Conflitto sociale
Definizione di conflitto
La presenza di conflitto è una condizione normale, anche se problematica, della vita sociale. Secondo G. Simmel, il conflitto è una forma fondamentale di interazione sociale, che coinvolge necessariamente almeno due parti. Il conflitto ha origine nella stessa relazione originaria Ego-Alter. Di fronte a un altro essere umano ci troviamo infatti dinanzi al seguente dilemma: l'altro è risorsa o problema? Amico o nemico? Il conflitto non proviene da esperienze esterne alla dinamica in cui si muove la vita sociale, ma si origina dal suo stesso interno.
Il conflitto nasce nel momento in cui una parte tende a considerare le intenzioni o le azioni della parte opposta come un impedimento o una minaccia al conseguimento dei propri obiettivi. Si può dire che il conflitto ha per scopo la soluzione di tensioni divergenti nei vari ambiti della vita sociale. Tali tensioni possono avere una pluralità di cause, sono assai frequenti e si riproducono continuamente. È la loro assenza, e non la loro presenza, che va considerata come una condizione straordinaria: la pluralità degli attori, la contrapposizione degli interessi, i diversi orientamenti culturali e valoriali, i differenziali di potere e di status, l'esistenza di confini di gruppo, sono tutti fattori che possono generare dei conflitti. Su queste basi si originano poi delle lotte - condotte in modi e con strumenti molto diversi - dirette ad acquisire prestigio, potere e risorse, e a neutralizzare, ferire o eliminare il rivale. Da questo punto di vista il c. s. può essere interpretato come un effetto emergente delle relazioni e delle condizioni strutturali nelle quali si svolge la vita sociale. Una volta riconosciuto che il conflitto, così come il potere o la disuguaglianza, è un elemento costitutivo della vita sociale, la questione si sposta sulle sue forme e sulla sua intensità.
Su questi temi la letteratura distingue alcune radici fondamentali del c. sociale. La prima è quella di cui parla R. Dahrendorf (1959), secondo cui la tendenza al conflitto è insita nel sistema sociale, e in particolare nei differenziali di potere e nei relativi sistemi di autorità che gli assetti istituzionalizzati della vita sociale necessariamente producono. Per Dahrendorf, più che da ragioni di ordine strettamente economico, i conflitti derivano dalla disuguale distribuzione dell'autorità tipica di qualunque contesto collettivo stabilizzato. In tale cornice, i gruppi di potere perseguono i propri interessi, che probabilmente saranno divergenti da quelli dei subordinati. Prima o poi, nonostante la tendenza dei primi a trincerarsi nelle loro posizioni, l'equilibrio tra chi detiene il potere e chi lo subisce è destinato a modificarsi, dando vita a forme di conflitto mediante cui la vita sociale e le sue gerarchie vengono trasformate. In questo senso, si può dire che il conflitto è una grande forza creativa della storia umana. Suscitando problemi che l'organizzazione e i sistemi di potere dominanti tendono a negare, i conflitti possono costituire uno stimolo al confronto e al cambiamento, oltre che un efficace canale di selezione delle classi dirigenti di una collettività.
La seconda radice del c. s. è quella su cui si è concentrata prevalentemente la tradizione marxiana. Secondo questa scuola di pensiero, è l'accesso alle risorse, in particolare quelle economiche, che costituisce la ragione di fondo della continua insorgenza del c. sociale. La disuguale distribuzione delle risorse - che è all'origine della disuguaglianza sociale - tende a generare gruppi di interesse ciascuno dei quali persegue obiettivi in contrasto con quelli degli altri. Quando si è in presenza di una situazione in cui le risorse sono limitate e i vantaggi dell'uno si traducono in svantaggi per l'altro - secondo la logica detta del gioco 'a somma zero' - i conflitti tendono a inasprirsi, mentre vengono più facilmente gestiti quando è possibile distribuire quantità crescenti di risorse. Il caso esemplare di questo tipo di conflitto è quello di classe, che, nel periodo della società industriale, è stato particolarmente intenso e importante.
Una terza radice del c. s. ha a che fare con il processo di formazione dei gruppi, la loro coesione interna e la formazione dell'identità. L'autore di riferimento è C. Schmitt (1950), per il quale la categoria analitica fondamentale è quella "amico-nemico". Secondo Schmitt il nemico viene sempre costruito e inventato in relazione alle esigenze di identità di cui il gruppo ha bisogno. È infatti proprio grazie alla contrapposizione con un nemico esterno che il gruppo riesce a creare e stabilizzare la propria identità. Quanto più il rapporto con il nemico esterno è conflittuale (e persino violento), tanto più stretto e significativo diventa il rapporto tra coloro che fanno parte del gruppo. Per questa ragione, il nemico viene caricato di qualità negative (immorale, violento, infedele, traditore ecc.). Dato che ogni gruppo sociale ha il problema di definire i confini che lo definiscono, il binomio amico-nemico (in group-out group) svolge la funzione sociale di ricompattare il gruppo (sia esso un'élite politica, un'organizzazione formale, una comunità nazionale, un gruppo etnico o religioso ecc.) attorno a una ideologia o a un programma d'azione.
