Etnici, conflitti
I conflitti etnici costituiscono ormai la maggiore causa e il principale catalizzatore di guerre interne ed internazionali. La guerra fredda aveva apparentemente sopito tali conflitti, congelandoli dietro la cortina di ferro del bipolarismo. In particolar modo, ciò era avvenuto per quei paesi e quei popoli sottoposti direttamente o indirettamente al brutale dominio totalitario dell'Unione Sovietica. La stessa logica veniva occasionalmente replicata nel campo occidentale in aree potenzialmente 'esposte' all'influenza sovietica, per esempio con il tacito consenso delle potenze atlantiche all'invasione di Timor Est da parte delle forze anticomuniste indonesiane e con l'analogo trattamento nei confronti di altre isole e regioni nello stesso arcipelago (Papua Occidentale/Irian Jaya, Achè, Molucche: v. Krieger, 1997).
Nell'ambito dei paesi ex comunisti, la disintegrazione degli Stati multinazionali (spesso dotati di una struttura federale, ma in realtà sottoposti al controllo rigoroso di un partito unico ipercentralizzato) ha permesso il riemergere politico delle identità etniche, in genere in forma pacifica, ma in taluni casi in forma violenta, con l'esplosione di conflitti sanguinosi e persino di guerre internazionali.
L'influenza dei media in un'era di globalizzazione spinge a pensare che tali conflitti siano intrinsecamente violenti. Le scienze sociali di riflesso rivelano anch'esse una predilizione per lo studio dei fenomeni violenti rispetto a quelli non violenti: già nel 1985, Donald Horowitz (v., 1985, p. 13) osservava che "lo scorrere dell'inchiostro attende lo scorrere del sangue". In realtà, la maggioranza di tali conflitti sono non violenti, ma si tende a prenderne atto solo una volta che essi assumono forme violente.
Una caratteristica dei conflitti etnici è la tendenza a perdurare nel tempo: che siano pacifici o violenti, essi si perpetuano attraverso le generazioni, ed è tale aspetto a distinguerli dagli altri conflitti. Un'altra caratteristica è la scarsa aderenza a principî universali (se si eccettua, con le dovute cautele, il principio nazionalista stesso, che concepisce il genere umano come naturalmente suddiviso in nazioni, ognuna concretamente definibile ed avente diritto all'autodeterminazione).
Il relativo 'ottimismo' che aveva caratterizzato i politologi nel dopoguerra, la credenza che forme di attaccamento 'primordiale' alle proprie radici etniche potessero essere definitivamente superate da moderni metodi di nation-building ('costruzione delle nazioni' attraverso lo Stato: v. Connor, 1994), ha lasciato spazio negli anni novanta ad una letteratura di segno inverso, che tende a sottolinearne invece l'intrattabilità e la persistenza (v. Smith, 1991 e 1998).
In seguito a tali sviluppi, si è diffusa la convinzione che i processi di democratizzazione portino quasi inevitabilmente ad un'accresciuta conflittualità etnica. Nonostante esista un largo consenso sulla stretta correlazione tra mobilitazioni etnonazionali e democrazia, va comunque ribadita la netta distinzione tra coloro che usano il pretesto della possibile disintegrazione sociale arrecata dalle rivolte etniche per ostacolare ogni sviluppo democratico (per esempio, i governanti di diversi paesi africani ed asiatici), e coloro che - credendo nell'universalità dei diritti umani - tendono a dare risposte più complesse circa la possibilità di accomodare o controllare tali conflitti.
I conflitti etnici sono conflitti i cui protagonisti principali fanno riferimento alla propria ed altrui etnicità. Quando si parla di 'etnicità' ci si riferisce normalmente alle manifestazioni di una credenza soggettiva circa un'origine comune, cioè alla convinzione largamente condivisa di discendere da comuni antenati. Tale credenza può corrispondere o meno ad eventi concreti o ad una sequenza storica realmente avvenuta. Questa definizione, che rimane tuttora la più influente, deriva in parte dagli scritti sull'argomento di Max Weber (v., 1994).L'etnicità, come spesso il nazionalismo, si basa quindi su miti relativi alla discendenza di un gruppo da progenitori comuni.
L'etnicità è quindi simile alla 'razza', in quanto entrambe si richiamano al lignaggio ed alle origini e sono ipotetiche e congetturali. Tuttavia, mentre la discendenza etnica trova il suo fondamento nella continuità storica o mitica, quella razziale ha acquisito in passato anche una componente biologica. Pur essendo basate sul mito e sulla speculazione più insondabile, le teorie razziali - almeno fino agli anni quaranta del Novecento, culminati con gli orrori del nazismo - sono state sostenute sulla base di interpretazioni pseudoscientifiche. D'altra parte, la similitudine e continuità tra etnia e nazione le ha collocate al centro di recenti disquisizioni politico-accademiche, nelle quali la storia ha incontrato l'etnostoria. Quest'ultima è una sorta di 'storia dal basso' il cui scopo sta nel legittimare la lotta di gruppi ancora privi di un proprio Stato e che quindi si trova in una situazione di aperto contrasto con la storia ufficiale (v. Smith, 1996).
Essendo l'etnicità una percezione di appartenenza sostenuta da un mito di comune stirpe, ciò che conta è la sua qualità psicologica e soggettiva, più che la sua pretesa oggettività, la quale rimane elusiva e difficilmente dimostrabile: l'identità etnica "non trae il proprio sostentamento dai fatti, ma dalle percezioni, percezioni che possono diventare altrettanto o più importanti della realtà, in particolare qualora si tratti di conflitti etnici" (v. Connor 1997, p. 33).
Qual è dunque la differenza tra etnia e nazione, tra etnicità e nazionalismo? In questo caso, forse più che in ogni altro oggetto delle scienze sociali, la chiarezza concettuale fa difetto. Negli usi e nelle definizioni ricorrenti di etnia, gruppo etnico o etnicità si oscilla spesso tra razza, cultura, discendenza, lingua o costumi, privilegiando l'una o l'altra componente a seconda dell'ottica di chi scrive. Per esempio, il concetto di 'gruppo etnico' è spesso usato surrettiziamente come sinonimo di 'razza', visto che quest' ultimo è stato moralmente bandito e reso scientificamente impresentabile dopo l'esperienza del nazismo.
Riferendosi in parte, ma non solo, al contesto statunitense, Richard Schermerhorn (v., 1977, p. 17) definisce il gruppo etnico come "una collettività all'interno di una società più ampia che vanti antenati comuni (siano essi reali o putativi), memorie in un passato storico condiviso, e il convergere su uno o più elementi simbolici definiti come l'epitome della loro essenza di popolo". Schermerhorn identifica alcuni di questi elementi: affinità di parentela e consanguineità, contiguità fisica, appartenenza religiosa, nazionalità, lingua e forme dialettali, affiliazione tribale, tratti fenotipici, e ogni combinazione variabile dei suddetti elementi. Ma ognuno di essi rimane secondario rispetto alla centralità del mito ancestrale (v. Takei, 1998).
Più spesso il termine 'etnia' viene usato al posto di 'gruppo etnico' per porre in rilievo l'associazione del gruppo ad un retaggio mitico-culturale, anziché la sua componente razziale. Per quanto relativamente già usato nelle lingue neolatine, il termine 'etnia' è stato introdotto nella letteratura in lingua inglese da Anthony D. Smith (v. sotto, capitoli 7 e 9) importandolo pari passu dal francese ethnie, originariamente usato dal teorico eurofederalista Guy Heraud (v. Heraud, 1974²). Pierre Van den Berghe, a sua volta, ha coniato la forma anglicizzata 'ethny' (v. Van den Berghe, 1978). Questi ed altri autori enfatizzano usualmente la continuità tra etnicità e nazionalismo, vedendo nei conflitti etnici premoderni forme primigenie di nazionalismo.
Nella sua originale connotazione greca, éthnos era già associato all'idea di discendenza e lignaggio, venendo adoperato da autori classici in riferimento ad altri popoli contigui - ed è reso dall'Oxford English Dictionary come 'nazione'. Durante il Medioevo il termine passò a connotare i popoli pagani per via della traduzione biblica dell'ebraico goy, 'gentile' (originariamente applicato anche al popolo di Israele) nella versione in greco dei Septuaginta, da cui derivò il latino 'ethnicus', pagano. Il suo significato originario riemerse soltanto verso la metà dell'Ottocento.
Il termine 'nazione' deriva dal verbo latino nascor, nasci ('nascere') attraverso il sostantivo natio ('ciò che è nato', 'stirpe', 'razza') e quindi condivide con quello di 'etnia' o 'gruppo etnico' l'accento sul ceppo e sulle origini comuni. La principale differenza tra i due concetti risiede nella presenza di uno Stato, o nell'aspirare alla sua costruzione da parte di un'etnia ormai definita come nazione (e, nel primo caso, concepita quindi come 'Stato-nazione': v. Connor, 1994). Come vedremo, questo passaggio concettuale poté verificarsi solo in seguito all'avvento della modernità (v. cap. 7).
Il termine 'etnicità' va infine distinto da quello di 'cultura'. Talvolta essi vengono confusi a causa del comune riferimento ad un senso di continuità: come l'etnicità, anche la cultura ha bisogno di essere tramandata attraverso le generazioni. Ma la cultura, a differenza dell'etnicità, ha bisogno della creatività, anzi si può dire che nasce proprio dall'intersezione tra le due variabili della creatività e della continuità.
