Conflitti e proteste locali fra comitati, campagne e movimenti
A partire dagli anni Ottanta, alcune innovazioni emerse nella struttura delle amministrazioni decentrate e rilevate sia dai politici sia dai ricercatori hanno stimolato un dibattito, in particolare in Italia ma non solo, sul ‘nuovo governo locale’. Maggiore potere e visibilità del sindaco, gradimento più elevato rispetto agli altri livelli di governo, esperimenti di innovazione amministrativa e politiche inedite per attrarre investimenti privati, per qualche tempo, hanno fatto guardare con ottimismo alle democrazie urbane (Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004). Tuttavia, accanto a tali fattori positivi non sono mancate le segnalazioni di elementi più critici: i tagli nei bilanci e nei servizi sono stati infatti accompagnati da una crescita esponenziale del deficit causata da strumenti quali la project finance, mentre si è assistito nel contempo al declino della partecipazione elettorale e alla decadenza della classe politica locale. L’insoddisfazione ha assunto diverse forme, dando vita a fenomeni come l’uscita dalle grandi città, che hanno continuato a perdere residenti, e le proteste, che si sono manifestate con varie modalità; i movimenti sociali urbani che ne sono derivati sono stati definiti in modi antitetici, come difensori sia di interessi locali sia del bene comune.
Le proteste locali sono state presentate, anche nella letteratura sociologica, in primo luogo come portatrici di un profondo egoismo, per curare il quale sono state proposte diverse soluzioni: esse, cioè, sono state viste spesso come frutto di atteggiamenti NIMBY (Not In My BackYard) e associate a un comportamento conservatore, fondato su motivazioni egoistiche e materialiste, tendenzialmente di resistenza al mutamento sociale. Soprattutto nelle analisi sulla produzione e l’implementazione di politiche pubbliche, con attenzione alla realizzazione di beni comuni, le proteste locali (come quelle dei comitati di cittadini, dei No TAV o dei social forum locali) sono state definite come perfetta illustrazione del free-riderism («viaggiare senza biglietto»), del rifiuto, cioè, di pagare i costi necessari per il raggiungimento di beni collettivi. In particolare, progetti di uso pubblico o privato del territorio, considerati minacciosi per gli interessi dei residenti (soprattutto interventi che potenzialmente riducano il valore materiale di terreni e abitazioni) appaiono sempre più capaci di mobilitare cittadini razionalmente egoisti, che sul modello dell’homo economicus agiscono sulla base di un calcolo dei costi e benefici personali per ridurre i primi e aumentare i secondi. Si è così spesso stigmatizzato l’effetto negativo di queste mobilitazioni in termini di concentrazione dei public bads («mali pubblici») nelle aree abitate da cittadini meno dotati di capacità di mobilitarsi e protestare, ossia in generale più poveri.
La sindrome NIMBY («perché proprio qui?») sembra tanto più diffusa in relazione a uno specifico tipo di decisioni pubbliche: quelle che comportano una distribuzione concentrata di costi a fronte, invece, di benefici diffusi. In queste situazioni, la capacità di mobilitarsi a livello locale è maggiore per il numero ridotto dei potenziali beneficiari della mobilitazione, che normalmente scoraggia il free-riderism almeno in termini di partecipazione alla protesta. Viceversa, il fatto che i benefici siano diffusi rende difficile l’aggregarsi di una coalizione contrapposta. Decisioni riguardanti localizzazioni di ricoveri per poveri, case di accoglienza per gli immigrati, cantieri per l’alta velocità ferroviaria, depositi di scorie nucleari, discariche e inceneritori hanno, nella loro diversità, la comune caratteristica di essere percepite come potenzialmente ingiuste, dovendo assegnare, sulla base di criteri che restano normalmente oscuri e certamente non condivisi, public bads (o almeno effetti percepiti come potenzialmente dannosi) su un gruppo limitato di cittadini in cambio di vantaggi quanto meno collettivi, e quindi comunque usufruibili anche da chi non paga, o rischia di non pagare, alcun prezzo per il loro ottenimento.
Le preoccupazioni per questo tipo di mobilitazioni definite come egoistiche sono accentuate dal fatto che, molto spesso, esse vedono piccoli gruppi e comitati sconfiggere giganti economici e politici (Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni sociali, 1999). Infatti, mentre il concentrarsi della minaccia, reale o percepita, favorisce l’aggregazione di coloro che si sentono ingiustamente colpiti e la loro convinzione di subire un’ingiustizia, l’entità del rischio materiale spinge verso forme di protesta anche radicale. Soprattutto, data la struttura territoriale della rappresentanza, queste proteste sono spesso capaci di ottenere il sostegno di politici locali che, temendo una perdita di consenso, riescono a fare pressione per una dislocazione dell’opera sgradita, riaprendo altrove un nuovo travagliato processo di allocazione. Quando poi i comitati affrontano temi legati in particolare all’inquinamento, essi entrano in complesse relazioni di scambio con le associazioni ambientaliste locali, in un rapporto in cui queste ultime mettono a disposizione la struttura organizzativa e l’informazione mentre i comitati offrono le risorse umane per le azioni di protesta. Le istituzioni decentrate del governo locale, i giornali locali, i singoli amministratori possono anche, in alcuni casi, fungere da alleati in specifiche campagne come quelle contro il Treno ad alta velocità (TAV) e il ponte sullo Stretto di Messina.
Da lungo tempo il dibattito sulla intermediazione degli interessi, così come quello sulla formulazione e l’implementazione delle politiche pubbliche, insiste sulla necessità di una partecipazione dal basso. Patti sociali, concertazione, programmazione partecipata, giurie cittadine sono stati proposti all’interno di nuovi modelli di elaborazione di politiche pubbliche che, superando l’illusione di una possibile programmazione ‘sinottica’, si adeguino invece a procedure incrementali. La scommessa diventa quindi il superamento della sindrome del «perché proprio qui?» attraverso non solo la trasparenza delle decisioni, ma anche mediante un processo di elaborazione allargata dei criteri di attribuzione del Locally unwanted land use (LULU), ovverosia dell’utilizzo non desiderato del territorio locale, che legittimi il processo attraverso una condivisione, se non del risultato, almeno delle procedure per raggiungerlo.
La sfida consiste non solo nella trasformazione del cittadino definito come NIMBY/egoista in deliberatore virtuoso, disponibile a ragionare a partire dal bene comune, ma anche nel rinnovamento della classe politica e amministrativa, con l’accettazione di un allargamento della partecipazione al di là sia dei normali circuiti di legittimazione elettorale, sia del tradizionale scambio politico con i gruppi di interesse organizzati.
Passando da una prospettiva di output a una di input, i movimenti urbani possono essere definiti come una delle formule organizzative verso cui si sono evoluti i movimenti sociali degli anni Settanta. Come ha osservato Chiara Sebastiani, essi hanno «carattere ibrido, a metà strada tra i gruppi di interesse e i movimenti sociali, oscillanti tra azioni di lobbying e istanze partecipative» (2001, p. 111). Da questo punto di vista, la mobilitazione locale appare pur sempre come esercizio di cittadinanza. Seppure in modo frammentato, questo tipo di protesta ha acceso i riflettori su progetti che in effetti spesso mascheravano da bene comune interessi particolari.
Le trasformazioni nelle forme dei movimenti collettivi possono essere ricondotte ai mutamenti nella struttura del conflitto sociale presente nelle città. Un’ipotesi emersa nelle recenti riflessioni sulle politiche urbane ha messo in evidenza un nuovo conflitto tra ‘regimi urbani’, ovvero reti di accordi formali e informali tra attori pubblici e privati interessati prevalentemente alla crescita degli investimenti economici, da una parte, e coalizioni debolmente strutturate di gruppi di vario tipo che resistono a quel modello di sviluppo, dall’altra. Negli Stati Uniti così come in Europa, per es., la crisi del welfare state avrebbe accentuato la competizione fra le città per le risorse economiche, soprattutto per gli investimenti di fonte privata, e di conseguenza la definizione delle politiche di crescita economica, come consensuali, è stata messa in discussione. La maggiore competitività economica è stata infatti vista come fonte di ineguaglianze: sia tra città, con una crescente segregazione sociale nello spazio, sia nelle città, dato che difficilmente i governanti riescono a bilanciare le logiche contrastanti delle politiche di sviluppo economico e di quelle di riduzione dell’esclusione.
La ‘macchina urbana per lo sviluppo economico’ sarebbe infatti normalmente controllata da élites affaristiche e immobiliari, in alleanza con proprietari di case e terreni, banchieri, commercianti, imprenditori, stampa locale, professionisti, spesso con l’appoggio di università e associazioni culturali. A essa tenderebbero a opporsi sia associazioni di volontariato, che vedono tagliati i fondi per l’assistenza a gruppi sociali considerati come comunque non graditi, sia organizzazioni di residenti, che si percepiscono come danneggiati dai progetti di trasformazione urbana. L’aumento del controllo del business sulle decisioni pubbliche viene quindi spesso contrastato dallo sviluppo di movimenti che propongono un diverso modello di sviluppo urbano.
Nel presente saggio l’attenzione è posta su alcuni dei principali conflitti locali emersi in Italia dalla metà degli anni Novanta: le proteste dei comitati spontanei di cittadini, le campagne contro la TAV in Valle di Susa in Piemonte e contro il ponte sullo Stretto di Messina, le mobilitazioni dei social forum locali. Nella parte conclusiva si farà un’analisi degli eventi di protesta che hanno caratterizzato il biennio 2011-12, formulando alcune ipotesi sull’apparente e paradossale assenza di conflitto in un contesto che sembrerebbe invece particolarmente favorevole all’emergere della protesta.
I comitati di cittadini sono gruppi organizzati, ma debolmente strutturati, formati da persone che si riuniscono su base territoriale e utilizzano prevalentemente forme di protesta per opporsi a interventi che ritengono dannosi per la qualità della vita sul loro territorio o per chiedere miglioramenti di essa. Un comitato è caratterizzato da identità localistiche; struttura organizzativa partecipativa, flessibile e con bassi livelli di coordinamento; strategie d’azione che privilegiano la protesta, seppure in forme moderate (Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004).
Se l’aggregazione di bisogni e interessi su un territorio limitato non è certamente un fenomeno nuovo, negli anni Novanta l’attenzione, non solo degli studiosi, verso tale fenomeno è stata soprattutto centrata attorno alle nuove forme di localismo che in esso sembrano esprimersi. In particolare, laddove in passato le domande emergenti in un rione o in un quartiere erano filtrate dalle sezioni dei partiti, e poi da comitati di quartiere più o meno politicizzati, negli anni Novanta questo tipo di mobilitazione è apparso più immediatamente concentrato sul territorio e più difficilmente incanalato nella politica istituzionale. Se non la presenza, certamente la visibilità dei comitati spontanei di cittadini è cresciuta in quel decennio.
