Conflitto sociale
Vi è conflitto sociale quando una persona o un gruppo avanza pretese di segno negativo nei confronti di altre persone o gruppi, pretese che, qualora venissero soddisfatte, danneggerebbero l'interesse altrui cioè l'altrui probabilità di raggiungere una situazione desiderabile. Le pretese di segno negativo implicano tanto minacce quanto attacchi veri e propri. Quando esse comportano una diretta presa di possesso, oppure un danno alle persone o alle cose, gli osservatori utilizzano spesso la parola 'violenza'. Un conflitto può essere asimmetrico, nel senso che una sola delle parti in causa, e non l'altra, può avanzare pretese di segno negativo: in questo caso si parla di 'coercizione'. Accade più spesso, tuttavia, che nel conflitto ci si avvicini a una situazione di simmetria, con ciascuna delle due parti che avanza almeno alcune pretese per neutralizzare quelle dell'altra. Il conflitto è un caso particolare di 'competizione': due o più parti cercano simultaneamente di ottenere dei vantaggi (o di evitare degli svantaggi) che si escludono a vicenda. La normale competizione diventa conflitto quando un concorrente avanza in maniera esplicita delle pretese potenzialmente lesive dell'altrui interesse; fare un'offerta maggiore rispetto a quella del proprio vicino, per un pezzo di terra desiderato da entrambi, non può esser di per sé configurato come conflitto, ma si configura come tale il minacciare il proprio vicino di attaccarlo qualora egli rilanci l'offerta. In base a tale definizione, l'ingaggiare una gara con qualcuno è un comportamento che si situa ai margini del conflitto, poiché, se per i due concorrenti perdere non implica alcuna differenza sostanziale, il conflitto non si scatena; se invece una delle parti ha interesse a vincere, la competizione si trasforma in conflitto. In ogni caso, l'atto di ostacolare l'avversario per indurlo a rallentare identifica chiaramente la gara come un conflitto.
Il conflitto è complementare alla cooperazione, in cui unità sociali differenti avanzano istanze positive le une nei confronti delle altre; i cooperanti, cioè, offrono promesse e ricompense piuttosto che minacce e attacchi. Le relazioni sociali che implicano minacce esplicite o attacchi condotti da una delle parti nei confronti dell'altra rappresentano il terreno naturale del conflitto. Per questo motivo, individui e gruppi che esercitano il controllo su mezzi di coercizione - armi, soldati, simboli sovrannaturali, accesso alla pubblicità negativa e così via - giocano nel conflitto un ruolo senza paragoni; essi diventano degli specialisti nella formulazione di pretese di segno negativo, e dispongono di basi migliori per sostenerle. Tra tutti costoro, i più importanti sono gli Stati, i quali si specializzano non soltanto nell'accumulazione e nell'impiego di mezzi coercitivi, ma anche nel controllo dell'uso che, all'interno dei rispettivi territori, altre persone fanno della coercizione. Il conflitto sociale comprende tutte quelle forme d'interazione all'interno delle quali degli individui o dei gruppi si minacciano o si attaccano a vicenda, e in molte situazioni conflittuali gli Stati entrano in gioco o come partecipanti attivi, o come il terzo polo del conflitto, oppure con funzioni di arbitrato.
Sebbene questa definizione includa già un'ampia gamma di comportamenti umani, alcuni studiosi preferiscono attribuire al conflitto sociale un ambito ancora più esteso. Nella misura in cui individui e gruppi sarebbero avvantaggiati, in teoria, dal godere di qualche beneficio, dall'occupare una certa posizione, o dal vivere in una determinata condizione sociale al momento goduta o monopolizzata da altri individui e gruppi, un qualche tipo di conflitto pervade tutta la vita sociale. Alcuni studiosi (v., ad es., Lukes, 1974) sostengono che nessuna teoria del potere - e dunque, per estensione, nessuna teoria del conflitto - che non prenda in considerazione tali alternative precluse può essere ritenuta valida. Johan Galtung (v., 1969) ha introdotto il concetto di "violenza strutturale" - cioè le ingiustizie perpetrate ai danni delle persone dalla struttura di potere esistente - in riferimento proprio a situazioni di questo genere. In questo caso una teoria del conflitto sociale può essere ritenuta una teoria generale non solo della vita sociale esistente, ma anche delle possibili forme di vita sociale alternative.
Per contro, in quest'ampia accezione, ogni teoria politica generale è anche una teoria del conflitto sociale. Così l'economia politica marxista, attraverso le sue analisi dello sfruttamento, porta alla luce il conflitto insito in molte relazioni sociali i cui soggetti non sono in lotta fra loro, e vi riesce paragonando tali relazioni sociali con altre possibili almeno in linea di principio. Servendosi di siffatte argomentazioni diventa possibile concludere, per esempio, che i lavoratori italiani stanno sfruttando i loro colleghi di Taiwan e Singapore.