Dati questi precedenti, l'espressione 'conflitti etnici' viene spesso usata come sinonimo di 'nazionalismo'. Vi è tuttavia una differenza sostanziale, ancorché elusiva: il nazionalismo, il quale è inconcepibile prima dell'avvento del moderno Stato-nazione, si inserisce in un programma che aspira alla sovranità statale ed al simultaneo riconoscimento della propria nazione in un contesto di Stati 'nazionali'. Da una parte, i conflitti etnici si sviluppano in reazione all'intrusione statale e sono quindi volti a limitare o a combattere il potere statale; dall'altra parte, essi non scaturiscono necessariamente dal tentativo di controllare direttamente lo Stato, né tantomeno di modificarne le frontiere. Nel caso di diversi conflitti etnici in Nigeria ed in altri paesi africani, inclusi il Ruanda e il Burundi, non è stata messa in dubbio o contestata, per ora, la legittimità dello Stato, ma la legittimità del regime, data la sua mancanza di rappresentatività, soprattutto a livello etnico. Inoltre, i conflitti possono prendere anche le sembianze di scontri diretti ed attacchi reciproci tra gruppi etnici (per esempio, nella competizione per le risorse), siano essi stimolati o meno da un regime particolare. Per alcuni autori, tali conflitti non sono mai spontanei, ma sono manipolati da élites o proto-élites che si propongono di sfruttare simboli etnici per finalità del tutto politiche (v. Brass, 1997). In molti casi, si tratta comunque di conflitti pre-politici, anche se va riconosciuto che questi ultimi sfociano spesso in aperte richieste politiche. Al contrario, i movimenti nazionalisti hanno come preoccupazione principale la mancata legittimità dello Stato, anziché semplicemente l'illegittimità del regime (v. Connor, 2001). Ma la gran parte dei conflitti etnici del mondo si sviluppano in relazione allo Stato e pertanto si trasformano spesso in movimenti nazionalisti (da cui il termine più ambiguo 'etno nazionalismo': v. Connor, 1994).
I conflitti etnici vanno infine distinti nettamente dai conflitti 'culturali': nella gran parte dei conflitti violenti la cultura è assente come variabile-chiave, anche perché essi si svolgono all'interno di una stessa cultura (Hutu e Tutsi, Serbi, Croati e Bosniaci, Irlandesi protestanti e cattolici). Nonostante ciò, la percezione della perdita (reale o immaginaria) della propria cultura come conseguenza dell'assimilazione e del dislocamento è a lungo termine uno dei più potenti catalizzatori di conflitti.
Non esistono tipologie di conflitti etnici universalmente adottate, ma diverse tipologie o dicotomie riportabili alla scala di valori di un particolare elemento, approccio o situazione specifica. Per esempio, conflitti violenti e non violenti, infrastatali (o locali) e interstatali (o internazionali), linguistici e religiosi o razziali (a seconda del 'valore centrale' scelto) e così via.
Riferendosi ai protagonisti di questi conflitti, il politologo Ted Gurr distingue tra 'popoli nazionali', che aspirano all'autonomia o all'indipendenza, e 'minoranze' che aspirano invece ad ottenere maggiore partecipazione e benefici all'interno dell'ordine esistente. I primi vengono a loro volta distinti in 'etnonazionalisti' e 'popoli indigeni'; i secondi in 'etno-classi', 'sette militanti' e 'communal contenders' (v. Gurr, 1993). Per qualche motivo questa classificazione sembra escludere i profughi e i rifugiati etnopolitici.
La distinzione tra 'etnonazionalismo' e mobilitazione indigena è relativa, in quanto si tratta in entrambi i casi di popolazioni residenti nello stesso territorio da lungo tempo e incorporate in un ambito statale più ampio a seguito di processi coloniali, imperiali o di espansione territoriale. Il movimento per i diritti degli indigeni è recentemente esploso tra Nativi Americani, Maori, Aborigeni australiani, Lapponi, Esquimesi, Hawaiiani, culminando tra l'altro con la formazione nell'aprile 1999 del primo territorio autonomo indigeno, il Nunavut (situato nel Nord del Canada con una superficie di circa due milioni di chilometri quadrati per una popolazione di soli 20.000 abitanti e due lingue ufficiali, inglese e inuktitut, quest'ultima scritta in un alfabeto proprio). Il concetto di 'indigenismo' comprende uno spettro più ampio, spesso riferito ad un movimento politicoletterario di generale riscossa della cultura e valori indigeni. È anche riferito alle politiche adottate da diversi governi centrali nei riguardi delle popolazione precolombiane.
Il contrasto tra conflitti violenti e non violenti è tra i più illuminanti in quanto getta luce sulle cause stesse della violenza e delle guerre civili. Sorprendentemente, pochi studi hanno comparato sistematicamente conflitti violenti e non violenti alla luce di interpretazioni innovative (v. Conversi, 1997). In generale la letteratura sui conflitti incruenti è estremamente scarsa, e ciò è paradossale se si considera che essi costituiscono probabilmente la maggioranza dei conflitti etnici esistenti. Diversi studi (di tipo per lo più celebrativo) hanno analizzato i casi del Tibet, degli aborigeni australiani e degli Ogoni in Nigeria. Altri gruppi pacifisti e non violenti relativamente poco studiati sono quelli emersi tra gli Assiri dell'Iraq, i Batwa del Rwanda, i buddisti del Bangladesh, gli Hawaiiani, i Taiwanesi, i Mapuche del Cile, i Lahu e i Palaung della Birmania, i Rusyn (o Ruteni) della Slovacchia e dell'Ucraina, come anche nei territori della federazione russa: Bashkortostan, Buryatia, Chuvashia, Crimea (tra i Tartari), Gagauzia, Ingushetia, Ingria (o Ingermanland), Komia, Mariy-El (tra i Mari), Sakha (o Yakutia), Tatarstan, Tuva e Udmurtia. Tra gli elementi moderati diventa spesso evidente il pericolo che la 'secessione' possa portare ad ulteriore instabilità locale ed internazionale, per cui la ricerca di un modus vivendi con le autorità centrali rimane una priorità per la maggioranza dei gruppi in questione. La reazione della comunità internazionale alla gran parte dei conflitti etnici è stata quella di appoggiare l'unità statale ovunque essa fosse minacciata, a meno che l'azione del governo centrale non avesse reso impossibile la convivenza tra diversi gruppi. Ma ogni paese è pervenuto a esiti diversi: se da una parte alcuni conflitti cruenti sono stati parzialmente 'risolti' attraverso accordi di pace (come tra i Mon ed il governo birmano nel 1995), altri conflitti inizialmente pacifici sono invece degenerati in confronti armati (come tra il governo cinese ed i musulmani dell'Uighuristan, o 'Turkestan orientale').
Tanto i conflitti linguistici quanto quelli religiosi andrebbero in linea di principio distinti dai conflitti etnici tout court, visto che lingua e religione non sono elementi 'particolaristici' in se stessi: sebbene scelti come tratti differenzianti a livello nazionale, lingua e religione possono accomunare gruppi appartenenti a diverse etnie, cioè rimandanti a diverse origini, lignaggi e percezioni di discendenza. Per esempio, i conflitti derivanti dall'imposizione dell'inglese o di altre lingue a livello di amministrazione coloniale hanno portato alla selezione di lingue alternative non-etniche come lo Swahili in Tanzania, Kenya ed Uganda, oppure il Bahasa Indonesian, inventato a tavolino da intellettuali anticolonialisti indonesiani, ed il Malese, che, per quanto associato all'etnia malese, tende ad essere strumento di unione di diversi gruppi etnici. Ognuna di queste lingue non occidentali è in ogni caso parlata da più gruppi.
Un conflitto linguistico con elementi etnici è invece quello che ha caratterizzato la vita politica del Belgio sin dalla fine dell'Ottocento: sebbene la quasi totalità delle rivendicazioni siano state imperniate intorno all'uso della lingua, il conflitto potrebbe ben definirsi come 'etnolinguistico' in quanto la lingua fiammingo-olandese è parlata comunemente dai Fiamminghi (abitanti delle Fiandre) ed il francese dai Valloni (abitanti della Vallonia), entrambe popolazioni con un ben definito senso della discendenza e di uno sviluppo storico separato.
Vedremo in seguito che i conflitti religiosi debbono anch'essi essere distinti da quelli etnici: per esempio, il radicalismo islamico nega non solo il principio etnico e razziale, ma anche quello nazionale, cioè l'ordine esistente degli Stati-nazione (per poi spesso riconoscerlo una volta assunto il potere). L'Islam politico diventa dunque il veicolo universale per la 'fusione' delle razze e delle etnie (il che non implica la loro scomparsa), profilandosi come intrinsecamente alieno al sistema degli Stati-nazione (v. Esposito, 1992; v. Gellner, 1981; v. Hastings, 1997).
Lo stesso non può dirsi della razza. Se le categorizzazioni etniche non implicano automaticamente categorizzazioni razziali, non è vero il contrario: le categorie razziali implicano quelle etniche. I conflitti razziali sono dunque una variante dei conflitti etnici. Ma la confusione concernente l'uso del termine etnicità non facilita ascrizioni semplici. In particolare, nell'accezione di molti postmodernisti il termine etnicità ingloba manifestazioni così diverse da inficiarne ogni validità euristica (dalla 'comunità' dei non vedenti alla 'nazione' gay, ed altre concezioni puramente culturali e comportamentali). Scienziati sociali di estrazione positivista come Ernest Gellner hanno ripetutamente tacciato i postmodernisti di produrre 'mumbo-jumbo' indecifrabili ai non addetti ai lavori. Tale accusa si riferisce in particolare alla nebulosità, elasticità ed incongruità terminologica.
Un gruppo a sé nella tipologia dei conflitti etnici è infine costituito dai conflitti etnoreligiosi, là dove le differenze di fede assumono un ruolo definitorio. Ad essi è dunque necessario dedicare una specifica trattazione.
A seconda dell'importanza del fattore religioso, spesso solo circostanziale, è bene distinguere tra conflitti 'etnoreligiosi' e conflitti religiosi veri e propri: nel primo caso, la religione gioca un ruolo identitario e quindi secondario ed indiretto, ma fondante dell'etnicità; nel secondo caso, le scelte religiose possono assumere un carattere preponderante, spesso a discapito dei fattori etnici, i quali tendono a diventare del tutto accessori. È questo il caso, per esempio, di molte sette cosmopolite ed apocalittiche, i cui seguaci appartengono tipicamente a diverse etnie e razze. In taluni casi l'etnicità diventa totalmente irrilevante ed è spesso addirittura messa al bando come fattore divisorio e sviante rispetto all'abnegazione richiesta ai nuovi adepti. Non rientrando nella nostra definizione di conflitti etnici, tali casi non verranno qui presi ulteriormente in considerazione.
