Conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato
Con la decisione adottata all’udienza pubblica del 4 dicembre 2012, la Corte costituzionale ha risolto un inedito, quanto importante conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Presidente della Repubblica nei confronti del Procuratore della Repubblica di Palermo. Il conflitto denunciava le limitazioni alle prerogative costituzionali del Presidente per avere il p.m., nel corso di un’indagine, registrato, valutato (sia pure ai fini di stabilirne la irrilevanza) e non immediatamente distrutto, registrazioni di conversazioni telefoniche – captate con intercettazioni – nelle quali compariva, quale interlocutore accidentale del soggetto intercettato il Capo dello Stato.
Con ricorso del 30.7.2012 (pubblicato in G.U., I Serie speciale - Corte costituzionale, n. 39 del 3.10.2012), il Presidente della Repubblica ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo «in relazione all’attività di intercettazione telefonica, svolta nell’ambito di procedimento penale dinanzi alla Procura della Repubblica di Palermo, effettuata su utenza di altra persona nell’ambito della quale sono state captate conversazioni del Presidente della Repubblica».
L’antefatto del conflitto – come si chiarisce preliminarmente nello stesso ricorso – è rappresentato dalla circostanza che, nel corso di un’intervista, il Procuratore della Repubblica di Palermo aveva ammesso l’esistenza, nell’àmbito di un’attività di indagine preliminare, della casuale intercettazione di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, specificando successivamente – su formale richiesta dell’Avvocatura dello Stato (in tal senso sollecitata dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica) – di aver già valutato l’irrilevanza di dette intercettazioni ai fini del procedimento e di non prevederne, pertanto, «alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge», vale a dire con l’autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti, secondo quanto previsto dalla normativa in materia. Affermava infatti il Procuratore della Repubblica che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel corso dell’intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione». Tesi, questa, contestata nel proposto ricorso, con il quale l’Avvocatura dello Stato, sollevando il conflitto, ha richiamato innanzitutto il disposto dell’art. 90 Cost. e dell’art. 7 l. 5.6.1989, n. 219. In forza di tale normativa, salvo i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione, «le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette ed occasionali, sono da considerarsi assolutamente vietate e non possono, quindi, essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione». La tesi del ricorso è che «l’avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni» anche ai soli fini della loro eventuale utilizzazione; «la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento»; nonché «l’intento di attivare una procedura camerale che – anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto – aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte» costituiscono altrettante condotte dell’organo inquirente idonee ad integrare lesione o quantomeno menomazione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica.
L’argomentazione di tale assunto muove dall’esegesi dell’art. 90 Cost., il quale – secondo il ricorrente, che richiama la più autorevole dottrina sul punto – configura non soltanto l’irresponsabilità giuridica del Presidente della Repubblica, «ma anche una irresponsabilità politica diretta a garantire la piena libertà e sicurezza di tutte le modalità di esercizio delle funzioni presidenziali», ciò che comporta «l’assoluta riservatezza» di ogni attività presidenziale propedeutica e preparatoria rispetto al compimento di atti tipici. In questa prospettiva, «l’immunità sostanziale e permanente» dell’organo è posta a protezione della persona fisica che ne è titolare e si collega necessariamente all’esercizio della funzione. La prerogativa, dunque, lungi dal prospettarsi quale inammissibile ed anacronistico privilegio, è strettamente funzionale «agli altissimi compiti» che il Capo dello Stato è, per Costituzione, chiamato a sostenere nell’espletamento della funzione di garanzia a tutela degli interessi permanenti della Nazione e della sua unità. Nell’espletamento di tali funzioni – si argomenta ancora nel ricorso – «al Presidente della Repubblica deve essere assicurato il massimo di azione e di riservatezza, appunto perché alcune attività che egli pone in essere, e certamente non poco significative, non hanno carattere formalizzato» e l’immunità sostanziale prevista nell’art. 90 Cost. vale, appunto, a salvaguardare tutta l’attività, sia formalizzata, sia non formalizzata, del Presidente, così delineando un equilibrato rapporto tra poteri e responsabilità. In sintesi, l’immunità si configura «come un essenziale strumento di garanzia dell’attuazione della Costituzione».