Alcuni studi sul movimento ecologista hanno confermato che le organizzazioni ambientaliste a livello nazionale si sono, seppure in varie forme e diversa misura, istituzionalizzate. Tuttavia, la protesta a livello locale non è diminuita (della Porta, Diani 2004). Differentemente, almeno in parte, rispetto all’azione ambientalista negli anni Settanta e Ottanta, i principali attori della protesta sono stati i comitati di cittadini, attivatisi a difesa di aree territoriali molto limitate, su temi che vanno dall’ambiente alla sicurezza, dall’urbanistica ai servizi sociali. In modo ancor più eclatante, la protesta sul tema della sicurezza ha rappresentato, soprattutto nella prima metà degli anni Novanta, la principale forma di espressione delle inquietudini destate dall’aumento dei flussi migratori verso il nostro Paese. Un’indagine condotta in sei città italiane tra il 1991 e il 2000 conferma una crescita della presenza dei comitati cittadini nelle mobilitazioni, in particolare su temi quali l’ambiente e la sicurezza (Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004).
La presenza dei comitati è stata percepita con crescente preoccupazione soprattutto, quando, all’inizio degli anni Novanta, sono emerse, in particolare in alcune grandi città del Nord, mobilitazioni che intrecciavano senso di insicurezza per una criminalità ritenuta crescente e insofferenza per la presenza di un’immigrazione di entità certamente ancora molto limitata rispetto ad altri Paesi europei, ma anche poco aiutata a integrarsi attraverso politiche pubbliche adeguate. Anche le sempre più frequenti proteste contro l’installazione di inceneritori o antenne di telefonia mobile, del resto, sono state guardate con apprensione, come ostacoli alla realizzazione di beni collettivi e fonte di costi economici e di crisi di legittimazione. Pur spesso modulate in discorsi di difesa dell’ambiente, queste proteste hanno suscitato diffidenza nelle stesse associazioni ambientaliste che ne hanno stigmatizzato, e continuano a stigmatizzarne spesso, la difesa egoistica di interessi locali. Con una pretesa di azione ‘disinteressata’, normalmente non richiesta ad altri attori collettivi, ai cittadini riuniti nei comitati si è spesso rinfacciata l’attenzione esclusiva ‘al proprio orticello’, magari mascherata da difesa della natura o del patrimonio artistico. Se è vero che, almeno in parte, gruppi locali erano presenti anche nelle proteste sull’ambiente degli anni Settanta e Ottanta (della Porta, Diani 2006), alcune caratteristiche che questi gruppi hanno assunto negli anni Novanta hanno aumentato le preoccupazioni per un’azione frammentata e opposta al bene pubblico.
Altre ricerche hanno invece presentato i comitati come attori di un conflitto più ampio, in cui la posta in gioco è la definizione dell’uso del territorio e si pongono quindi domande specifiche rispetto ad alcuni temi che la focalizzazione dell’attenzione sullo sviluppo economico lascia scoperti. Una delle accuse alla macchina per lo sviluppo urbano è quella di considerare la crescita economica come obiettivo primario, subordinando a essa il rispetto dell’ambiente o la lotta all’inquinamento. In una concezione dell’azione pubblica orientata soprattutto ad aiutare e incentivare il mercato, la regolamentazione del traffico privato per limitare l’inquinamento viene ritenuta, per es., potenzialmente in contrasto con interessi economici imprenditoriali (in particolare, di costruttori e commercianti).
I comitati nascono spesso proprio per affermare la priorità della difesa dell’ambiente rispetto alla crescita economica, o per opporsi a grandi opere propagandate come volano economico, ma percepite dai residenti come immediatamente perniciose per la qualità della loro vita. Dall’altra parte, la concentrazione della spesa pubblica in incentivi agli investimenti privati lascia spesso scoperti interventi di assistenza a gruppi marginali della popolazione, cosicché interi quartieri, periferici o centrali, sono abbandonati a quello che i comitati percepiscono di frequente come ‘degrado’. Le proteste sono spesso nate, infatti, in aree considerate particolarmente insicure a causa della concentrazione di attività criminali ‘fastidiose’ (prostituzione, spaccio) o violente (scippi, rapine, ecc.), o anche solo di gruppi di popolazione avvertiti come fonte di rischio. Anche le rivendicazioni legate alla sicurezza sono collegate, in modo esplicito o implicito, all’arrivo di nuovi gruppi sociali, non compensato da un aumento dei servizi sociali e delle infrastrutture per l’accoglienza e l’integrazione.
Possiamo, da questo punto di vista, osservare che i comitati sollevano in effetti problemi considerati rilevanti da alte quote di popolazione urbana: traffico e inquinamento, così come sicurezza e criminalità, sono fonti di preoccupazioni per percentuali consistenti di cittadini (Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004). Più in generale, i comitati emergono in contesti caratterizzzati da riduzione della popolazione residente nelle città, fuga verso la periferia, percezione di un peggioramento nella qualità della vita, che spesso viene attribuito all’aumento dei prezzi a seguito di operazioni di speculazione edilizia e/o all’inquinamento prodotto dal privilegiare gli interessi imprenditoriali piuttosto che quelli dei residenti.
Se dunque i comitati sembrano mobilitarsi su conflitti emergenti, resta aperto però l’interrogativo sulla frammentazione localistica del conflitto o, viceversa, sulla loro capacità di presentare un’immagine più complessiva dei propri obiettivi. Già ricerche svolte in altri Paesi hanno sottolineato come i comitati attivi su diversi temi tendano, almeno dal punto di vista retorico, a superare la sindrome NIMBY. I gruppi locali che si oppongono a un uso indesiderato del territorio tendono infatti a utilizzare una retorica che allontana le accuse di particolarismo, passando appena possibile da un discorso locale a uno globale. Alle autorità che li accusano di opporsi, per ragioni egoistiche, a interventi orientati al bene comune, essi rispondono costruendo un discorso NOPE (Not On the Planet Earth). Inoltre, spesso la generalità del conflitto viene affermata a partire da una retorica procedurale che definisce la propria azione come opposizione ad abusi di potere e alla mancanza di trasparenza nel processo decisionale pubblico, oltre che all’alleanza collusiva tra governo e business. Il senso di comunità, aumentato nel corso dell’azione, offre poi una base di appartenenza agli attivisti, rafforzando solidarietà e identità collettiva. Se il comunitarismo può facilitare la costruzione identitaria nelle realtà più tradizionali, altrove il personalismo dei ceti medi si combina con valori quali il rifiuto di gerarchie, l’autonomia, l’espressione individuale, che però non ostacolano la partecipazione.
Anche in Italia, la ricerca ha confermato alcune di tali immagini e percorsi, indicando comunque una realtà complessa, con comitati caratterizzati da una diversa capacità o volontà di presentare le proprie rivendicazioni in modo più ampio (Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004). Innanzitutto, temi come la chiusura di una strada al traffico in un quartiere, o un maggiore controllo sulla criminalità in un altro, tendono a essere articolati all’interno di discorsi più ampi e con proposte di intervento che in molti casi si estendono alla ristrutturazione urbanistica di aree di ampie dimensioni. Spesso, inoltre, i comitati non si concentrano solo su sicurezza o inquinamento, ma articolano i diversi temi in un discorso più complessivo di difesa della qualità della vita in un certo territorio. Da questo punto di vista, si può dire che essi privilegiano un intervento sulle politiche degli spazi pubblici, intrecciando tutela del patrimonio artistico e naturale, traffico e salute, integrazione sociale e identità (Sebastiani 2001). Sul tema dell’ambiente, inoltre, molti attivisti si mostrano più propositivi che reattivi, proponendo di frequente interventi compatibili con il territorio. Anche sulla questione della sicurezza, ai comitati che presentano rivendicazioni di ‘legge e ordine’ contribuendo alla tematizzazione del binomio criminalità-immigrati sulla stampa, se ne affiancano altri che sottolineano la dimensione multipla del problema, elaborandone una concezione in termini di diritto della persona e proponendo interventi di riqualificazione urbanistica, piuttosto che una semplice presenza di polizia.
Se i comitati nascono su problemi che riguardano un ambito territoriale ristretto, intervenendo sulla qualità della vita dei loro abitanti, essi poi spesso estendono la loro azione in termini sia di costruzione identitaria sia, come vedremo, di partecipazione. I movimenti tendono inoltre ad ampliare i loro schemi interpretativi (frames), spesso abbracciando nuove rivendicazioni, o rinascendo su nuovi temi. Più che gruppi monotematici – sicurezza a destra, ambiente a sinistra – si tratta in molti casi di attori territoriali capaci di articolare diversi problemi in nome di una difesa della comunità. La loro nascita si intreccia quindi spesso con una riscoperta del senso del ‘noi’, che porta a sentire l’appartenenza al comitato come fonte di solidarietà.
Inoltre, raramente le soluzioni proposte si limitano a interventi ad hoc su territori ristretti – la chiusura al traffico di una strada o un presidio da parte della polizia. Sovente i comitati presentano una critica dettagliata dei provvedimenti pubblici e un elevato livello di progettualità. Pur coinvolgendo spesso nuovi ceti medi, essi sembrano svilupparsi sempre più frequentemente anche nelle periferie disagiate. In una parte dei casi, inoltre, il raggio di intervento tende a estendersi su un territorio che va ben al di là del ‘cortiletto di casa’ evocato nella sindrome NIMBY. Come spiega un attivista bolognese:
Noi siamo nati guardando ai problemi del nostro giardino, poi abbiamo guardato anche nel giardino degli altri perché le problematiche sono simili. […] Possiamo trovare una base di lavoro comune, perché problematiche come l’elettrosmog, l’inquinamento e la sicurezza ci riguardano tutti. È una cosa che dobbiamo riuscire a fare, perché ognuno non può guardare solo nel suo giardino, bisogna anche avere uno sguardo d’insieme» (Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004, pag. 21).
La menzionata ricerca sui comitati di cittadini in sei città italiane ha mostrato infatti che il fenomeno è ampio ma anche eterogeneo, comprendendo gruppi diversi tra loro sia per livello di riferimento territoriale sia per raggio di tematiche affrontate. Come si può osservare nella tabella 1, se operazionalizziamo questi due fattori, contrapponendo i comitati che si occupano solo di ambiente o solo di sicurezza a quelli che si occupano di entrambi, e distinguendo i gruppi che intervengono a livello di singolo quartiere da quelli che operano su più quartieri, emerge quanto segue: dei 107 comitati censiti, il 26,2% può essere considerato tipicamente NIMBY, mobilitandosi su temi specifici e su zone territoriali circoscritte, il 22,4% è un comitato cittadino che opera a livello territoriale ampio ma su un solo tema, il 29% appartiene al tipo del comitato di quartiere, occupandosi di più tematiche su un livello territoriale ristretto, e il 22,4% può essere definito come organizzazione di movimento urbano, poiché si interessa di più tematiche su un livello territoriale più ampio del quartiere.