Nei conflitti comunemente percepiti come 'etnoreligiosi', la religione gioca invece un ruolo interstiziale ed ancillare. La religione non è quindi di per sé causa dei conflitti, ma viene semplicemente usata come elemento di demarcazione nazionale: tale scelta conferisce quasi automaticamente un carattere sacro alla causa etnica, in quanto il popolo che se ne fa portatore diviene ipso facto nazione 'eletta' per volontà divina, indipendentemente dal fatto che i leaders che manipolano simboli religiosi siano atei, agnostici o fedeli. Per questa ragione i conflitti etnoreligiosi assumono un carattere a volte particolarmente violento e di difficile soluzione, come si è visto in NagornoKarabach e in Bosnia (v. Chorbajian, Donabedian e Mutafian, 1995; v. Tololyan, 1995). Paradossalmente, il fatto che leaders di estrazione chiaramente atea, come le élites ex comuniste della Serbia, possano utilizzare senza scrupoli la simbologia religiosa per legittimare le azioni più estreme, ci offre un'idea della natura non religiosa di molti conflitti percepiti comunemente come etnoreligiosi.
La religione gioca un ruolo fondante anche nei nazionalismi laici (v. Manzo, 1997). Secondo Adrian Hastings (v., 1997), il nazionalismo stesso ha origini religiose, in particolari bibliche: la traduzione di un testo sacro aiuta a concepire la lingua stessa come strumento divino e il popolo che la parla come scelto da Dio. La prima nazione della storia fu dunque Israele, e con la traduzione dell'Antico Testamento dall'ebraico in altre lingue, le vicissitudini del popolo di Israele divennero via via quelle di ogni popolo nella cui lingua la Bibbia venne tradotta. La Bibbia era spesso il primo libro ad essere tradotto nelle lingue indigene di diverse popolazioni, dai Baschi di Francia e Spagna agli Ibo della Nigeria, gettando le basi per quel senso di mistica unione con il divino che ne fece nazioni a livello embrionico. Questo carattere 'divino' ed al tempo stesso glottocentrico è rimasto ancorato al nazionalismo anche nelle sue forme più laiche (v. Smith 1991 e 1998).
L'uso della simbologia religiosa come strumento di mobilitazione è stato fatto proprio da minoranze ed etnie appartenenti a diverse fedi religiose: cattolici (Irlanda del Nord, Timor Est, Croazia), protestanti (Molucche, Nagaland, Karenni), cristiano-orientali (Armenia, Georgia, Serbia), musulmani (Mindanao, Ache, Kashmir), sikh (Punjab), buddhisti (Tibet, Maghi, Mru, Tangchangya e Tipera nelle colline di Chittagong in Bangladesh), indù (Tamil nello Sri Lanka, Tripuri e Manipuri del Bangladesh) o financo pagani (Sudan meridionale, Oromo, Jarkhand, Bougainville). Alcune di queste guerre, come quella in Bosnia, hanno meritato l'epiteto di 'guerre atee', dato l'uso totalmente aleatorio, simbolico e circostanziale della religione.
Le cause dei conflitti etnici possono essere attribuite a fattori di tipo politico, religioso, economico, culturale, demografico ed ecologico. In realtà solo i fattori politici sono stati chiaramente individuati come causa universale di tali conflitti. Sono la forma dello Stato e l'azione governativa a determinare il succedersi degli eventi in campo etnopolitico. Ma dobbiamo prima procedere ad escludere le cause alternative.
Le differenze culturali non si trovano mai di per sé all'origine dei conflitti etnici (se non in termini estremi di mutua incomprensione). Al contrario, ricerche recenti hanno dimostrato che i conflitti più violenti scaturiscono spesso dallo sforzo di innalzare barriere tra gruppi del tutto simili (Hutu e Tutsi; Serbi, Croati e Bosniaci; Irlandesi protestanti e cattolici), o il cui alto livello di assimilazione ha portato alla scomparsa di una gran parte degli elementi differenziatori (Curdi assimilati a lingua e tradizioni turche, Baschi castiglianizzati, Corsi francesizzati, ecc: v. Conversi 1997, 1999; v. McDowall, 1996; v. Jaffe, 1990; v. Loughlin e Mazey, 1995).
Tale ipotesi è però ancora lontana dall'essere universalizzabile, in quanto esistono casi di conflitti persistenti tra popolazioni culturalmente non affini. Ciò è particolarmente vero per i conflitti in cui la religione assume un ruolo definitorio, sebbene essi costituiscano un gruppo a sé, come abbiamo visto.
Per quanto non sia di per sé causa diretta di conflitti etnici, la cultura diviene variabile-chiave quando è minacciata, in via di estinzione o percepita come esposta ad una minaccia esiziale, per cui le élites locali si mobilitano politicamente in sua difesa incoraggiando in genere programmi massimalisti. A seconda delle reazioni statali alla sua presenza, un conflitto di tipo culturale-difensivo può mantenersi a livello pre-politico, cioè non nazionalista. Se lo Stato risponde con metodi repressivi, un conflitto inizialmente culturale può dare luogo ad un nuovo nazionalismo. Il nazionalismo è di per sé una risposta politica, non più soltanto culturale, a diversi fattori circostanti ed in particolare all'intrusione dello Stato.
La 'de-tradizionalizzazione' seguita a rapidi processi di sviluppo e di modernizzazione è una delle cause ricorrenti dell'esplosione dei conflitti. Per esempio, la destituzione di molti capi tribali e dei loro antichi lignaggi nel periodo postcoloniale, soprattutto in Africa, ha creato un vuoto di potere e di legittimità che le nuove élites non sono state in grado di ricostruire (v. White e Lindstrom, 1997). Solo pochi 'reami' e 'principalità' sono sopravvissuti in alcuni Stati postcoloniali, e in forma prevalentemente simbolica (v. Fox, 1993).
Un'ipotesi molto popolare, e più classica, riguarda le cause economiche dei conflitti. Tale interpretazione rimase prevalente durante tutto l'arco della guerra fredda, permeando le spiegazioni degli eventi contemporanei. In un modo che è stato in seguito tacciato di riduttivismo, i conflitti venivano comunemente attribuiti a fenomeni circostanziali come il sottosviluppo, le diseguaglianze di reddito, lo sfruttamento capitalista, la crisi economica, la disoccupazione, lo sviluppo ineguale e la 'deprivazione relativa'. Di conseguenza si riteneva che tali conflitti potessero essere evitati o risolti solo attraverso interventi di tipo economico, come politiche redistributive, casse per lo sviluppo regionale, riaggiustamenti dello Stato del benessere, ecc.
Negli anni in cui il Welfare State celebrava i suoi fasti, economia e sviluppo divenivano la panacea per tutti i mali sociali. Questa era in parte l'altra faccia del dogma marxista regnante nel blocco orientale: in una classica deformazione della psicologia umana, nemici giurati (liberali e marxisti) mutuavano continuamente l'uno dall'altro idee, precetti e ricette. Ma la conflagrazione ideologica tra i due titani trasformò tutte le altre lotte in appendici epifenomeniche o irrilevanti del vero e supremo scontro, facendo tabula rasa di tutte le altre teorie e interpretazioni.
Solo a partire dagli anni ottanta le spiegazioni economicistiche cominciarono a venire contrastate. Uno dei primi contributi in questo senso venne da Walker Connor, che in un testo del 1984 (divenuto rapidamente un classico), attaccava sistematicamente le teorie economiciste. Per Connor i conflitti etnici operano indipendentemente dalle variabili economiche: le supposte discriminazioni possono funzionare come meri fattori rinforzanti, come agenti catalizzatori o esacerbanti; ma porre le questioni economiche al centro dell'analisi significa non cogliere l'essenziale, ossia che i movimenti etnici sono effettivamente etnici e non economici (v. Connor, 1984, p. 356 e 1995, pp. 218-243). Contrariamente alle percezioni dominanti, i fattori economici, ritenuti dapprima determinanti per ogni tipo di conflitto, non costituiscono necessariamente una fonte di conflitti acuti (se non nella retorica nazionalista, che peraltro riesce a impossessarsi di qualsiasi argomento in suo favore).
Un'ulteriore prova della insostenibilità delle spiegazioni economicistiche può essere rintracciata in una serie di circostanze storiche ben precise. Ogni qualvolta uno Stato ha affrontato il problema del sottosviluppo in termini puramente economicisti, ciò non ha evitato l'insorgere e il dilagare dei conflitti etnici. Popolazioni investite da grandiose campagne di ristrutturazione industriale o massiccio sviluppo economico hanno finito spesso per accentuare le loro caratteristiche etniche: è questo il caso della Slovacchia, che al momento della creazione dello Stato cecoslovacco (1918) era una regione prevalentemente agricola e che nel secondo dopoguerra ha conosciuto un massiccio processo di industrializzazione, con conseguente aumento della mobilitazione etnica, culminato nel 1993 con l'indipendenza.
Probabilmente una qualche previsione, sulla base dell'andamento economico, può essere fatta sebbene solo nel senso di attendersi i movimenti nazionalisti più vigorosi proprio nelle zone a più impetuoso sviluppo. In genere la causa va ricercata nella possibilità di ottenere accesso a determinate risorse, o più semplicemente alla percezione di questa disponibilità (v. Esman, 1977).