Non c'è dubbio che, dando un senso così ampio alla nozione di conflitto, si sollevano delle questioni fondamentali che un punto di vista più ristretto può evitare. Questa impostazione, inoltre, comporta due gravi inconvenienti: in primo luogo, opera una generalizzazione del problema al punto da renderlo virtualmente insolubile e da sottrarlo al dominio della verificabilità; in secondo luogo, oscura il problema originario, quello di determinare le condizioni in cui conflitti esistenti in linea di principio generano, in pratica, pretese reali. La trattazione che segue, pur prendendo in considerazione questi argomenti di carattere generale, si concentra in particolare sui conflitti espliciti, diretti, in cui almeno una delle parti in causa avanza evidenti pretese nei confronti di un'altra.A rigor di termini, sono solo i singoli individui, e non i gruppi, ad avanzare pretese di segno negativo. Tuttavia il conflitto sociale è chiaramente un fenomeno collettivo, in cui gli individui svolgono un'azione comune e avanzano spesso pretese in nome di ampie categorie sociali, quali classi, comunità o gruppi religiosi. In tali casi, una semplificazione ricorrente è quella di riferirsi ai gruppi come ai veri e propri attori del conflitto. Gli individui che agiscono insieme provengono: 1) da categorie di persone (ad es., coloro che sono nati nella stessa regione) aventi in comune alcune caratteristiche facilmente individuabili; 2) da reticoli di individui (ad es., catene patronocliente), connessi da un certo tipo di interazione ma per il resto privi di un'identità comune; oppure, e si tratta del caso più importante, 3) da categorie di persone organizzate in reticoli (ad es. colleghi di lavoro) che hanno in comune sia una caratteristica facilmente individuabile che una serie di relazioni sociali. Solo di rado tutti i membri di una categoria, di un reticolo, di individui o di una categoria di persone organizzate in un reticolo entrano insieme in azione nel conflitto.
L'usuale divario tra l'appartenenza alla categoria, al reticolo, o alla categoria di persone organizzate in un reticolo, e la partecipazione diretta alla formulazione delle varie pretese pone il duplice problema dell'azione collettiva e della mobilitazione. Si definisce 'azione collettiva' lo sforzo congiunto in favore di interessi comuni a più persone. Si parla di 'mobilitazione' per tutti quei processi per mezzo dei quali le risorse utilizzate dall'azione collettiva - lavoro, denaro, armamenti e così via - sono poste sotto controllo collettivo. Poiché l'azione collettiva spesso è non solo rischiosa ma anche dispendiosa, e distoglie frequentemente risorse da altri usi necessari, la maggior parte dei gruppi mantiene bassi livelli di mobilitazione, agisce collettivamente solo di tanto in tanto e vede impegnata direttamente nell'azione solo una percentuale ridotta dei propri membri. Questi momenti di azione collettiva minoritaria sono comunque di cruciale importanza, poiché le conseguenze che provocano esercitano un impatto significativo sulle relazioni tra tutti i membri all'interno di un gruppo e con i membri di altri gruppi. Anche nelle rivoluzioni di massa, come quelle verificatesi in Russia e in Cina, la grande maggioranza dei contadini continuò a badare ai propri campi come meglio poté per tutta la durata delle agitazioni; ma quelli tra loro che si unirono al movimento rivoluzionario impressero una svolta drammatica ai destini di tutti gli altri.
Gran parte dell'indagine sociologica sul conflitto consiste in un lavoro descrittivo e interpretativo, piuttosto che in un'analisi teorica vera e propria. La letteratura abbonda di studi specifici su singoli casi di rivoluzioni, rivolte, scioperi, movimenti sociali e conflitti di vicinato, studi intrapresi da una miriade di punti di vista differenti. Sebbene tali lavori siano indispensabili per il loro valore documentario, e contengano talvolta significative intuizioni teoriche, valutati nel loro insieme essi appaiono privi di un saldo nucleo concettuale.
Tuttavia, nel momento in cui si passa all'esplicita formulazione di teorie, è un numero relativamente piccolo di questioni e di idee a dominare la discussione. I problemi principali riguardano tre punti:
1) le origini: quali sono le condizioni che promuovono o che impediscono il formarsi di pretese di segno negativo;
2) i partecipanti: in che modo e per quale ragione si formano e si mobilitano i gruppi che avanzano tali pretese;
3) la dinamica: attraverso quali processi, e con quali conseguenze, i conflitti iniziano, si sviluppano, si attenuano e cessano.
