procedure – abbastanza onerose – attraverso cui una confessione può costituirsi come un “ente morale” e ottenere il riconoscimento dei propri ministri di culto da parte dello Stato. Quest’ultima approvazione è fondamentale affinché i matrimoni religiosi possano dispiegare effetti civili, e per i ministri è indispensabile per chiedere l’autorizzazione a fornire sostegno spirituale per i fedeli negli ospedali pubblici, nelle prigioni o nelle forze armate. Questa legge permette alle confessioni minoritarie di esistere sul territorio italiano, in cambio della regolazione stringente da parte dello Stato. Prodotto di un regime autoritario, questa legge non accoglie una nozione di libertà religiosa né come un diritto positivo ad un’autonomia sostenuta dallo Stato, né come una libertà negativa nei confronti dell’interferenza statale.
Solo una quarantina di confessioni religiose ha cercato di costituirsi come enti morali ai sensi di questa legge. Tale status giuridico conferisce pochi benefici materiali, a fronte di un’odissea procedurale che coinvolge il Ministero degli Interni, il Presidente della Repubblica e il Consiglio di Stato. Al fine di disciplinare ulteriormente quali gruppi possono ottenere tale riconoscimento, il Consiglio di Stato ha precisato che una confessione religiosa senza intesa dovrebbe dimostrare di avere almeno 500 fedeli (o 5000, se sono sparsi nel paese) (Parere del Consiglio di Stato, 2.2.2012, n. 561). L’ottenimento di tale riconosciemento è tutt’oggi una condizione necessaria per l’avvio delle trattative in vista di un’intesa (http://presidenza.governo.it/USRI/confessioni/intese_indice.html ).
Nell’ordinamento costituzionale repubblicano, altre confessioni religiose possono naturalmente esistere sul territorio italiano senza essere ufficialmente ammesse in questo modo. La maggior parte di queste ricorre alla forma privatista di associazioni culturali no profit. Ciò perché il riconoscimento quale associazione, secondo il diritto comune delle associazioni (d.P.R. 10.02.2000, n. 361), rimane precluso alle associazioni aventi finalità di culto, indipendentemente dal rilievo complessivo della finalità religiosa nell’attività dell’ente (Cons. St., 10.4.2009, n. 2331). La l. 7.12.2000, n. 383, sulle Associazioni di Promozione Sociale (A.P.S.), prevede benefici – in materia fiscale, di fundraising, e di impiego di personale – alle associazioni impegnate nel Terzo settore. Però i giudici amministrativi hanno spesso condizionato l’accesso a questo status da parte di associazioni religiose allo svolgimento delle procedure onerose della legge sui culti ammessi del 1929. Questi ostacoli giuridici motivano i gruppi religiosi meno tradizionali a costituirsi come enti genericamente “culturali” non riconosciuti, per poter approfittare del regime delle A.P.S. Questo regime privilegia i gruppi religiosi nuovi, i quali possono definirsi più facilmente “culturali”, mentre quelli tradizionali rimangono identificati con il loro carattere religioso e quindi esclusi da quello status.
A dispetto della diversità di forme giuridiche che una confessione religiosa può assumere, implicando diritti diversi secondo il diritto privato, la Corte costituzionale ha ribadito che, «[d]ata l’ampia discrezionalità politica del Governo in materia, il concordato o l’intesa non possono costituire condicio sine qua non per l’esercizio della libertà religiosa» (C. cost., 23.02.2016, n. 63, par. 4.1). Nonostante questa garanzia, «molti provvedimenti normativi…continuano a distinguere fra confessioni convenzionate e confessioni senza accordi, erroneamente ritenendo che il trattamento differenziato non incide sulla garanzia costituzionale di uguale libertà» (Consorti, P., Diritto e Religione, Roma, 2014, 92). Perciò il rifiuto da parte della Corte del tentativo della Regione Lombardia di porre condizioni più stringenti per l’accesso al riparto dei luoghi di culto per le confessioni senza intesa (adottato implicitamente per impedire la costruzione di moschee) può condurre a una maggior omologazione delle confessioni con e senza intesa di fronte alla legge regionale e ai provvedimenti delle amministrazioni locali.
