Conflitti etnici e religiosi
di Lucio Caracciolo
Conflitti etnici e religiosi
sommario: 1. Introduzione. 2. La fine della guerra fredda e le sue conseguenze. 3. In morte della Iugoslavia. 4. Guerre etnico-religiose e guerra al terrorismo. 5. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Un'interpretazione molto diffusa, soprattutto nei media e nel discorso comune alle élites politiche occidentali (e non solo), vuole che con la fine della guerra fredda si sia aperta una nuova fase storica, contrassegnata dall'irrompere sulla scena globale di conflitti etnici e religiosi. Tesi difficilmente confutabile, data la vaghezza del concetto di guerra etnica e/o religiosa (i due termini tendono ad andare in coppia). Si tratta infatti di una definizione soggettiva e spesso strumentale. Di una "terribile semplificazione", avrebbe osservato Jakob Burckhardt. Amplificata e incentivata dai media, per i quali lo slogan accattivante tende spesso a prevalere sull'investigazione approfondita di un fenomeno. Ma è una semplificazione utile anche agli stessi combattenti, che possono servirsene a fini strategici e/o di propaganda.
Dal punto di vista dell'analista, dell'osservatore esterno che cerca di comprendere la natura e le caratteristiche di una guerra, è opportuno scernere il grano dal loglio, gli elementi propagandistici dagli eventuali fattori etnici o religiosi di uno specifico conflitto, che pure esistono e appaiono sempre più frequenti. È quanto cercheremo di fare in questo articolo, aiutandoci con qualche esempio.
2. La fine della guerra fredda e le sue conseguenze
Conviene anzitutto esaminare la tesi sopra accennata per cui il cambio di paradigma del sistema internazionale avrebbe prodotto una quantità di conflitti etnici e religiosi che tuttora seminano morte e distruzione in varie regioni del pianeta. Potremmo descrivere tale mutamento sistemico come il passaggio da una forma di ordine a un disordine - a uno squilibrio della potenza su scala planetaria, direbbero gli scienziati politici di scuola realista - che non lascia ancora presagire un nuovo ordine mondiale, la cui necessità è stata peraltro evocata subito dopo la fine della guerra fredda dallo stesso presidente degli Stati Uniti George Bush.
Cerchiamo anzitutto di capire da quale tipo di assetto internazionale veniamo. L'elegante semplicità del mondo diviso non solo simbolicamente in due - Est e Ovest, regimi comunisti e regimi liberal-capitalistici - può essere vista in prospettiva sistemica come un fattore di riduzione della complessità all'interno delle due grandi costellazioni geopolitiche nemiche (v. Caracciolo, 1986, p. VII). Sovietici e Americani avevano interesse a impedire che nei rispettivi campi di dominio o d'influenza (gestiti peraltro in modo totalmente diverso, secondo le caratteristiche proprie di ciascuna delle due superpotenze) si creassero conflitti in grado di minacciarne la stabilità interna. Occorreva anzi tenerli compatti per poter meglio affrontare - anche solo in modo 'freddo', cioè senza ricorrere alle armi - lo scontro strategico, decisivo, fra le due superpotenze rivali. Il contenimento della conflittualità nel campo orientale e in quello occidentale erano priorità da 'fronte interno'. Un contenimento che nell'ambito dell'Impero sovietico si spingeva fino alla liquidazione del dissenso politico-ideologico e, soprattutto, delle dispute geopolitiche fra paesi appartenenti al Patto di Varsavia (si pensi, ad esempio, alle questioni di confine fra Germania Orientale e Polonia nel Golfo di Pomerania).
La riduzione della complessità era ovviamente minore alla periferia dei due sistemi (il Terzo Mondo, in particolare l'Africa), mentre toccava il parossismo là dove la frizione fra Est e Ovest aveva il suo epicentro: la Germania, spartita in due e separata da una cortina di ferro persino nel cuore della sua capitale storica, Berlino. Nella pregnante formulazione del plenipotenziario sovietico a Berlino Est, l'ambasciatore Pëtr Abrassimov, rivolto nel 1971 ai colleghi diplomatici delle potenze vincitrici occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia): "Voi controllate i vostri Tedeschi, che noi controlliamo i nostri" (cit. in Bender, 1989, p. 63). Visione implicita nella stessa NATO, il braccio armato dell'Alleanza Atlantica fondata nel 1949, di cui il primo segretario generale, il britannico lord Ismay, amava descrivere così la missione: "Tenere i Russi fuori, gli Americani dentro e i Tedeschi sotto".
È evidente che la somma algebrica di tali percezioni reciproche non poteva che ridurre drasticamente la possibilità di conflitti etnici, religiosi o di qualsiasi altro tipo entro i rispettivi campi. In Occidente, e in specie in Europa, la guerra fredda ha infatti coinciso con un lungo periodo di pace, senza precedenti nella storia moderna. I due rivali - Stati Uniti e Unione Sovietica - si scontravano indirettamente nelle periferie asiatiche o africane, perché non potevano e non volevano affrontarsi direttamente, rischiando la catastrofe nucleare. Era questo il succo della MAD (Mutually Assured Destruction), il principio di deterrenza che ha retto il mondo durante la guerra fredda.
Con l'avvento di Michail Gorbačëv alla guida dell'Unione Sovietica, nel 1985, si consuma la fase finale della guerra fredda. Essa ha nel crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989), nella nascita della Germania unita (1° ottobre 1990) e nella dissoluzione dell'Unione Sovietica (31 dicembre 1991), i suoi momenti topici. Un crollo repentino e inatteso, che si configura come suicidio geopolitico della potenza sovietica e fine del suo vasto dominio intercontinentale. L'effetto di decompressione conseguente allo scardinamento del paradigma che per mezzo secolo aveva orientato la politica internazionale è evidente. Esso investe prima l'Est europeo - che già nel 1989 si emancipa dal controllo di Mosca, a cominciare dalla Polonia di Solidarność - poi il cuore stesso dell'impero russo-sovietico, con la vittoria della Russia di Boris El′cin sull'URSS di Gorbačëv, nella seconda metà del 1991.
Si apre così una stagione, tuttora in corso, di straordinario revisionismo geopolitico, non troppo pacifico. Viene riscoperto un classico criterio ordinativo etnico, il 'diritto all'autodeterminazione dei popoli', invenzione del capo della Rivoluzione russa, Lenin, e del presidente americano Woodrow Wilson. Tale 'diritto' - che in fondo legittima la riunificazione tedesca, almeno dal punto di vista dei suoi stessi protagonisti - è invocato a turno e in modo talvolta conflittuale dai leaders di entità territoriali contenute fino ad allora nell'ambito sovietico, iugoslavo, cecoslovacco, ecc. E spesso viene sostanziato di significati e appartenenze religiose, per distinguere popoli e gruppi altrimenti poco identificabili. Etnia e religione vanno a braccetto.
Usando Dio e le effettive o presunte radici etniche di una comunità, le diverse parti in conflitto esaltano il loro buon 'diritto storico' a questo o quello spazio geopolitico. La manipolazione della storia a fini geopolitici, radicando le rispettive rivendicazioni di indipendenza e di territorio in un passato lontano secoli e spesso mitizzato (si pensi all'uso dei concetti di Grande Serbia, Grande Croazia, Grande Albania), serve di giustificazione per scatenare guerre nel cuore stesso dell'Europa, come nei Balcani post-iugoslavi (v. Glenny, 19932).
