Conflitti di attribuzione con altri poteri dello Stato
Il regime giuridico delle intercettazioni delle comunicazioni del Presidente della Repubblica è il nodo interpretativo che la Corte costituzionale è stata chiamata a sciogliere in seguito al proponimento di un conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato. Di fronte a un dato normativo per lo più carente sul punto, la Corte ha sistematicamente ricostruito il sistema costituzionale delle attribuzioni presidenziali, dal quale ha fatto conseguire un divieto assoluto di ammissione, acquisizione e valutazione di questo peculiare mezzo di ricerca della prova.
Se fino a ieri il conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato poteva essere considerato come un “istituto giuridico” sconosciuto ai più, oggi esso si presenta come qualcosa di cui tutti discutono e parlano. L’osservazione scaturisce dal clamore sollevato dall’eccezionale conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica contro la Procura della Repubblica di Palermo sulla questione relativa alle registrazioni casuali di conversazioni telefoniche intercorse fra un indagato (legittimamente intercettato) e il Presidente della Repubblica (quale soggetto terzo ed estraneo al procedimento in corso)1.
Può il Presidente della Repubblica essere intercettato? Possono essere usate, se rilevanti, le intercettazioni telefoniche “presidenziali” in un processo? In quali casi e con quali modalità debbono essere distrutte?
Si tratta di quesiti che per essere sciolti richiedono una corretta delimitazione delle attribuzioni di cui sono titolari rispettivamente il Presidente della Repubblica e il p.m. quale organo titolare dell’esercizio dell’azione penale. E la Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 134 Cost., è l’organo deputato a risolvere tali quesiti qualora su di essi si venga a creare uno scontro “interpretativo” fra gli organi costituzionali coinvolti2.
E un contrasto interpretativo è effettivamente sorto. Da una parte la Procura di Palermo sosteneva di poter chiedere al giudice nel contraddittorio delle parti, ai sensi dall’art. 268 c.p.p., di valutare la rilevanza delle intercettazioni presidenziali casualmente raccolte e di disporre la distruzione di quelle irrilevanti. In senso difforme si esprimeva il Presidente della Repubblica, secondo il quale, in tal modo, venivano lese le sue attribuzioni costituzionali: il Presidente della Repubblica non può essere mai intercettato; le eventuali intercettazioni effettuate devono essere distrutte senza poterne valutare la rilevanza e senza alcun contraddittorio fra le parti.
Sulla base di tale diversa ricostruzione della disciplina giuridica – non composta “spontaneamente” fra i due organi costituzionali – la Corte costituzionale è stata chiamata a intervenire e ha risolto il conflitto dichiarando che «non spettava alla Procura di Palermo omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali di conversazioni del Presidente della Repubblica, né valutarne la irrilevanza, offrendole alla udienza stralcio disciplinata dall’art. 268 c.p.p.» 3.
Il dato più significativo della pronuncia della Corte costituzionale non è tanto (o comunque non è solo) il come essa ha risolto il conflitto, quanto piuttosto il percorso argomentativo prescelto. La Corte infatti si è trovata di fronte a una macroscopica lacuna: né la Carta costituzionale, né le leggi costituzionali o ordinarie, né i regolamenti parlamentari tracciano la disciplina delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, al di fuori di quelle consentite per i reati di alto tradimento e attentato alla costituzione ex art. 68 Cost. In pratica i testi normativi regolano solo un’ipotesi speciale: nulla si dice per il resto. Ed è noto come una lacuna possa portare a risultati interpretativi alquanto eterogenei: nel silenzio normativo è consentito o è vietato l’uso di questo mezzo di ricerca della prova?
Proprio per tale motivo nella motivazione della decisione spicca la premessa metodologica. Secondo la Corte «in tutte le sedi giurisdizionali occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa. La Carta fondamentale contiene in sé principi e regole, che non soltanto si impongono sulle altre fonti e condizionano pertanto la legislazione ordinaria – determinandone la illegittimità in caso di contrasto – ma contribuiscono a conformare tale legislazione, mediante il dovere del giudice di attribuire ad ogni singola disposizione normativa il significato più aderente alle norme costituzionali, sollevando la questione di legittimità davanti a questa Corte solo quando sia impossibile, per insuperabili barriere testuali, individuare una interpretazione conforme. Naturalmente allo stesso principio deve ispirarsi il giudice delle leggi. La conformità a Costituzione dell’interpretazione giudiziale non può peraltro limitarsi a una comparazione testuale e meramente letterale tra la disposizione legislativa da interpretare e la norma costituzionale di riferimento. La Costituzione è fatta soprattutto di principi e questi ultimi sono in stretto collegamento tra loro, bilanciandosi vicendevolmente, di modo che la valutazione di conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, a esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela».