La crescita dei comitati cittadini è stata collegata ad alcune trasformazioni nel sistema della rappresentanza. Dal punto di vista delle opportunità istituzionali, rilevante appare soprattutto il decentramento politico e amministrativo, o se non altro lo sviluppo di un sistema di governance multilivello che ha accresciuto le competenze degli enti locali, e quindi anche la propensione a mobilitarsi a tale livello. In particolare nel caso italiano, seppure in regime di crisi fiscale, gli anni Novanta hanno visto (dopo l’implementazione delle regioni negli anni Settanta) una seconda ondata di attribuzione di competenze al livello subnazionale, con trasformazioni significative che vanno dalla crescente capacità degli enti locali di disporre di entrate proprie alla elezione diretta del sindaco. Come confermano molti attivisti, la nascita (o rinascita) dei comitati è un sintomo della crisi del decentramento amministrativo degli anni Settanta, con una manifesta inefficacia degli organismi circoscrizionali, ma anche una reazione alla percepita ‘personalizzazione’ della politica, come effetto di una riforma che ha tolto visibilità agli organi di rappresentanza, spesso senza aumentare l’incisività del potere esecutivo (Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004).
Lo sviluppo delle organizzazioni cittadine è andato inoltre di pari passo con l’indebolimento dei partiti politici e, soprattutto, col loro graduale sradicamento sociale e territoriale. L’azione sembra infatti riflettere un progressivo indebolimento della capacità dei partiti di agire contemporaneamente nella formazione di identità collettive e nella gestione politico-amministrativa. I partiti politici mantengono il controllo delle istituzioni rappresentative, ma nel tempo appaiono sempre meno capaci di elaborare e fare accettare interpretazioni complessive sulle cause dell’insoddisfazione e sulle possibili soluzioni, perdendo inoltre la capacità di costruire identità collettive.
In tale prospettiva, la frammentazione organizzativa dei comitati e la loro limitatezza territoriale testimonierebbero un indebolimento complessivo delle identità collettive e della capacità del governo di staccarsi almeno un po’ dall’interesse immediato dei rappresentati in modo da garantire il perseguimento degli obiettivi di lungo periodo. In un’immagine ‘antipolitica’, i comitati vengono presentati come prodotto e, al contempo, causa di frammentazione del sistema politico, effetto e ragione di peggioramento delle inefficienze di un’amministrazione che, di fronte all’indebolimento dei partiti, avrebbe voluto legittimarsi sul prodotto, sull’output, ma, divisa tra i tanti interessi particolaristici, non ci riesce. Emerge da queste interpretazioni un’ipotesi di iperpluralismo, con mobilitazioni e contromobilitazioni che alla fine bloccano il sistema, impedendo il raggiungimento di beni collettivi. In una visione più ottimista, i comitati potrebbero essere invece nuovi attori della rappresentanza che si sommano a partiti, gruppi di interessi, associazioni e così via, contribuendo a fare emergere e incanalare domande che gli altri attori non riescono a cogliere e filtrare. Le identità collettive sopravvivrebbero, quindi, seppure non formate dai partiti, e a questi ultimi resterebbe il compito di instaurare canali privilegiati con l’una o l’altra di esse. La crisi delle capacità di mediazione dei partiti non porterebbe dunque a un riflusso nel privato, né a una esplosione anomica dei conflitti. Viceversa, l’indebolimento del loro patronato potrebbe avere liberato una serie di energie e capacità accumulate nelle precedenti mobilitazioni, indirizzandole verso un impegno orientato a rivendicazioni più circoscritte.
A partire dagli anni Novanta, i comitati di cittadini sono stati attori centrali in conflitti radicati sul territorio ma di rilevanza nazionale e sovranazionale, sorti attorno alla costruzione delle cosiddette ‘grandi opere’. In Italia, conflitti di questo tipo si sono sviluppati attorno alla costruzione della rete ferroviaria per la TAV, principalmente ma non solo nella Valle di Susa, così come in opposizione alla costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, all’allargamento della base militare Dal Molin a Vicenza, oppure, più di recente, al MUOS (Mobile User Objective System) in Sicilia. Queste proteste hanno cambiato l’immagine dell’ambientalismo: da problematica ‘postmaterialista’, sollevata prevalentemente tra i nuovi ceti medi, con alti livelli di istruzione, a rivendicazione di gruppi sottoprivilegiati, residenti nelle aree più degradate, dove vengono in genere localizzati inceneritori e altre infrastrutture ad alto impatto ambientale. In tali conflitti, le associazioni ambientaliste sono di solito presenti, seppure in rapporti non sempre facili con le altre organizzazioni attive sul territorio (della Porta, Rucht 2002).
Pur con differenti strategie e spesso con qualche tensione, associazioni e comitati hanno cercato di stringere una collaborazione (della Porta, Piazza 2008). Le proteste nella Valle di Susa, come quelle sullo Stretto di Messina, hanno certamente una dimensione di protezione ambientale. In entrambi i casi, l’opposizione riguarda opere che vengono considerate dannose per l’equilibrio ecologico di territori particolarmente delicati, siano essi strette valli di montagna o lembi di mare. Vi è infatti una definizione del problema (TAV o ponte) in termini di minaccia all’ambiente e una partecipazione alle campagne sia da parte delle più grandi associazioni ambientaliste mobilitate a livello nazionale (dal WWF a Legambiente), sia da parte di decine di comitati di cittadini, attivi nei singoli comuni o quartieri interessati alle opere.
Nonostante l’accento sulla difesa della natura e della salute degli abitanti, queste mobilitazioni non possono comunque essere definite come proteste esclusivamente ecologiste, limitate cioè al solo tema della protezione dell’ambiente. Le rivendicazioni tendono infatti a intrecciare tematiche di difesa della qualità della vita locale, tutela del patrimonio artistico e naturale, salute e integrazione sociale (Sebastiani 2001).
In effetti, i diversi gruppi sociali e le organizzazioni politiche che si oppongono alle grandi opere hanno elaborato (sebbene a differenti velocità) un discorso su un modello di sviluppo alternativo, definito più in termini di ‘giustizia ambientale’ (environmental justice), come combinazione di attenzione all’ambiente e alle discriminazioni etniche, sociali o di genere, di ‘decrescita’ (‘futuro sobrio’) o di ‘sviluppo sostenibile’, cioè di sensibilità ai limiti naturali della crescita economica. Tale modello di sviluppo comprende anche riferimenti alla difesa del lavoro, della salute, della giustizia e della partecipazione democratica.
Da questo punto di vista, la capacità di mobilitazione appare legata all’amplificazione del discorso della protesta oltre la difesa dell’ambiente, superando il contesto locale e collegandosi a conflitti più globali.
Se le insoddisfazioni motivano la protesta, esse sono comunque da sole insufficienti a produrre mobilitazione. Ancora la ricerca sui movimenti sociali ha infatti rilevato che la mobilitazione collettiva richiede risorse di vario tipo. Organizzazioni e organizzatori di campagne e movimenti devono disporre di tempo e denaro per riuscire a convincere una potenziale base di riferimento spesso scoraggiata e poco esperta nella pratica dell’azione collettiva. Per protestare efficacemente, occorre anche sapere come fare a organizzare interventi che allo stesso tempo rafforzino la solidarietà fra i partecipanti, attraggano l’attenzione del pubblico, facciano pressione sulle autorità. Inoltre, la protesta necessita di ‘capitale sociale’: cioè di reticoli associativi densi che facilitino la creazione di fiducia reciproca tra i potenziali partecipanti (per una rassegna, cfr. della Porta, Diani 2006, capp. 5 e 6).
Sia in Valle di Susa sia sullo Stretto, infatti, il successo delle campagne è legato alla capacità di coinvolgere attori svariati e diversi. Sindaci e associazioni ambientaliste, gruppi studenteschi e centri sociali, forum sociali locali e comitati, comunità religiose e sindacati di base si mettono ‘in rete’ nel corso della mobilitazione che coinvolge persone di diverse generazioni, classi sociali e convinzioni ideologiche. Specifiche strutture di coordinamento, reticolari e flessibili, sono emerse infatti nei due contesti, insieme a norme e valori che sottolineano la ricchezza di una mobilitazione plurale e tollerante della diversità (della Porta 2005a). Questo ricco patrimonio associativo è in parte ereditato da precedenti campagne di difesa ambientale: contro la costruzione di un’autostrada e di un elettrodotto nella Valle di Susa; contro il transito nei centri cittadini di mezzi di trasporto pesante sullo Stretto. In parte, esso si costruisce comunque nel corso della protesta attraverso l’incontro e la contaminazione di gruppi attivi su tematiche differenti – dal lavoro alla controcultura –, estendendosi inoltre al di là delle stesse comunità locali.
La ricerca sui movimenti sociali ha sottolineato la costruzione, nel corso dei cicli di protesta, di domande e identità che riprendono simboli e schemi interpretativi da movimenti passati, pur innovando rispetto a essi. Nei nostri due casi, le mobilitazioni su TAV e ponte si intrecciano ad altri conflitti, confluendo in quello che è stato definito ‘movimento per una globalizzazione dal basso’ (della Porta, Andretta, Mosca, et al. 2006). In questo processo, non solo il raggio dei sostenitori della protesta si è ampliato – al di là della valle e al di là dello Stretto –, ma i suoi schemi di riferimento sono divenuti sempre più globali. Come si legge in un volantino per il gemellaggio tra No TAV e No ponte, il rifiuto delle grandi opere tende a essere collegato a un’immagine alternativa sulle politiche che riguardano un livello globale, rispecchiando «l’impegno di chi vuole rallentare, di chi ha iniziato a dare retta ai segnali di crisi del pianeta».
Dall’altro lato, alcuni meccanismi si mettono in moto nel corso dell’azione, suggerendo un ‘carattere emergente’ delle campagne di protesta (della Porta, Mosca 2007). Vi è infatti una rilevante ‘contaminazione in azione’, cioè una trasformazione degli e negli attori – individui e organizzazioni – impegnati nelle reti della protesta che si realizzano nel corso stesso delle campagne e per effetto della mobilitazione, grazie, a livello individuale, alla presenza di partecipazioni multiple ad associazioni e movimenti e, a livello organizzativo, a un intenso networking, sia formale sia informale. Ciò è visibile soprattutto in Valle di Susa, dove attorno ai presidi del 2005 si costruiscono delle arene deliberative, che facilitano l’elaborazione di identità collettive, il collegamento tra schemi di riferimento specifici dei diversi attori e la creazione di legami di fiducia (della Porta, Mosca 2007). La capacità di tenere insieme anime differenti è sottolineata dagli stessi attivisti No TAV che hanno descritto il lento processo favorito da un’intensificazione della comunicazione e delle interazioni nel corso delle mobilitazioni. Durante l’azione l’alleanza strumentale si rafforza attraverso la costruzione di obiettivi comuni e, soprattutto, di legami di fiducia reciproca. Emozioni intense rafforzano i sentimenti di appartenenza alla comunità.
