Abstract
Come la Costituzione italiana disciplini i modi di composizione giudiziale delle controversie insorte tra i poteri dello Stato e come lo strumento si sia evoluto nella prassi.
L’espressione “conflitti costituzionali” è generalmente riferita alle controversie che insorgono tra gli organi costituzionali, ossia tra le istituzioni che esercitano il potere pubblico al livello più elevato. Conflitti costituzionali sono insorti in ogni fase della storia dei sistemi politico-costituzionali, ben prima che si diffondesse l’uso di dotarli di una costituzione scritta. Anzi, si può dire che l’evoluzione delle forme organizzate di cui si sono dotati i sistemi politico-costituzionali sia sempre stata stimolata da conflitti costituzionali e dalla crisi che essi hanno prodotto.
Prima che fossero introdotte le costituzioni scritte, le controversie costituzionali più gravi venivano assai spesso risolte ricorrendo alla forza delle armi, traducendosi perciò in episodi di guerra civile. Esemplari in tal senso sono i conflitti insorti nella storia costituzionale inglese, che ha fornito i paradigmi per l’evoluzione di tutti i sistemi costituzionali europei. Si pensi allo scontro tra Parlamento e il re Carlo I Stuart attorno ai rispettivi poteri, scontro sfociato in una vera e propria guerra, conclusasi con l’esecuzione del re sconfitto con le armi; oppure al conflitto insorto tra le colonie del Nord America a le istituzioni della madre patria attorno al potere del governo inglese di imporre tasse sulle colonie in violazione del principio no taxation without representation. Ma i conflitti costituzionali non furono certo prerogativa della sola storia britannica. La fronda parlamentare, per esempio, che oppose il Parlamento di Parigi alla Corona francese fu a suo modo un conflitto costituzionale, anch’esso sfociato in una guerra civile; per non parlare delle vicende che dettero luogo alla Rivoluzione francese e all’esecuzione di Luigi XVI; e poi degli sviluppi che portarono alla Restaurazione.
La diffusione della scrittura delle Costituzioni, a partire da quella nord-americana, si spiega anche con la necessità di prevenire controversie così sanguinose, dettando regole sufficientemente precise circa i ruoli delle istituzioni politiche e i loro reciproci rapporti.
La scrittura della Costituzione però di per sé non è sufficiente a prevenire i conflitti costituzionali e le crisi conseguenti. Tutto il XIX secolo fu segnato dal diffondersi di costituzioni scritte in Europa, ma anche di continue crisi, risolte per lo più con la repressione armata. Erano al tempo stesso crisi sociali e crisi istituzionali, attraverso le quali la forma di governo dei principali Paesi europei venne trasformandosi, sospinta dell’evoluzione dell’equilibrio tra due istituzioni che in genere si fronteggiavano, il re e il parlamento, e tra le diverse basi sociali su cui esse poggiavano. La progressiva estensione dell’elettorato, sino all’affermazione del suffragio universale (almeno maschile), ha progressivamente spostato il conflitto sociale dalle piazze all’interno delle istituzioni costituzionali - nel parlamento segnatamente - favorendo la composizione giuridica delle controversie politiche attraverso le regole della procedura parlamentare. Ma le gravi crisi costituzionali che favorirono l’ascesa al potere dei regimi fascisti dimostrano che tale strumentazione non era sufficiente a trattenere i conflitti costituzionali nelle maglie del diritto costituzionale.
Nella costituzione rigida si è individuato nel corso del ‘900 lo strumento capace di ridurre il rischio della degenerazione tanto dei conflitti sociali quanto dei conflitti costituzionali.
La costituzione rigida risponde alla pretesa di sottoporre al diritto anche il comportamento degli organi politici di vertice, trasformando così i conflitti politici in conflitti giuridici. Questa ambizione si riflette sia sul piano dei diritti individuali, ai quali si assicura una difesa giurisdizionale anche contro la legge votata dal sommo organo della rappresentanza politica, sia sul piano della forma di governo, che fissa i poteri e i rapporti reciproci tra gli organi costituzionali. Quelli che per secoli sono stati conflitti risolti con le armi e lo spargimento di sangue, ora diventano vertenze trattate con le armi del diritto di fronte a un giudice.
