confine linguistico
Un confine linguistico è il limite estremo convenzionale del territorio sul quale è diffusa una ➔ varietà linguistica. Esso trova corrispondenza con la realtà politico-amministrativa solo nei casi in cui ci si riferisca a situazioni ufficiali codificate, ad es., se si considera la corrispondenza (indipendentemente dagli usi dialettali) tra la pratica ufficiale dello spagnolo e del francese e il confine di stato dei rispettivi paesi, o se si prendono in considerazione delimitazioni nette di tipo etnico-linguistico come quella, interna al Belgio, tra Valloni e Fiamminghi.
Più complessa è la delimitazione di un confine dell’italiano come lingua nazionale, considerando che il suo uso con prerogative istituzionali scavalca la frontiera con la Svizzera, mentre situazioni di co-ufficialità tra l’italiano da una parte, e il francese, il tedesco e lo sloveno dall’altra rendono problematico sostenere che ci sia una coincidenza piena tra confini linguistici e confini di stato in Valle d’Aosta, Alto Adige e Venezia Giulia. Va osservato ancora che il confine sancito dall’uso ufficiale di una lingua non corrisponde necessariamente con quello di un’area dialettale che abbia come ‘tetto’ prevalente tale idioma: all’esterno della frontiera di stato esistono così dialetti italoromanzi (liguri, veneti) che si confrontano con lingue ufficiali diverse (francese, sloveno), mentre all’interno di essa si parlano dialetti galloromanzi (provenzali, francoprovenzali) che hanno come tetto l’italiano. La metafora del confine, assai discussa a livello metodologico (Marcato 2001; Cordi, Franceschini & Held 2002), viene usata anche per rappresentare fratture e discontinuità significative negli usi linguistici sul territorio (➔ aree linguistiche): tali confini hanno realtà oggettiva solo nel caso di lingue e dialetti genealogicamente distanti (ad es., il confine linguistico della stretta di Salorno, fra Trento e Bolzano, divide i dialetti germanici tirolesi dai dialetti italoromanzi veneto-tridentini), mentre, fra lingue della stessa famiglia, il passaggio fra le varietà dialettali è il più delle volte poco sensibile.
La ➔ geografia linguistica mostra infatti che non esistono limiti precisi fra dialetti in generale, ma solo confini di singoli fatti linguistici. E se è possibile tracciare linee di demarcazione di singoli fenomeni, quando si pone l’esigenza di tracciare un confine linguistico occorre considerare piuttosto fasci di isoglosse variamente intersecantisi o contigue, in quanto i fenomeni fonetici e morfologici, anche i più importanti, non seguono praticamente mai le stesse linee di confine. È inoltre essenziale determinare il rango da attribuire a ciascuna ➔ isoglossa come tratto distintivo: solo se su uno stesso asse geografico insistono più isoglosse significative sarà possibile individuare in sincronia un confine netto, tale da determinare una classificazione rigorosa delle varietà linguistiche da esse delimitate.
Nella pratica, è difficile individuare criteri oggettivi per definire i requisiti minimi di distanza interlinguistica che consentono di parlare di due varietà geneticamente affini ma distinte (Muljačić 1997). Nondimeno, alcuni confini linguistici rappresentano acquisizioni consolidate e generalmente accolte: ad es., l’attuale distribuzione dei plurali in -s e in -i (o con desinenza zero) e quella della conservazione dei nessi consonante + l e della loro palatalizzazione fissano con una certa evidenza il confine tra le aree galloromanza e italoromanza lungo le Alpi occidentali. Al contempo, però, i dialetti parlati al di sopra di una linea convenzionale che unisce le città di La Spezia e di Rimini (la cosiddetta linea La Spezia-Rimini) offrono una serie di fenomeni di natura prevalentemente fonetica (lenizione delle consonanti in posizione intervocalica: [k] > [g], [b] > [v], ecc.; tendenza alla caduta delle vocali atone e finali, ecc.; ➔ indebolimento), che associano le parlate settentrionali a un’area estesa sulla Francia, le Alpi e la Penisola Iberica.
In tal modo si distinguono non solo i dialetti italiani settentrionali da quelli centro-meridionali, ma anche, tra le lingue romanze, una Romània occidentale da una orientale che comprende, oltre ai dialetti italiani centro-meridionali, le varietà neolatine presenti nei Balcani. L’esempio citato sottolinea ulteriormente il carattere convenzionale di tali distinzioni: infatti, come si è visto, altri aspetti della fonetica, della morfologia, ecc., definiscono in senso unitario oggi come oggi il sistema dei dialetti italiani, settentrionali e centro-meridionali (Pellegrini 1977).
Va inoltre sottolineato che i confini linguistici sono soggetti a variazioni nel tempo: per rimanere agli esempi citati, la documentazione storica e i procedimenti di ricostruzione consentono di ipotizzare fasi anteriori in cui la maggior parte dei dialetti settentrionali condivideva con quelli galloromanzi e retoromanzi tratti che oggi sono presenti solo a livello residuale, compresi il plurale sigmatico e la conservazione dei nessi consonantici: fatto che in diacronia attribuisce ulteriore rilievo alla linea La Spezia-Rimini.