La definizione del senso della protesta emerge anche attraverso conflitti cognitivi sulla concezione della posta in gioco. Già precedenti ricerche sui contrasti territoriali hanno sottolineato il tentativo di chi protesta di costruire un discorso che superi la stigmatizzante sindrome NIMBY. La costruzione simbolica non ha comunque solo una dimensione strumentale, ma concorre anche a definire la natura stessa del conflitto. Per riuscire a mobilitare i cittadini, gli attori della protesta hanno bisogno tanto di costruire un’immagine condivisa della comunità, quanto di diffondere la convinzione che la resistenza può essere vincente («Fermare la TAV è possibile», recitano gli striscioni dei cortei nella Valle di Susa). Sia in Valle di Susa sia sullo Stretto, infatti, la costruzione simbolica dell’identità della comunità si intreccia con la definizione dell’interesse dei diversi gruppi della popolazione – un interesse che è però sempre meno concepito in termini di beni materiali. La battaglia simbolica tra promotori e oppositori delle due opere pubbliche coinvolge la dimensione etica dello sviluppo, oltre che la stessa definizione dell’interesse pubblico.
La ricerca sui movimenti sociali ha suggerito che la protesta tende a intensificarsi non quando vi è una maggiore chiusura rispetto alle domande dei cittadini, ma, viceversa, quando si aprono dei canali di accesso alle autorità (Tarrow 1990). La disponibilità di alleati istituzionali (normalmente, i partiti di sinistra), così come le divisioni nelle élites, sono state considerate infatti come opportunità per la mobilitazione di domande emergenti. La partecipazione cresce inoltre quando si aprono alcune ‘finestre di opportunità istituzionali’ durante le fasi di formazione e attuazione delle decisioni pubbliche.
Nel corso delle menzionate campagne, alleati istituzionali appaiono soprattutto rilevanti a livello locale: nella Valle di Susa le amministrazioni comunali e la comunità montana della bassa valle si presentano come parte integrante della protesta; sulle due sponde dello Stretto, i sindaci di Villa San Giovanni e di Messina prendono (in tempi e con intensità diversa) posizione contro il ponte. Viceversa, a livello intermedio (Regione Piemonte e Regione Sicilia) e nazionale non solo le istituzioni di governo, ma anche i principali partiti di maggioranza e di opposizione hanno sostenuto con veemenza le grandi opere, considerate come volano di crescita economica. Pur non incoraggiate da alleanze con partiti a livello nazionale, le proteste si sono comunque rafforzate nei momenti di accelerazione del processo decisionale di implementazione delle due grandi opere: proprio questi momenti, sollecitando l’attenzione dei cittadini, hanno involontariamente aperto ‘finestre di opportunità’ a chi si mobilitava contro di esse. Agendo a vari livelli (dalla protesta in piazza all’utilizzazione di vari strumenti procedurali e di pressione politica), sindaci e comitati sono così riusciti a intervenire nel processo decisionale, dandogli visibilità e sfruttando canali di accesso istituzionali e non. Le alleanze tra sindaci e organizzazioni di movimento sociale sono state tuttavia sempre soggette a tensioni e anche a crisi.
I conflitti territoriali si fanno ancora più aspri in una realtà di ‘governance multilivello’, dove decisioni prese a livello nazionale o (sempre più spesso) europeo appaiono a chi protesta come ‘calate dall’alto’, riducendo la legittimazione istituzionale e interrompendo la comunicazione tra cittadini e istituzioni. Infatti, nella gerarchia territoriale i governi locali si sentono sempre più privati di potere politico e caricati invece di competenze di implementazione di decisioni prese altrove. Al contempo, le risorse di conoscenza e legittimazione presenti al livello locale non trovano canali di accesso ai livelli decisionali gerarchicamente più elevati. Le decisioni sulla TAV e sul ponte sono vissute, localmente, come sfida ai poteri che il decentramento politico garantisce agli amministratori della comunità (della Porta, Piazza 2008). Soprattutto in Valle di Susa, ma più di recente anche sullo Stretto, l’adesione alla protesta da parte dei sindaci dei principali comuni coinvolti dalle grandi opere testimonia questa dimensione politico-territoriale del conflitto. In questo senso, essa indica un radicamento degli amministratori locali nella loro comunità, ma anche una debole capacità di mediare tra il centro e la periferia. Nel corso delle due campagne, comunque, il discorso sulla democrazia si estende al di là della democrazia locale tradizionalmente intesa, cioè come dimensione di competenze delegate alle amministrazioni pubbliche periferiche. La «sovranità degli abitanti», citata nel volantino per il gemellaggio No TAV-No ponte, mette in discussione la stessa concezione della democrazia rappresentativa, considerata come insufficiente per sé, mentre emergono le richieste di una diversa democrazia intesa soprattutto come partecipazione dei cittadini. La sfida qui, tuttavia, riguarda la capacità di conferire poteri alle arene locali, specialmente a fronte di un sistema di governance multilivello sempre più complesso e opaco.
Se la posta in gioco si costruisce simbolicamente nel corso dell’azione, le campagne di protesta contro le grandi opere non sono solo reattive – nascendo cioè in reazione a decisioni ‘prese altrove’ – ma anche propositive. Gli attivisti elaborano proposte alternative specifiche (l’ammodernamento della rete ferroviaria esistente in Valle di Susa, le autostrade del mare e il miglioramento delle infrastrutture dei trasporti in Sicilia e in Calabria), inserendole in una diversa idea di sviluppo. Si tratta di un modello di ‘decrescita’ basato sulla difesa dell’ambiente, dell’occupazione e della qualità della vita sul territorio, e sulla critica (sempre più radicale) all’attuale modello di sviluppo.
Anche da un punto di vista meramente economico, chi contesta le grandi opere critica lo spreco di denaro pubblico – in contrasto con la promozione dei progetti a costo zero perché finanziati da privati – e ne suggerisce un possibile uso alternativo. Al centro del conflitto simbolico è dunque la concezione dell’interesse generale, del quale gli oppositori alle grandi infrastrutture si presentano come reali interpreti, accusando i promotori di difendere in realtà gli interessi particolari di speculatori e corrotti in Valle di Susa, delle organizzazioni mafiose e del ‘club del cemento’ nell’area dello Stretto.
Attraverso la costruzione simbolica del conflitto gli attivisti hanno prodotto anche schemi motivazionali che indicano la possibilità reale di cambiare le decisioni (presentate come ‘già prese’), attraverso la mobilitazione dei cittadini, non solo sulle modalità di realizzazione delle opere, ma soprattutto sull’oggetto delle decisioni (fare o non fare le infrastrutture). La posta in gioco del conflitto si estende fino al metadiscorso sulla democrazia sia come diritto alla protesta sia come rivendicazione del diritto delle popolazioni locali – e degli amministratori che le rappresentano – a decidere sulle grandi opere nei loro territori, contestando le procedure allocative come imposizioni calate dall’alto. Ma la richiesta di democrazia va oltre le prerogative delle amministrazioni locali, poiché chi protesta rivendica anche una forma diversa di democrazia, basata sulla partecipazione diretta e disgiunta dalla delega. La concezione della politica che viene proposta è basata sulla partecipazione dei cittadini, sul sapere locale, piuttosto che sulle conoscenze burocratiche dei professionisti e delle istituzioni rappresentative. Essa richiama quindi le attuali concezioni di democrazia deliberativa (della Porta 2005b).
Tramite la partecipazione alle mobilitazioni, dunque, i discorsi locali diventano globali – o meglio, come sottolinea il citato documento degli oppositori alle grandi opere, «locali e globali insieme», vengono elaborati modelli di sviluppo alternativi, emerge una diversa concezione dell’interesse generale, e la protesta diventa politica ‘dal basso’ e sperimentazione di nuove forme di democrazia partecipativa. Ciò avviene attraverso l’adesione ai reticoli della protesta di diversi attori politici e sociali che, incontrandosi nel corso dell’azione, collegano i loro specifici schemi interpretativi in un comune e più ampio discorso generale e li intrecciano con le mobilitazioni del movimento per una globalizzazione dal basso.
Le campagne di protesta sulle grandi opere sono infatti promosse e alimentate da vari reticoli, socialmente e politicamente eterogenei, i cui nodi sono collegati da appartenenze multiple, che si ‘irretiscono’ nel corso dell’azione e che producono, a loro volta, le mobilitazioni. Lo stesso approccio alle campagne di protesta sottolinea la dinamicità del processo, attraverso «una serie di interazioni tematicamente, socialmente e temporalmente interconnesse che, dal punto di vista dei partecipanti alle campagne, sono orientate ad uno specifico obiettivo» (della Porta, Rucht 2002, p. 3). Nel corso delle campagne, la partecipazione si estende a gruppi sociali, ideologici, generazionali, coinvolgendo le (ricostruende) comunità territoriali, ma anche sensibilizzando attori esterni. I tipi di attori collettivi che formano i reticoli apportandovi risorse e competenze specifiche (ma anche elementi di tensione) sono gli stessi in Valle di Susa e nell’area dello Stretto, ed egualmente variegati, ma hanno peso e modalità di interazione differenti nelle due campagne.
I No TAV e i No ponte non si limitano a richiedere una diversa democrazia, ma cercano di elaborarla e praticarla nel corso delle azioni di protesta attraverso la costruzione di strutture organizzative reticolari e l’adozione di metodi decisionali inclusivi. Come in altre mobilitazioni collettive, anche in queste due campagne un ‘capitale sociale’ di reticoli associativi di vario tipo si è riattivato, ma anche formato, nel corso dell’azione tramite l’incontro e la contaminazione di attori diversi su differenti tematiche, estendendosi ben oltre le comunità locali. Sindaci e ambientalisti, associazioni e centri sociali, sindacati di base e collettivi studenteschi, forum sociali locali e comitati si sono messi in rete e coordinati durante le mobilitazioni, anche se con modalità e caratteristiche differenti tra le due campagne. In Valle di Susa i coordinamenti di amministratori locali, comitati, associazioni e centri sociali hanno assunto la forma di reticoli ampi, stabili, dotati di strutture assembleari, seguendo un modello organizzativo deliberativo e adottando il metodo decisionale consensuale, basato sulla condivisione delle scelte e la ricerca di decisioni comuni.