Il fenomeno, che era nuovo per il nostro ordinamento al momento dell’adozione della Costituzione repubblicana, aveva antecedenti nell’esperienza degli stati tedeschi del secolo XIX (cfr. Grassi, S., Conflitti costituzionali, in Dig. disc. pubbl., III, Torino, 1989, 365). Da essa abbiamo tratto i modelli giuridici ma anche un certo scetticismo circa l’efficacia delle soluzioni tratteggiate in Costituzione: le controversie costituzionali, infatti, sarebbero “conflitti altamente politici” che non è bene affidare al giudizio di un giudice, anche perché inevitabilmente ne provocherebbe la politicizzazione (è la nota tesi di Schmitt, C., Der Hüter der Verfassung, tr. it. Milano, 1981, 240). Questo scetticismo era diffuso anche tra i membri dell’Assemblea costituente, che fu incerta sino all’ultimo sull’opportunità di affidare questo tipo di controversie alla Corte costituzionale. È stato Costantino Mortati, nelle battute finali della discussione in Assemblea (seduta meridiana del 28 novembre 1947) a proporre di cancellare questo compito dalle funzioni della Corte: «A me pare che, estendere la competenza di un organo costituzionale al caso di conflitti che hanno carattere politico, e che sono espressione di un’alterazione del rapporto delle forze politiche, sia non solo non utile, ma pericoloso, e, quindi, da escludere. L’insufficienza della Corte, al compito che le si vorrebbe attribuire, finirebbe con l’ingenerare il discredito nella sua opera, discredito destinato a ripercuotersi anche sulla parte dell'attività ad essa più propria».
Benché la composizione dei «conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato» sia invece rimasta tra le funzioni assegnate alla Corte costituzionale (art. 134 Cost.), nella stesura della Costituzione non si è riusciti a delimitare con maggior precisione i soggetti le;gittimati al giudizio o le funzioni in esso difendi;bili, prefe;rendo lasciare alla giurisprudenza costituzionale il compito di modellare nell'esperienza concreta tutte le categorie necessarie; e altrettanto ha scelto di fare la legge ordinaria di organizzazione dei lavori della Corte (cfr. Relazione Tesauro alla L. 11.3.1953, n. 87). Però neppure la giurisprudenza costituzionale ha potuto consolidare i tratti della disciplina dei con;flitti. Ha preferito procedere a vista, caso per caso, senza ricercare una definizione soddisfacente e mi;ni;mamente stabile dei termini chiave del giudizio. Forse è stata una strategia consapevole: siccome il conflitto di attribuzione tra gli organi costituzionali sembrò sin dall’inizio costituire l’ultimo dei rimedi possibili per trattenere nel tessuto del diritto e nella disciplina costituzionale le controversie che possono mettere in crisi il delicato sistema di governo – «baluardo della costituzione e dell'ordine democratico» lo definì il relatore alla Costituente (cfr. Relazione dell’on. Patricolo alla Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione) – si è preferito non ingessare il ricorso a questo strumento per consentire di ricorrervi in tutte le possibili ma imprevedibili circostanze critiche in cui quel sistema potrebbe un giorno trovarsi (per questa tesi cfr. Bin, R., L’ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996).
Sin dall’inizio, comunque, la funzione del giudizio sui conflitti è stata svalutata, sul presupposto che fosse quantomeno improbabile che gli organi costituzionali che si ripartiscono il potere politico accettino di rivolgersi agli strumenti del diritto per risolvere i grandi con;flitti politici tra loro insorti. Di «generosa utopia» scrisse Vezio Crisafulli (Crisafiulli, V., Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 19845, 411), paragonando l’introduzione dei conflitti di attribuzione ai tenta;tivi di ricondurre all'ONU le controversie internazionali; e di «mito» parlò Paolo Barie (Barile, P., Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 19752, 326). Atteggiamenti analoghi si ritrovano però anche nella letteratura successiva.