Non è un caso che la fine della guerra fredda coincida anche con il riapparire della geopolitica come metodo di analisi delle rivalità di potere sul territorio. Una parola a lungo tabuizzata perché legata, arbitrariamente, al nazismo, e perché ai tempi del bipolarismo l'accento cadeva sull'ideologia e sul way of life, non sul territorio. Il ritorno di fiamma di questo termine, anzitutto nei media occidentali, avviene in effetti a partire dal conflitto fra Cambogia e Vietnam, nel 1978-1979. Uno scontro armato interno al cosiddetto blocco comunista, che contraddice l'interpretazione puramente ideologica della guerra fredda: com'è possibile che due paesi comunisti possano combattersi? Ma in gioco c'è il controllo di una parte del delta del Mekong. Siamo dunque di fronte a uno scontro territoriale, basato sul 'diritto storico' di un popolo piuttosto che di un altro su uno spazio determinato. L'interpretazione storicistica è ricorrente nelle maggiori guerre che attraversano la fine della guerra fredda e gli anni successivi: dal conflitto Iran-Iraq (1980-1988) a quello che parte dall'invasione irachena del Kuwait alla cosiddetta guerra del Golfo (1990-1991), fino alle guerre generalmente considerate a sfondo etnico-religioso: i conflitti di secessione post-iugoslava (1990-1999), le infinite guerre in Afghanistan, lo scontro permanente fra Israeliani e Palestinesi, ecc. (v. Lacoste, Préambule ..., 1993, pp. 1-35).
Ciò mette in luce un aspetto centrale dei conflitti post-guerra fredda, compresi quelli che si suole definire 'etnici' e/o 'religiosi'. La posta in gioco è l'affermazione del diritto di un popolo (o 'etnia', per usare un termine meno carico di significato storico-politico e utilizzato fino a poco tempo fa soprattutto in ambito antropologico o nell'africanistica) su un territorio. Tale diritto, a lungo compresso dalla guerra fredda, può produrre un conflitto nel momento in cui collide con un altro diritto, rivendicato da un altro popolo, sul medesimo spazio. Il collasso dell'Impero sovietico e del mini-impero iugoslavo, oltre che del sistema internazionale complessivamente cementato dal confronto Est-Ovest (nel quadro del generale contesto della decolonizzazione, che ha a sua volta rimesso in discussione decine di confini fra precarie entità statuali), ha infatti dato voce a una quantità di minoranze non dotate di un proprio Stato: alcune si accontentano di forme accentuate di autonomia (si pensi ai Curdi, o almeno a parte di essi), altre pretendono di avere un proprio Stato. Il principio generale è: perché devo essere una minoranza nel tuo Stato se tu puoi esserlo nel mio? A sostegno del diritto a uno Stato proprio si impiegano, come vedremo, ragioni culturali e religiose. Si costruiscono 'rappresentazioni geopolitiche' - nel senso attribuito a questa espressione da Yves Lacoste - diffuse dai media locali e spesso acriticamente recepite dalla stampa internazionale.
Il concetto stesso di etnia è piuttosto indeterminato. Nell'uso corrente esso può assumere anche un senso peggiorativo: rivendicazioni di movimenti che si autorappresentano come 'nazionali' vengono talvolta ridotte a espressioni di odi etnici. Dal punto di vista degli etnologi, invece, il termine 'etnia' designa semplicemente l'unità di base della loro ricerca, cioè "un gruppo più o meno vasto di uomini e di donne, caratterizzato da tratti comuni essenzialmente linguistici e culturali e da un forte sentimento tanto di appartenenza a tale collettività quanto di differenza rispetto ai gruppi vicini, o a loro opposti. L'etnia così intesa è spesso considerata come l'unità fondamentale dei gruppi umani. Concepita come 'naturale' o 'tradizionale' [...] essa ha portato, nel passato, a considerare le caratteristiche e i fenomeni etnici come fissati, anistorici (caratteri propri alle 'società senza storia')" (v. Lacoste, Ethnie ..., 1993, pp. 622-623). È chiaro che simili interpretazioni scolastiche non interessano in questo contesto, dove rilevano solo gli usi che dell'appartenenza etnica - in ultima analisi, sempre una scelta soggettiva - si fanno per sostenere con le armi certe rivendicazioni politiche e territoriali acutizzate dalla fine della guerra fredda e dei grandi imperi coloniali.
Il terremoto geopolitico degli anni novanta, che fa da sfondo ai conflitti che li insanguinano, si alimenta inoltre di una tesi che presto diventa senso comune. L'idea, cioè, che la parabola dello Stato nazionale, così come esso è emerso nel sistema continentale europeo dopo la pace di Vestfalia, sia ormai al termine. Una versione riveduta e aggiornata delle note analisi marxiste sull'estinzione dello Stato, peraltro non troppo lontana dalla celeberrima quanto sfortunata visione di Francis Fukuyama (v., 1992) circa la "fine della storia". Solo che nel caso di Marx si trattava di una predizione 'scientifica' basata sulla presunta decifrazione del movimento storico, mentre oggi si tratterebbe della constatazione di un fenomeno già in atto. O meglio, del frutto geopolitico della cosiddetta 'globalizzazione' - altro termine passe-partout di incerto significato ma di vasta strumentalizzazione analitica e strategica: finita la guerra fredda, il denaro circola senza più vincoli e, soprattutto, senza che gli Stati possano condizionarne e orientarne i flussi. In questo contesto, gli Stati vivrebbero una crisi finale.
Il campione di questa rivoluzionaria teoria è un 'guru' del business, già senior partner di McKinsey & Company, il giapponese Kenichi Ohmae, per il quale "man mano che quelle che ho chiamato le quattro 'I' - industria, investimenti, individui e informazioni - fluiscono senza grossi impedimenti oltre i confini delle singole nazioni, perdono progressivamente di senso i concetti chiave tipici del modello di ordine mondiale ottocentesco, fondato essenzialmente sullo Stato chiuso" (v. Ohmae, 1995; tr. it., pp. 11 ss.). Al posto degli Stati, sulle carte geografiche conviene dunque cercare le entità economiche macroregionali, che tracciano le effettive frontiere del XXI secolo. Una teoria discutibile, ma alquanto fascinosa. Discutibile perché mentre Ohmae ne descrive la morte, si consuma all'opposto un fenomeno di proliferazione degli Stati senza precedenti. Ne nascono di nuovi - 'nazionali' e non - a decine, non fosse che per la disintegrazione degli insieme imperiali o grosso modo 'confederali', come quello sovietico o quello iugoslavo. Un processo accelerato e incentivato da quella sorta di basso continuo geopolitico cui accennavamo sopra, costituito dalla rivendicazione di presunti 'diritti storici' e del diritto all'autodeterminazione reclamati alle latitudini e longitudini più diverse. Fascinosa, perché facile e apparentemente foriera di ricchezza e libertà - peccato che contenga in sé la tesi della fine della democrazia, visto che ogni democrazia realmente esistente è incardinata in uno Stato, anche se certo non tutti gli Stati sono democratici.