Tali strutture hanno visto una partecipazione popolare molto elevata, in cui la forma assembleare, pur rallentando il processo decisionale, è stata comunque considerata positivamente per la sua capacità di costruire identità collettive. In questo senso, sia nella Valle di Susa sia sullo Stretto, si ritrovano i richiami, già emersi anche nei social forum locali, alla tolleranza per le diversità, percepite più come ricchezza che come limite per le mobilitazioni (della Porta 2005a). Nell’area dello Stretto, invece, i numerosi coordinamenti e reticoli che si sono succeduti nel tempo e diversificati nello spazio (tra la costa siciliana e quella calabrese) hanno avuto una strutturazione più informale, costituendosi spesso ad hoc su specifiche iniziative, attorno a piccoli nuclei di attivisti che hanno assicurato la continuità temporale della mobilitazione, sebbene di volta in volta siano spesso cambiate le denominazioni formali. In questo caso, a differenza dalla campagna No TAV, il processo organizzativo si è presentato più decentrato territorialmente e quello decisionale è stato caratterizzato dalla negoziazione all’interno dei piccoli gruppi di singoli attivisti per la preparazione delle grandi iniziative. La partecipazione dei cittadini, in costante aumento alle grandi manifestazioni, non si è estesa però ai vari network organizzativi; all’interno di questi le diverse componenti geografiche (messinesi e calabresi) e politiche (moderati e radicali) hanno dato vita a dinamiche oscillanti tra cooperazione e conflitto, tra ricerca dell’unità d’azione e presa d’atto delle divisioni esistenti.
All’inizio degli anni Duemila, i social forum locali hanno giocato un ruolo importante in conflitti territoriali a carattere nazionale e transnazionale, mobilitandosi talvolta a fianco di comitati di cittadini e partecipando attivamente a campagne contro grandi opere pubbliche come, appunto, la TAV e il ponte sullo Stretto.
I social forum locali nascono in Italia nel periodo caratterizzato dall’organizzazione di due eventi importanti della società civile globale nel nostro Paese: il contro-summit al vertice del G8 di Genova del 2001 (Andretta, della Porta, Mosca et al. 2002) e il primo forum sociale europeo svoltosi a Firenze l’anno successivo (della Porta et al. 2006). Questi coordinamenti di persone e gruppi appartenenti al movimento di critica alla globalizzazione neoliberista avevano lo scopo di creare un legame fra temi e rivendicazioni squisitamente locali e il più generale processo dei Forum sociali mondiali (FSM) e dei Forum sociali europei (FSE), finalizzato a contestare e proporre alternative al processo di globalizzazione neoliberista (Smith, Karides, Becker et al. 2007).
La dimensione locale del processo dei social forum non rappresenta una novità. Infatti, gran parte delle decine di campagne sovranazionali e delle centinaia di gruppi confluiti nel FSM e nelle sue articolazioni continentali era fortemente radicata a livello locale. L’uso di termini come cosmopoliti radicati mira a definire questo legame complesso fra identità locali e transnazionali (della Porta, Tarrow 2005) che si ritrova nei social forum.
La dinamica locale del processo dei social forum si è sviluppata parallelamente a quella transnazionale. Mediante un processo di diffusione translivello, idee come quelle relative alla giustizia globale e modelli decisionali di tipo consensuale si sono propagati in territori diversi in cui i social forum hanno agito da ‘ponti’ fra preoccupazioni locali e globali, influenzando le organizzazioni che hanno preso parte alle loro attività. I social forum e i gruppi confluiti dentro queste arene di movimento adottavano, adattavano e traducevano le idee elaborate dal FSM a livello locale. Promuovendo campagne di protesta, sono state facilitate le relazioni di fiducia reciproca fra attivisti appartenenti a gruppi diversi, grazie anche alla diffusione di modalità decisionali consensuali e orizzontali nella costruzione di nuove reti. Le relazioni di conoscenza e fiducia reciproca costruite nel corso di tali attività si sono poi propagate alle nuove formazioni. Inoltre, le esperienze fatte nei social forum e in campagne e attività simili hanno spinto gli attivisti e i gruppi a collegare le loro preoccupazioni specifiche con rivendicazioni più generali e globali.
In Italia il processo dei social forum è stato particolarmente rilevante sotto il profilo sia della durata temporale sia della sua diffusione quantitativa. Il primo e più visibile tra di essi è stato il Genoa social forum (GSF), che vide la confluenza di oltre 800 organizzazioni (molte delle quali erano gruppi locali o sezioni locali di organizzazioni nazionali e transnazionali) e che organizzò le mobilitazioni contro il vertice del G8 nel 2001 (Andretta, della Porta, Mosca et al. 2002). Meno visibile ma ugualmente importante fu il gran numero di forum sociali locali creati prima e dopo il GSF. Molti di essi si svilupparono alcuni mesi prima della protesta contro il G8 a Genova utilizzando spesso sigle come Coordinamento anti-G8 col fine di preparare e organizzare la mobilitazione nei vari contesti locali. In diversi casi essi sopravvissero all’evento e molti altri furono formati nella seconda metà del 2001 e l’anno seguente. Nella primavera del 2003, poco dopo lo svolgimento del primo FSE a Firenze, operavano in Italia circa 170 forum locali, presenti sia nelle zone urbane sia in quelle rurali (della Porta 2005a; 2005b). Dal 2003, molti di questi si sono trasformati in coordinamenti locali chiamati Fermiamo la guerra (per es., a Milano) o hanno dato vita a nuovi reticoli su tematiche puntuali quali i diritti dei migranti o gli stili di vita alternativi, contribuendo alla diffusione di nuove formule organizzative orizzontali e consensuali. I social forum, quindi, hanno tipicamente attraversato tre diverse fasi nella loro vita: nati come coordinamenti anti-G8, si sono successivamente consolidati come forum locali, per poi trasformarsi in coordinamenti contro la guerra o in reticoli tematici specifici. In tal senso, hanno operato come spina dorsale ‘territoriale’ del movimento di critica alla globalizzazione neoliberista, prima, e del movimento contro la guerra, poi.
La centralità che l’Italia ha avuto nella precoce e ampia diffusione dei forum locali può essere ricondotta a diverse caratteristiche sistemiche e di breve periodo. Da un lato, a seguito degli scandali sulla corruzione dei primi anni Novanta, una tradizione nazionale forte di movimenti di protesta ha dato vita a densi reticoli della società civile che hanno contemporaneamente criticato l’immobilismo dei partiti della sinistra e organizzato l’opposizione ai governi di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi. Dall’altro, l’organizzazione di significativi eventi di protesta (come quelli di Genova e Firenze, già richiamati sopra) ha contribuito alla creazione di legami di fiducia fra gli attivisti, così come all’emergere di identità collettive e di un ampio sostegno sociale da parte dell’opinione pubblica (della Porta, Andretta, Mosca et al. 2006).
La peculiarità del caso italiano permette di osservare alcuni meccanismi di diffusione fra livelli territoriali diversi. I dati che presentiamo in questo paragrafo derivano da 45 interviste in profondità con rappresentanti di organizzazioni di movimento sociale e forum sociali attivi in Toscana, a Milano, Venezia, Novara e in Abruzzo (una rete regionale di sei social forum locali) e da sei focus groups con attivisti del forum sociale fiorentino.
La Toscana (così come Firenze) rappresenta un caso di studio interessante, essendo la regione in cui si è svolto il primo FSE, nel 2002, ma anche perché presenta una tradizione civica particolarmente significativa. La città di Milano è stata scelta come caso paradigmatico, essendo stata considerata a lungo la capitale dei movimenti sociali in Italia, ma avendo anche subito un graduale processo di frammentazione del settore organizzativo dei movimenti (Altri codici: aree di movimento nella metropoli, 1984). Gli altri forum sociali (Venezia, Novara e quello abruzzese) sono stati scelti perché esemplificano esperienze durature e appaiono quindi cruciali (benché non rappresentativi della realtà dell’intero Paese) per comprendere le dinamiche più generali dei forum locali.
Si ipotizza dunque che i social forum abbiano contribuito alla diffusione di nuove formule organizzative (la rete, il metodo del consenso) e di nuovi schemi interpretativi (da mono a pluritematici, da identità locali/nazionali a transnazionali o translocali) che sono sopravvissuti agli stessi forum locali dopo la loro dissoluzione.
Per illustrare questi processi si fa riferimento alle percezioni riguardo ai cambiamenti nelle strutture della mobilitazione e nel framing da parte degli attivisti di diversi tipi di organizzazione coinvolti nei forum locali. È importante sottolineare che i nostri dati si riferiscono a memorie soggettive e che ovviamente la metodologia utilizzata presenta una serie di vantaggi ma anche alcuni limiti. Le interviste semistrutturate, infatti, incoraggiano l’emergere delle memorie degli intervistati senza però costringerle in una cornice troppo rigida. Inoltre, il numero di interviste effettuato sembra sufficientemente elevato da consentire la ricostruzione e il confronto fra diversi processi organizzativi. I focus groups hanno poi consentito di andare al di là dei resoconti di tipo individuale e di cogliere le interazioni fra i diversi attori (della Porta 2005c). Va però osservato che le fonti utilizzate per questo studio permettono di investigare le memorie soggettive (interviste) e intersoggettive (focus groups) degli attivisti, ma non forniscono un quadro della ‘vera’ storia della mobilitazione. Infatti, l’obiettivo è quello di ricostruire le narrazioni dei forum, così come presentate dagli attivisti coinvolti, considerando il loro punto di vista rilevante per una comprensione dei meccanismi culturali e simbolici che si attivano nei processi di mobilitazione.
L’attenzione è posta in particolare sui forum locali e sugli attivisti che vi hanno preso parte, provenienti da diverse famiglie di movimento sociale (per es., membri di associazioni di solidarietà internazionale, lavoratori, ecologisti e femministe), per porne in evidenza sia gli aspetti strutturali sia quelli procedurali.
In primo luogo, sono identificati alcuni tratti caratteristici del modello organizzativo che viene promosso, facendo emergere come i gruppi che appartenevano ai forum locali abbiano teso all’adozione di alcune specifiche formule. In seguito, si discutono le innovazioni promosse dai forum locali nel framing dell’identità collettiva del movimento. Si cerca poi di evidenziare il contributo fornito dai forum locali ai movimenti sociali contemporanei, sottolineando il ruolo che queste arene hanno giocato nella diffusione di idee non solo tra famiglie di movimento diverse ma, soprattutto, fra contesti territoriali diversi dello stesso Paese. I forum locali vengono quindi concettualizzati come traduttori e interpreti del messaggio del FSM a livello locale e come promotori di visioni orizzontali della partecipazione e della presa di decisioni nel più ampio processo del social forum.