Ma anche in questo caso le generalizzazioni sono fuori luogo e di scarsa utilità. Il Kurdistan turco, per esempio, è esploso nonostante la mancanza quasi assoluta di risorse ed il divario economico immenso con il resto del paese (v. McDowall, 1996; v. Van Bruinessen, 2000). Negli anni ottanta, mobilitazioni popolari per ottenere lo status di repubblica si sono moltiplicate nella provincia del Kossovo, nonostante la regione fosse la più povera della ex Iugoslavia e nonostante il governo centrale avesse investito somme ingentissime nel suo sviluppo (v. Meier, 1999; v. Ramet, 1999). In Corsica, i movimenti etnonazionali sono passati dall'autonomismo al separatismo, indipendentemente dalle politiche economiche seguite da Parigi (se non in termini clientelistici di inclusi ed esclusi: v. Jaffe, 1990; v. Loughlin e Mény, 1995). Nell'Irlanda del Nord, alla cui analisi sono stati spesso applicati parametri economicisti, la percezione da parte dei cattolici di essere discriminati sul posto di lavoro è stata ampiamente sfruttata dai nazionalisti, ma rappresenta un fattore ben più scatenante di una generica impasse economica (v. Cox, Guelke e Stephen, 2000; v. Darby e Mac Ginty, 2000).
Casi intermedi di regioni periferiche con reddito pro capite inizialmente assai più basso del centro (Québec, Fiandre, Galizia) e che hanno lentamente colmato il divario, sino ad assumere caratteristiche economiche di segno opposto, hanno al tempo stesso prodotto movimenti etnonazionali capaci di influenzare la forma stessa dello Stato (federalismo in Belgio, sovranità-associazione in Canada, forti autonomie locali in Spagna). Un fenomeno simile si è verificato in regioni che hanno percorso una rotta inversa, da una posizione economicamente privilegiata ad una più o meno penalizzata a causa del declino industriale (Paesi Baschi, Vallonia).
Infine, vi sono casi come quelli della Scozia, della Catalogna, della Georgia e dell'Armenia, nei quali condizioni opposte - permanenza o lento riassorbimento del divario economico tra centro e perifereria o tra etnie diverse - hanno comunque determinato un continuo aumento della mobilitazione etnica.
Anche fattori relativi al rapido cambiamento di prospettive economiche, come un'improvvisa crescita di reddito pro capite o la scoperta di giacimenti petroliferi (per esempio nel Mare del Nord al largo della Scozia), non hanno prodotto pronostici plausibili o generalizzabili (v. Esman, 1977; v. Nairn, 1977). Le spiegazioni economicistiche si arenano di fronte al fatto che il movimento secessionista si è sviluppato nell'intera Scozia anziché nella ristretta fascia di territorio costiero vicina alle sorgenti del petrolio, la quale, secondo tali interpretazioni, avrebbe dovuto produrre un proprio movimento secessionista.
I movimenti autonomisti e secessionisti più influenti sono certamente esplosi in etnoregioni economicamente avanzate rispetto al centro (Catalogna, Slovenia, Croazia, Estonia, Lituania, Lettonia, Eritrea, Singapore), mentre regioni caratterizzate da sottosviluppo, povertà e deprivazione relativa hanno prodotto meno spesso movimenti etnici. Ma questo non autorizza a stabilire alcuna correlazione diretta tra i due fattori. Nel prossimo paragrafo analizzeremo infatti un tipo di cause che hanno spesso coinvolto regioni estremamente povere nel loro scontro con giganti economici.
Lo studio delle cause ecologiche dei conflitti etnici rappresenta un campo di indagine del tutto nuovo. A partire dai lavori di Thomas F. Homer-Dixon (v., 1993), si è aperta un'intera area di ricerca riguardante l'impatto di fenomeni distruttivi come desertificazione, deforestazione, inquinamento e sovrappopolazione sull'esplosione di conflitti interni ed internazionali. La deforestazione figura come causa sempre più frequente della conflittualità etnica, per esempio in Papua Occidentale, nelle isole Solomone, nel Borneo o nel Brasile. Come conseguenza si è andata profilando un'alleanza tra movimenti per i diritti indigeni ed ambientalisti, non solo in Asia ed Oceania (v. Sponsel, 2000), ma anche nelle Americhe. Lo stesso conflitto dell'isola Bougainville (Oceano Pacifico), durato dal 1989 al 1998 e costato oltre 50.000 vite umane, è nato in parte dallo sfacelo ecologico legato allo sfruttamento di una delle più grandi miniere di rame ed oro del mondo (v. Premdas, 1998; v. Regan,1998). Egualmente il conflitto tra gli Ogoni ed il governo centrale della Nigeria, culminato nell'impiccagione del poeta Ken Saro-Wiwa (1995), si è sviluppato sull'onda della catastrofe ecologica derivata dallo sfruttamento delle risorse petrolifere di terre ancestrali da parte di compagnie internazionali, ben descritta dal premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka (v., 1996). La degradazione ambientale ha portato alla formazione di nuove alleanze inter etniche nelle Filippine (v. Lewis, 1992). La sacralità della terra è anche al centro delle rivendicazioni aborigene in Australia, e del loro legame con il movimento ambientalista internazionale. La nascita di movimenti 'econazionalisti' è un fenomeno che ha toccato anche l'Europa, in particolare con i movimenti secessionisti dell'ex Unione Sovietica (i quali sono tuttavia svaniti una volta conseguita l'indipendenza dei rispettivi paesi: v. Dawson, 1996). Lo studio dei legami tra ecologia e conflitti etnici è ancora ai suoi albori, ma promette di trasformarsi in un campo estremamente fertile per l'investigazione teorica ed empirica.
Un altro tipo di cause ancora insufficientemente esplorate sono quelle di ordine demografico. Lo spostamento di ingenti masse di individui da un luogo all'altro del pianeta ha portato in passato a catastrofi irreversibili, dal disastro ecologico al genocidio, come la totale scomparsa dei Guanche, gli aborigeni delle isole Canarie (v. Crosby, 1986). Il caso più noto e tragico in termini numerici è stato probabilmente quello dei Nativi delle Americhe (v. Stannard, 1990). Ma anche variazioni demografiche minori all'interno di Stati multietnici possono portare alla nascita ed al rapido propagarsi di conflitti etnici: è questo il caso del Libano, dove il sistema di rappresentazione proporzionale o consociativo si è sfaldato sotto il massiccio influsso di profughi palestinesi e, al tempo stesso, con l'aumentare del numero dei cittadini di fede islamica (v. McDowall, 1983). Nella ex Iugoslavia, i nazionalisti serbi fin dal principio paventavano la minaccia demografica proveniente dal Kosovo, regione in cui la popolazione di etnia albanese era enormemente aumentata a scapito dell'elemento serbo (v. Ramet, 1999). Infine, l'istituzione di regimi di apartheid, come nel Sudafrica prima delle elezioni democratiche dell'aprile 1994 (v. Guelke, 1999; v. Stone, 2001), o di aperta discriminazione etnorazziale nei riguardi delle maggioranze indigene, come in Guatemala, Bolivia e Perù (v. Grandin, 2000; v. Wilson, 1991), si è basata sulla percezione di ristrette minoranze di origine creolo-coloniale che vedevano la propria posizione continuamente minacciata dalla maggioranza autoctona circostante.
In generale, grandi movimenti di popolazione - siano essi 'spontanei', come la colonizzazione di terre tribali in Assam da parte di coloni bengali, siano essi imposti dallo Stato, come le migrazioni forzate di Giavanesi in diverse isole dell'arcipelago indonesiano, o di Cinesi in Tibet e Uighuristan - hanno innescato movimenti di resistenza etnonazionalista. A volte le insorgenze hanno assunto una piega violenta, come in Papua Occidentale/Irian Jaya o, in modo assai peggiore, nelle Molucche meridionali (Ambon), dove si sono verificati casi sempre più frequenti di 'pulizia etnica', come la distruzione di interi villaggi cristiani da parte di sedicenti milizie 'musulmane' a partire dal 1999.
A loro volta i conflitti interni e le guerre portano ad enormi spostamenti di rifugiati, che possono in seguito creare i presupposti per ulteriori conflitti senza apparenti vie di uscita. Per esempio, la popolazione dell'Abkhazia era nel 1992 di circa 535.000 individui, ma un dossier delle Nazioni Unite ha stimato che era scesa fino a 180.000 individui nel 1998 (v. Cohen, 1999).
La pressione demografica è spesso originata da aumenti della popolazione e dalla conseguente competizione per il controllo delle risorse. La crisi ecologica può dunque essere sia una conseguenza, sia una causa dei conflitti violenti e delle guerre. Studi comparativi sulla relazione tra conflitti armati e sovrappopolazione sono stati inaugurati dalle già citate ricerche di Thomas F. Homer-Dixon (v., 1991 e 1993). Queste ultime hanno dimostrato una correlazione sistematica tra l'espandersi delle guerre civili ed internazionali e la crescita della popolazione mondiale, con conseguente degrado ambientale.
La variabile più immediata ed universalmente presente nell'esplosione dei conflitti etnici è comunque politica, dipende cioè dallo Stato, o meglio dalla forma dello Stato e dalle politiche che questo adotta. Le risposte statali possono momentaneamente far tacere o sopprimere i dissensi etnonazionali, ma quasi mai riescono ad eliminarli alla radice. Al contrario, i conflitti stessi nascono spesso come reazioni a politiche statali (v. Van den Berghe, 1990).
La repressione governativa tende a screditare le componenti più moderate all'interno dei movimenti etnici, mentre gli elementi estremisti se ne avvantaggiano: se la posta in gioco diventa la stessa sopravvivenza del gruppo, è evidente che occorrono estremi rimedi (v. Gurr, 1993, p. 70). Ma qualora le protoélites nazionaliste abbiano la possibilità di rifugiarsi in un movimento culturale nella speranza che la propria cultura possa rinascere, la percezione di agonia recede in sottofondo, rendendo di nuovo possibile l'emergere di leaderships moderate. Quindi la preservazione della cultura e di un conseguente senso di continuità possono essere, come nel caso del Tibet e delle isole britanniche, valori decisivi per arginare una deriva verso la violenza (v. Cormack, 2000).