Paradossalmente, le tesi di Ohmae servono spesso da giustificazione a coloro che tendono a legittimare forme di separatismo, i quali vogliono sì uccidere uno Stato, ma per crearne un altro, anzi molti altri. Infatti la liquidazione di uno Stato non produce nel mondo reale la nascita di una regione economica in cui tutti sono più liberi e si sviluppano meglio. Produce semmai conflitti e nuovi Stati, di taglia spesso minore e tendenti a caratterizzarsi per i propri veri o presunti tratti etnici. Dopo la guerra fredda, almeno per tutti gli anni novanta, trionfa la Kleinstaaterei - l'esaltazione delle virtù dei piccoli Stati - assai più che il superamento dei confini. I nuovi nazionalisti, soprattutto coloro che amano attingere alle radici etnico-culturali e religiose di una comunità per legittimarne la pretesa di farsi Stato, intendono proprio dar vita a uno di quegli Stati che invece Ohmae considera destinati all'estinzione. E ne fanno la base della loro "pretesa all'eguaglianza di trattamento internazionale" (v. Smith, 1986; tr. it., p. 27).
Quanto ai regionalismi evocati dal 'guru' nipponico, più che economici - e in questo caso spesso a scopo protezionistico, anche se mascherato con la retorica liberista - sono geopolitici. Non tendono ad aggregare spazi statuali in costellazioni più ampie, ma semmai a scavare 'regioni' dentro gli Stati nazionali esistenti, che un giorno potrebbero o vorrebbero diventare Stati indipendenti eppure si nutrono di retorica antistatalista (è il caso italiano della 'Padania' alla metà degli anni novanta, un mito geopolitico che affonda le sue radici in rappresentazioni schematiche di tipo insieme economico e antropologico). Un caso esemplare di eterogenesi dei fini, da tenere d'occhio quando si valutano le cause e le motivazioni dei conflitti, anche quelli a sfondo etnico e religioso.
L'ideologia per eccellenza del dopo-guerra fredda è però quella dello "scontro di civiltà". Si tratta in effetti di un tentativo di interpretazione olistica dei nuovi conflitti, basato sull'accentuazione dei motivi di natura etnico-religiosa. Forse non è arrischiato immaginare che senza questa teoria dovuta alla penna e all'influenza di un famoso politologo americano, Samuel P. Huntington, l'interpretazione corrente dei conflitti post-bipolari come guerre etniche e di religione non avrebbe avuto tanta presa e diffusione. Per il politologo di Harvard, già autorevole membro del Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, "in questo nuovo mondo i conflitti più pervasivi, importanti e pericolosi non saranno fra classi sociali, ricchi e poveri, o altri gruppi definiti economicamente, ma tra popoli appartenenti a diverse culture. Guerre tribali e conflitti etnici avverranno dentro le civiltà" (v. Huntington, 1996, p. 28). Alcuni di questi conflitti saranno localizzati, altri si espanderanno all'interno delle singole civiltà. I più pericolosi si svolgeranno però lungo le linee di faglia tra diverse civiltà. In una mappa pubblicata nel suo fortunato volume sul "clash of civilizations", Huntington distingue nove civiltà: occidentale, latino-americana, africana, islamica, cinese, indù, ortodossa, buddista, giapponese. Per fondare questa partizione, da buon politologo, Huntington forza spesso la storia, in modo che i fatti rientrino nella sua teoria. Il suo 'pensiero-mondo' - simile a quello dei geografi politici dell'Ottocento - inclina a ridurre la storia a un algoritmo, ignora la complessità e rifiuta l'analisi geopolitica. Una stenografia intellettuale di modesta pregnanza euristica, ma di straordinaria forza propagandistica.
Questo paradigma è stato impiegato per spiegare e talvolta giustificare diversi conflitti correntemente caratterizzati come etnici e religiosi. Ad esempio, l'idea di una particolare civiltà di matrice cristiana, quella ortodossa, come distinta da quella occidentale e da quella islamica, sembrava ricalcare e schematizzare lo svolgimento delle guerre di secessione iugoslava fra Serbi (ortodossi), Croati (cattolici, dunque occidentali) e Bosniaci (islamici). Oggi, come vedremo, lo stesso paradigma viene evocato e invocato per spiegare l'11 settembre e le sue conseguenze.
La teoria di Huntington, soprattutto, non è passata inosservata fuori della sua civiltà di origine. Specie nel mondo islamico, è stata considerata come la prefigurazione di uno scontro fra the West and the rest, come l'annuncio di un Occidente chiuso in se stesso a protezione della sua frontiera di civiltà. Secondo alcuni suoi critici di parte islamica od ortodossa, il fatto che molte delle nove civiltà di Huntington, a cominciare da quella islamica, abbiano un connotato religioso può essere considerato un tentativo non puramente accademico di individuare nella religione la radice decisiva dei conflitti attuali. Ma il politologo americano non può certo essere sospettato di aver voluto offrire nutrimento 'scientifico' a presunte crociate anti-islamiche o anti-ortodosse. Eppure l'effetto mediatico di scritti inizialmente riservati a riviste di studi politologici - il primo abbozzo della tesi sullo "scontro di civiltà" è stato da Huntington proposto in un saggio su "Foreign affairs" dell'estate 1993, che scatenò un vivacissimo dibattito nella comunità scientifica ma anche fra politici e giornalisti - può produrre esiti del tutto diversi da quelli analitici. Può diventare linfa vitale di ragionamenti strategici. Nelle mani di leaders politici e religiosi senza scrupoli, può trasformarsi in benzina destinata a infiammare intere regioni del mondo.
Da questa galoppata intorno al mondo post-guerra fredda e ai tentativi di interpretarne il senso storico, possiamo trarre almeno un punto fermo. E cioè che le 'terribili semplificazioni' fermentate nei laboratori della scienza politica o economica non ci aiutano a capire il mondo. Anzi, spesso diventano nutrimento ideologico dei conflitti che poi, appunto semplificando, amiamo classificare nella vasta e generica categoria delle guerre etniche e di religione. Conviene allora affrontare sommariamente un caso di conflitto comunemente presentato come etnico e/o religioso, per verificare quanto di etnico e di religioso eventualmente lo determini, senza pretendere, peraltro, di servirsi del singolo caso per derivarne presunte leggi universali, destinate a interpretare se non a predire la storia futura come in fondo hanno provato a fare Huntington e i suoi emuli. Ci serviremo del caso a noi più vicino e, quindi, più gravido di conseguenze: la dissoluzione della Federazione iugoslava.
3. In morte della Iugoslavia
L'espressione 'guerra etnica' è diventata di tragica moda nel mondo in concomitanza con i conflitti che hanno segnato la fine della Iugoslavia. Prendere tale esempio è dunque particolarmente utile per misurare la pregnanza di questa definizione e per valutare lo iato fra vulgata mediatica e analisi di terreno. Si tratta in realtà di una vicenda controversa, tuttora appesantita dalla fitta coltre di menzogne delle rispettive propagande e dai tentativi spesso riusciti di disinformazione che hanno di frequente orientato i nostri media. Riprendendo il titolo di un libro di un giornalista francese, Jacques Merlino (v., 1993), in quella tragedia "non tutte le verità sono da dire". Non lo sono soprattutto quelle che incrinano le versioni e le interpretazioni più o meno ufficializzate.