Nei loro statuti molti forum locali italiani si riferivano alla carta dei principi del FSM di Porto Alegre o al ‘patto di lavoro’ del GSF, presentandosi non come organizzazioni ma come arene pubbliche e aperte alla collaborazione, alla contaminazione fra soggetti diversi e alla discussione permanente su temi di interesse collettivo. Secondo questa interpretazione un forum può essere considerato come una piattaforma della società civile locale. I forum, infatti, erano strutturati sulla base di patti di lavoro informali, prevedendo spesso la presenza di gruppi di lavoro piuttosto autonomi focalizzati su temi specifici (Del Giorgio 2004).
I principi del dialogo e della partecipazione, il ricorso sporadico alle votazioni e alle deleghe a tempo su temi specifici, il controllo dei delegati e il metodo del consenso rappresentano elementi comuni nell’organizzazione dei forum locali, spesso contraddistinti dall’assenza di leadership formali e dall’enfasi su relazioni orizzontali e non gerarchiche. I forum locali si autodefinivano come reti e come spazi caratterizzati da un alto grado di pluralismo interno in cui attori individuali e collettivi molto diversi sotto il profilo sociodemografico e dell’orientamento ideologico potevano incontrarsi. Essi proponevano una riflessione sulle concezioni democratiche, enfatizzando l’orizzontalità come messa in rete dal basso e non gerarchica di individui e gruppi con retroterra sociali, politici e culturali diversi.
Le differenze politiche e sociali dei contesti territoriali si riflettevano nelle loro diverse strutture: la ricerca sulla Toscana ha, per es., evidenziato come i forum locali fossero più eterogenei dove si opponevano a giunte di centrodestra e nei contesti in cui esisteva una tradizione di collaborazione fra diversi partiti e movimenti (Del Giorgio 2004).
La nostra ricerca indica inoltre come molte delle innovazioni organizzative che caratterizzavano i forum locali siano state adottate dai gruppi che vi hanno preso parte: in alcuni casi la partecipazione ha favorito lo sviluppo di soluzioni organizzative innovative. I gruppi nati dal movimento presentavano una struttura organizzativa estremamente orizzontale, reticolare, e privilegiavano le iniziative decentrate su simboli comuni: questo è il caso, per es., della campagna EuroMayDay, una rete che lotta per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori precari, e della Rete Lilliput, impegnata in campagne su commercio equo, non-violenza, giustizia ambientale e pace.
Ma i forum locali includevano anche organizzazioni tradizionali come sindacati e ONG (Organizzazioni Non Governative) impegnate in progetti di solidarietà con il Sud del mondo, nella protezione ambientale e a favore dei diritti dei migranti. Benché tali relazioni non abbiano avvicinato i sindacati tradizionali e quelli di base, l’incontro con modelli organizzativi esterni al mondo del lavoro ha certamente prodotto una rinnovata enfasi sulla partecipazione.
Come è stato notato, strutture organizzative più decentralizzate e democratiche hanno rimpiazzato strutture centralizzate e gerarchiche non solo nelle organizzazioni dei lavoratori ma anche nelle associazioni caritatevoli le cui radici affondano alla fine del 19° sec. (della Porta, Mosca 2007). Specialmente dopo il loro incontro con altri gruppi e modelli organizzativi nell’ambito dei forum locali, le ONG con una più lunga storia alle spalle hanno introdotto – senza modificare radicalmente le loro strutture – diverse innovazioni per favorire una più ampia partecipazione dei propri membri, mentre le organizzazioni nate più di recente hanno adottato i metodi decisionali e le modalità organizzative dei social forum, rompendo drasticamente con la concezione rappresentativa della democrazia.
Alcune delle organizzazioni di più antica fondazione, caratterizzate da modelli gerarchici, hanno reagito alle mobilitazioni legate al processo dei social forum dedicando maggior attenzione alla loro base. Per es., Manitese – ONG fondata nel 1964 che opera a livello locale, nazionale e internazionale per favorire la giustizia, la solidarietà e il rispetto fra i popoli – dopo tale esperienza ha cominciato a riflettere sui propri metodi decisionali, avviando cambiamenti organizzativi e sperimentazioni basate su metodi decisionali consensuali. Anche organizzazioni fondate più di recente e attive nell’ambito della cooperazione internazionale sono state influenzate in questa direzione. È il caso di Emergency – ONG indipendente che presta cure gratuite alle vittime civili in aree di guerra – che ha subìto una crisi di sviluppo causata dalla crescita esponenziale nella domanda di partecipazione degli attivisti socializzati nel processo dei social forum: questa pressione ha effettivamente prodotto una maggior partecipazione dei suoi membri.
L’incontro con i social forum ha generato dei cambiamenti perfino nei modelli organizzativi partecipativi e decentrati adottati dai centri sociali. In questi gruppi la contaminazione con altre esperienze (in particolare con gli zapatisti) si è tradotta in un’attenzione crescente nei confronti di concezioni deliberative di democrazia, specialmente quelle che collegano forme orizzontali di partecipazione assembleare con il potere trasformativo del metodo del consenso.
I forum locali, quindi, hanno favorito lo sviluppo di strutture di coordinamento flessibili. Nello spirito di Porto Alegre, il metodo del consenso ha offerto uno strumento per organizzare una base sociale e organizzativa eterogenea e ampia.
Le carte d’intenti dei social forum indicano chiaramente un’identità multilivello e pluritematica, sintetizzata dallo slogan «costruire localmente, collegare globalmente» (build locally, link globally). Nella costruzione delle identità collettive, i social forum sottolineano in particolare due collegamenti. In primis, essi tendono a porre in relazione il globale e il locale, ‘territorializzando’ il movimento: da un lato i forum locali traducono e ridefiniscono tematiche globali nell’ambito locale, dall’altro collegano le lotte locali con rivendicazioni globali sui temi della democrazia, della partecipazione e della giustizia globale.
Molti forum locali presentano un modello multilivello di mobilitazione poiché sono attivi in territori specifici ma si mobilitano anche in campagne nazionali e transnazionali e in coalizioni attive su varie tematiche, ribaltando in tal senso l’evoluzione verso una specializzazione su singoli temi tipica dei movimenti degli anni Ottanta e Novanta (della Porta 1996). I forum locali dunque operano a livello cognitivo come ‘ponti’ fra movimenti diversi. Una delle loro principali caratteristiche consiste infatti nella natura composita, frutto della convergenza di vari attori sociali e politici operanti su temi diversi che, nel passato, erano spesso entrati in competizione l’uno con l’altro. Emanazione della Carta dei principi di Porto Alegre, i forum locali vengono presentati dagli organizzatori come laboratori politici, arene di interazione e pianificazione di ulteriori iniziative, spazi in cui un’identità comune emerge dall’incontro di attori individuali e collettivi diversi. Essi sono stati capaci di diffondere schemi interpretativi pluritematici fra i vari gruppi che hanno partecipato alle loro attività, traducendoli in un discorso multilivello e contribuendo quindi a una sorta di apertura delle identità organizzative e individuali, innanzitutto mediante il collegamento fra frames diversi. Cambiamenti significativi si sono registrati, per es., nel movimento dei lavoratori mediante la partecipazione di alcune delle sue componenti organizzate al processo dei forum sociali. Ispirati dal nuovo ciclo di protesta, i sindacati di base e alcuni sindacati metalmeccanici e del settore pubblico hanno ampliato i loro obiettivi oltre la difesa di diritti di gruppi di lavoratori specifici, abbracciando i temi della cittadinanza e della democrazia, e hanno sperimentato modelli organizzativi partecipativi basati sulla rotazione dei leader e su decisioni prese all’unanimità o da maggioranze qualificate.
Nuove identità si sono inoltre sviluppate anche attraverso la partecipazione ai forum da parte della galassia di organizzazioni attive sul tema della solidarietà internazionale, che ha spinto alcune associazioni tradizionali verso innovazioni profonde della loro identità. L’ARCI (Associazione Ricreativa e Culturale Italiana), per es., fondata nel 1957 come associazione collaterale del Partito comunista italiano, ha acquisito sempre maggior autonomia, ridefinendo la sua identità attraverso un forte impegno sui temi della pace e dei diritti dei migranti. Il suo coinvolgimento nei forum locali l’ha portata a guardare con maggiore attenzione agli effetti negativi della globalizzazione neoliberista, sia nel Nord sia nel Sud del mondo.
Con alcune differenze fra gruppi e singoli individui, dunque, il risultato della partecipazione ai forum locali e alle varie forme di coordinamento che hanno accompagnato il sorgere del movimento antiliberista è stato un collegamento di frames diversi dal punto di vista non solo tematico ma anche territoriale.
I forum locali hanno favorito la diffusione a livello locale di pratiche decisionali consensuali e di identità multiple e tolleranti (della Porta 2005a) sviluppate nel FSM e nelle sue articolazioni continentali. Nella loro opera di traduzione, hanno enfatizzato in particolare l’orizzontalità così come la necessità di radicare rivendicazioni globali nei contesti locali.
Concentrandoci sui forum locali e su alcune organizzazioni coinvolte nelle loro attività abbiamo sottolineato come diversi reticoli organizzativi, attivi su temi distinti, si siano interconnessi e mobilitati congiuntamente, generalizzando le loro rivendicazioni, proiettandosi oltre i confini locali e sperimentando formule organizzative e decisionali alternative. Questo processo ha riguardato sia organizzazioni provenienti da precedenti cicli di protesta sia gruppi nati dopo la ‘battaglia di Seattle’ del 1999.
Come abbiamo notato, inoltre, essendo formati da ‘cosmopoliti radicati’, i forum locali hanno contribuito a connettere diversi livelli territoriali. Essi hanno adottato una struttura reticolare, definendosi come arene per l’apprendimento reciproco fra individui e gruppi con alle spalle diverse esperienze politiche e sociali.
La partecipazione in queste reti ha infatti avuto un effetto trasformativo su coloro che vi hanno preso parte. Se le organizzazioni più tradizionali hanno mantenuto strutture gerarchiche adottando in alcuni casi una concezione più partecipativa delle dinamiche interne, i gruppi nati durante le proteste contro il neoliberismo si sono invece caratterizzati per l’adozione di una struttura molto flessibile e reticolare e di metodi decisionali orientati verso la partecipazione e la formazione del consenso. La partecipazione ai forum ha inoltre promosso un rimodellamento importante delle identità organizzative. Alcuni dei frames e delle strategie proposti dai nuovi gruppi hanno così trovato accoglienza nelle organizzazioni tradizionali che sono state influenzate in maniera più o meno profonda dall’incontro con quelle emergenti.
La formula dei forum locali ha contribuito a diffondere una logica reticolare e pluritematica che è divenuta centrale per molte organizzazioni del movimento. La natura precaria di alcune esperienze ad hoc – emerse per coordinare campagne specifiche e poi dissoltesi – non veniva percepita come una debolezza ma piuttosto come un’opportunità, in vista anche di iniziative future.