Il conflitto, dunque, se da una parte crea divisioni e fratture, dall'altra è una risorsa fondamentale per la coesione sociale. Ciò è senz'altro vero per il conflitto esterno, mentre nel caso del conflitto interno l'effetto positivo sulla coesione del gruppo si manifesta a condizione che esso non arrivi a coinvolgere i principi basilari della sua esistenza. Un caso esemplare di conflitto esterno è quello etnico, che si produce tra gruppi culturalmente differenti. Tale conflitto è particolarmente importante nel momento in cui etnie differenti entrano in contatto o addirittura vivono nello stesso territorio. Si può dire che il conflitto etnico appartiene alla stessa specie di quello nazionalistico e di quello religioso. In entrambi i casi, l'identità culturale del gruppo - di norma intrecciata con interessi economici e ragioni politiche - diviene il motore che dà vita e alimenta il conflitto sociale.
Quando le tensioni sociali tra gruppi diversi si esasperano, la vita in società tende a trasformarsi in un dispositivo che produce capri espiatori: questo dispositivo si attiva a partire da una crisi iniziale, passa dall'indentificazione del capro espiatorio e finisce con il tutti-contro-uno (oppure tutti-contro-alcuni). Secondo R. Girard (2003), dietro questo processo vi sono i miti (accettati come ovvi, evidenti, naturali) che originano dalla violenza mimetica e dall'esaltazione collettiva e che non producono solo colpevoli illusori, ma ne producono di veri, decretando che le vittime sono perseguitate sempre a ragione. La polarizzazione su una vittima unica e il decreto di morte nei suoi riguardi è in grado di calmare temporaneamente le parti che si scontrano. In questi casi il c. s. si trasforma nel processo di costruzione di un 'capro espiatorio', ossia di una vittima innocente, non pertinente, il cui castigo può migliorare una situazione di crisi se la comunità o il gruppo che si polarizza contro di essa riesce davvero a credere alla sua colpevolezza. I fenomeni di questo tipo possono essere estremamente violenti, ma il più delle volte, nella vita quotidiana e nelle relazioni sociali interpersonali, si possono produrre in forme più attenuate.
Forme e funzioni del conflitto
Il c. s. ha dunque una natura profondamente ambivalente: da un lato esso può avere effetti distruttivi sulla vita sociale e diventare il fattore da cui scaturiscono violenza e distruzione; dall'altro costituisce un elemento fisiologico della vita sociale, che rende possibile l'accomodamento tra gruppi diversi. Esso può inoltre svolgere anche importanti funzioni sociali, organizzando le parti e conferendo identità.
Secondo il sociologo statunitense L.A. Coser (1956), i conflitti sono parte integrante dei rapporti interpersonali e non necessariamente segnali di instabilità e rottura. Egli distingue due tipi di conflitto: quello "realistico" e quello "non realistico". Nel primo caso gli individui, o i gruppi sociali, ricorrono al conflitto perché lo ritengono lo strumento più efficace per perseguire i propri obiettivi; tuttavia, essi sarebbero disposti a rinunciarvi se riconoscessero di avere una strada diversa per raggiungere i propri scopi. I conflitti non realistici, invece, sono quelli nei quali almeno una delle parti in causa considera il c. come un fine in sé; si pensi ai casi in cui il conflitto serve come strumento per allentare una tensione o per affermare la propria identità. Nella realtà, un conflitto contiene spesso sia elementi realistici, sia non realistici.
Poiché il conflitto costituisce un elemento essenziale della dinamica sociale è necessario prevedere degli spazi e delle regole mediante cui esso si possa manifestare in modo non distruttivo. Diversi sono i modi che possono venire adottati per raggiungere tale scopo. Particolarmente importante il ruolo svolto dalle istituzioni, le quali, oltre a stabilire l'esistenza di norme chiare e definite nella vita sociale, hanno la possibilità di stabilire procedure per risolvere i conflitti che si originano nella vita sociale. È il caso, per es., della contrattazione collettiva, che nelle moderne democrazie consente di contenere e strutturare i conflitti di interesse che si vengono a creare tra le varie parti sociali - lavoratori-sindacati, imprese-Stato - sulla base di regole, trattative, compromessi ecc. In termini generali, la differenziazione istituzionale fornisce un contributo prezioso al fine di contenere le spinte più distruttive del conflitto sociale.