La repressione può portare infine all'etnogenesi, cioè al coagularsi di nuove identità etniche collettive. Il caso dell'Eritrea è quello di una nazione composta da diversi gruppi etnici vincolati insieme dall'esperienza comune di una guerra pluridecennale che ha tagliato trasversalmente divisioni di classe, razza, tribù, religione e lingua (v. Pateman, 1997). La lotta comune ha anche portato al tentativo di riscoprire comuni miti di origine (v. Iyob, 1995). Il problema di tali identità basate sulla violenza è che in questi casi la violenza tende a perpetuarsi in una spirale senza fine. Relazionandosi ad un'identità precaria e frammentaria, la violenza può trasformarsi in necessità: ciò spiegherebbe almeno in parte la ricorrenza della guerra tra Eritrea ed Etiopia dopo il 1996, come il permanere di frange radicali irriducibili in molti processi di pace.
Altre popolazioni (Oromo, Somali, Tigrigni, Afars e Anuaks) ribellatesi ai soprusi dell'esercito etiopico durante la dittatura marxista (1974-1991) hanno conosciuto relativi processi di etnogenesi. Il caso di una nuova etnicità pan-maya in Guatemala è stato indicato come un altro esempio di etnogenesi derivato dall'azione repressiva dello Stato e delle milizie paramilitari ad esso associate (v. Warren, 1998; v. Wilson, 1991). Tra le popolazioni indigene della Cordillera filippina (o 'Igorots'), regione amministrativa dell'isola di Luzon settentrionale, è emersa un'alleanza tra diversi gruppi tribali (sette gruppi etnolinguistici distribuiti in 5 province ed aventi una lingua in comune, l'Ilocano) che nel corso della propria lotta pacifica contro il governo centrale hanno sviluppato un'identità etnica pantribale, normalmente definita come 'coscienza pan-Cordillera' o, al plurale, 'popoli della Cordillera' (v. Scott, 1985). Nell'isola Bougainville, divisa in 18 gruppi linguisticamente correlati, un'identità comune è stata plasmata attraverso il conflitto con l'esercito della Papua Niugini (Papua Nuova Guinea) ed in risposta al degrado ecologico ed al radicale cambio nello stile di vita introdottosi con la modernizzazione (v. Premdas, 1999). Casi più conosciuti sono il panindianismo tra i nativi americani, e, con meno successo, il panafricanismo diffuso sia durante le lotte anticoloniali in Africa che tra la diaspora afroamericana.
L'importanza dello Stato emerge chiaramente anche in altre circostanze: una discontinuità radicale nel sistema di rappresentanza politica o una caduta verticale di legittimità del regime sono spesso forieri di conflitti a base etnica. Questo per almeno tre motivi: innanzitutto durante fasi di cambiamento politico si aprono spazi per il candidarsi di nuove élites, le quali possono fare uso di una precedente insoddisfazione a livello di rappresentanza etnica come metodo particolarmente efficente di mobilitazione del proprio elettorato. Vi è quindi un rapporto profondo tra la rottura della continuità del sistema politico e l'emergere di movimenti etnici. Un secondo fattore è il diffondersi della consapevolezza che durante fasi di transizione politica vengono effettuate scelte cruciali e spesso di valore fondante per il sistema politico emergente e che tali opportunità storiche non si ripeteranno per lungo tempo. Infine, i conflitti nazionali fanno riferimento ad una mancata legittimità dello Stato, che è tipica delle fasi immediatamente precedenti o contemporanee alla transizione politica (v. Connor, 2001).
Questi tre fenomeni sono chiaramente emersi durante tutte le transizioni democratiche degli ultimi trent'anni, ma con esiti diversi. In alcuni paesi dell'America Latina con la democratizzazione della vita politica si è profilata con vigore la questione indigena e, come altrove, è difficile concepire l'una senza l'altra. Nel caso spagnolo il ruolo della conflittualità etnonazionale è stato essenziale nella trasformazione dello Stato. D'altro canto la Spagna ha pienamente accettato la sfida, adattando le proprie istituzioni alla gestione del conflitto con nuovi mezzi, e quindi sopravvivendo intatta come comunità statale. Lo stesso non può dirsi dei paesi ex comunisti, dove il trionfo pressoché assoluto dell'etno-nazionalismo ha portato sia al disfacimento degli Stati multinazionali e nominalmente federali, sia ad un accrescimento dell'intolleranza etnica, soprattutto nei riguardi delle minoranze interne e delle popolazioni confinanti: razzismo anti-tzigano e revanxismo antiromeno in Ungheria, movimenti neonazisti nell'exGermania dell'Est, antisemitismo in Polonia, e soprattutto la prima riaffermazione dal dopoguerra in poi della pulizia etnica in Serbia con massacri di migliaia di individui, dalla Croazia alla Bosnia, dal Kosovo alla Vojvodina. La rinascita del nazionalismo etnico più incontrollato ha portato all'affermazione di nuovi irredentismi: Grande Ungheria, Grande Serbia, Grande Russia e (almeno fino all'accordo di Dayton, 1995) Grande Croazia. Ciò ha provocato un limitato effetto di 'contagio' anche tra paesi non appartenenti alla sfera ex comunista, ma da sempre situati in zona di frontiera, come la Turchia e la Grecia.
La dialettica tra azione statale e reazione 'etnica' rimane il fulcro di ogni conflitto. Nel caso turco, la scelta militare ha impedito di venire incontro alle aspirazioni curde, incoraggiando invece la guerriglia separatista più intransigente, che dal 15 agosto 1984, data della 'dichiarazione di guerra' del PKK (Partiya Karkeren Kurdistan o Partito dei Lavoratori del Kurdistan), ha acquisito un potere crescente ed inusitato (v. Rugman e Hutchings, 1996; v. McDowall, 1996). I leaders della guerriglia hanno infatti basato la loro politica sulla convinzione che quanto più cruenta sarebbe stata la repressione statale, tanto più favore essi avrebbero incontrato tra la popolazione locale, inizialmente ostile ad ogni forma di nazionalismo (v. Van Bruinessen, 2000). Lo stesso principio è stato applicato dai guerriglieri del Tamil Eelam, che hanno tentato di istituire con la violenza uno Stato indipendente nel nord-est dell'isola di Sri Lanka. Fu inizialmente la repressione governativa a diffondere il mito della lotta armata tra i giovani Tamil, creando una rottura intergenerazionale e marginalizzando le componenti moderate (v. Wilson, 2000). Una situazione simile si è verificata in Kashmir, con la radicalizzazione dello scontro frontale, in questo caso con preoccupanti risvolti internazionali (v. Cockell, 2000). Infine in Cecenia le fazioni più estremiste hanno potuto contare fin dall'inizio del conflitto sulla feroce risposta degli apparati militari russi (v. Knezys e Sedlickas, 1999). La lenta deriva verso un confronto radicale ha legittimato la forza e la violenza come unici arbitri della situazione, il cui prezzo più alto è stato sempre pagato da popolazioni locali inermi.
Non sempre la repressione statale ha portato ad una generalizzazione della guerra e della guerriglia, soprattutto se tale azione si è protratta all'ombra di regimi totalitari. Ma ovunque sia stata raggiunta con la forza una sorta di pax romana, la natura effimera e illusoria di quest'ultima non ha tardato a rivelarsi. Gli infiniti esempi offerti dai paesi ex socialisti sarebbero sufficenti a dissipare ogni dubbio in proposito. Ma anche regimi dittatoriali anticomunisti sono caduti nella stessa insidia: una 'soluzione finale' del conflitto per Timor Est è stata contemplata dall'esercito indonesiano a seguito dell'invasione del 1975 (v. Taylor, 1999). Per oltre vent'anni la regione sembrava 'pacificata', ma alla prima crisi di governo (che ha poi portato all'indipendenza della metà orientale dell'isola nel 1999) il conflitto è riesploso apertamente. L'apparente successo della federazione indiana nel sopprimere i moti separatisti per un Khalistan indipendente ha in realtà prodotto una reazione di rigetto da parte di gran parte della popolazione di fede sikh nello Stato del Punjab, soprattutto tra le nuove generazioni (v. Kapur, 1986; v. Pettigrew,1995), mentre movimenti ultranazionalisti si sono propagati nella diaspora sikh in Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna ed altrove (v. Gibson, 1988; v. Pettigrew, 1976). Infine, la variabile più comunemente citata tra le cause dell'esplodere dei conflitti etnici si riferisce ad un cambiamento endogeno, ma spinto dall'esterno: la modernizzazione. La presenza di un senso di minaccia, la mancanza di sicurezza, l'instabilità derivanti sia da processi di modernizzazione che di interferenza statale sono spesso fattori concomitanti di quasi tutti i conflitti fin qui presi in considerazione. All'importanza di questo cambiamento storico ed alla sua centralità nelle teorie del nazionalismo, come nelle scienze sociali in generale, dobbiamo dedicare un capitolo a sé.
Tra le cause più generali dei conflitti etnici vi è senza dubbio il processo di modernizzazione, intesa soprattutto come cambiamento di stili di vita. La quasi totalità degli studi sul nazionalismo sono infatti 'modernisti', nel senso che fanno risalire l'origine del nazionalismo e delle stesse nazioni all'epoca moderna (per una critica a questa posizione, v. Smith, 1996 e 1998). Tuttavia, questo termine può assumere significati diversi a seconda degli autori. L'interpretazione classica - nonché più diffusa, soprattutto tra gli storici - identificava l'origine stessa del nazionalismo nella Rivoluzione francese (una visione oggi forse meno universalmente accettata). Esiste un'interpretazione, invece, che vede nell'industrializzazione il cambiamento economico-strutturale al quale si possono imputare tanto la modernizzazione quanto il nazionalismo.