L’evoluzione complessa (nascita, scomparsa, rinascita in altre forme) dei forum locali negli anni recenti esemplifica le difficoltà derivanti dalla costruzione di arene permanenti di incontro. In alcuni casi, come nelle grandi città (Milano, ma anche Roma), la dimensione delle prime assemblee (che coinvolgevano centinaia di gruppi e migliaia di individui), così come una tradizione di forti conflitti interni ai movimenti sociali, hanno reso il processo ingestibile. In altri casi, il declino ha seguito le fluttuazioni fisiologiche della mobilitazione o l’apertura di altri spazi di collegamento che riunivano insieme attivisti provenienti da diverse organizzazioni e movimenti (come avvenuto, per es., nel caso delle proteste contro la guerra).
Sostenere spazi comuni di coordinamento e mobilitazione è indubbiamente un compito arduo. I forum locali sono infatti rimasti attivi specialmente in quelle aree in cui le lotte locali contro le grandi infrastrutture hanno sostenuto i processi di mobilitazione. Fra i tanti esempi si possono citare i social forum attivi nelle proteste contro la TAV in Valle di Susa e contro il ponte sullo Stretto (della Porta, Piazza 2008), ma anche quelli che sono stati attivi a Venezia contro il MOSE (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) o in Abruzzo contro la realizzazione di un nuovo traforo nella catena del Gran Sasso e contro la produzione di F-35 vicino a Novara. In tutte queste battaglie, preoccupazioni per l’ambiente convergono con domande relative alla qualità del lavoro, ai diritti sociali e al coinvolgimento delle popolazioni locali nelle decisioni pubbliche. Ciò significa che il riferimento a una mobilitazione transnazionale ha rappresentato una condizione necessaria, ma non sufficiente per mantenere in vita i forum locali.
Anche quando queste arene si sono dissolte, tuttavia, le innovazioni riguardanti le formule organizzative, così come i frames pluritematici e multilivello, si sono sedimentati venendo a far parte del repertorio dell’azione collettiva ed esercitando un impatto durevole in ambito locale. Grazie alle precedenti esperienze nei forum locali, nuove coalizioni, reti e tavole rotonde con configurazioni a ‘geometria variabile’ si sono facilmente e rapidamente costituite. Il processo dei social forum può quindi essere considerato rilevante non solo in se stesso ma anche per la sua capacità di produrre trasformazioni durature nelle organizzazioni coinvolte in tale processo nonché di favorire contaminazioni fra di esse.
Sono passati cinque anni dall’inizio della crisi e i movimenti nati come risposta alla crisi non si sono ancora incontrati. Firenze è il luogo da cui ripartire, per condividere a livello europeo le analisi su quanto è successo, le esperienze costruite dal basso, le proposte su come far cambiare rotta all’Europa. Democrazia, austerità, debito, beni comuni, lavoro e diritti sociali, pace e conflitti, mobilitazioni sono i temi al centro delle discussioni (http://www.firenze1010.eu/it/home/10-news/158-l-altra-europa-arriva-a-firenze).
Con queste parole e con questi intenti si apriva l’8 novembre 2012 Firenze 10+10, la riedizione del primo Social forum europeo dieci anni dopo. Fra gli obiettivi dichiarati dell’evento, il tentativo di ricomporre e superare la frammentazione dei movimenti sociali e di identificare delle affinità fra soggetti diversi per costruire battaglie comuni (C. Ricci, Movimento unito contro una crisi che divide, «Il manifesto», 9 nov. 2012).
Non è casuale che un’iniziativa di questo tipo, che chiamava a raccolta la società civile europea e italiana, si sia svolta proprio a Firenze. Infatti, negli ultimi anni, la protesta in Italia è apparsa – diversamente da altri Paesi, dove la crisi economica ha favorito una convergenza delle lotte – frammentata in molteplici rivoli che solo occasionalmente hanno trovato opportunità di incontro e coordinamento.
Di seguito, si guarderà al conflitto sociale in Italia nel biennio 2011-12 mediante un’analisi di tipo quantitativo degli eventi di protesta riportati dalla stampa. In questo modo sarà possibile operare una ricognizione del fenomeno, individuandone gli attori più rilevanti (sindacati, associazioni, gruppi debolmente strutturati, ecc.), la loro effettiva presenza, il loro repertorio d’azione e di rivendicazioni.
Prima di procedere con l’illustrazione dei risultati occorre spendere qualche parola sulla metodologia utilizzata per la raccolta dei dati. La Protest event analysis (PEA) è una tecnica di ricerca quantitativa utilizzata spesso nello studio dei movimenti sociali, che permette di descrivere l’incidenza della protesta in un arco di tempo determinato, identificarne i protagonisti, i temi e le forme d’azione più ricorrenti, nonché i target delle mobilitazioni. Si è quindi proceduto con lo spoglio di un quotidiano nazionale selezionando tutti gli articoli che hanno dato conto di eventi di protesta fra il 1° gennaio 2011 e il 31 dicembre 2012. Si è scelto di utilizzare il quotidiano «La Repubblica» per tre ragioni: a) l’accessibilità del database, comprensivo di tutti gli articoli pubblicati sull’edizione cartacea del giornale a partire dal 1984 e liberamente consultabile on-line (www.repubblica.it); b) la diffusione, trattandosi del quotidiano nazionale più letto; c) l’orientamento di centrosinistra, che si traduce in maggiore attenzione alla protesta e ai movimenti sociali rispetto a quotidiani di centrodestra. L’analisi è stata effettuata mediante l’utilizzo di un codebook per registrare una serie di informazioni relative alle proteste individuate: data e luogo, attori che vi prendono parte, tema e modalità di azione, numero di partecipanti, bersaglio della protesta e suo livello territoriale, principali rivendicazioni ed eventuali reazioni delle forze dell’ordine. Alla fine del processo di codifica sono stati identificati 171 eventi di protesta nel 2011 e 180 nel 2012, interrogando il database del giornale attraverso la parola ‘protesta’.
Benché la protesta, nel corso del biennio considerato, appaia frammentata ed episodica, è possibile individuare alcune tematiche e alcuni soggetti che ricorrono con una certa frequenza.
La PEA è stata utilizzata per analizzare l’evoluzione della protesta nel tempo e nello spazio. Fra gli altri, è stata impiegata da Charles Tilly (1929-2008) e i suoi colleghi negli anni Settanta per studiare il repertorio dell’azione collettiva. In seguito ha ispirato altri importanti studi sul movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, sul ciclo di protesta in Italia negli anni Settanta (Tarrow 1990), sui nuovi movimenti sociali in Europa occidentale e sulle trasformazioni dell’attivismo ambientalista in Europa. Benché non si possa ritenere il campione di eventi individuato né esaustivo né rappresentativo di tutta la protesta nel periodo considerato, la mappatura effettuata mediante gli articoli pubblicati sul quotidiano «La Repubblica» fornisce delle informazioni utili su quegli eventi che più di altri sono stati capaci di attrarre l’attenzione pubblica, superando la soglia della notiziabilità.
Nel 2012 la media mensile degli eventi di protesta è stata pari a 15 al mese contro i 14 dell’anno precedente. La visibilità della protesta sulla carta stampata si è quindi mantenuta costante nel corso del biennio in questione. Tuttavia, se si eccettuano alcune campagne o attori sociali ricorrenti, di cui si parlerà nei prossimi paragrafi, essa appare estremamente ‘frantumata’: il conflitto sociale in Italia sembra presentarsi infatti come ‘protesta senza movimenti’, ovvero come un aggregato incoerente di azioni non convenzionali, estemporanee, prive di un frame unificante e di sottostanti processi di costruzione di identità collettive.
Come si vede nella figura 1, nel biennio considerato alcuni mesi presentano un picco di eventi: in particolare, marzo, maggio e giugno 2011, gennaio, marzo, maggio e novembre 2012. Nei mesi che si contraddistinguono per una maggior incidenza della protesta emergono temi ricorrenti: dalle contestazioni degli studenti contro la riforma dell’università (legge Gelmini) entrata in vigore il primo gennaio 2011 a quelle contro la prova INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo), dalle manifestazioni in difesa della dignità delle donne (spesso indirizzate contro Berlusconi) a quelle dei lavoratori dello spettacolo contro i ‘tagli lineari’ e l’approccio del governo di centrodestra alla cultura, dalle dimostrazioni degli abitanti di Lampedusa contro gli sbarchi di immigrati a quelle degli immigrati per il trattamento ricevuto nei Centri identificazione ed espulsione (CIE), dalle mobilitazioni relative al referendum su acqua e nucleare al tentativo di fermare l’Europride a Roma da parte di gruppi di estrema destra, dall’emergenza rifiuti a Napoli alla ‘legge bavaglio’ che mirava a introdurre misure restrittive sulla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e sulla diffusione delle informazioni su siti web e blog. Fra i temi che rappresentano un filo rosso nel biennio in questione si possono citare le proteste contro la TAV in Valle di Susa e quelle legate alla crisi economica, aventi a oggetto il governo Berlusconi prima e il governo Monti poi. Frequenti le manifestazioni dei lavoratori di numerose imprese in dismissione, di imprenditori e di cittadini contro Equitalia.
Nei due anni considerati il mese che presenta il maggior numero di eventi di protesta è quello in cui cade la campagna del ‘movimento dei forconi’, esplosa nella seconda metà di gennaio 2012 in Sicilia. Fra i protagonisti di questo movimento, i ‘vespri siciliani del terzo millennio’, vi erano agricoltori, autotrasportatori, allevatori, pescatori, a cui arrivò la solidarietà di disoccupati, operai e studenti. Il movimento si opponeva in particolare all’aumento del prezzo della benzina, unendo a una rivendicazione di tipo eminentemente materiale una di tipo identitario (con un richiamo frequente all’autonomia dell’isola). Blocchi di strade, autostrade e porti (a volte sfociati in scontri con le forze dell’ordine) hanno messo in ginocchio l’economia locale facendo scarseggiare carburante, generi alimentari e farmaci. I media hanno paventato il rischio di infiltrazione del movimento da parte della criminalità organizzata; esso è stato inoltre criticato per la vicinanza di alcuni suoi esponenti a Forza nuova (G. Pipitone, ‘Cosa nostra nel movimento dei Forconi’. In Sicilia la protesta contro la politica, «Il fatto quotidiano», 19 genn. 2012). Quando la protesta isolana si è arrestata, il movimento ha tentato di trovare uno sbocco politico: nel corso dell’anno si è quindi consumata la scissione in un’anima di destra e una di sinistra, entrambe presenti, con scarso successo, alle elezioni amministrative e regionali del 2012.