Riferiti all'intero ambito della nozione di conflitto, questi sono problemi enormi. Nessuna teoria può sperare di fornire da sola la spiegazione a tutti e tre questi problemi.Le spiegazioni generali del conflitto sociale si dividono secondo due direttrici fondamentali. La prima concerne le relazioni sociali implicate nel conflitto, e precisamente:
a) quelle relazioni che connettono gli individui alla società presa nel suo insieme;
b) quelle relazioni che connettono un individuo o un gruppo a un altro individuo o gruppo.
Da una parte, vi sono gli studiosi che concepiscono la vita sociale come un confronto tra individui dalle caratteristiche chiaramente definite e una società sovraordinata; dall'altra parte, vi sono gli studiosi che ravvisano l'essenza della vita sociale in relazioni concrete tra individui altrettanto concreti. Quando Montesquieu identificò nella società intera, modellata dalle proprie condizioni ambientali e dall'esperienza storica comune a tutti i propri membri, la fonte dei sentimenti morali di questi ultimi, e quando Rousseau sostenne invece che i sentimenti morali scaturiscono dalle concrete relazioni di una persona con tutti quelli che la circondano, essi presero posizione sui due lati opposti di tale discrimine teorico.
La seconda distinzione concerne i processi sociali che producono conflitto: a) il cattivo funzionamento degli ordinari meccanismi di regolazione, o b) l'attivazione di interessi contraddittori. Se paragoniamo la vita sociale a un organo funzionante o a una macchina, possiamo considerare il conflitto come il risultato di una malattia o di un guasto. Coloro che furono testimoni del rapido processo di urbanizzazione e industrializzazione del XIX secolo attribuirono spesso un'ampia varietà di mali sociali a quel tipo di guasto, e proposero dei rimedi adeguati. Altri studiosi, invece, ritengono che gli interessi generatori di conflitto siano inerenti alla vita sociale, anche se vengono inibiti o attivati dal variare delle circostanze. Secondo Freud, per esempio, il mondo 'ribolle' di forti pulsioni in attesa dell'opportunità di esprimersi.
Le quattro concezioni risultanti dall'incrociarsi delle due dicotomie sono riportate nello schema.
Queste quattro concezioni non sono teorie bensì metateorie, ovvero insiemi di idee che non sono sufficientemente specifiche per essere verificabili in se stesse, ma che guidano la teoria, la ricerca e l'interpretazione degli eventi.
La metateoria della tensione sociale presuppone che esista una società e che gli individui si rapportino ad essa come a una forza superiore ed esterna; tale metateoria presume anche che l'ordine sociale sia naturale, ma che il cambiamento produca disordine, e il disordine produca a sua volta conflitto. Per la metateoria della tensione sociale, il conflitto rappresenta una condizione patologica evitabile. Sebbene molti enunciati empirici traggano ispirazione da principî analoghi, nessuna di tali presupposizioni, espressa in questi termini generici, può empiricamente esser provata vera o falsa. Émile Durkheim rappresenta un tipico esempio di pensatore che, nell'affrontare il tema del conflitto, ha fatto solitamente ricorso a una metateoria della tensione sociale, formulando in genere le proprie argomentazioni empiriche in accordo con tale metateoria. Secondo Durkheim, se la divisione del lavoro supera la capacità, propria di una determinata società, di mantenere l'integrazione dei suoi membri, questi perdono il proprio attaccamento alla società stessa, prevalgono l'anomia e uno stato di disordine, che contiene in sé il conflitto. Le teorie più specifiche di Durkheim, per esempio la sua analisi del suicidio, si conformano generalmente alla metateoria della tensione sociale.
La metateoria della lotta tra gruppi, in opposizione pressoché totale alla precedente, sostiene che gli individui e le loro reciproche relazioni sociali costi tuiscano le realtà fondamentali della sfera sociale, che individui e gruppi abbiano interessi comuni, e che la vita sociale consti di interazioni fra gruppi costituiti sulla base di interessi comuni. Karl Marx rappresenta l'esempio più tipico di un metateorico della lotta fra gruppi. Insiemi interagenti di esseri umani costituiscono, agli occhi di Marx, la realtà sociale fondamentale; tutti gli individui e i gruppi hanno degli interessi determinati dalla posizione da essi occupata entro il sistema produttivo; interessi contraddittori sono inerenti a quasi tutti i sistemi produttivi, e situazioni di aperto conflitto scaturiscono prevalentemente da interessi contraddittori.