È stato in particolare Ernest Gellner (v., 1983) a identificare il connubio tra nazionalismo e industrializzazione. Secondo Gellner la modernizzazione, intesa come avvento della società industriale al posto di quella agricola, porta inevitabilmente al nazionalismo. Quest'ultimo non è ipotizzabile in una società prevalentemente agraria, in cui la divisione del lavoro tra classi non richiede omogeneizzazione culturale. Se nelle società preindustriali non vi era alcuna necessità oggettiva che le classi popolari acquisissero la cultura delle élites dominanti, con l'avvento dell'industrializzazione nasce invece la necessità che gli uomini vengano educati in una lingua comune e che acquisiscano competenze di base in uno stesso idioma, al fine di diventare facilmente rimpiazzabili in nome della mobilità sociale (v. Conversi, Ernest Gellner's, 2000). Il possesso o la creazione di una 'cultura alta' è il presupposto per lo stabilirsi di una nazione. Ma tale Diktat storico crea resistenza tra coloro che non possono o non vogliono assimilarsi alla cultura dominante (che Gellner identifica come l'impero di 'Megalomania') e si lanciano quindi in progetti volti a trasformare la propria cultura vernacolare in una rispettabile 'cultura alta' (progettando l'indipendenza di una gloriosa 'Ruritania').
Dagli anni ottanta anche alcuni storici delle idee hanno attaccato sistematicamente la tesi della centralità della Rivoluzione francese come momento fondante del nazionalismo. In particolare Liah Greenfeld (v., 1992, p. 156) ha sostenuto che l'idea stessa di nazione ebbe origine nell'Inghilterra del XVII secolo, e da lì venne poi introdotta in Francia da filosofi anglofili, come Montesquieu e Voltaire (si pensi soprattutto alle Lettres anglaises). Ma, una volta importato in Francia, l'ideale 'civico-individualista' inglese si trasformò - soprattutto per opera di Rousseau - in un'ideologia 'collettivista', che presagiva già una concezione puramente etnica della nazione. Il nazionalismo francese fu dunque per la Greenfeld la prima manifestazione dei cosiddetti nazionalismi 'orientali', gli stessi che presero piede in forma preponderante in quasi tutti i paesi dell'Est europeo, dalla Germania alla Russia.
Benedict Anderson (v., 1983) ipotizza invece che le nazioni apparvero solo nel momento in cui un consistente numero di persone fu per la prima volta in grado di immaginare comunità estese in cui l'interazione non avveniva più faccia a faccia, ma attraverso la stampa. Fu innanzitutto la diffusione della stampa come impresa capitalistica (print capitalism) in lingua vernacola che permise per la prima volta di immaginare tali comunità. Data la loro totale soggettività, le nazioni sono definite da Anderson come 'comunità immaginate' (anziché semplicemente immaginarie). La vernacolarizzazione prese piede innanzitutto a partire dalla Riforma protestante, con la traduzione della Bibbia in tedesco da parte di Martin Lutero. Ma in Italia il Rinascimento e la diffusione del culto della lingua contribuirono assai prima della Riforma a creare un senso di comunità immaginata, quindi di nazione italiana, tra le classi letterate e colte di diverse città e regioni.
Adrian Hastings si spinge ancora più in là, negando del tutto che le nazioni possano aver origine con la modernità. Secondo Hastings, si può parlare di una nazione inglese già nel 1350, con la traduzione dell'edizione integrale della Bibbia in lingua vernacola, e addirittura intorno al 730, con la stesura della Storia ecclesiastica delle genti inglesi (Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum) da parte di Beda il Venerabile (c. 673-735) (v. Hastings, 1997, pp. 35-39).Infine, John Armstrong (v., 1983) parla di 'nazioni prima del nazionalismo', alludendo al fatto che, sebbene il nazionalismo sia un movimento politico nato con l'avvento dello Stato moderno, le nazioni si basano invece su identità quasi perenni risalenti agli albori della storia e spesso rintracciabili nell'antichità. In un monumentale studio sulla longue durée dei sentimenti etnici, Armstrong condivide con Smith (v., 1998) l'idea delle origini etniche delle nazioni moderne.
Per quasi tutti gli autori qui menzionati conflitti etnici e nazionalismo sono dunque fenomeni simili, se non identici, la cui unica differenza sta nell'epoca della manifestazione e nell'essere o meno associati allo Stato contemporaneo.Un contributo fondamentale alla comprensione dell'etnicità è stato dato in campo antropologico al di fuori di ogni riferimento a fenomeni nazionalisti. L'antropologo norvegese Frederick Barth fu il primo a teorizzare a fondo il carattere soggettivo dell'identità etnica, in contrasto con approcci correnti che tendevano a ipostatizzare o reificare i gruppi etnici come categorie concrete, 'date' ed indiscusse (v. Barth, 1969). Secondo Barth, i fenomeni di identità etnica nascono dall'opposizione e dall'incontro tra gruppi, anziché risiedere in qualche essenza oggettivamente verificabile. Egli postulava dunque una distinzione fondamentale tra 'confini etnici' e 'contenuti etnici': la coscienza di appartenere ad un gruppo distinto (quindi dotato di 'confini') può permanere anche qualora la cultura etnica (il 'contenuto') subisca cambiamenti drastici al punto tale da renderla irriconoscibile ad uno stesso ipotetico osservatore esterno nell'arco di alcune generazioni. Per questo motivo l'approccio di Barth è stato ripreso da teorici 'perennisti' come Armstrong (v., 1983). L'implicazione per lo studioso di conflitti etnici è ancora una volta un monito a non confondere l'apparenza con la sostanza: anche là dove siano assenti tratti differenzianti espliciti, un senso di distinta appartenenza può mantenersi intatto. Per politologi e leaders politici vi si può ravvisare infine un avvertimento a non lanciarsi in programmi di assimilazione forzata, poiché anche qualora questi riuscissero nei loro intenti omogeneizzanti, il risultato non sarebbe quello auspicato dai centralizzatori, cioè la perdita automatica dell'identità etnica (e quindi di una volontà politica collettiva).
Dove risiede dunque l'essenza dell'etnicità? Come si mantiene attraverso le generazioni anche in assenza di contrassegni culturali chiaramente identificabili? La risposta, cruciale per gli studiosi dei conflitti etnici, può pervenirci dalla centralità dei miti di origine, tramandati attraverso le generazioni al riparo delle politiche assimilatrici (v. Smith, 1991 e 1998; v. Takei, 1998) e reiterati in molteplici discorsi, atteggiamenti e comportamenti rituali a livello anche quotidiano (v. Billig, 1995). In altre parole, il 'discorso' sul passato e la narrazione degli eventi storici sono centrali per il mantenimento dell'etnicità.La questione principale rimane se la modernizzazione porti necessariamente o meno al conflitto etnico (v. Newman, 1991). La risposta della maggior parte degli studiosi considerati in questo capitolo è generalmente positiva - e lo è ancor più se si include nel novero dei conflitti etnici l'esplosione dei nazionalismi ottocenteschi (v. Smith, 1998).
La letteratura sulla risoluzione e gestione dei conflitti etnici ('ethnic conflict resolution' e 'management') si è moltiplicata esponenzialmente negli ultimi dieci anni, a partire in particolare dalla disintegrazione dell'Unione Sovietica, e vi è ormai una prolifica area di ricerca in tal campo (v. Kriesberg, 1998; v. McGarry e O'Leary, 1993).
La principale difficoltà nel risolvere tali conflitti risiede nel loro carattere massimalista e al tempo stesso proteiforme e nebuloso. Come Walker Connor (v., 1984 e 1994) aveva osservato già negli anni ottanta, i conflitti etnici non possono quasi mai essere risolti con palliativi di tipo economico, né con politiche volte alla redistribuzione dei redditi e alla giustizia sociale, sebbene rivendicazioni in tal senso siano quasi universalmente presenti nella propaganda nazionalista. Esiste però una dimensione contrattuale di accomodamento e compromesso a livello politico: non sempre si tratta di uno zero sum game, dove le vittorie di un lato si traducono necessariamente in perdite dell'altro lato.
In seguito all'imprevista esplosione della conflittualità etnonazionale nel dopo-guerra fredda, le élites occidentali, soprattutto quelle europee, si sono trovate in uno stato di impasse. L'incapacità di identificare spiegazioni e soluzioni adeguate ha spinto molti leaders a ridefinire conflitti recenti nei termini di pulsioni ataviche, antiche rivalità ed od^i neotribali. Questa è la linea che per esempio ha prevalso tra i leaders politici internazionali, in particolare dal 1991 al 1999, per 'spiegare' all'opinione pubblica conflitti come quelli sviluppatisi in Ruanda e in Bosnia, quando le pressioni per un maggiore impegno internazionale spingevano a trovare alibi per il non intervento. A livello internazionale, si tratta di una linea sostenuta almeno fino al fallimento degli accordi di Chateau Rambouillet in Francia (24 marzo 1999). Tale approccio - che lo si ritenga pessimista, cinico, complice o indifferente - tende implicitamente a negare la possibilità di una soluzione dei conflitti violenti.