A non diverse conclusioni si perviene – secondo l’Avvocatura ricorrente – con l’interpretazione sistematica della l. 5.6.1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’art. 90 della Costituzione), il cui art. 7 prevede, per un verso, al comma 2, l’inviolabilità delle determinazioni e delle comunicazioni del Presidente durante il mandato, e, per altro verso, al comma 3, l’espresso ed assoluto divieto di disporre intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione nei confronti del medesimo organo costituzionale, senza alcuna eccezione, consentendo le intercettazioni solo dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica. Da tale divieto assoluto di intercettazione diretta in costanza di carica, discende «che debba esistere anche un divieto altrettanto assoluto delle intercettazioni qualora fossero captate in modo indiretto o casuale», proprio in quanto, fino a quando è in carica, il Presidente della Repubblica non può subire limitazione alcuna nelle sue comunicazioni, risultando altrimenti lesa la sfera di immunità riconosciutagli. Il rispetto delle prerogative costituzionali – si argomenta ancora in ricorso – porta dunque ad escludere l’acquisibilità della prova penale in forma invasiva ed incompatibile con l’assoluta libertà di determinazione e di comunicazione che la carica presidenziale comporta. Ne discende «che il divieto di intercettazione riguarda anche le c.d. intercettazioni indirette o casuali, comunque effettuate mentre il Presidente della Repubblica è in carica». Gli effetti di tale divieto – diretta espressione dell’immunità presidenziale – sono poi conseguenti alla portata della sua intrinseca ratio: innanzitutto, essi sono da rinvenire nell’evidente inutilizzabilità delle intercettazioni medesime, ma soprattutto, nella necessità di «procedere alla distruzione immediata del testo intercettato» ai sensi dell’art. 271 c.p.p., a norma del quale «i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati quando le stesse siano state eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge e il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni … sia distrutta». Infatti, benché non espressamente richiamate dal citato art. 271 c.p.p, «valgono a fortiori per il Capo dello Stato le stesse tutele e la stessa disciplina vigenti per l’intercettazione del difensore (art. 103 c.p.p.)»: divieto assoluto di esecuzione dell’intercettazione e divieto assoluto di sua utilizzazione, trattandosi di atto eseguito «fuori dai casi consentiti dalla legge». Tutto ciò – si afferma ancora nel ricorso – si riflette inevitabilmente sulla procedura di distruzione della captazione illegittima avente ad oggetto conversazioni del Presidente della Repubblica: in particolare, non saranno applicabili né l’art. 268, co. 4 ss. (deposito delle intercettazioni presso la segreteria del p.m.; acquisizione delle conversazioni indicate dalle parti; stralcio delle registrazioni di cui è vietata l’utilizzazione, ecc.); né l’art. 269 c.p.p. (conservazione dei verbali e registrazioni; udienza camerale per la distruzione); né, ancora, l’art. 270 c.p.p. (utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi). D’altra parte, a regolare tale fattispecie non potrebbe essere richiamata, in via analogica, neppure la disciplina dettata dall’art. 6 l. 20.6.2003, n. 140, in tema di intercettazioni indirette o casuali nei confronti di un parlamentare. Tale assimilazione – che presupporrebbe l’indebita assimilazione della posizione del Presidente della Repubblica a quella del parlamentare – è da escludersi in forza di una serie di inequivoci indici normativi e sostanziali. Innanzitutto, il parlamentare – a differenza del Capo dello Stato – può essere sottoposto ad intercettazione da parte del giudice ordinario, previa autorizzazione della camera di appartenenza; inoltre, il legislatore del 2003 non ha dettato alcuna previsione relativa alle intercettazioni indirette o casuali del Presidente della Repubblica, così «presupponendo, all’evidenza, che per esse non può valere la stessa distinzione tra intercettazioni dirette ed indirette stabilita per quelle dei parlamentari»; infine, sussistendo – per le intercettazioni indirette relative a reati a carico d’altri – una evidente differenza di ratio della tutela del parlamentare rispetto a quella del Capo dello Stato, nel primo caso venendo in rilievo solo la protezione della privacy, mentre, nel caso del Presidente, la garanzia assoluta della sua funzione.