Secondo la schematizzazione corrente nei media e nelle cancellerie occidentali, saremmo di fronte alla più classica delle guerre etniche e di religione. Una dinamica avviata con le secessioni di Croazia e Slovenia, nel 1991, e le rispettive guerre di indipendenza dalla Iugoslavia ormai in mano alla leadership serba di Slobodan Milošević (in effetti, quella tra Sloveni e Iugoslavi non fu una guerra, ma poco più di una scaramuccia, sapientemente presentata da Lubiana come un'aggressione serba e come tale riportata dai media nostrani), continuata poi con le guerre di Bosnia e terminata, almeno per ora, con la guerra del Kosovo (1999). Tali conflitti sarebbero stati originati dal carattere artificiale della Federazione titina, che teneva insieme popoli, culture e religioni o confessioni fra loro incompatibili. Tesi interessante già per l'implicita affermazione che esistano Stati 'naturali', i quali si piegano ma non si spezzano, di contro alle 'artificiali' confederazioni come quella sovietica o quella iugoslava, condannate dalla loro conformazione interna a implodere.
La Iugoslavia, secondo la cantilena che ogni ragazzo iugoslavo mandava a memoria ai tempi di Tito, aveva "sette vicini, sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue nazionali, tre grandi religioni, due alfabeti e un solo scopo: vivere nella fraternità e nell'unità". Come da molti previsto - senza che ne seguissero specifiche misure preventive - la morte di Tito avviò un processo disintegrativo nel corso del quale i nazionalismi serbo, croato, sloveno e albanese si rifecero alla mitografia nazionale per legittimare le rispettive rivendicazioni territoriali, incompatibili con l'esistenza della Iugoslavia. Malgrado ciò, fino all'autunno-inverno del 1991 tutte le maggiori potenze, a cominciare da Stati Uniti e URSS, con la sola eccezione della Germania (in compagnia dell'Austria e della Santa Sede), tentarono almeno a parole di difendere la prospettiva di una Iugoslavia 'democratica e unita'.
La posizione tedesca, invece, faceva leva sul principio di autodeterminazione (appena applicato in Germania) per sostenere le ragioni di Sloveni e Croati, popoli cattolici e appartenenti alla tradizionale sfera di influenza austro-germanica della Mitteleuropa (v. Caracciolo, 1994). Sotto la forte pressione del Vaticano, della Chiesa cattolica croata e della diaspora croata assai attiva in Nordamerica, in Austria e in Germania, nei media occidentali si affermò presto l'idea che la Iugoslavia fosse sull'orlo di uno scontro di civiltà, per usare la terminologia di Huntington. Da una parte i Serbi - ortodossi, orientali, comunisti, arretrati - dall'altra i Croati e gli Sloveni - cattolici, occidentali, democratici, sviluppati. Nella tenaglia fra le due civiltà in conflitto finirono presto i Bosniaci, o meglio quei cittadini della Bosnia ed Erzegovina che non si sentivano né Serbi né Croati ma appunto Bosniaci, termine associato sbrigativamente a 'musulmano', data la loro prevalente fede religiosa. Lo stesso 'ministro degli Esteri' vaticano, monsignor Jean-Louis Tauran, si espresse in tal senso riferendo a papa Wojtyła nell'agosto 1991, dopo un suo viaggio a Belgrado e a Zagabria: "Santo Padre, la Iugoslavia non esiste più. A Zagabria ho avuto l'impressione di trovarmi a Vienna, mentre a Belgrado mi sembrava di essere a Istanbul" (v. Giovanni Paolo mistico e geopolitico, 2000).
In questa versione, lo scontro fra Serbi e Croati e quello fra Croati e musulmani di Bosnia assurgevano a guerra di religione, con i Croati impegnati - annota Huntington (v., 1996, p. 283) - "in una crociata cristiana contro il comunismo serbo e il fondamentalismo islamico". Il carattere etnico, oltre che religioso, delle guerre di Croazia e di Bosnia, e poi di quella del Kosovo, veniva confermato dal ricorso alla 'pulizia etnica', soprattutto da parte serba, ma anche da parte croata e musulmana. Le proporzioni dei massacri compiuti dalle armate nazionaliste dipendevano dai rapporti di forza fra le varie milizie e dai loro capibanda, certo non da una particolare inclinazione naturale di questo o quel popolo. Ma nella rappresentazione dominante nei media occidentali, si preferiva dare per scontata una vocazione serba al massacro, destinata a rafforzare la facile partizione etnico-religiosa che ancora oggi marca le versioni correnti sulle guerre di secessione iugoslava. Sicché la Bosnia diventava una marca di frontiera fra due civiltà incompatibili. Si era dunque di fronte al classico scontro di civiltà huntingtoniano, alla frontiera fra due mondi che parlavano la stessa lingua, appartenevano allo stesso Stato (la Iugoslavia), erano piuttosto secolarizzati e laici, avevano prodotto milioni di matrimoni misti fra iugoslavi di ceppo croato, serbo e musulmano. Dunque, quanto di valido e quanto di inconsistente c'era in quella lettura?
Oggi è più agevole guardare a quelle spaventose guerre nel cuore dell'Europa con un sia pur minimo distacco storico. Ai fini della nostra analisi, è importante cercare di determinare se quelle interpretazioni in bianco e nero avevano un fondamento, ed eventualmente quanto profondo. Proviamo allora a elencare le ragioni che portano a validare l'interpretazione etnico-religiosa, e quelle che tendono a metterla in dubbio o addirittura a smentirla.
Sul 'piatto' huntingtoniano possiamo mettere le seguenti constatazioni. I leaders politici delle parti in lotta, dalla Croazia alla Bosnia al Kosovo, hanno fatto leva sulla retorica nazional-religiosa per esaltare le proprie ragioni. Questo vale in modo particolare per Franjo Tuçdman, l'ex generale dell'esercito iugoslavo che seppe abilmente condurre la Croazia verso l'indipendenza nel 1991, fronteggiò i musulmani bosniaci nel 1993 prima che gli Americani costringessero i due gruppi rivali a unirsi in una precaria federazione antiserba, e firmò la pace di Dayton (1995), che di fatto sanciva l'egemonia croata su una parte consistente della Bosnia ed Erzegovina. Tuçdman si inserisce a buon diritto nella tradizione del nazionalismo croato, che si presenta come difensore della civiltà occidentale e del cattolicesimo contro la minaccia islamica e quella serbo-ortodossa.