Le altre due concezioni presentano anch'esse delle caratteristiche peculiari. L'idea circa il carattere intrinseco del conflitto sociale combina l'immagine di un individuo che si confronta con la società in generale con una visione del conflitto come attivazione di interessi latenti. Tale idea postula spesso un qualche tipo di determinismo biologico, che nella sua forma estrema considera il conflitto come l'espressione di un istinto di lotta programmato geneticamente. E infatti Konrad Lorenz (v., 1963) presenta l'aggressività come profondamente radicata nella biologia umana e promossa da una selezione genetica che affina la capacità di lottare. Ma ogni spiegazione del conflitto che ricorra alle peculiari inclinazioni di taluni tipi di individui o gruppi - siano esse innate, apprese o determinate dall'ambiente - rientra in questa categoria. Brian Crozier (v., 1974, cap. VIII), per esempio, deriva la sua conclusione che il conflitto è inevitabile, e tuttavia dev'essere represso, dai seguenti 'assiomi': l'uomo è per natura invidioso e aggressivo; la sua natura non è soggetta a modificazioni; il suo comportamento è comunque suscettibile di cambiamenti in meglio o in peggio; l'uomo, infine, ha un fortissimo bisogno di ordine. L'analisi di Crozier tradisce il contenuto potenzialmente conservatore delle idee derivanti dalla metateoria del carattere intrinseco.
La metateoria delle relazioni tra gruppi postula comunemente che i conflitti nascano da pregiudizi, incomprensioni o errate valutazioni, che l'informazione, l'educazione, la persuasione o un prolungato contatto elimineranno. Quando si scatena un contrasto per motivi razziali, etnici o religiosi, di solito si fa ricorso a spiegazioni basate sulle relazioni tra gruppi. I progetti periodicamente presentati da educatori e politici al fine di ridurre il conflitto per mezzo dell'esortazione, dell'educazione e del contatto tra gli avversari dimostrano che questo genere di approccio è ancora diffuso. Tuttavia, le concezioni basate sul carattere intrinseco e sulle relazioni tra gruppi hanno avuto un impatto relativamente modesto sulle recenti analisi del conflitto. Viceversa, la maggior parte delle teorie e delle ricerche contemporanee segue la linea della tensione sociale o quella della lotta tra gruppi. Il presente articolo si occuperà principalmente di queste due prospettive teoriche, formulando dei giudizi circa la loro utilità.
Le metateorie, sebbene siano troppo ampie perché sia possibile provarle vere o false, esercitano una profonda influenza sull'indagine concernente il conflitto sociale. Inoltre, certe teorie che possono essere verificate si collocano senza ambiguità entro l'una o l'altra delle suddette metateorie. Quando Samuel Huntington (v., 1968) tenta per esempio di spiegare l'andamento del conflitto politico nei paesi in via di sviluppo, sostiene che il grado di conflittualità è funzione della misura in cui la mobilitazione sociale supera l'istituzionalizzazione della società e soprattutto del governo: più ampio è il divario, più diffuso è il conflitto. Poiché è difficile misurare il grado di istituzionalizzazione indipendentemente dall'estensione del conflitto, la teoria corre il rischio di cadere in un circolo vizioso; ciononostante, mediante l'uso di definizioni e misurazioni appropriate è possibile sottoporla a verifica. La teoria di Huntington, in quanto combina l'idea di cattivo funzionamento con l'idea di confronto tra individuo e società, rientra senza dubbio nella categoria della tensione sociale.Kenneth Boulding (v., 1962), viceversa, sostiene che il conflitto economico diventa più acuto nei paesi poveri che in quelli ricchi poiché, in condizioni prossime al livello di mera sussistenza, ogni guadagno ottenuto da un gruppo equivale verosimilmente a una perdita per un altro gruppo. Egli, inoltre, nell'analizzare altri tipi di conflitto, si richiama ripetutamente ai modelli costruiti da Lewis Richardson relativi alla corsa agli armamenti. (I modelli di Richardson, nella loro forma più semplice, considerano gli armamenti di una nazione come una funzione:
1) dell'armamento di un paese rivale, moltiplicato per un indice stabilito in base alla vulnerabilità a quel tipo di armamento;
2) del costo della produzione di nuove armi;
3) del livello di ostilità nei confronti del paese rivale; se gli antagonisti rispondono l'uno alle mosse dell'altro, un modello a due equazioni dimostra la possibilità che si determini una spirale nella corsa agli armamenti anche in assenza di alterazioni dei livelli di ostilità o dei costi degli armamenti).
Come mostrano questi due esempi, l'attivazione di interessi da parte di gruppi in competizione si trova al centro dell'analisi di Boulding. Questo genere di argomentazione colloca manifestamente la sua teoria nella categoria della lotta tra gruppi.