In virtù di tale premessa metodologica, la Corte ricorre continuamente ai consolidati canoni ermeneutici diversi da quelli letterali: interpretazione sistematica, interpretazione a fortiori, interpretazione ad absurdum, interpretazione a contrario.
In particolare, poi, la Corte segue un percorso esegetico a tappe, ognuna della quali si pone come premessa logica della successiva: in primis individua le funzioni del Presidente della Repubblica; quindi delinea i poteri attraverso cui si esplicano le funzioni presidenziali; dopodiché specifica le modalità attraverso cui i poteri possono essere efficacemente esercitati; quindi – e infine – codifica la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni come naturale e inevitabile conseguenza di tutte le premesse sistematiche poste.
Quanto alle funzioni, la Corte individua un’inedita figura di Presidente della Repubblica, il cui ufficio è definito come “magistratura di influenza”.
Quanto ai poteri, la Corte dota il Presidente della Repubblica del “potere di persuasione”, il quale si manifesta non tanto in atti formali e tipizzati normativamente, ma soprattutto in attività informali non codificate: incontri, comunicazioni e raffronti dialettici.
Quanto alle modalità, si specifica che l’esercizio di tutte le attività presidenziali è connotato dalla riservatezza assoluta. Si tratta di una modalità “imprescindibile” e “intangibile” in quanto è il solo mezzo che rende efficace l’esercizio della funzione di equilibrio costituzionale affidata al Presidente della Repubblica.
Da tali premesse la Corte ha potuto “codificare” il regime giuridico delle intercettazioni: i) divieto assoluto di intercettare le comunicazioni del Presidente della Repubblica; ii) divieto di qualsiasi uso processuale; iii) divieto di valutare la rilevanza delle intercettazioni comunque eseguite; iv) obbligo di distruzione immediata4.
In particolare poi, il secondo divieto (l’inutilizzabilità) si collega al primo (il divieto probatorio) e lo completa. A monte, l’intercettazione è una prova inammissibile, vietata dalla legge: si tratta di una vera e propria regola di esclusione. A valle il divieto si atteggia come sanzione processuale di inutilizzabilità: unica conseguenza per le intercettazioni casualmente registrate, le quali non possono essere vietate preventivamente proprio perché non volute; conseguenza rafforzativa invece per quelle dirette o indirette, eseguite cioè violando la regola di esclusione.
Inoltre – e si tratta degli aspetti più controversi della decisione – la Corte proibisce di valutare la rilevanza dei colloqui presidenziali e ne impone la distruzione immediata e totale a opera del giudice in assenza di contraddittorio ex art. 271 c.p.p.: un diverso regime frustrerebbe la funzione di “magistrato di influenza” del Presidente della Repubblica.
Dopo l’intervento della Corte costituzionale mancava tuttavia ancora un “tassello”: quale è la forza e il rango di questa decisione che ha risolto questo eccezionale conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato? Si tratta di un interrogativo più complesso di quanto possa sembrare a prima vista: e la Corte di cassazione è stata chiamata a risolverlo5.
Secondo la Corte di cassazione la decisione della Corte costituzionale non è impugnabile, né direttamente, né indirettamente attraverso l’atto giurisdizionale che ne dà attuazione. Ciò vuol dire, da una parte, che l’autorità giudiziaria ordinaria è obbligata a dare corso a quanto stabilito dal giudice delle leggi; dall’altra, che i terzi non possono ricorrere avverso i provvedimenti dell’autorità giudiziaria che eseguono la pronuncia. In definitiva il contenuto della sentenza della Corte costituzionale è insindacabile: è un giudicato costituzionale.