I conflitti insorti nei primi decenni di esperienza sembrano confermare lo scetticismo della dottrina, dato che essi sono insorti non tra gli organi politici, ma su temi molti vicini a quelli tradizionali dei conflitti tra potere esecutivo e potere giudiziario, già conosciuti in epoca pre-fascista (e, allora, devoluti dalla L. 31.3.1877, n. 3761 alla competenza delle Sezioni Unite della Cassazione romana), cioè sulla linea di confine tra politica e giurisdizione. La Corte costituzionale si dovette occupare infatti di questioni spesso minuscole (come i poteri relativi alla pesca del novellame o all’apertura delle piste di sci, rivendicati dalla pubblica amministrazione contro l'autorità giudiziaria: cfr. rispettivamente C. cost. 24.7.1981, n. 150 e 23.12.1986, n. 283) oppure di circoscritte vertenze tra le commissioni parlamentari d’inchiesta e i giudici penali (C. cost. 21.1.1975, n. 13 e 22.10.1975, n. 231, 13.2.2008, n. 26). Nelle oltre 270 decisioni prodotte dalla Corte costituzionale relative ai conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato dal 1975 in poi, la stragrande maggioranza riguarda controversie sorte tra magistrature e organi politici. Oltre 160 sono le sentenze che riguardano un problema specifico, cioè l’insindacabilità dei parlamentari per le opinioni espresse e i voti dati «nell'esercizio delle loro funzioni» (art. 68, co. 1 Cost.). È questa una norma che tradizionalmente protegge i singoli parlamentari in via strumentale rispetto al fine essenziale di salvaguardare la posizione e la funzione costituzionale del Parlamento (cfr. Zanon, N., Parlamentare (status di), in Dig. Disc. Pubbl., vol. X), ed è considerata perciò una delle condizioni, dei presupposti dell’indipendenza delle Camere dagli altri poteri dello Stato (Dogliani, M., Immunità e prerogative parlamentari, in Il Parlamento, a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 2001, 1009 ss.); essa però è stata sistematicamente invocata dai membri del Parlamento per proteggersi dalle azioni civili e penali causate da opinioni espresse fuori delle Camere e spesso senza alcuna connessione con i lavori delle stesse. Per cui la Corte costituzionale ha dovuto intervenire centinaia di volte (per ogni conflitto la Corte deve prima decidere, con ordinanza, sulla sua ammissibilità e poi, con sentenza, in merito alla fondatezza del ricorso), di solito su iniziativa della Camera di appartenenza, per le “esternazioni” (televisive, giornalistiche ecc.) offensive di singoli parlamentari. Per il solo Vittorio Sgarbi la Corte ha dovuto pronunciarsi (tra ordinanze e sentenze) in oltre 112 occasioni, in larghissima parte con esito sfavorevole all’insindacabilità.
A parte questi usi indebiti e inopportuni del conflitto di attribuzione, le controversie insorte tra organi giudiziari (o di controllo) ed apparati politici ha riguardato altre zone critiche. Una dei protagonisti di questi conflitti è indubbiamente la Corte dei conti, per le sue stesse funzioni di controllare la legittimità degli atti del Governo e di verifica contabile dell’attività degli apparati pubblici. Accanto a conflitti, per così dire, più “ordinari”, attinenti agli atti e agli enti che possono essere esentati dal controllo, la Corte costituzionale è stata chiamata a decidere questioni di più elevato “tono costituzionale”, come quella della autonomia contabile degli organi costituzionali (C. cost. 24.6.1981, n. 129). Ipotesi contigue di contrasti “ordinari” tra organi giudiziari e organi politici possono ritrovarsi facilmente nei punti in cui lo stesso ordinamento costituzionale pone gli uni e gli altri a diretto contatto, come in relazione alla qualificazione dei comportamenti dei membri del Governo come reati ministeriali, circondati da particolari garanzie procedurali (C. cost. 14.2.2012, n. 87 e 88), oppure nei rapporti di necessaria collaborazione tra Consiglio superiore della Magistratura e Ministro della giustizia (C. cost. 9.7.1992, n. 379 e 18.12.2003, n. 380).