Se a livello macroscopico pare dunque evidente che ai confini linguistici va attribuito carattere relativo, a maggior ragione si potrà discutere sul rango da attribuire ad essi a mano a mano che si scende nel dettaglio della descrizione areale. Un valore analogo a quello della linea La Spezia-Rimini si riconosce, ad es., a una frattura altrettanto vistosa come quella che isola (lungo una linea che passa a sud di Ancona e di Roma) la Toscana e una contermine area mediana dal tipo specificamente meridionale, che conosce, ad es., i fenomeni di ➔ metafonia e il passaggio -[nt]- > -[nd]-.
La delimitazione di un confine linguistico diventa più incerta quando ci si propone di individuare tipi dialettali ancor più caratterizzati. Ad es., il confine linguistico tra l’area ligure e quella più propriamente galloitalica è dato convenzionalmente da un fenomeno innovativo come le palatalizzazioni dei nessi pl-, bl-, fl- (tipo cianta «pianta», giancu «bianco», sciama «fiamma», rispetto a pianta, bianc, fiama), e da un tratto conservativo come la conservazione delle vocali atone e finali (tranne dopo -l-, -r-, -n-). Tuttavia, molti dialetti a nord dello spartiacque ligure-padano presentano di volta in volta la palatalizzazione ligure ma non la conservazione delle vocali (soprattutto a nord-ovest), o solo (essenzialmente a nord-est) la conservazione delle vocali. A seconda delle interpretazioni e del valore attribuito a questi due marcatori di identità linguistica si potranno dunque considerare liguri tutti i dialetti a nord dello spartiacque, o solo quelli del settore occidentale, o solo quelli del settore orientale, o nessuno di essi.
La difficoltà di determinare i confini linguistici è data anche dall’esigenza di analizzare una parlata marginale o periferica a partire da un raffronto in astratto con dialetti che risultano portatori di tutti i tratti che individuano la tipicità di un’area. La netta distanza interlinguistica che esiste, ad es., tra i dialetti di Milano e di Venezia (detentori dei caratteri più tipici delle rispettive aree dialettali lombarda e veneta) viene colmata sul territorio intermedio dal progressivo venir meno delle differenze più estreme, soprattutto in quelle ‘zone grige’ dove i caratteri fonetici, morfosintattici e lessicali delle due aree appaiono associati per l’inestricabile intreccio di isoglosse. Diventa allora necessario attribuire maggiore o minore importanza a un certo fenomeno. Il problema viene spesso risolto in prospettiva diacronica: quanto più un’isoglossa pare antica e radicata, tanto più essa dovrebbe costituire un confine linguistico oggettivo; ma, in assenza di precise testimonianze storiche, l’individuazione della fisionomia più antica in un dialetto che si presenta strutturalmente «misto» resta spesso congetturale.
A livello prescientifico, tradizionale e percettivo, la determinazione di confini linguistici tra tipi dialettali geneticamente affini è variamente motivata: entrano in gioco fattori che a livello scientifico si considerano in genere dotati di minore valenza distintiva (lessico, intonazione), e spesso si valorizza, più che la varietà locale, il modello di koinè tradizionalmente adottato per motivi di appartenenza politico-amministrativa, di relazioni economiche, ecc. Inoltre, a livello percettivo, la determinazione dei confini linguistici è spesso condizionata da dati extralinguistici, di tipo culturale in senso lato, storico, geopolitico, e anche etnico e religioso. Ciò che ‘ci si sente’ a livello locale, così, non trova necessariamente corrispondenza nell’analisi scientifica, e il fatto di rivendicare la propria appartenenza a un’area linguistica o a un’altra, o di affermare un’autonomia della parlata locale rispetto a quelle circostanti, può riflettere l’importanza attribuita a solidarietà o appartenenze amministrative, o per contro il ripudio di esse, anche come superamento di complessi di inferiorità linguistica.
Cordin Patrizia, Franceschini, Rita & Held, Gudrun (a cura di) (2002), Parallela 8. Lingue di confine, confini linguistici. Grenz-sprachen. Grenzen von linguistischen Phänomenen. Atti dell’VIII incontro italo-austriaco dei linguisti (Trento, 8-10 ottobre 1998), Roma, Bulzoni.
Marcato, Gianna (a cura di) (2001), I confini del dialetto. Atti del Convegno Sappada/Plodn (Belluno, 5-9 luglio 2000), Padova, Unipress.
Muljačić, Žarko (1997), Un fantôme terminologique: la distance linguistique minimale, in Actes del Congrés europeu sobre planificació lingüística (Barcelona, 9-10 novembre de 1995), Barcelona, Generalitat de Catalunya, Departement de Cultura, pp. 34-37.
Pellegrini, Giovanni Battista (1977), Carta dei dialetti d’Italia, Pisa, Pacini.