In realtà, processi di pace sono stati avviati in diverse aree del globo afflitte da conflitti persistenti ed esplosivi, sebbene tali processi vengano in genere osteggiati da entrambe le ali estremiste degli schieramenti in lotta (fondamentalisti islamici ed ebraici, irriducibili baschi, nordirlandesi e tamil). L'esito dei processi di pace relativi alle questioni palestinesi, irlandesi, basche e tamil in SriLanka è ancora incerto, ma non v'è dubbio sul fatto che siano stati fatti numerosi passi in avanti. Probabilmente il maggiore successo è stato raccolto da Nelson Mandela e dal Congresso Nazionale Africano in Sudafrica (v. Stone, 2001). Il processo di pace in Irlanda del Nord, inaugurato con gli accordi anglo-irlandesi del 1992, è stato più tormentato e difficile (v. Cox, Guelke e Stephen, 2000; v. Irvin 1999). Di ancor più difficile soluzione è il problema della violenza politica nei Paesi Baschi, la cui lotta armata, iniziata nel 1968, ha raggiunto il suo apice negli anni della transizione democratica (1975-1982), per poi conoscere un lento declino (v. Conversi, 1997). La sua totale cessazione fu sancita da una tregua unilaterale imposta dall'ETA, durata tuttavia poco più di un anno (settembre 1988-dicembre 1999). Nonostante i successivi cambiamenti di rotta, tale declino fu caratterizzato dal rafforzarsi della società civile basca, generalmente contraria al terrorismo. È stato soprattutto il forte livello di autonomia concesso da Madrid ai Paesi Baschi fin dal 1980 (approvazione dello 'Statuto di Guernica') a rendere illegittima agli occhi della pubblica opinione la deriva terroristica. Processi di pace sono stati avviati in altri paesi, con esiti contrastanti: per esempio, se da un lato un 'cessate il fuoco' fu stabilito nel 1995 in Birmania/Myanmar tra i Mon (rappresentati dal New Mon State Party) ed il governo di Rangoon (rappresentato dallo SLORC, State Law and Order Restoration Council), una analoga iniziativa tra lo stesso governo ed i Karenni (a nome del Karenni National Party), sempre nel 1995, non ebbe seguito.
In tutti i conflitti violenti in fase di calo (de-escalation), il problema principale rimane la permanenza di gruppi e individui che hanno fatto della scelta violenta una ragione di vita e di ristretti, ma determinanti settori che ancora ritengono improbabile la sussistenza di un'identità collettiva senza il ricorso alla violenza. Uno dei problemi universalmente riscontrati nei processi di pace è il permanere di una cultura antagonistica fondata sull'opposizione violenta, che tipicamente rinsalda le identità etniche in zone che siano state teatro di scontri tra lo Stato e le forze locali. In tal senso è importante ricordare la funzione del nazionalismo come strumento ideologico della costruzione di frontiere. Quando la violenza è concepita come parte integrante del processo di mantenimento e costruzione di frontiere, una sua rinuncia ed eliminazione diventa particolarmente difficile (v. Conversi, 1995 e 1999).
Inoltre, una volta che il conflitto abbia raggiunto livelli tali da degenerare in odi irreversibili, le persone che ne sono vittime risultano generalmente meno disposte ad accettare soluzioni razionali. Quindi gli incentivi diventano estremamente limitati, ed i conflitti tendono a protrarsi per generazioni, come quello armeno-turco, o greco-turco, o tra i Curdi e il governo di Ankara (v. McDowall, 1996). Un effetto 'soglia' viene raggiunto ogni qualvolta il degenerare della situazione umana ed ambientale raggiunga un apice tale da rendere improponibile non solo il mantenimento dello status quo, ma anche la forma stessa dell'unità politica.I tipi di soluzioni 'positive' (cioè escludendo politiche volte all'eliminazione della diversità, come l'assimilazione o il genocidio, oppure il separatismo) vanno dal federalismo al consociativismo (consociationalism), dall'autonomia al confederalismo, dal multiculturalismo al 'controllo egemonico' (v. McGarry e O'Leary, 1993).
In generale, uno Stato multiculturale, in cui la coesistenza di culture ed etnie venga ufficialmente sanzionata ed inequivocabilmente garantita al punto da eliminare ogni residuo senso di minaccia esiziale, potrebbe di per sé evitare i conflitti etnici. È questo il caso della Svizzera, uno Stato concepito fin dal principio come strumento di difesa di diverse comunità etniche e quindi dotato di una imprescindibile identità civica. La Svizzera è probabilmente uno dei pochi Stati non etnici la cui esistenza risale a prima della Rivoluzione francese e dell'avvento dell'età moderna (v. Kohn, 1978). Un problema centrale è che tali identità civiche possono essere create solo nell'arco di lunghi periodi, spesso come alleanze difensive contro vicini predatori ed espansionisti. In particolare, è estremamente difficile attivare un'identità civica là dove siano già esplosi insanabili conflitti etnici, soprattutto se violenti. Un'identità civica non può rappresentare dunque una soluzione, ma soltanto una precondizione per evitare la conflittualità etnica. E se di soluzione si può parlare, si tratterebbe al limite di un progetto a lungo termine, anziché di una risposta immediata. L'Unione Europea rappresenta l'archetipo di tali soluzioni a lungo termine, essendo basata su un'identità civica necessariamente separata da progetti egemonici di un singolo paese e basata invece sulla coesistenza di diverse peculiarità nazionali, regionali e locali (v. Keating, 1999).
Processi come la creazione di entità pluristatali o sovranazionali possono almeno in parte alleviare i conflitti, introducendo una forma di arbitraggio esterno alle parti in causa ed al tempo stesso avente potere esecutivo. La creazione di strutture (ed anche identità) sovraetniche e sovranazionali è un fattore che aiuta a risolvere i conflitti etnonazionali. Qualora un corso, un basco o un irlandese si considerassero al tempo stesso europei, identificandosi quindi con una comunità più ampia che includa Castigliani, Francesi e Inglesi, i relativi conflitti potrebbero venire notevolmente de-radicalizzati.
Soltanto nell'ultimo trentennio è emerso nel mondo universitario (soprattutto anglosassone) il tentativo di interpretare il fenomeno etnonazionalista attraverso teorie coerenti. Lo studio sistematico e comparativo del nazionalismo e dei conflitti etnici è fiorito a partire dagli anni settanta, principalmente in Inghilterra, con le teorie di Ernest Gellner (v., 1973 e 1983) ed Anthony D. Smith (v., 1971, 1991, 1996 e 1998). In seguito, è rapidamente cresciuto negli Stati Uniti, con i lavori pionieristici di Walker Connor (v., 1994), Donald Horowitz (v., 1985), Crawford Young (v., 1976) ed altri. Occorre anche considerare che in questo contesto si andava parallelamente sviluppando una corrente di studi sull'etnicità come problema di origine immigratoria, ma allo stesso tempo indipendente dagli studi classici sulle relazioni razziali (v. Glazer e Moynihan, 1975). Lo studio dell'etnopolitica (v. Rothschild, 1981) è in effetti 'esploso' a partire dagli anni novanta, diventando una vera e propria industria capace di sfornare centinaia di libri ogni anno, mentre quasi tutte le università anglo-americane offrono ormai corsi sui conflitti etnici e sul nazionalismo nell'ambito di diversi settori disciplinari.
La principale dicotomia interna tra studiosi del nazionalismo e dei conflitti etnici è quella che oppone lo 'strumentalismo' al 'primordialismo' (v. Smith, 1998). La prima posizione, di gran lunga la più diffusa, vede le tensioni etnonazionali come il risultato della mobilitazione di élites o proto-élites che manipolano simboli etnici per i loro fini politici: le nazioni stesse non sono quindi 'date', ma 'costruite' (v. Hobsbawm e Ranger, 1983). Al contrario, i primordialisti (v. Horowitz, 2001) vedono le nazioni ed i conflitti nazionali come inerenti a particolari gruppi, come un lascito atavico e insondabile, che sfugge alle moderne gabbie della razionalizzazione. In generale, questa posizione appare priva di sostenitori in campo accademico, poiché nella sua versione estrema rinuncia implicitamente a spiegare i fenomeni etnici e li considera ineluttabili. Forse non a caso, si tratta di una posizione spesso prevalente tra intellettuali e leaders nazionalisti.
Un'altra dicotomia è quella che oppone 'modernismo' e 'perennismo', alla quale abbiamo accennato nel capitolo sulla modernizzazione. I modernisti vedono le nazioni come prodotti moderni, i perennisti le vedono invece come manifestazioni più recenti di fenomeni arcaici. Ad entrambi gli approcci si oppone la scuola 'etnosimbolica' di Anthony D. Smith, che ritiene l'etnicità centrale per la costruzione delle nazioni moderne ed i miti sulle origini come basi per il mantenimento delle identità collettive sia moderne, sia premoderne (v. Conversi, 1995; v. Smith, 1998).
Intorno allo studio del nazionalismo e dei conflitti etnici sono emerse aree di ricerca parallele ed in parte autonome. Per esempio, un campo disciplinare a sé - che si è sviluppato lentamente nel dopoguerra, ma che ha raggiunto proporzioni vistose solo a partire dal 1989 - è quello degli studi sul genocidio (v. Andreopoulos, 1994; v. Chalk e Jonassohn, 1990; v. Walliman e Dobkowski, 1987). Si contano già diverse pubblicazioni specialistiche sull'argomento, incluse almeno tre riviste accademiche nei soli Stati Uniti.Dato il suo carattere intrinsecamente interdisciplinare (v. Hutchinson e Smith, 2000), lo studio dei conflitti etnici si è espanso in diverse aree: non solo in politica, antropologia e relazioni internazionali, ma anche in sociologia (v. McCrone, 1998; v. Williams, 1994), psicologia sociale (v. Billig, 1995), geografia (v. Agnew, 1997), filosofia (v. Kymlicka, 1995), giurisprudenza (v. Hannum, 1990), studi letterari (v. Corral, 1996), sociolinguistica (v. Fishman, 1972) ed archeologia (v. Díaz-Andreu, 1997). Particolarmente prolifica negli ultimi vent'anni è stata la psicologia sociale, con gli studi sull'identità e la 'categorizzazione sociale' iniziati dalla scuola di Henri Tajfel (v., 1982).
In Italia un campo di ricerca dedicato allo studio del nazionalismo e dei conflitti etnici non si è ancora affermato, sebbene gli studi sul nazionalismo e sull'identità nazionale italiana abbiano conosciuto una notevole espansione nell'ultimo decennio, soprattutto tra gli storici. Allo stato attuale non esistono corsi universitari propedeutici, né specialistici su temi come 'teorie del nazionalismo' o 'gestione' e 'risoluzione' dei conflitti etnici, mentre esistono corsi sull'immigrazione e sulle 'relazioni etniche'. Alcuni studiosi hanno però prodotto isolatamente ricerche originali sul tema in ambito sociologico: Alberto Melucci, Mario Diani, Carlo Ruzza, Cristiano Codagnone, Arianna Montanari, Daniele Petrosino ed altri giovani accademici (v. Melucci e Diani, 1983; v. Petrosino, 1991). Esistono ovviamente anche studiosi attivi al di fuori del campo accademico.