Se, dunque, è da escludere che l’operatività dell’art. 7, co. 3, l. n. 219/1989 valga solo per le intercettazioni dirette di conversazioni del Capo dello Stato e se per contro – alla luce di un’interpretazione conforme alla portata dell’immunità di cui all’art. 90 Cost. – deve ritenersi applicabile a dette intercettazioni “soltanto” l’art. 271 c.p.p., ne discende, nella vicenda in esame, un «non corretto uso del potere giurisdizionale» da parte del Procuratore della Repubblica di Palermo. In particolare, il ricorso censura l’indebita registrazione delle intercettazioni nelle quali casualmente ed indirettamente era coinvolto il Presidente della Repubblica; la valutazione della (ir)rilevanza delle stesse (benché pacifica e non contestata); e l’ipotizzato svolgimento di un’udienza, ex art. 268 c.p.p., finalizzata alla trascrizione integrale delle predette intercettazioni, alla valutazione della loro irrilevanza (con facoltà dei difensori di estrarne copia) ed all’autorizzazione del g.i.p., sentite le parti, alla distruzione: procedura, questa, inapplicabile alla fattispecie e foriera di un ulteriore e grave vulnus alle prerogative presidenziali.
Il ricorso, pertanto, conclude richiedendo che la Corte costituzionale adita dichiari «che non spetta alla Procura della repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali del Presidente della Repubblica, né spetta valutarne la (ir)rilevanza offrendole all’udienza stralcio di cui all’art. 268 c.p.p.»
Con l’ordinanza n. 218 del 20.9.2012, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto. La Procura della Repubblica di Palermo, in persona del Procuratore della Repubblica, con memoria depositata l’11.10.2012, si è costituita nel giudizio costituzionale. Dopo un’ampia premessa relativa ai fatti oggetto dell’indagine ed all’attività di intercettazione svolta, comprese le modalità tecniche di essa, la Procura ha dedotto innanzitutto l’inammissibilità del ricorso per impossibilità del petitum: ciò in quanto si è richiesto al p.m. l’esercizio di un potere (distruzione delle registrazioni delle intercettazioni telefoniche) riservato per legge al giudice e precluso invece all’organo dell’accusa. Sotto altro profilo, è stata dedotta l’inammissibilità del ricorso per contraddittorietà dello stesso: per un verso, infatti, il ricorso ha censurato l’operato dell’organo inquirente per non avere richiesto immediatamente al giudice la distruzione delle registrazioni intercettative relative alle conversazioni del Capo dello Stato, mentre, per altro verso, con il petitum finale, si è censurata l’omessa distruzione della medesima documentazione da parte dello stesso organo dell’accusa. Nella medesima memoria veniva poi evidenziato che – essendo attualmente il divieto di intercettare le comunicazioni del Presidente della Repubblica previsto espressamente dall’art. 7 l. n. 219/1989 per le sole intercettazioni dirette – «esso può estendersi al più alle intercettazioni indirette non casuali», con la conseguenza che le intercettazioni indirette, ma casuali, «non sono affatto riconducibili all’art. 271 c.p.p. né nell’ipotesi del comma 1 («intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge») né nell’ipotesi del comma 2 («intercettazioni coperte dal segreto professionale»)». Pertanto – ha argomentato ancora la Procura resistente – l’applicazione alla fattispecie in questione dell’art. 271, co. 3, c.p.p., come prospettato dall’Avvocatura dello Stato, in tanto sarebbe ammissibile: a) in quanto si verta in un’ipotesi di invalidità processuale, che però non ricorre nella specie (limitandosi l’art. 7, co. 3, l. n. 219/1989 a vietare solo le intercettazioni dirette e quelle indirette non casuali); b) in quanto l’ordine di distruzione provenisse dal giudice e non dal p.m.; c) in quanto a tale ordine si pervenisse a seguito del doveroso contraddittorio tra le parti; d) in quanto vi sia stata una statuizione di inutilizzabilità processualmente definitiva, non sussistente nella specie.