Ci si può chiedere se queste discriminazioni a discapito di confessioni religiose in base al loro status giuridico gravino sulla libertà religiosa in modo tale da costituire una violazione degli artt. 9 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Recentemente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riscontrato violazioni quando la discriminazione statale tra gruppi religiosi operata sulla base del loro status giuridico ha impedito ad alcune minoranze religiose di godere di benefici concessi a gruppi più visibili (C. eur. dir. uomo, 25.9.2012, Jehovaszeugen in Österreich c. Austria; C. eur. dir. uomo, 26.4.2016, İzzettin Doğan ed altri c. Turchia). Tali decisioni possono fornire aiuto alle confessioni religiose non riconosciute in Italia nel loro tentativo di contestare norme discriminatorie.
Il problema della discriminazione delle confessioni senza intesa non si risolve semplicemente con un’estensione delle intese a tutte. A prescindere dalle concezioni dei costituenti, non possiamo più accettare che le confessioni religiose debbono raggiungere un’intesa con lo Stato per potere godere pienamente della loro eguale libertà religiosa. Per questa ragione, l’insistenza della Corte costituzionale sull’assenza di relazione tra la stipulazione di un’intesa e il raggiungimento di un’eguale libertà religiosa ha un forte richiamo normativo (per quanto possa essere manchevole, allo stato attuale, di accuratezza descrittiva): anziché rafforzare l’importanza dell’intesa per il godimento della libertà religiosa, concedendo il diritto alla tutela giurisdizionale avverso la decisione di non avviare trattative, la decisione della Corte potrebbe invece condurre verso una maggiore marginalizzazione delle intese. Finora le intese sono state il modo più facile per gestire il pluralismo delle collettività religiose. Esse sono state importanti per impostare alcune garanzie particolari per l’ottenimento di una libertà religiosa positiva che possono essere generalizzate al fine di costruire una libertà più eguale per tutte le confessioni religiose. Ma una crescente marginalizzazione delle intese ora potrebbe fornire lo spazio necessario per una legislazione nuova, atta a superare la normativa sui culti ammessi. La maggior attuazione del principio di pluralismo religioso ci dovrebbe portare verso una legislazione che garantisca a tutte le associazioni religiose (e forse anche a tutte le organizzazioni no profit con finalità altruistiche o umanitarie) una libertà eguale, a prescindere dal fatto di essere o meno fornite di un’intesa.
Nel frattempo, possiamo vedere che la Costituzione stessa contiene i semi per un’interpretazione di libertà religiosa più ampia di quella negativa della mera non-interferenza dello Stato. L’art. 19 Cost. garantisce a tutti il libero esercizio di culto. Possiamo notare che altre giurisprudenze, come quella della Corte suprema statunitense, quella canadese, o della Corte europea dei diritti dell’uomo, interpretano le rispettive garanzie della libertà di culto in modo da richiedere agli stati di concedere esenzioni dall’osservanza di norme nel caso in cui queste gravino eccessivamente sulla pratica religiosa. La giurisprudenza di queste corti dimostra la possibilità di tutelare la libertà religiosa in un modo più robusto per tutti, anche in assenza di un intervento legislativo. Questa prassi delle corti certamente non risolve il problema dell’incompetenza profonda che caratterizza i tentativi dello stato secolare di determinare i confini del fenomeno religioso. Al contrario, così facendo si trasferiscono le relative decisioni dal potere amministrativo e legislativo a quello giudiziario. Tuttavia, pur riconoscendo la competenza limitata dello stato di fronte al sublime, possiamo apprezzare la sensibilità delle corti nei confronti delle rivendicazioni di diritti, assieme alla loro relativa insularità rispetto alle pressioni politiche, che le potrebbero predisporre a prendere delle decisioni relativamente equilibrate nelle circostanze qui considerate.
Artt. 7, 8, 19 Cost.; l. 24.6.1929, n. 1124; R.d. 28.2.1930, n. 289; d.P.R. 10.02.2000, n. 361; l. 7.12.2000, n. 383; artt. 9, 14 CEDU.
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