Agli albori del nuovo millennio è emersa una preoccupazione diffusa sulle conseguenze della globalizzazione, sia per la possibile scomparsa delle identità culturali locali, sia per il possibile diffondersi di conflitti etnici su scala planetaria. Fino a trent'anni fa imperava una fede ottimistica nel progresso e nello sviluppo economico come panacee capaci di estirpare la conflittualità etnica una volta per tutte. Tra i primi a mettere in guardia l'accademia dal rischio di confondere l'apparenza con la sostanza fu Walker Connor (v., 1994). In realtà, sebbene il numero dei contatti interculturali e di ogni forma di 'transazione' (economica, commerciale, culturale, ecc) si siano moltiplicati esponenzialmente, i sentimenti etnici non solo sono rimasti vivi come il fuoco sotto la cenere, ma sono stati di norma rafforzati da tali contatti internazionali. Infatti, l'omogeneizzazione delle abitudini nei consumi, nella cultura materiale e persino nei linguaggi, non ha portato automaticamente ad una convergenza di valori, né tantomeno ad un sentimento di appartenenza che trascenda i limiti ristretti delle comunità etniche. Come abbiamo visto, non solo tali identità possono resistere a processi di omologazione secolari, ma possono anche assumere forme più violente una volta perduta la base di appoggio e di moderazione costituita dalla cultura tradizionale. La 'scuola della modernizzazione' a cui abbiamo dedicato un capitolo ha dimostrato in modo convincente che cambiamenti radicali nei modi di vita hanno inevitabilmente portato all'esplodere di conflitti, in particolare etnici e nazionali.
Il mondo globale è quindi per molti aspetti l'inverso dell'idea di cosmopolis avanzata da filosofi e autori universalisti, dagli stoici a Dante Alighieri, da Montesquieu a Kant (v. Conversi, Nationalism..., 2000). L'uno non implica l'altra, considerando tra l'altro che ad un appiattimento culturale corrisponde spesso una caduta verticale di valori. Inoltre, importando massicciamente icone culturali da un singolo paese, il tessuto interconnettivo tra gruppi etnici e anche tra paesi confinanti verrebbe irrimediabilmente corroso e danneggiato alla base. Lungi dall'essere la realizzazione degli ideali cosmopoliti, il mondo globalizzato ha in realtà una struttura culturalmente piramidale, al cui vertice domina la cultura di esportazione statunitense, nei cui strati medi resiste, ma sempre più in minoranza, il resto dell'Occidente, ed alla cui base si trova infine il resto del mondo.
In tal modo è possibile asserire che i contatti interculturali non si sono de facto moltiplicati, nonostante l'enorme aumento di mobilità geografica e di opportunità comunicative. In altre parole, una parte crescente dell'umanità tende ad ignorare sempre più le culture e i valori di altri popoli, persino quelli dei propri vicini, ad esclusivo vantaggio della cultura di massa statunitense. Ciò rende sempre più difficile la mutua comprensione ed al tempo stesso la trasmissione intergenerazionale dei valori e della stessa cultura, ed entrambi i fenomeni contribuiscono enormemente all'espandersi globale dei conflitti etnici.
Facendo un uso consistente di dati comparativi sulla diffusione di prodotti di consumo 'made in USA' e del loro impatto locale, Benjamin Barber (v., 1996) ha teorizzato che la reazione contro quello che egli definisce come l'assalto di 'MacWorld' è già iniziata in forme di ribellioni spontanee, al tempo stesso estreme e scoordinate, che egli riassume concettualmente con il termine arabo 'Jihad'. I protagonisti della 'Jihad' vanno dai nazionalisti etnici agli antiimperialisti ed agli integralisti religiosi. Barber osserva che i cecchini serbi indulgevano spesso all'ascolto di musica rock americana nell'atto di massacrare inermi contadini nelle campagne bosniache; i cosiddetti 'fondamentalisti' sono spesso essi stessi 'catturati' dai prodotti del consumo globale, a partire dai fast foods e dal cinema hollywoodiano; ed i leaders di gruppi terroristi hanno vissuto appieno i mali e i beni dell'Occidente rimanendo a stretto contatto con ambienti internazionali. Inoltre, sia il nazionalismo estremo della pulizia etnica, sia il fondamentalismo hanno ricevuto un grande appoggio dalla diaspora degli emigrati, in altre parole da coloro che sono rimasti spesso meno a contatto con le tradizioni e la cultura del paese d'origine.
Un ruolo particolare e decisivo nella diffusione dei conflitti etnici viene dunque giocato dalle punte più assimilate ed occidentalizzate dei gruppi fin qui presi in considerazione: le diaspore o le comunità di emigrati (v. Esman, 1995). Si tratta di un processo che conosciamo bene, nell'esperienza storica di figure diasporiche come Mazzini, Garibaldi, Kossuth o Herzen. La guerriglia delle 'tigri di liberazione del Tamil Eelam' (Liberation Tigers of Tamil Eelam, LTTE) non avrebbe potuto usufruire dell'accesso a risorse vitali senza l'appoggio delle comunità emigrate in Europa e nelle Americhe (v. Fuglerud, 1999). Lo stesso può dirsi del movimento per un Khalistan libero (corrispondente approssimativamente all'attuale Punjab indiano): il ruolo delle organizzazioni studentesche della diaspora sikh in Canada ed altri paesi è stato centrale nell'organizzazione di atti terroristici anche a livello internazionale (v. Gibson, 1988; v. Pettigrew, 1995). Tra i 50.000 Molucchesi residenti da più generazioni in Olanda sono emersi potenti gruppi indipendentisti (v. Chauvel, 1990). I separatisti kosovari, irlandesi, curdi, ceceni e ibo della Nigeria si sono tutti appoggiati alla forza della diaspora.Tipicamente, gli elementi più radicali sono spesso quelli più 'de-tradizionalizzati' ed assimilati alla cultura del paese ospite. Ma nella diaspora possono anche nascere associazioni pacifiche e pacifiste, come tra gli esuli tibetani ed ogoni, il cui rigetto della violenza a favore della cultura è stato finora perentorio.
La gran parte dei conflitti etnici nascono da un senso di minaccia collettiva e si sviluppano in condizioni di instabilità politica e culturale. La fonte principale risiede in due variabili chiave: lo Stato, con le sue politiche spesso assimilatrici e contrarie agli interessi locali, e la modernizzazione, con gli enormi livelli di dislocazione, sradicamento, anomia, solitudine sociale, de-tradizionalizzazione che spesso comporta.
La conseguenza dei conflitti etnici non è soltanto l'incapacità di molti governi di controllare con mezzi democratici e pacifici intere regioni del proprio territorio, ma anche l'emergere di 'quasi-Stati' che, sebbene non riconosciuti dalla comunità internazionale, agiscono de facto come entità sovrane: la repubblica di Transdniestria in Moldavia, l'Abkhazia e l'Ossezia meridionale in Georgia, il Nagorno-Karabach in Azerbaigian, il Kosovo ed il Montenegro nella 'federazione iugoslava', il Kurdistan nell'Iraq settentrionale, l'isola Bougainville in Papua Niugini, il Somaliland e il Puntland nella ex Somalia, e diverse regioni della Birmania, sono tutti esempi di Stati non ancora riconosciuti (al 2000) dalla comunità internazionale, e pertanto situati in una posizione di limbo politico.
La globalizzazione, come prima di essa il passaggio dalla società agricola a quella industriale, ha portato ad un continuo espandersi dei conflitti etnici in aree che fino a tempi recenti ne erano state risparmiate. Nel solo biennio 1993-1994, le tensioni tra Stati e gruppi etnonazionali hanno provocato circa quattro milioni di morti. Delle ventitré guerre combattute nel 1994, soltanto cinque non erano basate su fattori etnonazionali (v. Gurr, 1994). La maggior parte dei profughi mondiali fuggono oggi da aree investite da confronti tra forze dello Stato e movimenti di resistenza etnica (v. Harff e Gurr, 1989). Ben otto delle tredici operazioni di pace delle Nazioni Unite nel 1993 concernevano conflitti etnici (v. Gurr, 1994). Eppure, poiché tali conflitti non sono insolubili, sarebbe erroneo accettare una definizione di 'conflitto etnico' come 'problema etnico' (v. Kriesberg, 1998). Il risultato dei conflitti può essere un nuovo ordine costituzionale, non necessariamente la creazione di nuovi Stati (la quale può effettivamente portare ad ulteriore instabilità). Gli studi sulla gestione e risoluzione dei conflitti proliferati negli ultimi anni indicano nuove possibili configurazioni del potere statale e delle relazioni interetniche, sebbene queste possano conseguirsi soltanto dopo lunghi processi di negoziato (v. Ghai, 2000).
Una risposta globale agli enigmi suscitati dalle insorgenze etniche potrà giungerci eventualmente da un approccio ecologico e universalistico alla problematica nazionale, che consideri ogni cultura come inalienabile patrimonio dell'umanità. Senza il confronto costruttivo generato dalla diversità culturale, senza quella tensione dialettica e creativa che solo l'incontro tra tradizioni può ispirare, ogni progetto di convivenza e di pace rimarrebbe lettera morta e si svuoterebbe del suo valore più profondo. Ma non esiste ancora un'ecologia umana o una scienza dei rapporti tra etnie, popoli, religioni e culture che possa garantire universalmente la coesistenza pacifica tra i popoli. Per ora, non possiamo che trarre spunto dai non pochi studi che hanno cercato di mettere a fuoco le origini e lo sviluppo dei conflitti etnici.
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