Attraverso una serie di puntualizzazioni in fatto, la resistente ha poi contestato l’avvenuta lesione delle prerogative costituzionali: ciò, innanzitutto, perché «la registrazione della conversazione intercettata non è idonea a determinare in sé alcuna lesione», consistendo in una mera operazione tecnica in forma automatica; inoltre, perché si era trattato di intercettazioni indirette di natura pacificamente casuale; ancora, perché la prospettata allegazione al fascicolo processuale non si era in realtà mai verificata; infine, perché la valutazione di irrilevanza aveva riguardato solo ed esclusivamente le «comunicazioni» – e cioè le espressioni verbali dell’interlocutore intercettato nel suo colloquio con il Presidente – e non anche le risposte di quest’ultimo, «mai sottoposte a valutazione alcuna». La memoria ha poi contestato la «tesi di fondo dell’Avvocatura ricorrente», secondo la quale la norma dell’art. 90 Cost. configurerebbe per il Presidente della Repubblica un regime globale di immunità, anche penale, «con la conseguenza di rendere illegittima in sé qualsiasi forma di ascolto delle conversazioni, di registrazione delle stesse, ed a maggior ragione di valutazione ed utilizzazione processuale». Tale tesi – secondo la resistente – non risulterebbe invero legittimata dall’analisi dei lavori preparatori dell’art. 90 Cost. e sarebbe inoltre smentita da taluni indici normativi (costituiti dalle l. 20.6.2003, n. 140 e l. 23.7.2008, n. 124, in tema di sospensione dei processi per reati extra-funzionali commessi dal Presidente della Repubblica, le quali avrebbero attestato che l’improcedibilità per reati extra-funzionali non fosse desumibile dall’art. 90 Cost.), nonché dalla stessa giurisprudenza costituzionale (segnatamente dalle pronunce l. 26.5.2004, n. 154, la quale ebbe a statuire che l’art. 90 Cost. «sancisce la irresponsabilità del Presidente – salve le ipotesi estreme dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione – solo per ‘gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni’»). La memoria della Procura ha posto quindi in evidenza una serie di conseguenze derivanti dall’eventuale accoglimento del ricorso – quali: il rendere «ex se illecito anche l’ascolto occasionale nel contesto di un’intercettazione debitamente autorizzata»; l’impedimento «al magistrato penale di prendere cognizione del contenuto della comunicazione sia pure al fine di apprezzare la sussistenza di un illecito a carico di altro soggetto»; l’«effetto preclusivo ed estintivo a favore dell’altro/i soggetto/i partecipanti al colloquio, non protetti da alcuna irresponsabilità e quindi soggetti alla giurisdizione penale per il contenuto delle comunicazioni effettuate»; ecc. – ed ha concluso per l’inammissibilità del ricorso o, comunque, per la declaratoria della sua infondatezza.
Con decisione adottata alla pubblica udienza del 4 dicembre 2012, la Corte costituzionale, in accoglimento del ricorso per conflitto proposto dal Presidente della Repubblica, ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, captate nell’ambito del procedimento penale in questione e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’art. 271, co. 3, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti.
Al momento in cui il presente scritto viene licenziato per la stampa, è in corso la stesura delle motivazioni della sentenza.