Un ruolo importante è altresì svolto dalla competizione, che può essere definita come una forma regolata di conflitto. Secondo alcuni autori l'esistenza di contesti competitivi è essenziale per ridurre l'intensità dei conflitti e permettere di canalizzarne le energie potenzialmente negative in risorse per lo sviluppo della vita collettiva. Tuttavia si deve osservare che la competizione può anche generare conflitti, sia perché contribuisce a creare disuguaglianze e divergenze di interesse, sia perché il rispetto delle regole non può mai essere dato per scontato.
Un terzo fattore da prendere in considerazione riguarda l'ambito della comunicazione, essenziale sia per suscitare, sia per contenere i conflitti sociali. Secondo J. Habermas (1981) la razionalità comunicativa di cui l'essere umano è capace permette di creare arene pubbliche di confronto e di argomentazione, le quali costituiscono una risorsa fondamentale per addomesticare i c. s., trasformando la contrapposizione che ne è all'origine in un fattore capace di favorire l'innovazione sociale. Alla teoria habermasiana, tuttavia, non sono state risparmiate accuse di utopismo, in quanto essa non considera che gli attori organizzati cercano in tutti i modi di arrivare a controllare i sistemi della comunicazione, creando in questo modo una situazione artificiosa di assenza di conflitto. Si pensi al caso dei conflitti che nelle società avanzate si vengono a determinare in rapporto ai diversi tipi di rischi a cui è esposta la popolazione (o parti di essa): rischi ambientali, alimentari, sanitari. In tutti questi casi, il c. s. si sposta e si manifesta nel contesto della definizione di tali rischi e solo l'esistenza di canali comunicativi non oligopolistici può permettere un reale confronto tra le diverse parti in causa. Ma una tale situazione di apertura e discussione è assai difficile da creare e conservare.
Quanto osservato porta a concludere che una totale assenza di conflitto non può di per sé essere considerata come un segnale positivo. Al contrario, sappiamo che quando ci si trova in una situazione in cui viene negata la normalità dei rapporti conflittuali - come nel caso dei regimi di tipo totalitario - allora lì c'è un problema. Di norma, comprimere i conflitti fino a negarli fa sì che quando tali conflitti trovano il modo di manifestarsi tendono a esplodere in maniera incontrollata e distruttiva. Come si è visto, le motivazioni all'origine di un c. s. possono essere molteplici, per cui si riconosce una grande varietà di conflitti: di interesse, di valori, di tipo religioso; conflitti tra nazioni, tra personalità, all'interno dei gruppi. Possiamo poi distinguere tra conflitti diretti e indiretti, manifesti e latenti, violenti e non violenti; legati a interessi economici, a contrasti politici, alla ricerca di potere, a elementi ideologici.
L'intensità del c. s. dipende da due dimensioni: la frequenza e la gravità. La gravità del conflitto aumenta quanto più è forte l'identificazione tra il singolo e il suo gruppo di appartenenza. Il conflitto tende a divenire più grave quanto più i soggetti coinvolti sentono di lottare nell'interesse del gruppo e non solo per sé stessi, quando cioè si sentono legittimati moralmente in ciò che fanno per il gruppo e rafforzati dal potere della collettività con la quale si identificano. La gravità dei conflitto tende invece a diminuire quando gli individui sono legati ad appartenenze multiple e quanto più è alta la mobilità intergruppo. Quando queste due condizioni sono soddisfatte, allora si registra un aumento della frequenza dei conflitti. La ragione sta nel fatto che la pluriappartenenza riduce il potere del gruppo di chiedere qualunque cosa - fino al sacrificio della vita - ai propri membri. Attenuandosi la fedeltà dei membri, i conflitti si moltiplicano ma perdono vigore, diventando così meno distruttivi. In base a queste due considerazioni è possibile spiegare perché le società avanzate tendono ad avere conflitti frequenti, ma relativamente poco gravi. Ciò è dovuto a una divisione del lavoro molto avanzata, all'esistenza di orientamenti etico-valoriali pluralistici e tendenzialmente ostili all'idea di conflitto, all'alta mobilità sociale.