In qualche misura, ma non con la stessa intensità e convinzione, anche Slobodan Milošević cavalca la tigre nazionalista. Pur non essendo ideologicamente un nazionalista, anzi aderendo allo iugoslavismo socialista e presentandosi come erede di Tito, Milošević capisce che per conquistare e poi gestire il potere a Belgrado è fondamentale vellicare le ambizioni 'granserbe', per cui alla fine è Serbia ogni porzione di terra abitata dai Serbi, comprese quelle collocate nelle repubbliche di Bosnia o Croazia. Il 28 giugno 1989 Milošević arringa un'immensa folla di Serbi a Kosovo Polje, al Campo dei Merli, dove si celebra il seicentesimo anniversario della gloriosa sconfitta serba da parte dei Turchi, insistendo sui diritti del popolo serbo minacciato e oppresso dalla stragrande maggioranza albanese/musulmana in Kosovo, culla della 'serbitudine' ortodossa. Da allora in poi, Milošević ricorrerà spesso al sostegno esplicito o sotterraneo del nazionalismo serbo anche estremo (comprese le Tigri di Arkan e altre analoghe soldataglie) per legittimarsi come difensore degli interessi e dell'integrità territoriale della Serbia.
Diverso il registro usato dal leader musulmano-bosniaco Alija Izetbegović. L'autore della Dichiarazione islamica, un testo presentato dalla propaganda croata e serba come piattaforma della futura Bosnia islamica, si propone pubblicamente come campione della Bosnia multietnica. Capo del gruppo etnico-nazionale più piccolo, privo di immediati sostegni esterni (come invece per i serbo-bosniaci, afferenti a Belgrado, e i croato-bosniaci, supportati da Zagabria), Izetbegović cerca l'appoggio della superpotenza americana e degli Europei, rimarcando il carattere laico e tollerante dell'Islam bosniaco. In realtà, anche Izetbegović e il suo gruppo dirigente cercano di cementare l'appartenenza etnico-religiosa del loro popolo. Così nel marzo 1994 egli dichiara nella Sarajevo assediata dalle milizie serbo-bosniache di Radovan Karadžić e del generale Ratko Mladić: "Noi [musulmani bosniaci] non abbiamo bisogno del sostegno di nessun altro popolo. Noi bastiamo a noi stessi! In uno dei nostri rispettati giornali leggo che i nostri soldati muoiono per una convivenza multinazionale, che offrono la propria vita perché possiamo convivere. Una convivenza nazionale è una cosa bellissima, ma - questo lo posso dire apertamente - è una bugia! Non possiamo imbrogliare il nostro popolo o prendere in giro l'opinione pubblica. Il soldato in battaglia non muore per una convivenza multinazionale [...]. Eppoi, domandatelo a lui, se sta in trincea per poter convivere con gli altri. Semplicemente non è così, e la nostra vita deve fondarsi su questa verità" (cit. in Bittermann, 1994, p. 166).
D'altra parte, il fondamento religioso della lotta dei Bosniaci musulmani è testimoniato dall'imponente messe di aiuti provenienti dai paesi islamici, Arabia Saudita e Iran in testa, durante e dopo la guerra. A rafforzare le milizie bosniache contribuiscono poi migliaia di combattenti muǧāhidīn, che vedono in quel fronte un momento alto della 'guerra santa' contro l'imperialismo cristiano-occidentale.
Un altro caso a parte è quello albanese, o meglio kosovaro-albanese. I quasi due milioni di abitanti del Kosovo di origine albanese non hanno che superficiali e spesso contrastati contatti con l'Albania. Nondimeno, rivendicano il loro diritto all'indipendenza su basi schiettamente etnico-nazionali. Come la maggior parte degli Albanesi, pur fra le mille differenze clanico-familiari coltivano le origini comuni, venerano la 'albanesità'. E in suo nome si rivoltano contro l'oppressione serba, pilotata da Belgrado. Anche i leaders kosovari, Ibrahim Rugova in testa, ostentano una retorica multietnica. Ma la parte più estrema, che fa riferimento all'Esercito di liberazione del Kosovo (UÇK), predica e pratica la lotta armata contro i Serbi in nome del buon diritto albanese a riconquistare tutte le terre storicamente abitate dagli Albanesi.
Grande Croazia, Grande Serbia, Grande Albania (e Bosnia musulmana): senza queste rappresentazioni estremistiche, sarebbe stato dunque molto più difficile mobilitare il consenso e i soldati necessari a combattere le sanguinose guerre di secessione iugoslava.
Vediamo adesso le ragioni e gli elementi che contribuiscono a mitigare questa rappresentazione, che poi è spesso un'autorappresentazione delle parti in conflitto assimilata dall'opinione pubblica occidentale. Anzitutto, occorre distinguere fra la retorica ufficiale e il sentire comune. Non tutti i Croati ragionavano secondo le categorie huntingtoniane di Tuçdman, anche se quasi tutti erano comunque decisamente a favore dell'indipendenza della Croazia; non tutti i Serbi erano disposti a farsi ammaliare da Milošević, che peraltro offriva il fianco alla contestazione degli ultranazionalisti alla Vojislav Šešelj o degli stessi nazionalisti temperati alla Vojislav Koštunica o alla Dobrica Čosić, anche per presentarsi così agli occidentali come l'unico uomo capace di garantirli contro l'estremismo granserbo; quanto al campo bosniaco, molti erano i convinti assertori della convivenza multietnica, una volta affermata l'indipendenza del paese; e in campo albanese, Rugova mostrava non solo a parole di non volere lasciare la bandiera dell'indipendenza in mano all'UÇK e ai sognatori della Grande Albania. La Iugoslavia non era insomma trascorsa invano.
In generale, una delle cause fondamentali della guerra fu la volontà di potere dei leaders delle varie repubbliche o province iugoslave, i quali assaporavano la prospettiva di diventare capi riconosciuti di entità statuali indipendenti. Per questo erano disposti a cavalcare qualsiasi ideologia. Il caso più tipico è quello di Milošević, un grigio burocrate già beniamino degli Americani e del Fondo Monetario Internazionale, che si trasforma negli anni novanta in campione del nazionalismo serbo. Garantendosi così una base di consenso non indifferente, che contribuì a mantenerlo al potere insieme con gli sperimentati metodi da Stato di polizia adottati fin dalla sua ascesa alla guida della Serbia.
Quanto allo sfondo religioso del conflitto, anche qui siamo più nel campo della manipolazione che della fede. Il cristianesimo serbo e quello croato, come pure l'islamismo bosniaco, non corrispondevano certo a una pratica religiosa assidua e profonda, erano piuttosto una vernice per dipingere le rispettive identità nazionali, minacciate dallo iugoslavismo ma anche da fattori culturali. Tra i quali in primo luogo la lingua comune, il serbo-croato. Calcando la mano sulle sue varianti, i leaders nazionali post-iugoslavi provvidero subito a dichiarare la morte del serbo-croato, in favore del croato e financo del bosniaco. Tanta insistenza nella creazione e nell'esibizione di fattori nazionali è d'altronde segno di insicurezza circa l'effettiva delimitazione delle rispettive identità post-iugoslave.