I sostenitori delle teorie della lotta tra gruppi e della tensione sociale sono d'accordo su un punto: la forma e il controllo dei mezzi coercitivi a disposizione modellano il carattere, l'intensità e le conseguenze del conflitto sociale, e quindi, se cambiano i mezzi di coercizione cambia anche il tipo di conflitto. Tali mezzi comprendono qualsiasi strumento utilizzato dalle persone per imporre le proprie pretese di segno negativo, dalle maldicenze alle bombe. I mezzi per avanzare pretese di segno negativo sono distribuiti, in qualunque tempo e luogo, in maniera alquanto diseguale. Nel mondo contemporaneo, con enormi riserve di armi terribili accumulate negli arsenali di pochi Stati, i mezzi di coercizione sono distribuiti in maniera persino più diseguale di quanto non accada per il cibo, le strutture sanitarie, la ricchezza e il reddito pro capite. La distribuzione diseguale degli strumenti coercitivi determina un coinvolgimento diseguale nel conflitto. Più ampia è la scala del conflitto, maggiore è la diseguaglianza. Su una scala molto vasta, a prescindere dal modo in cui un conflitto abbia inizio, gli Stati diventano inevitabilmente gli attori principali. Ai nostri giorni, gli Stati nazionali sono diventati i grandi specialisti nell'iniziare, portare avanti e controllare il conflitto, soprattutto quello violento.
Uno Stato è un'organizzazione relativamente autonoma e specializzata che controlla i principali mezzi coercitivi concentrati entro un territorio piuttosto vasto. Se nessun gruppo detiene una parte preponderante degli strumenti di coercizione (per esempio, se ciascun nucleo familiare o ciascun gruppo organizzato possiede armi simili, e se nessun altro tipo di organizzazione ne possiede in maggiore quantità), se l'organizzazione dotata di ampi mezzi coercitivi non possiede alcun territorio abbastanza esteso (com'è talvolta il caso, per esempio, di eserciti mercenari), o se l'organizzazione in questione non è distinguibile da gruppi basati su legami di parentela, allora non esiste alcuno Stato. In questo senso si può affermare che, mille anni fa, la maggior parte delle Americhe, dell'Africa, del Pacifico e dell'Asia meridionale era priva di organismi statali. Attualmente nessuna parte significativa del globo è senza Stati, e si è imposto un tipo di Stato alquanto raro in passato: lo Stato nazionale.
Lo Stato nazionale differisce dalla città-Stato, dall'impero e dalla federazione di città che una volta erano preponderanti su scala mondiale fra gli organismi statali. Il sistema di Stati nazionali formatosi in Europa è giunto a dominare il mondo intero a partire dal XV secolo. Con la decolonizzazione che seguì alla seconda guerra mondiale, le principali potenze suddivisero quasi tutto il globo in Stati nazionali formalmente autonomi. Allora, ogni nuovo Stato costituì le proprie forze armate, cosicché i modelli del conflitto sociale del Terzo Mondo si modificarono passando dalla lotta tra controllo coloniale e resistenza anticoloniale a lotte locali per il potere.
Gli Stati giocano un ruolo centrale nel conflitto sociale, perché si specializzano nel controllo e nell'uso di una grande quantità di mezzi di coercizione. La distinzione tra Stati e altri soggetti fornisce quindi le basi di una sommaria tipologia del conflitto sociale, imperniata sulle principali coppie di attori:
Stato contro Stato: per esempio guerra, conquista.
Stato contro non-Stato: per esempio ribellione, rivoluzione, movimenti sociali.
Non-Stato contro non-Stato: per esempio conflitto industriale, scontri tra villaggi, lotte religiose.
Questa tipologia è valida soltanto in maniera approssimativa, poiché molti conflitti coinvolgono più di due parti, poiché spesso il discrimine tra Stato e non-Stato non appare sufficientemente distinto, e poiché i conflitti tra Stati coinvolgono pressoché inevitabilmente attori che non sono Stati. Alcune importanti varietà di conflitto - per esempio i delitti tra persone - si collocano proprio al limite tra la seconda e la terza categoria, in quanto agenti dello Stato intervengono regolarmente in tali conflitti e ne determinano in ampia misura gli esiti. Gli studi sul conflitto sociale hanno risentito delle specializzazioni accademiche, inducendo un gruppo di studiosi ad occuparsi della guerra e della diplomazia, un altro gruppo a studiare le rivoluzioni e le ribellioni, un altro ancora a interessarsi della criminalità o dei conflitti etnici, ciascuno prestando scarsa o nessuna attenzione agli altri ambiti di studio. Noi dovremmo invece evitare di considerare i conflitti tra Stato e Stato, tra Stato e non-Stato, e tra non-Stato e non-Stato come fenomeni che non hanno niente in comune l'uno con l'altro.
In genere, però, la tassonomia individua distinzioni importanti.