Altra zona in cui i conflitti si sono rilevati lo strumento “normale” con cui risolvere i contrasti tra organi giudiziari e istituzioni politiche, il Governo in particolare, è il segreto di Stato, che il Governo – appunto – ha facoltà di opporre su documenti o circostanze che potrebbero essere rilevanti nelle indagini e nel processo penale (C. cost. 10.4.1998, n. 110; 16.12.1998, n. 410; 10.11.2000, n. 487; 3.4.2009, n. 106; 23.2.2012, n. 40; 13.2.2014, n. 24; 13.7.2017, n. 83).
Talvolta la Corte costituzionale, specialmente nei giudizi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regione (v. infra § 6), ha indicato la necessità che le siano sottoposte soltanto questioni di sicuro “tono costituzionale”. In effetti la stragrande parte dei conflitti tra poteri dello Stato ha un profilo molto basso, riguardando questioni minute, casi di rilevanza politico-costituzionale estremamente limitata. All’origine ci sono le limitate occasioni di sovrapposizione o di “interferenza” tra attività che spettano a organi costituzionali diversi – soprattutto tra organi giudiziari e organi politici - che si sono descritte in precedenza. Si tenga presente che nel nostro sistema costituzionale non c’è una radicale separazione delle attribuzioni dei diversi “poteri”, ma vige piuttosto il principio della loro reciproca collaborazione; per cui è normale che i poteri divisi abbiano zone di contatto e interferenze reciproche. In questi casi il rispetto dell’altrui sfera di attribuzione si manifesta nel modo in cui un potere agisce nei rapporti con l’altro: «lealtà e correttezza» sono un’endiadi che la Corte impiega per indicare la condotta doverosa e ispirata al rispetto, in quei casi, del principio di divisione dei poteri (cfr. R. BIN, Il principio di leale cooperazione nei rapporti tra poteri, in “Rivista di Diritto Costituzionale”, 2001, 3 ss.). Rari sono perciò i conflitti di attribuzione in cui acquista rilievo il principio di separazione dei poteri, che cioè si basano sulla rivendicazione dell’attribuzione (vindicatio potestatis), mentre nella grande maggioranza dei casi entrano in gioco le modalità con cui i poteri collaborano e interferiscono nelle rispettive funzioni. Il principio costituzionale di collaborazione vuole che nessun organo dello Stato possa tenere comportamenti o produrre decisioni capaci di bloccare il funzionamento di un soggetto o di un processo decisionale previsti dalla costituzio;ne, senza che contro quelle decisioni sia possibile reagire contestandone la legitti;mità in sede di conflitto.
Anche se hanno riguardato più spesso interferenze che vere e proprie invasioni di competenza, alcuni dei conflitti di attribuzione proposti hanno però investito controversie di notevole rilevanza, sia teorica che politico-costituzionale.
In una occasione (C. cost. 22.5. 1978, n. 69), la Corte ha dovuto affrontare un conflitto promosso dal Comitato promotore del referendum contro l’Ufficio centrale (un organo di tipo giurisdizionale, istituito presso la Corte di cassazione e incaricato di verificare la legittimità della richiesta di referendum) che aveva bloccato le operazioni relative alla consultazione referendaria sulle disposizioni di una legge che il Parlamento aveva tempestivamente abrogato per sostituirle con altre norme sostanzialmente eguali. La questione era piuttosto complessa, perché, negando la legittimazione dei promotori del referendum a reagire ad un espediente tattico messo in atto dal Parlamento, si sarebbe lasciato quest’ultimo padrone di frustrare a suo piacere qualsiasi effettiva possibilità di attivare lo strumento previsto dalla Costituzione come “contropotere” rispetto alla maggioranza parlamentare. Nessun altro strumento giuridico avrebbe potuto essere utilizzato dai promotori che avevano messo in moto la lunga e faticosa procedura che porta al voto popolare; d’altra parte, per riconoscere ad essi la qualifica di “potere” era necessario compiere un passo che portava ben al di là delle nozioni tradizionali di “potere dello Stato”, riconoscendo che a tale nozione non sono riconducibili soltanto le istituzioni e i loro organi, ma anche lo stesso corpo elettorale. E così i promotori del referendum hanno in seguito potuto difendere (sia pure con scarso successo) il loro ruolo nelle campagne elettorali referendarie, contestando le decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi in nome delle regole della par condicio (C. cost. 13.11.2000, n. 502 e C. cost. 10.6.2009, n. 174).