Ancora: pur non aderendo necessariamente a una interpretazione marxista delle guerre di secessione iugoslava, non si può oscurarne gli aspetti economici. La profonda crisi economica e sociale che agitava la Iugoslavia del dopo-Tito, insieme al miraggio di un rapido accesso allo stile di vita occidentale attraverso la secessione dalla morente Federazione, contribuirono a legittimare le aspirazioni dei nazionalisti croati e sloveni, convinti che la Serbia usasse la Iugoslavia per drenare le loro ricchezze. Per questo Tuçdman e Milošević fecero di tutto - subito dopo la caduta del muro di Berlino, che apriva nuove prospettive geopolitiche in Europa - per boicottare il riformismo del premier federale Ante Marković, blandamente appoggiato dagli Europei, che peraltro non vollero garantirgli quel sostegno finanziario che forse avrebbe almeno rinviato la guerra.
Fino a pochi anni fa era inoltre tabù toccare un tasto essenziale, quello della criminalità organizzata balcanica e delle sue connessioni con il potere politico nei paesi in guerra. Poco si capisce della posta in gioco nelle guerre iugoslave senza tenere conto della presenza e dell'attivismo delle mafie serba, albanese, croata, bosniaca e delle altre organizzazioni criminali, comprese quelle italiane, che cercavano di trarre il maggior profitto possibile dalla tragedia. Tali organizzazioni criminali in alcuni casi coincidevano con i livelli alti del potere e finivano per condizionarne la politica. Così è molto più produttivo leggere le scelte di Milošević attraverso la lente dei suoi affari, costruiti all'ombra di organizzazioni criminali locali e internazionali, che non studiando le cartine della Grande Serbia (v. Gli Stati mafia, 2000). Nel caso del Montenegro, è noto che il governo locale ai tempi dell'embargo internazionale contro la Iugoslavia aveva stretti rapporti con le organizzazioni criminali dedite ai traffici illegali, soprattutto di sigarette e di petrolio. Quanto ai Croati, l'incidenza della mafia erzegovese sulla geopolitica di Tuçdman meriterebbe un volume a sé. A Sarajevo, intorno a Izetbegović e alla sua famiglia si era costruito un vasto sistema illegale, capace di condizionarne le scelte. E in Kosovo, come distinguere gli obiettivi geopolitici dell'UÇK da quelli dei trafficanti di droga e di armi che alimentavano la lotta di liberazione dal tallone serbo? L'aspetto più rilevante dell'influenza della criminalità organizzata nelle guerre balcaniche sta forse però nel fatto che esse costituivano un network interetnico, basato su scambi politici ed economici. Così la mafia serba vendeva armi alla guerriglia kosovara, mentre trafficanti croati e musulmani mettevano da parte ogni valutazione ideologico-religiosa di fronte all'opportunità di fare affari insieme.
Infine, tutte le guerre di indipendenza nella ex Iugoslavia, dall'episodio sloveno ai massacri del Kosovo, sono state profondamente influenzate dall'atteggiamento dei vicini e delle maggiori potenze. Soprattutto per omissione, talvolta per intervento diretto o anche solo indiretto. Senza l'appoggio tedesco, austriaco e vaticano al secessionismo croato e sloveno non avremmo probabilmente avuto la guerra di Bosnia. Senza l'indifferenza e la timidezza dell'Occidente - Stati Uniti in testa - la tragedia bosniaca avrebbe avuto un corso diverso. Soprattutto, senza il collasso del sistema della guerra fredda, in cui la Iugoslavia svolgeva un ruolo essenziale di Stato cuscinetto fra NATO e Patto di Varsavia, non sarebbe stato nemmeno concepibile che forze interne alla Federazione fossero abilitate a gestirne la frantumazione per spartirsene le spoglie.
Possiamo dunque concordare con quanto scrive Paola Caridi nel suo studio sull'influenza del fattore religioso nella guerra dei Balcani: "Alla fine di questa storia disperata e senza vincitori, quello che resta in chi l'ha seguita fin dal primo giorno è la ferma convinzione che la religione, in questo scontro di potere tutto interno a una struttura istituzionale, amministrativa, socio-economica ormai sfilacciata, sia stata ben poco il deus ex machina della tragedia. Ne è stata involontario strumento, tirato come una coperta da una parte e dall'altra, da un signore della guerra e dal suo avversario. Della violenza e dell'annichilimento della persona umana è stata in alcuni momenti forse l'unica voce, clamans in deserto, che ha tentato di riportare la ragione in luoghi in cui l'annullamento dei valori etici ha avuto la meglio. E del conflitto è stata anche vittima, nonostante tutti i distinguo che sono via via arrivati. Perché l'immagine della fede, piegata alle ragioni dell'uno o dell'altro, è stata sporcata da un marchio d'infamia che solo la riflessione, la seria e oggettiva analisi degli avvenimenti potrà del tutto cancellare" (v. Caridi, 2002, p. 39).
4. Guerre etnico-religiose e guerra al terrorismo
L'11 settembre 2001, con l'attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington, segna uno spartiacque geopolitico nella storia contemporanea. E marca anche una nuova percezione dei conflitti a sfondo etnico-religioso, vero o presunto che sia. Anzitutto perché il maggiore protagonista dello scontro, Osama bin Laden (Usāma Ibn Lādin) - e con lui la complessa rete del terrore islamico - si considera come combattente di una guerra santa, il ǧihād. Poi perché persino in campo occidentale, e statunitense in specie, si è diffusa una vulgata che individua negli Arabi e negli islamici - i due termini vengono spesso arbitrariamente sovrapposti - i nemici mortali del way of life consolidato nella parte più ricca del pianeta, della stessa nostra civiltà, di cui si esaltano le radici cristiane. Allo stesso tempo, il secondo atto della guerra dopo l'11 settembre, cioè l'attacco americano all'Afghanistan in quanto paese ospitante la rete di bin Laden, è stato spesso interpretato come un intervento esterno in un classico conflitto etnico, più o meno inestinguibile. Vediamo che cosa c'è di reale in queste rappresentazioni.
Sul carattere religioso della 'guerra santa' dichiarata da bin Laden e associati agli Stati Uniti, a Israele e all'intero Occidente non v'è dubbio. Basta scorrere le affermazioni pubbliche dello stesso 'principe del terrore'. Un documento analitico particolarmente interessante è il proclama del suo braccio destro e ideologo di al-Qā'ida, l'egiziano Aymān al-Zawāhirī, trasmesso dalla televisione al-Ǧazīra il 7 ottobre 2001 (v. Caruso, 2001). In tale sermone si insiste su quattro punti che disegnano il quadro di una vera e propria guerra religiosa di liberazione. Primo: l'accusa di empietà e di corruzione rivolta ai governanti dei paesi arabi e islamici, contro i quali, come osserva Antonella Caruso nella sua analisi del testo, "secondo l'interpretazione coranica medievale del teologo siriano Ibn Taymiyya, diventa obbligo individuale di ogni musulmano muovere guerra (ǧihād)" (ibid., p. 16). Secondo: l'attacco alla corruzione dei leaders islamici, funzione del dominio occidentale sui loro paesi. Terzo: la necessità della guerra santa contro il nemico vicino (appunto i leaders dei paesi islamici, venduti all'empio Occidente), per poi passare al nemico meno prossimo (Israele), anzi lontano (Stati Uniti). Quarto: la liberazione della Palestina attraverso la guerra santa, considerata un obbligo personale di ogni buon musulmano.