Consideriamo i conflitti Stato contro Stato. Nel mondo contemporaneo, in cui gli Stati sono gli organismi dominanti e formano un sistema internazionale relativamente compatto, i conflitti tra Stati hanno di solito un impatto molto più esteso rispetto ad altri conflitti: anche una disputa d'importanza relativamente minore tra due Stati provoca il rapido intervento di terzi che hanno qualcosa da guadagnare o da perdere dall'esito del conflitto. I conflitti che coinvolgono gli Stati (tanto del tipo Stato contro Stato, quanto del tipo Stato contro non-Stato) producono violenza più spesso dei conflitti tra soggetti che non sono Stati, e ciò perché gli Stati hanno a loro disposizione mezzi incomparabilmente più potenti per l'esercizio della violenza. (Questo aspetto sfugge di solito all'attenzione perché gli studiosi, classificando gli episodi di violenza, non prendono in considerazione la guerra e la repressione interna). I conflitti tra Stati, combattuti attraverso l'impiego dei rispettivi eserciti, producono inoltre violenza su una scala molto più vasta di quanto non facciano altri tipi di conflitto, sebbene le guerre civili, che somigliano per molti versi ai conflitti tra Stati e talvolta non ne sono facilmente distinguibili, li superino occasionalmente quanto a violenza.I conflitti tra Stati e non-Stati caratterizzano l'intera storia del processo di formazione delle entità statali; coloro che erano a capo d'uno Stato hanno cercato di battere i propri nemici interni, di controllare le popolazioni loro soggette e di estorcerne i mezzi necessari a condurre una guerra; mentre gruppi operanti all'interno dei confini nazionali hanno tentato di sottrarsi alle richieste dello Stato, di influenzare a proprio vantaggio l'azione di questo, e talvolta di impadronirsi almeno in parte del potere. Poiché le classi dirigenti si servono generalmente dell'apparato statale - per esempio, della polizia - per proteggere i propri interessi particolari e per sferrare attacchi contro gli avversari, molte apparenti forme di lotta tra Stato e non-Stato sono nate in realtà da conflitti tra attori che non erano Stati.
Paragonati ai conflitti che rientrano nelle prime due categorie, quelli tra attori diversi dallo Stato coinvolgono con maggior frequenza alte percentuali di tutta quella parte della popolazione i cui interessi sono messi in gioco dall'esito del conflitto, principalmente perché il controllo sui mezzi coercitivi esercitato dallo Stato scoraggia molti dall'entrare in conflitti nei quali lo Stato rappresenta una delle parti in causa. All'interno della categoria dei conflitti non-Stato contro non-Stato, il conflitto di classe fornisce un impulso sostanziale al cambiamento sociale, soprattutto quando si attua su scala regionale o nazionale, dato che la posta in gioco concerne direttamente l'organizzazione della produzione, che a sua volta fornisce la base per altre forme di organizzazione sociale. La forma assunta dal conflitto di classe varia radicalmente a seconda del modo di produzione: basti pensare all'opposizione dei contadini contro i proprietari terrieri tipica del feudalesimo classico, alla lotta tra proletari e capitalisti dominante nel capitalismo industriale, alle battaglie tra lavoratori e burocrati di partito proprie del socialismo di Stato. L'aspetto davvero sorprendente è che il conflitto aperto non mandi in frantumi questi sistemi; ciò non avviene poiché le classi dominanti fanno ricorso alla repressione, poiché dei terzi (e tra questi lo Stato stesso) intervengono per mitigare i conflitti, poiché le classi subordinate ricevono delle contropartite economiche, poiché la formazione di una classe è un processo difficile e imprevedibile, e poiché la mobilitazione e l'azione collettiva presentano dei rischi e distolgono risorse da altre attività che non possono essere eluse.
Per ragioni analoghe, la stragrande maggioranza dei potenziali conflitti tra gruppi religiosi, etnici, razziali o comunque con una connotazione culturale, non promuove mai l'esplicita formulazione di pretese di segno negativo. I conflitti diventano acuti e tendono a generalizzarsi solo quando viene messo in discussione il controllo della produzione o dell'apparato statale, e quando gli attivisti interni ai vari gruppi (spesso si tratta dei capi di questi gruppi che giudicano pericolosa la propria situazione personale) articolano i loro problemi in termini di oppressione o di competizione sleale (v. Gellner 1983; v. Olzak e Nagel, 1986).
Attraverso quali processi, e con quali conseguenze, i conflitti iniziano, si sviluppano, declinano e cessano? Per molti anni, le risposte più diffuse a tali questioni riguardanti la dinamica del conflitto sono venute dalla metateoria della tensione sociale; esse possono essere riunite in due gruppi principali: a) storie 'naturali': viene postulata l'esistenza di sequenze ricorrenti di eventi per rivoluzioni, movimenti sociali e altri tipi di conflitto che si sviluppano da determinate tensioni strutturali (cfr., per es., Smelser, 1963); b) modelli socio-psicologici del tipo frustrazioneaggressione o privazione relativa, i quali concepiscono tipicamente il conflitto come la liberazione di emozioni generate dall'esperienza sociale, soprattutto dalla comparsa di discrepanze significative tra le aspettative delle persone e le realtà che queste si trovano ad affrontare (v., per es., Gurr, 1970). Nessuna di queste due linee interpretative si è finora dimostrata veramente efficace nella spiegazione delle variazioni del carattere, dell'incidenza e della dinamica del conflitto sociale (per un esauriente esame, v. Gurr, 1980; v. Zimmerman, 1983).