La questione più controversa, tuttavia, è un’altra: ci si deve chiedere, infatti, se la vicenda possa ritornare di fronte alla stessa Corte costituzionale. E in effetti in dottrina c’è chi riconosce la praticabilità di percorsi attraverso cui si può sollecitare un “ripensamento” del giudice delle leggi. Il problema evoca la tematica più ampia relativa alla “revocatoria” delle decisioni della Corte costituzionale. A tal proposito, se pur in riferimento ai giudizi di incostituzionalità, si è già osservato che «nel suo significato formale, la forza di giudicato della sentenza d’incostituzionalità comporta che non esista istanza giurisdizionale ulteriore, alla quale sia possibile ricorrere o appellarsi per ottenere l’annullamento o la riforma di quanto deciso. Diversa è la questione, mai affrontata nella pratica, se sia possibile – trattandosi di cosa diversa dall’impugnazione – la revocazione della decisione, in quali forme e in quali circostanze»6.
Da questo punto di vista c’è chi si pone in un’ottica di tutela del diritto di difesa di tutti coloro che non hanno partecipato al giudizio sul conflitto, vale a dire gli altri poteri dello Stato e i terzi privati coinvolti comunque nella vicenda. I primi, qualora si ritenessero lesi nelle loro prerogative proprio in forza della decisione della Corte, sarebbero legittimati a sollevare un nuovo conflitto di attribuzioni rivendicando a sé stessi la competenza che la Corte costituzionale ha attribuito invece ad altri7. I secondi, se titolari di un interesse giuridico rilevante, sarebbero invece legittimati a sollevare incidentalmente una questione di legittimità costituzionale della soluzione offerta, al fine di far rimuovere dalla stessa Corte il precedente giudicato sul conflitto8. Tuttavia, poiché il problema che si vuole risolvere risiede nella sola necessità di garantire il diritto di difesa di coloro che non hanno partecipato al giudizio, si riconosce poi che la soluzione debba essere trovata altrove: nella possibilità di un intervento di tali soggetti nello stesso conflitto9. E in tal senso la Corte costituzionale si sta sempre più orientando10.
C’è invece chi si pone in un’ottica diversa, ponendo l’accento sul valore da assegnare, nel sistema delle fonti del diritto, alla decisione della Corte che risolve un conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato.
Da una parte, si ritiene che la Corte costituzionale possa nuovamente essere interpellata attraverso un giudizio incidentale di legittimità costituzionale: si potrebbero infatti segnalare profili di illegittimità della soluzione adottata, stimolando così una riconsiderazione da parte dello stesso giudice delle leggi11. Dal punto di vista formale si osserva che la Corte costituzionale ha deciso sul conflitto e non sulla costituzionalità dell’art. 271 c.p.p.: di conseguenza ben potrebbe essere sollevata una questione di legittimità sulla procedura di distruzione delle intercettazioni telefoniche come delineata dalla stessa Corte costituzionale12.
La soluzione autorevolmente patrocinata sembrerebbe trovare la sua giustificazione sulla base di un assunto teorico non esplicitato: l’assimilazione, quanto a natura, fra le sentenze di incostituzionalità additive e quelle di risoluzione dei conflitti: entrambe sarebbero fonti del diritto. In ambo i casi la Corte costituzionale immette nel sistema nuove norme di rango primario: «crea interstizialmente una norma apocrifa»13. Quanto a struttura le due tipologie di decisioni sono assimilabili: ambedue introducono una nuova disciplina giuridica all’interno dell’ordinamento14.
Di conseguenza, come per le sentenze additive, anche per le risolutive dei conflitti si pone il dilemma dell’eventuale sottoponibilità al giudizio di legittimità costituzionale delle previsioni normative primarie da esse inserite nel sistema giuridico. Una parte della dottrina – affrontando il problema dal punto di vista delle dichiarazioni di incostituzionalità – auspica tale possibilità rispetto al tema delle sentenze additive. Si sostiene che «le sentenze di incostituzionalità, in tutte le loro manifestazioni, certamente comportano conseguenze obiettive sull’ordinamento giuridico. L’eventuale questione di costituzionalità proposta ‘sulle norme quali derivano da una sentenza di accoglimento’ non può essere considerata un’indebita contestazione del giudicato: nemmeno quando la norma in questione sia stata introdotta da una sentenza additiva. Se così fosse, ci troveremmo di fronte alla produzione di norme di rango costituzionale, e non invece di fronte a ridefinizione di leggi – cioè a leggi pur sempre – sottoposte al loro normale controllo di costituzionalità. Il giudicato sostanziale della Corte è cosa che attiene alle vicende processali in cui il controllo di costituzionalità si svolge, ma non può trasformare la propria natura fino a diventare sigillo obiettivo d’intoccabilità, impresso in parti dell’ordinamento giuridico»15.