Un altro conflitto insorto nei rapporti tra le istituzioni politiche è stato il “caso Mancuso”, che prende il nome dal Ministro di giustizia del Governo Dini, colpito da una mozione di sfiducia individuale da parte del Senato per «l’insanabile contrasto» sorto tra lui e il Governo, mozione che «lo impegna a rassegnare le dimissioni». Ma, invece di dimettersi, Mancuso sollevò conflitto di attribuzione nei confronti del Senato, accusandolo di interferire nelle sue attribuzioni di Ministro della giustizia e contestando il potere delle Camere di votare la sfiducia ai singoli ministri, anziché all’intero Governo. Il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica confezionarono allora un decreto con cui, preso atto della mozione votata dal Senato e del conseguente venir meno della «condizione essenziale e indefettibile della permanenza nella carica di ministro», si decretò che il Presidente del Consiglio assumeva ad interim l’incarico di Ministro della giustizia. Mancuso sollevò conflitto anche contro questo atto, ma la Corte gli dette torto su tutta la linea: considerò legittima la sfiducia al singolo ministro, come atto di controllo politico; considerò “atto dovuto” le dimissioni a seguito di un voto “individuale” di sfiducia; considerò un adempimento del suo ruolo di garante della Costituzione l’atto con cui il Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, “solleva” il ministro “sfiduciato” dal suo incarico e provvede alla sua sostituzione.
Questo episodio dimostra che lo strumento del conflitto può rivelarsi utile proprio in quelle controversie di sicuro “tono costituzionale” che insorgono tra organi politici-costituzionali in vista delle quali era stato introdotto. Certo è però che si tratta di controversie piuttosto periferiche rispetto al cuore di quel complesso di relazioni tra i poteri che disegnano la “forma di governo”. Oltretutto il “caso Mancuso” è arrivato alla Corte costituzionale soltanto perché il circuito politico non era riuscito a metabolizzare il contrasto insorto tra il Governo e la sua maggioranza, da un lato, e un ministro indisciplinato, dall’altro: nei casi in cui in precedenza era stata presentata la mozione di sfiducia “individuale”, il Governo era prontamente intervenuto a “coprire” la responsabilità politica del ministro rendendola collegiale – il che però non era riuscito al Governo Dini a causa della debolezza politica sua e della sua maggioranza.
Certamente sono di “tono costituzionale” alcuni conflitti sollevati da Presidente della Repubblica. Non tutti però: i conflitti sollevati – e persi – da Francesco Cossiga, ormai cessato dalla carica, contro i giudici civili che procedevano per danno da ingiuria e diffamazione a causa di dichiarazioni pronunciate nel corso del mandato presidenziale (C. cost., 24.5.2004, n. 154 e C. cost., 4.7.2007, n. 290), si collocano sulla stessa linea di demarcazione tra la funzione degli organi giudiziari e i privilegi di chi ricopre cariche politiche su cui si sono sviluppati i tanti conflitti relativi all’applicazione dell’art. 68 Cost. ricordati in precedenza. Sulla stessa linea si colloca anche il conflitto sollevato – e vinto - dal Presidente Giorgio Napolitano contro la Procura della Repubblica di Palermo a seguito dell’attività di intercettazione telefonica “indiretta” svolta nell’ambito di un procedimento penale (C. cost. 15.1.2013, n. 1).