Il corpo di teorie più coerente, in merito al conflitto sociale, è quello basato sull'idea della lotta tra gruppi, e prende la forma dell'analisi strategica. Quest'ultima, come viene correntemente impostata, non presta una grande attenzione alle cause del conflitto o a coloro che vi prendono parte, ma si occupa a fondo della sua dinamica. Anzi, l'analisi strategica assume le cause e i partecipanti come dati, al fine di comprendere appieno la dinamica del conflitto. Gran parte di quest'analisi si rifà alle argomentazioni contenute ne Il principe di Niccolò Machiavelli, passando per Jeremy Bentham, gli utilitaristi inglesi e l'analisi microeconomica contemporanea. Assumendo gli interessi di partenza e i mezzi utilizzati dai soggetti del conflitto come dati, l'analisi strategica si concentra sulla genesi di rivendicazioni di segno negativo, intesa come un'interazione razionale in cui ciascuna delle parti tenta di ottenere vantaggi e di evitare svantaggi.L'analisi strategica del conflitto sociale si propone principalmente tre obiettivi piuttosto diversi fra loro:
1) identificare la serie di relazioni sociali e di regole decisionali che meglio caratterizzano il modo in cui si verifica effettivamente un determinato conflitto o una classe di conflitti (stabilendo, per esempio, fino a che punto un modello adeguato della guerra tra Iran e Iraq debba prendere in considerazione altri soggetti);
2) desumere i risultati di differenti strategie di conflitto (valutando, per esempio, gli effetti delle diverse vie al disarmo);
3) individuare quale sia il modo migliore per assicurare al conflitto un determinato sbocco (esaminando per esempio i modi per far sì che gli scontri tra polizia e dimostranti non finiscano in un bagno di sangue).
In tutti e tre i casi, gli studiosi attingono spesso a quella branca della teoria delle decisioni denominata teoria dei giochi: si tratta dell'analisi matematica delle decisioni in situazioni il cui esito dipende parzialmente dalle scelte compiute da altri attori, in cui ogni attore è consapevole di tutti i possibili risultati e possiede una precisa scala di preferenze verso di essi, e in cui tutti gli attori cercano di procurarsi il massimo vantaggio possibile.
Gli esempi più rilevanti provengono dallo studio delle relazioni internazionali, nel quale gli analisti strategici trattano abitualmente i confronti diplomatici e militari come giochi sofisticati i cui possibili esiti sono combinazioni variabili di vittoria, sconfitta e danno per i diversi partecipanti. Ad esempio, sulla base della teoria dei giochi, il cambiamento intercorso nelle relazioni cino-americane, dalla guerra del 1950 fino al consistente grado di riavvicinamento raggiunto negli anni settanta, viene interpretato come la formazione di una alleanza risultante dal declino relativo della potenza militare americana rispetto a quella sovietica, e dall'ascesa relativa della potenza militare cinese rispetto a quella americana (v. Luterbacher e Ward, 1985, p. 248). Nonostante si possa pervenire a conclusioni analoghe anche senza il ricorso alla teoria formale dei giochi, la formalizzazione consente di contrapporre tali argomentazioni a spiegazioni alternative e ugualmente plausibili.
Gli studi di Robert Axelrod sul 'dilemma del prigioniero' mostrano come delle semplici specificazioni della teoria dei giochi producano risultati illuminanti. Nella sua forma elementare, il dilemma caratterizza un'interazione in cui l'azione egoistica di entrambe le parti conduce a risultati indesiderabili per ciascuna delle due, mentre una combinazione di atti egoistici e di atti improntati alla cooperazione, da parte dei due partecipanti, conduce a un risultato ancora più positivo per la parte egoista e a un risultato negativo per quella cooperante. Molte situazioni della vita reale somigliano al dilemma del prigioniero: si pensi all'inquinamento ambientale, alla corsa agli armamenti, alla contrattazione delle leggi, e addirittura agli incontri che si verificano in natura tra organismi aventi la possibilità, ma non la certezza, della simbiosi. Nel corso di una singola interazione, entrambe le parti hanno forti motivi per evitare la cooperazione e perseguire il proprio interesse individuale senza tenere in alcun conto quello dell'altra.