Negli ultimi anni del 20° sec. tale tendenza ha registrato un'inversione in relazione al rafforzamento di gruppi etnici e religiosi, che - proponendosi come risposta al processo di frammentazione sociale e culturale - insistono sui tema della purezza e della differenza, creando così le premesse per l'insorgere di conflitti molto aspri. Nella contemporaneità, i conflitti etnici e religiosi, strettamente connessi con la questione identitaria, appaiono come una delle fonti principali del conflitto sociale. Su scala globale, S.P. Huntington (1996) ha parlato di scontro delle civiltà per indicare la tendenziale crescente contrapposizione tra grandi aree definite dall'incrocio tra interessi economico-politici e identità religiosa.
Conflitto e violenza
Nelle società moderne un modo per regolare e sublimare i c. s. latenti è quello di ricorrere a battaglie, rituali e cerimoniali collettivi. Qui avviene una sorta di eccitazione mimetica della folla, o di una 'quasi-folla': 'mimetica' poiché il modello cui ci si ispira nell'elaborazione dei propri desideri si trasforma in rivale e in ostacolo per il fatto stesso che lo si imita. Particolarmente importante a questo proposito è il ruolo dello sport, che nel corso degli ultimi secoli si è costituito come un ambito nel quale vengono riversate molte delle energie conflittuali latenti nella vita sociale. Nelle società avanzate gli stadi e i palazzetti diventano teatri di veri e propri scontri simbolici tra fazioni rivali, che inscenano un conflitto mediato dalla competizione sportiva e che qualche volta addirittura la trascende.
Quando però non si riesce a contenere il c. s. e a governarlo mediante la rete dei rapporti istituzionali, allora il rischio è che degeneri, determinando il ricorso all'uso diffuso della forza e all'esplosione della violenza e della sopraffazione. Si può dire che la violenza è una forma estrema di aggressione materiale compiuta da un soggetto individuale o collettivo nei confronti di altri; essa consiste nell'attacco fisico, intenzionalmente distruttivo, recato a persone o a cose che rappresentano un valore per la vittima o per la società in generale; essa consiste inoltre nell'imposizione, mediante l'impiego, o la minaccia di impiego, della forza fisica o delle armi, di compiere atti gravemente contrari alla propria volontà. La violenza sulle persone mette in pericolo l'integrità dell'altro; essa si concretizza nella coercizione fisica a fare o a non fare, oppure a cedere, con la forza, beni in proprio possesso, compresi beni immateriali (come informazioni o confessioni di qualsiasi tipo); essa, inoltre, comporta la privazione della libertà dell'altro, il ferimento, il sequestro della persona, le percosse, la tortura e l'uccisione. La violenza sui beni può prendere forma di danneggiamenti, di distruzione più o meno totale di oggetti, edifici, luoghi, simboli che rimandano a realtà significative per le vittime.
La violenza può essere definita socialmente un crimine a seconda che essa sia o non sia considerata legittimata da una società o dalla maggior parte dei membri di quella società. La violenza è l'impiego illegale di forme di coercizione fisica; essa si manifesta, oltre che nell'impiego di forza e coercizione fisica e nell'alterazione dello stato fisico, anche nella pressione esercitata su un soggetto o su un gruppo a livello psicologico. Essa porta a indurre qualcuno, attraverso la forza o la paura, ad agire contro la propria volontà. Secondo tale definizione, tutti gli atti di violenza consistono in una coercizione fisica, ma non tutte le forme di coercizione fisica sono atti di violenza. Pertanto, può accadere che il medesimo atto - descritto in termini oggettivi: per es., un uomo che spari a un altro per strada - possa essere considerato un atto di violenza se, alla luce della nozione di legalità e di legittimità dominante nel sistema sociale, si tratta di un atto illegale; al contrario, esso tenderà a essere considerato diversamente se rientra nella legalità (continuando l'esempio: se l'uomo che spara è un poliziotto e il suo avversario è un ladro, non sempre questo atto viene considerato come violento). Quando tuttavia si verifica l'impiego illegale di forme di coercizione da parte di chi detiene il potere istituzionale, allora abbiamo la violenza istituzionalizzata (a opera dello Stato, degli apparati burocratici, delle forze dell'ordine ecc.). Qui si inserisce la questione del potere, in quanto funzione propria dei sistemi istituzionali, il quale comporta sempre una dimensione di coercizione e di conflitto potenziale.
La violenza risolve il conflitto eliminando il nemico. Ma non sempre questa soluzione si rivela stabile o efficace. La distruzione del nemico mediante la violenza non implica la distruzione dell'inimicizia. La violenza genera infatti violenza, spesso lungo la catena della vendetta. Per es., se per autodifesa si intende l'annientamento del nemico, questi si sentirà giustificato e legittimato ad autodifendersi allo stesso modo nei confronti del proprio nemico.
bibliografia
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