Siamo dunque di fronte a una legittimazione religiosa della guerra, anzi del terrorismo contro gli infedeli. Come nota Caruso: "A ben vedere, non sono più gli eserciti di Saladino a vincere oggi il nemico infedele. Sono semplicemente i martiri della fede, senza confini di Stato e senza barriere linguistiche. Ad attenderli nell'aldilà saranno le ricompense che sono state negate in terra dalla giustizia degli uomini, della quale il predicatore egiziano tuttavia non si cura" (ibid., p. 19).
In campo occidentale, molti hanno voluto leggere nella guerra santa dichiarata da bin Laden all'Occidente - senza peraltro avere l'autorità religiosa per farlo - una conferma alle tesi di Huntington. Nella stessa retorica pubblica americana i toni da crociata e i riferimenti a Dio non sono mancati, anche se dopo i primi giorni di guerra il presidente Bush ha volutamente messo la sordina ai riferimenti a una sorta di crociata anti-islamica. Questa caratterizzazione della guerra ha accentuato lo stereotipo negativo non solo dell'islamico, ma anche dell'arabo, nell'opinione pubblica occidentale - e viceversa. Ignorare questi atteggiamenti perché politicamente scorretti significa trascurare una componente essenziale di questa guerra. È evidente che la strumentalizzazione dell'Islam da parte di bin Laden è del tutto arbitraria, come hanno sottolineato le massime autorità religiose musulmane. Resta però, soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa, il clima di diffidenza e di sospetto nei confronti di Arabi e islamici. Ciò, fra l'altro, ha reso la vita difficile ai milioni di cittadini americani di origine araba e di religione islamica, oltre ai milioni di Arabi e di islamici insediati in Europa.
E tuttavia, ancor più fuorviante sarebbe prendere per buona la retorica dei terroristi islamici, come pure quella dei teorici occidentali della nuova crociata. Nel campo islamico, come sempre, esistono profonde differenze culturali e geopolitiche che ne impediscono l'unificazione. Lo si è visto anche nel caso dell'Afghanistan e della successiva crisi irachena, quando nel campo arabo e in quello islamico, pur essendosi rafforzata la componente anti-occidentale, si sono delineate posizioni assai diverse, tanto che, ad esempio, la Siria ha votato la risoluzione 1.441 dell'ONU proposta da parte americana contro Ṣaddām (di fatto una sorta di ultimatum) o che l'Iran sciita non ha nascosto di vedere più di un aspetto positivo nella decisione di Bush di liquidare una volta per tutte il regime di Baghdad, arcinemico regionale di Teheran.
Inoltre, il cappello della 'guerra al terrorismo' è sufficientemente ampio per ricondurvi operazioni assai diverse. È difficile delineare il nesso fra la guerra afghana e la guerra irachena, così come ricondurre a unità i mille fronti di lotta al terrorismo aperti dagli Americani e dai loro alleati. In nome dell'11 settembre si possono giustificare conflitti e proporre alleanze le più diverse. Infatti, la conseguenza immediata della guerra al terrorismo è stata la riclassificazione di alcuni gruppi di combattenti da guerriglieri per la libertà a terroristi, o quanto meno ad alleati dei terroristi. I casi più rilevanti riguardano i Ceceni e gli Uiguri, non a caso gruppi etnici di ceppo islamico (più o meno profondo), nemici mortali dei nuovi partners degli Stati Uniti nella guerra afghana, la Russia e la Cina - il nemico di ieri e il possibile nemico di domani. Gli Uiguri sono un popolo turchesco di cultura musulmana, che abita la regione cinese occidentale dello Xinjiang. Al loro interno si sono formate organizzazioni che puntano all'indipendenza del loro paese, da essi denominato Turkestan orientale. Un tempo considerati quasi con benevolenza dagli Americani, in quanto spina nel fianco della nascente superpotenza cinese (o presunta tale), oggi sono stati ribattezzati terroristi dal governo di Washington. Anche a sdebitarsi dell'importante sostegno cinese nella guerra contro i Ṭālibān afghani, in cui Pechino ha offerto agli Stati Uniti informazioni e analisi di intelligence di particolare pregio e valore operativo.
Più sfumato il caso ceceno. Anzitutto perché il marchio infamante del terrorismo islamico - su cui Mosca ha sempre insistito e al quale ricorre ancor più marcatamente dopo l'11 settembre, tentando di trarre profitto da una favorevole congiuntura internazionale - è discutibile e infatti molto discusso in Occidente. Poi perché le brutalità compiute dall'esercito russo nel Caucaso hanno comunque circondato di un'aura sfavorevole, almeno in Occidente, le operazioni di Mosca contro i secessionisti locali. Fatto è che Washington distingue comunque fra i 1.500 o 2.000 muǧāhidīn islamici, che danno un'impronta religiosa alla lotta di indipendenza del popolo ceceno, e i leaders politici di tale lotta (v. Martini, 2002). Ma non c'è dubbio che il Cremlino, anche cavalcando l'emozione dell'attacco al teatro di Mosca, nel novembre 2002, abbia ottenuto uno spazio di manovra molto più ampio in quella che viene percepita dai leaders russi come una battaglia per la sopravvivenza stessa della Federazione Russa, che verrebbe messa a rischio dalla secessione della Cecenia, capace di produrre un 'effetto domino' devastante.
Conviene infine fermare la nostra attenzione sul caso afghano, che nel contesto della guerra al terrorismo è stato presentato come un conflitto etnico. Abbiamo qui un lampante esempio di come sia facile ricorrere a stereotipi che non spiegano quasi nulla o che addirittura possono risultare devianti. Il che non implica solo problemi analitici, ma produce conseguenze strategiche e geopolitiche fondamentali, visto che stiamo trattando di un terreno di scontro in cui si sono esercitate le massime potenze, dai Britannici ai Sovietici agli Americani. La migliore confutazione della lettura etnica del conflitto afghano è probabilmente dovuta alla penna di Conrad Schetter (v., 2001), uno studioso tedesco appartenente al gruppo di ricerca sui conflitti etnici dell'Università di Bonn.
Le considerazioni di Schetter possono essere estese anche ad altri casi. Esse costituiscono una messa in guardia contro l'uso stesso del concetto di etnia. Scrive infatti Schetter: "Che cos'è un'etnia? Le difficoltà cominciano già con questa domanda. Si pensa generalmente che i gruppi etnici, in quanto entità precisamente definite, esistano da chissà quanto tempo, ma non è così. In Afghanistan, la maggior parte delle etnie è stata creata nel corso del XX secolo. In preda a un fervore scientifico che li spingeva a classificare gli esseri umani sulla base delle caratteristiche culturali, gli etnologi hanno costruito una serie intera di gruppi etnici, ad esempio i Nuristani, i Pashai, gli Aimak o i Farsiwan. In Afghanistan, il termine 'tagiko' si riferiva originariamente alle persone non classificabili da un punto di vista etnico. Si trattava dunque, per così dire, di una 'non-etnia'. Eppure, oggi parliamo del gruppo etnico dei Tagiki, una contraddizione in sé. A coloro che sono riuniti in queste unità, spesso non è familiare neppure l'etnonimo che è stato loro attribuito, e tanto meno una qualche identità comune" (ibid., p. 27).