Sotto il profilo costituzionale, l’aspetto distintivo di questi conflitti sta, più che nell’attribuzione contesa, nella qualità del “potere” che li ha sollevati, trattandosi del Presidente della Repubblica. In altre occasioni però il Capo dello Stato è stato il promotore di conflitti che non riguardavano i rapporti con il sistema giudiziario, ma avevano al centro una questione prettamente politica sorta nei rapporti con il Governo: il valore della controfirma ministeriale. Si tratta dello strumento con cui la Costituzione garantisce la irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio della sua funzione, atti che non sono validi se non controfirmati dai «ministri proponenti», che ne assumono la responsabilità (art. 89 Cost.). Per come è delineata dalla Costituzione, la controfirma comporta una collaborazione necessaria dei due organi, costituendo perciò anche il possibile punto di attrito tra di essi. Il casus belli è stato l’esercizio del potere di grazia. Il primo episodio si è registrato nel 1991 quando il Presidente Cossiga, intenzionato a concedere la grazia a Renato Curcio, uno dei padri delle “brigate rosse”, si scontrò con l’opposizione del Ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli; allora il Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, avocò al Consiglio dei ministri la questione provocando la dura reazione di Martelli, che sollevò il conflitto di attribuzione sia contro il Presidente del Consiglio che contro il Presidente della Repubblica. I quali però, saggiamente, desistettero dal loro proposito, consentendo a Martelli di rinunciare al ricorso, cosicché la Corte costituzionale poté liberarsi della questione prima di pronunciarsi sulla sua ammissibilità (C. cost., ord. 9.10.1991, n. 379). Ma il problema si ripropose anni dopo, quando fu il Presidente Ciampi a sollevare conflitto contro il Ministro Castelli, che si opponeva alla concessione della grazia a Ovidio Bompressi. In questo caso la Corte costituzionale dovette pronunciarsi nel merito del conflitto e lo risolse dando ragione al Presidente della Repubblica a cui – spiega la Corte – spetta il potere di concedere la grazia, restando le attribuzioni del ministro limitate «ad attestare la completezza e la regolarità dell’istruttoria e del procedimento seguito» (C. cost., 3.5.2006, n. 200).
La vicenda del conflitto sulla titolarità del potere di grazia è un sintomo del deterioramento del quadro politico-istituzionale. Difficile da immaginarsi era in precedenza l’ipotesi di un conflitto promosso dal Presidente della Repubblica in carica: il suo ruolo infatti lo porta ad esercitare funzioni di equilibrio e di moderazione nello svolgimento delle attività di tutti gli altri organi costituzionali. Il che significa che possibilità di sovrapposizione tra le sue funzioni e quelle degli altri poteri dello Stato sono del tutto fisiologiche per il funzionamento del sistema: ma proprio per questo era estremamente improbabile che da ciò sorgesse un conflitto “formalizzato” e dedotto davanti al giudice. La questione del potere di concedere la grazia non è certo il problema più rilevante che si sia posto nelle relazioni tra gli organi costituzionali, ma, proprio perché ben circoscritto, ha avuto un seguito giurisdizionale. Altri problemi, ben più scottanti, sono stati trattati restando nell’ambito delle relazioni politiche: si pensi all’inaudito scontro tra il Presidente Napolitano e il Presidente del Consiglio Berlusconi nel “caso Englaro”, in merito all’emanazione di un decreto-legge che avrebbe voluto obbligare l’alimentazione e idratazione per soggetti non autosufficienti, in aperto contrasto con la sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione (Cass. civ., sez. I, 16.10.2007, n. 21748): in quel caso, pur essendo ogni tappa della controversia resa di dominio pubblico, il grave contrasto politico non sfociò in un contenzioso costituzionale, anche perché difficilmente si sarebbe potuto contestare il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare l’emanazione del provvedimento. Fu invece il Parlamento a sollevare conflitto contro la Cassazione lamentando l’invasione della sua attribuzione in quanto potere legislativo (ma la Corte fu perentoria – e sottilmente critica - nel dichiarare il conflitto inammissibile: C. cost., ord. 8.8.2008, n. 334).
La grave crisi delle relazioni politiche e istituzionali consente ormai che molte controversie, che un tempo restavano ristrette dalle maglie delle relazioni e delle soluzioni politiche, rompano quella rete e si affaccino al giudizio della Corte costituzionale.