Come mostra la tabella 2, gli attori intervenuti nella protesta nel corso del biennio sono estremamente vari: in quasi la metà dei casi si tratta di soggetti informali, privi di statuto, organismi elettivi e di una sede propria stabile, la cui azione abbia comunque una certa continuità nel tempo. In questa categoria rientrano comitati di cittadini, centri sociali e reticoli organizzativi non formalizzati (come i No TAV o il movimento dei forconi). Oltre a questi, si possono citare vari casi di gruppi di lavoratori che si mobilitano contro la propria azienda per opporsi a ristrutturazioni e licenziamenti senza il supporto di sigle sindacali, così come gruppi di immigrati o mobilitazioni spontanee di cittadini aventi a oggetto temi diversi. In circa un quinto dei casi sono presenti attori che, oltre a essere formali e organizzati (come associazioni, Organizzazioni non governative, ecc.), si aggregano dando vita a campagne dotate di continuità temporale. A seguire troviamo sindacati (confederali e di base) e partiti/attori istituzionali (quasi sempre espressione dell’area della sinistra radicale) che intervengono con una frequenza simile negli eventi di protesta. In generale, è interessante notare che non emergono differenze particolarmente marcate fra i due anni considerati e che gli attori che mobilitano la protesta si dividono grosso modo in due grandi gruppi sostanzialmente equivalenti: da una parte, attori formali e strutturati e, dall’altra, attori informali e debolmente o per niente strutturati.
Sulla scorta di precedenti lavori sul tema (Tarrow 1989; Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004), le forme di azione rilevate negli eventi di protesta sono state ricodificate come segue: convenzionali (petizioni, lettere pubbliche, volantinaggi, conferenze stampa, ricorsi legali, rapporti scientifici ecc.); dimostrative (cortei, presidi e sit-in autorizzati, assemblee pubbliche di denuncia, azioni simboliche); perturbative (azioni illegali ma non violente come cortei, presidi e sit-in non autorizzati, scioperi selvaggi, blocchi stradali, occupazioni pacifiche ecc.); violente (danno materiale o fisico).
Naturalmente le forme d’azione cambiano in base al tipo di attore: gli attori più strutturati tendono a utilizzare soprattutto forme di protesta dimostrative, mentre quelle più radicali si rilevano specialmente fra gli attori poco o debolmente strutturati: nella metà dei casi, infatti, essi fanno ricorso a forme d’azione perturbative o violente. Il numero di azioni convenzionali è molto contenuto e riguarda specialmente gli attori strutturati che però solo in pochissimi casi le utilizzano in maniera esclusiva (poiché scarsamente attraenti dal punto di vista mediatico) ma tendono ad associarle ad altre azioni di tipo dimostrativo o perturbativo. Come si vede nella tabella 3, fra il 2011 e il 2012 si nota una contrazione delle forme d’azione convenzionali e dimostrative a fronte di un aumento considerevole di azioni perturbative (imputabili, in particolare, a tassisti, ‘forconi’, No TAV e operai). Da sottolineare come nel 2011 – anno delle proteste degli Indignados e di Occupy Wall Street – circa il 10% delle forme perturbative è rappresentato da occupazioni; percentuale che scende intorno al 6% l’anno successivo (dato non mostrato in tabella). Il ricorso a forme di azione violente registra un leggero incremento fra il 2011 e il 2012.
Ma quali sono i temi su cui si è focalizzata maggiormente la protesta nel corso del biennio considerato? Nella tabella 4 si può notare come, soprattutto nel 2012, il lavoro sia stato al centro dei conflitti sociali (oltre un terzo dei casi). Se a esso si sommano le proteste aventi a oggetto la crisi economica si supera il 50% dei casi (erano poco più del 25% l’anno precedente). Mentre il tema del lavoro in quanto tale interessa soprattutto attori di tipo formale come i sindacati, le mobilitazioni contro la crisi economica vedono una prevalenza di attori debolmente strutturati. Un altro tema che catalizza buona parte dell’attenzione di chi protesta è l’ambiente (oltre un quinto dei casi nel 2012). Sono soprattutto gli attori debolmente strutturati – e in particolare il movimento No TAV – a mobilitarsi maggiormente su questo argomento. Nel 2011 le proteste hanno riguardato un ventaglio di temi più ampio rispetto al 2012: democrazia, giustizia e libertà di informazione (per es. sul tema del referendum e contro leggi considerate ‘liberticide’), genere (le proteste di ‘Se non ora, quando?’), immigrazione (contro gli sbarchi a Lampedusa ma anche i campi rom). Nel 2011 un numero significativo di proteste ha anche riguardato una serie di provvedimenti particolarmente contestati del governo di centrodestra guidato da Berlusconi (poi dimessosi il 12 novembre 2011 e sostituito da Mario Monti). Infine, fra il 2011 e il 2012, decrescono le proteste riguardanti il settore educativo e culturale.
La tabella 5 mostra quali sono stati i principali bersagli della protesta nel periodo preso in esame. Le differenze fra il 2011 e il 2012 sono modeste. Circa due proteste su tre si sono indirizzate contro il governo, con differenze minime fra i diversi attori considerati. Con l’acuirsi della crisi economica e delle sue conseguenze le imprese sono divenute sempre più oggetto di contestazione collettiva, specialmente da parte dei sindacati. Le forze dell’ordine vengono designate dai manifestanti come bersagli della protesta in circa il 5% dei casi (soprattutto nelle proteste dei No TAV). Sono invece rari i casi in cui le proteste si rivolgono a target diversi da quelli già discussi. Solo le banche divengono il bersaglio di qualche rivendicazione nel 2011.
Da sottolineare, infine, che in circa tre quarti dei casi (dato non mostrato in tabella) il livello territoriale del target della protesta è quello nazionale, in quasi il 20% dei casi le proteste hanno a oggetto un bersaglio di livello subnazionale (quasi sempre il comune) e in poco più del 5% dei casi esse si indirizzano a target che operano a livello sovranazionale. Nonostante che molte proteste abbiano una dimensione locale, esse tendono a rivolgersi in maniera maggioritaria al governo nazionale.
La mobilitazione oltre l’ambito locale richiede dunque alcune condizioni specifiche ed è, inoltre, difficile da sostenere nel lungo periodo. Non solo i media nazionali prestano un’attenzione occasionale alle proteste, concentrandosi solitamente sulle forme più radicali, ma anche i processi di policy aprono raramente ‘finestre di opportunità’. La politicizzazione che avviene con il mutamento di scala (e di interpretazione) del conflitto dal locale al nazionale, o anche al globale, non è ben vista da tutti i partecipanti locali. Sostenere alti livelli di mobilitazione e di attenzione pubblica è possibile solo quando gli attivisti locali sono capaci di collegare le loro rivendicazioni a quelle mobilitate nelle ondate di protesta nazionali e transnazionali: ma la mobilitazione è anche influenzata dagli inevitabili alti e bassi dei più generali cicli di protesta.
Viene così confermata l’importanza di guardare alle campagne di mobilitazione nelle loro interazioni con più ampi cicli di protesta, cioè dei momenti in cui l’azione collettiva non convenzionale si intensifica e diffonde ad attori diversi, attraverso processi di imitazione ma anche di apprendimento (Tarrow 1990). Collegata a un mutamento di scala verso l’alto è la partecipazione di una pluralità di attori presenti nelle campagne e nei conflitti locali, come anche di schemi interpretativi globali.
Come suggerito altrove (della Porta, Mosca 2007), le dinamiche di campagna e di movimento che si sono prodotte a livello locale hanno creato le condizioni per l’incontro e la discussione fra attori diversi. L’eterogeneità dell’impegno associativo e tematico da parte degli attivisti e l’affiliazione delle stesse organizzazioni in reticoli densi hanno generato un processo di ‘contaminazione in azione’ che ha facilitato il coordinamento logistico, l’emergere di strutture orizzontali, identità tolleranti e fiducia reciproca e ha permesso un collegamento fra varie tematiche e lo sviluppo di identità multilivello.
Dopo aver passato in rassegna i principali conflitti territoriali emersi in Italia a partire dagli anni Novanta, si è però osservato come più di recente il fronte della protesta sociale si presenti estremamente articolato ma al tempo stesso fortemente frammentato. La ricomposizione sociale è stato uno degli obiettivi dichiarati della citata iniziativa Firenze 10+10. L’Italia, infatti, non è stata in grado di dare vita a un movimento sociale di massa contro le politiche di austerity come quelli emersi in altri Paesi. I tentativi avviati nell’autunno del 2011 di creare un movimento con caratteristiche simili agli Indignados spagnoli o a Occupy Wall Street si sono rivelati fallimentari.
Ma come si spiega questa mancata mobilitazione? I fattori sono essenzialmente tre (Zamponi 2012): a) in Italia il ciclo di mobilitazioni studentesche contro la crisi economica fra il 2008 e il 2011 aveva prodotto l’emergere di soggetti con un’identità politica definita e forme d’azione radicali che rendevano difficile un processo di coalition building; b) l’esito della manifestazione degli Indignados a Roma il 15 ottobre 2011, con circa 70 feriti, ha generato una perdita di credibilità del nascente movimento dopo gli scontri di piazza e una serie di rotture difficili da ricomporre nel breve periodo; c) il contesto politico sfavorevole costituito da un governo tecnico con sostegno bipartisan dei principali partiti di centro, destra e sinistra e la sola opposizione di Lega e Italia dei Valori, prima, e di Lega, Sinistra, ecologia e libertà e Movimento 5 stelle, poi, ha ridotto il potenziale di mobilitazione dei movimenti che, come sostengono alcuni studiosi (della Porta, Diani 2006, p. 215), tende a crescere quando la sinistra è all’opposizione.
Altri codici: aree di movimento nella metropoli, a cura di A. Melucci, Bologna 1984.
S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia 1965-75, Roma-Bari 1990.
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Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni sociali, a cura di L. Bobbio, A. Zeppetella, Milano 1999.
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L. Zamponi, ‘Why don’t Italians occupy?’ Hypotheses on a failed mobilisation, «Social movement studies», 2012, 3-4, pp. 416-26.
Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 5 novembre 2014.
Si ringraziano Massimiliano Andretta, Gianni Piazza e Herbert Reiter che hanno collaborato alla realizzazione di numerose ricerche utilizzate in questo lavoro; Louisa Parks e Lorenza Parisi per il reperimento degli articoli e la codifica degli eventi di protesta effettuati rispettivamente per il 2011 e il 2012, nell’ambito dei progetti di ricerca Subterranean politics in Europe, coordinato da Mary Kaldor presso la London school of economics and political science, e Partecipazione politica non convenzionale e nuovi media, coordinato da Lorenzo Mosca presso l’Università Roma Tre. Si ringrazia anche lo European research council per l’Advanced research grant su Democratization from below.