Non solo: a seconda delle scuole di pensiero, in Afghanistan si contano tra i 50 e i 200 gruppi etnici (v. Orywal, 1986; v. Masson e Romodin, 1964-1965). Non c'è ovviamente una definizione obiettiva di chi sia un tagiko, un uzbeko, un pashtūn - né le categorie linguistiche o religiose sono univoche. Ora, giacché nella costruzione di un Afghanistan post-talibano si è deciso di ricorrere a una qualche sorta di compromesso interetnico, è chiaro che esso poggia su basi alquanto contestabili. Come si vede, non è pura disputa accademica, ma stretta questione di potere. La manipolazione delle classificazioni etniche o religiose è dunque assai frequente. Dopo l'11 settembre, converrà tenerne conto per evitare errori gravidi di conseguenze.
Ma il conflitto etnico e religioso per eccellenza è oggi quello fra Israeliani e Palestinesi. Esso si fonda sull'incompatibilità di due rappresentazioni geopolitiche cariche di significati etnici e religiosi: quella di Israele e quella della Palestina. Esse si sovrappongono totalmente, almeno se teniamo presenti i punti di vista degli estremisti nei due campi. Nel senso che il 'vero' Israele, secondo l'ala religiosa radicale nell'ambito della società e della classe politica israeliana, comprende anche la Giudea e la Samaria, cioè la Cisgiordania che dovrebbe un giorno costituire insieme a Gaza lo Stato palestinese indipendente; mentre la 'vera' Palestina da rendere infine indipendente, oltre alla Cisgiordania e Gaza, comprenderebbe secondo gli islamisti di Ḥamās tutto l'attuale Stato israeliano, e forse qualcosa di più (v. Israele /Palestina. La terra stretta, 2001; v. Guerra Santa in Terra santa, 2002; v. Codovini, 2002). Dunque: se vive Israele muore la Palestina e viceversa.
La Seconda Intifāḍ a e la guerra al terrorismo hanno reso ancora più tragico il conflitto. E ne hanno ulteriormente inasprito i termini religiosi. Nel campo palestinese, lo stesso presidente 'Arafāt, proprio mentre la sua Autorità Nazionale Palestinese è ridotta allo stato larvale, ha fatto ricorso più volte alla retorica islamista per legittimare la lotta di indipendenza del suo popolo. Ad esempio il 12 dicembre 2001, quando, forse memore delle sue origini di fratello musulmano, 'Arafāt si è rivolto così al popolo di Gerusalemme: "Voi state difendendo la prima direzione della preghiera, il terzo Luogo più santo, il luogo di nascita del Messia. [...] Oh fratelli, c'è in atto una cospirazione per giudaizzare Gerusalemme. E per questo io dico a voi, oh miei compagni di viaggio, che voi oggi siete sulla prima linea della battaglia. [...] Oggi il martire Muḥammad al-Durra e tutti i nostri martiri in paradiso dicono a loro [i sionisti]: 'Siamo la nazione dei giganti, noi difenderemo la terra di prima linea'. Uno dei nostri cuccioli o uno dei nostri fiori sventolerà la bandiera della Palestina, a Dio piacendo, sulle mura di Gerusalemme, sulle sue chiese e sulle sue moschee. Piaccia o non piaccia, e chiunque non lo gradisca vada a bere l'acqua del Mar Morto" (v. Guerra Santa in Terra santa, 2002, p. 10).
La retorica islamista di 'Arafāt si spiega anche con la necessità di bilanciare l'influenza di Ḥamās, della Ǧihād islamica e degli stessi Hezbollah, i guerriglieri con base in Libano e appoggiati da Iraniani e Siriani, un'influenza crescente nella massa palestinese. La repressione dell'Intifāḍ a - non per caso denominata Intifāḍa al-Aqsṣā, cioè per la città santa di Gerusalemme - e la rioccupazione da parte israeliana di molti dei territori affidati provvisoriamente all'amministrazione palestinese hanno prodotto miseria e disperazione fra i Palestinesi, favorendo il proselitismo degli estremisti. L'infinita catena di attentati suicidi compiuti dagli shahīd, i martiri della fede e della causa palestinese, testimonia di questa radicalizzazione che si serve della religione per motivare i terroristi, i quali sacrificano la propria vita pur di uccidere civili israeliani.
Da parte israeliana la guerra al terrorismo è stata ovviamente utilizzata per rinsaldare l'intesa con gli Americani e per convincerli che la loro lotta è parte della più generale battaglia per liquidare il terrorismo islamico, su cui è totalmente concentrata l'amministrazione Bush. Ancora una volta, l'etichetta war on terror si rivela utile a sostenere agende e progetti molto diversi.
5. Conclusioni
Dai Balcani alla Cecenia, dall'Afghanistan al Medio Oriente, dallo Sri Lanka alle Filippine, dal Kashmir all'Algeria, non mancano certo le guerre che in minore o maggiore misura rivelano uno sfondo etnico e soprattutto religioso. Esse ci ricordano "come Dio possa essere usato" per massacrare, come osserva, fra l'altro, Enrico Deaglio nella prefazione al recente libro Il Dio della guerra. Viaggio nei falsi conflitti di religione, che esaminando vari casi mette in guardia dalle troppo facili associazioni fra religioni e conflitti (v. Affatato e Giordana, 2002).
Ecco quindi un punto da tener fermo, al termine di questo veloce viaggio nei territori incerti dei conflitti contemporanei: non esistono guerre puramente etniche e/o religiose; tutte le guerre hanno uno sfondo geopolitico, anche se solo una minima parte delle contese geopolitiche produce guerre. In termini pratici, ciò significa che molti dei conflitti cui i protagonisti (locali) e i media (occidentali e non solo) attribuiscono un segno etnico-religioso sono più banalmente conflitti in cui ragioni e ambizioni politiche sono presentate in forma di obbedienza al volere del proprio Dio o del proprio popolo. Ancora più nettamente: nessuna religione, nessuna etnia (o popolo) è responsabile di una guerra. Molte religioni, molte etnie vengono invocate per legittimare le guerre.
Occorre dunque rinunciare alle definizioni generali, ai tentativi di ridurre i conflitti a paradigmi universali, fuori del tempo e dello spazio. È molto più utile indagare le questioni una alla volta, nel loro specifico contesto spaziale e temporale. Sul piano del confronto interpretativo, ciò implica mettere da parte le ambizioni politologiche o sociologiche di produrre un 'pensiero-mondo', una chiave universale in grado di decifrare o addirittura di predire le guerre e ogni genere di conflitto fra gruppi umani. Morta la storia, crollate le ideologie, in via di estinzione lo Stato, alla fine è la stessa idea di politica a essere messa tra parentesi, a tutto vantaggio delle interpretazioni a sfondo etnico-religioso. Come se, alla fine delle fini, fosse ormai un fato a reggerci e a determinarci (v. Gamble, 2000). Pensiero forse rassicurante, ma che non pare destinato a rispondere ai grandi interrogativi del nostro tempo, a spiegare perché, ancora oggi, alcuni gruppi di uomini e di donne cercano di imporsi ad altri con la forza delle armi.
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