Un primo caso aveva visto protagonista un movimento politico (La rosa nel pugno) che ricorse al giudice costituzionale contro le due Camere perché le modifiche legislative appena apportate alle norme sulla competizione elettorale avrebbero comportato oneri procedurali inaffrontabili dalla ricorrente per la raccolta delle firme e la definizione delle candidature. La Corte costituzionale non ha avuto difficoltà a dichiarare l’inammissibilità del conflitto (C. cost., ord. 22.2.2006, n. 79): non tanto perché ne era oggetto una legge (la Corte aveva eccezionalmente ammesso che il conflitto possa sorgere anche su un atto legislativo laddove non esista un giudizio nel quale si possa sollevare la questione di legittimità costituzionale in via incidentale: questa giurisprudenza, iniziata con C. cost., 8.5.1995, n. 161 con riferimento al decreto-legge, si è estesa a ogni atto legislativo con C. cost., 7.7.2005, n. 284); la ragione dell’inammissibilità è invece motivata dal fatto che i partiti politici non sono configurabili come “poteri dello Stato”, perché ad essi non sono assegnati «specifici poteri di carattere costituzionale».
Di recente sono stati promossi altri conflitti che in precedenza erano rimasti ristretti nel geloso ambito dei rapporti politici. Così come il giudizio incidentale sulle leggi è stato “forzato” per estendere il controllo di costituzionalità delle leggi anche alle leggi elettorali (il riferimento è alle ben note sentenze C. cost. 13.1.2014, n. 1 e 12.3.2015, n. 35 con cui si è dichiarato la parziale illegittimità delle leggi in vigore, spalancando la porta della rilevanza della questione), anche il conflitto di attribuzione accenna ad essere “forzato” per portare al giudizio della Corte costituzionale conflitti tra le forze politiche, insorti nei lavori parlamentari e che hanno ad oggetto il rispetto delle regole procedurali fondamentali e, almeno in parte, fondate nella Costituzione. Questa è una prospettiva dischiusa da un conflitto sollevato da esponenti parlamentari di minoranza contro le modalità con cui si è approvata l’ennesima legge elettorale. Il conflitto è stato dichiarato inammissibile per evidenti carenze dei ricorsi (C. cost., ord. 21.12.2017, n. 280; più di recente si vedano anche le ord. 163 e 181 del 2018): ma è certo che la conflittualità politica non sembra più in grado di essere trattenuta nelle maglie della mediazione tra i partiti e quindi ricerca nella Corte costituzionale il suo arbitro. Il conflitto di attribuzione ben si presta a svolgere questa funzione, proprio in forza della natura residuale che lo connota: nessun conflitto può essere rifiutato dalla Corte costituzionale solo perché “politico”, anziché “giuridico”; dichiararlo inammissibile perché “politico” si;gnificherebbe in realtà affermarne che le pretese di chi lo solleva non hanno alcuna base costituzionale, che non c’è nessuna “regola” costituzionale invocabile. Se la Corte costituzionale rinunciasse a risolvere la controversia nel merito, ritenendo che il conflitto sia meramente “politico”, farebbe arretrare la linea di espansione del principio di legalità costituzione.
Anche i conflitti di attribuzione che insorgono tra Stato e regioni (e i rarissimi sorti tra regioni) possono essere ricondotti ai “conflitti costituzionali”. In essi infatti si disputa attorno all’appartenenza di funzioni che devono essere di livello costituzionale. La Corte costituzionale infatti insiste spesso sulla necessaria salvaguardia del “tono costituzionale” del conflitto, e ciò per una ragione evidente. Tra Stato e regioni i conflitti di attribuzione non possono mai sorgere su atti legislativi, perché per essi c’è lo specifico strumento dell’impugnazione diretta dell’atto illegittimo; né si potrebbe tollerare che, attraverso l’estensione dello strumento del conflitto anche agli atti legislativi, si venisse a derogare ai termini tassativi per l’impugnazione della legge. Quindi i conflitti che insorgono attengono tutti a profili amministrativi: sicché il confine tra il campo proprio del conflitto di attribuzione, il cui giudizio è riservato alla Corte costituzionale, e il campo del ricorso al giudice amministrativo è spesso assai labile. Da qui la fortuna del requisito del “tono costituzionale” che viene richiesto dalla Corte costituzionale anche per diradare l’intenso contenzioso tra enti che le viene sottoposto e che non sempre si eleva al livello di questioni di effettivo rilievo costituzionale.
Fonti normative
Art. 134 Cost.; L. 11.3.1953, n. 87, Capo III, sez. I; norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, Capo III.
Bibliografia essenziale
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