Non si può negare che tali riflessioni possano essere trasportate anche alle conseguenze normative prodotte dalle decisioni sui conflitti fra i poteri dello Stato. In definitiva, secondo tale ricostruzione, la risoluzione del conflitto sulle intercettazioni telefoniche ha immesso nel sistema una nuova norma primaria, la quale può essere sindacata dalla Corte costituzionale, come qualsiasi altra norma primaria.
Ebbene, tale assimilazione non appare persuasiva perché esiste una differenza fondamentale: la Corte risolvendo questo peculiare conflitto ha immesso nel sistema «norme di rango costituzionale»: essa ha infatti colmato una «lacuna costituzionale»16.
A ben vedere la pronuncia della Corte non ha né assegnato a una disposizione legislativa primaria un significato, come accade con le sentenze interpretative di accoglimento (o di rigetto); né ha integrato l’enunciato di una disposizione primaria, come accade con le sentenze additive di accoglimento; essa piuttosto ha integrato il testo della Costituzione nel quale non c’è traccia della disciplina delle intercettazioni al di fuori di quanto stabilisce l’art. 68.
La Corte infatti sancisce il divieto di intercettare il Presidente della Repubblica (neanche indirettamente o casualmente) al di fuori dei casi previsti dall’art. 68 Cost.; impone l’immediata distruzione delle intercettazioni eseguite in violazione del divieto, introducendo anche delle deroghe; regola la procedura di distruzione: siamo in presenza di «legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale»17.
A seguito della risoluzione del conflitto, dunque, non solo il legislatore ordinario è vincolato per il futuro ma anche gli interpreti, per la ragione che non si può far dichiarare incostituzionale una norma di rango costituzionale (se non nei rari casi in cui contrasti con i principi supremi dell’ordinamento18).
E nella sentenza della Corte di cassazione emerge proprio questo profilo: la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa è manifestamente infondata perché sulla norma censurata la Corte costituzionale ha impresso il sigillo della costituzionalità19.
1 Ricorso conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato (merito) n. 4/2012.
2 Zagrebelsky, G., Processo costituzionale, in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 674 s.
3 C. cost, n. 15.1.2013, n. 1.
4 Su cui cfr. Galantini, N., Un commento a prima lettura della sentenza della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione tra il Capo dello Stato e la Procura di Palermo, in www.penalecontemporaneo.it, 25.1.2013; Orlandi, R., Distruggete quelle intercettazioni, in Cass. pen., 2013, 1347; Giupponi, T.F., Inviolabilità del Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, in Cass. pen., 2013, 1357.
5 Cass. pen., sez. VI, 18.4.2013, n. 18373, Ciancimino, in C.E.D. Cass., n. 255161/62/63.
6 Zagrebelsky, G.-Macernò, V., Giustizia costituzionale, Bologna, 2012, 417.
7 Cerri, A., Corso di giustizia costituzionale, Milano, 2012, 446.
8 Cerri, A., Corso di giustizia, cit., 446; contra, C. cost., 24.7.2000, n. 344.
9 Cerri, Corso di giustizia, cit., 446.
10 Cfr. C. cost., 23.3.2001, n. 76.
11 Cordero, F., L’arcano d’ancien regime, in La Repubblica, 18.1.2013, 31.
12 Cordero, F., L’arcano, cit., 31.
13 Guastini, R., Le fonti del diritto, Milano, 2010, 384.
14 In tal senso si compari il dispositivo dell’attuale pronuncia della Corte costituzionale e quello di C. cost., 23.3.2012, n. 68, relativo al 630 c.p.
15 Zagrebelsky, G.-Macernò, V., Giustizia costituzionale, cit., 417 s.; contra C. cost., 10.4.2001, n. 108.
16 Cfr. Zagrebelski, G., Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione, in La Repubblica, 17 agosto 2012, 1.
17 Zagrebelski, G., Napolitano, cit., 1.
18 Cfr. C. cost., 29.12.1988, n. 1146.
19 Cass., sez. VI, 18.4.2013, n. 18373, Ciancimino, cit.