La situazione cambia, tuttavia, se le parti entrano spesso in interazione. Nel corso di ripetuti incontri, anche i soggetti mossi esclusivamente da intenti egoistici tendono a trarre vantaggio da strategie che combinano una fase iniziale di cooperazione e una netta differenziazione tra le risposte, a seconda che la controparte cooperi a sua volta oppure continui ad agire esclusivamente per il proprio interesse individuale. La strategia del rispondere 'colpo su colpo' - io inizio col cooperare, al nostro primo incontro, e poi mi adeguo completamente all'atteggiamento col quale tu rispondi - tende ad avere la meglio su ogni strategia improntata a maggiore egoismo.
Il vantaggio offerto da una strategia di iniziale cooperazione, inoltre, aumenta:
a) con la probabilità di ulteriori incontri;
b) con la chiarezza della discriminazione tra le varie risposte;
c) con la certezza sull'identità della controparte, sulle sue azioni e sulle loro conseguenze.
Anche in mezzo a una popolazione d'incorreggibili egoisti, un gruppo di giocatori che utilizzi la strategia del 'colpo su colpo' tende a vincere. In questo modo l'analisi dimostra, tra le altre cose, i vantaggi derivanti dal coalizzarsi.Sotto questo aspetto, i risultati di Axelrod richiamano l'analisi condotta da Mancur Olson in The rise and decline of nations circa la probabilità che gruppi di ridotte dimensioni, nonché gruppi aventi accesso a incentivi selezionati formino delle coalizioni nella distribuzione delle risorse. Datori di lavoro nell'industria, sindacati di categoria e associazioni di produttori ne costituiscono degli esempi. Tali gruppi, in base allo schema di Olson, ottengono un vantaggio utilizzando la loro struttura organizzativa al fine di influenzare la produzione e la distribuzione dei beni. Nel lungo termine tale influenza conduce alla sclerosi, o almeno a una significativa deviazione dalla classica razionalità del mercato. Si determina così quel ciclo che segue ogni grande lotta a carattere nazionale: dapprima un'espansione relativamente libera durante la quale coloro che hanno la capacità di formare coalizioni iniziano a farlo, e poi una contrazione come risultato del comportamento di tali coalizioni.
Esistono due modi, secondo Olson, per sfuggire a questa dinamica: o annientare di tanto in tanto le coalizioni, oppure promuovere la formazione di coalizioni globali, i cui particolari vantaggi soddisfino anche l'interesse generale.
Negli schemi di Axelrod e di Olson la certezza e la continuità delle relazioni sociali facilitano la formazione di coalizioni stabili, funzionali al mutuo interesse delle parti che continuano a perseguire i propri scopi particolari, e di coalizioni globali, funzionali all'interesse generale.I risultati teorici e sperimentali raggiunti da Axelrod presentano strette analogie con la contrattazione delle leggi, con le alleanze militari e diplomatiche, e con la collusione tra imprese industriali. Tali analogie, a loro volta, suggeriscono la possibilità di generalizzare i fondamenti della teoria dei giochi al livello dei processi strutturali su larga scala. Questo è, in effetti, il progetto formulato da John Elster e perseguito (in una direzione però alquanto diversa da quella intrapresa dallo stesso Elster) da Andrew Schotter.
L'analisi strategica, ovviamente, si applica tanto al conflitto interno quanto a quello internazionale. James De Nardo (v., 1985), per esempio, ha creato un modello generale, essenzialmente microeconomico, che riproduce i criteri ai quali i dissidenti decidono di ispirarsi nella loro azione contro un determinato regime; mentre Barbara Salert e John Sprague (v., 1980) hanno sviluppato dei modelli che riproducono la dinamica interna delle interazioni violente tra dimostranti e polizia. A livello di micromobilitazione, Mark Granovetter, Clark McPhail, John Lofland e altri ricercatori hanno approntato utili modelli di quei processi di comunicazione che trasformano un aggregato passivo in un gruppo pronto all'azione, di quei processi, cioè, di mobilitazione finalizzata a un'azione collettiva.Il gruppo di ricercatori guidato da William Gamson, per esempio, ha condotto una serie di esperimenti sulla resistenza opposta ad autorità ingiuste. L'esperimento centrale consisteva nel mettere a confronto i soggetti prescelti con un presunto ricercatore, il quale infrangeva sistematicamente e progressivamente l'accordo stabilito in precedenza col gruppo, tentando di influenzare le loro dichiarazioni.
Secondo l'analisi di Gamson, una forma di aperta resistenza a tale violazione, quando si verificava, scaturiva dalla combinazione di tre tipi di azioni: quelle di tipo organizzativo aumentavano le capacità collettive del gruppo; quelle di tipo privativo neutralizzavano i vincoli nei confronti dell'autorità; quelle di tipo ricostitutivo creavano un nuovo contesto per l'interpretazione dei comportamenti dell'autorità; in questo nuovo contesto l'autorità era considerata ingiusta. Secondo tale modello, pertanto, una ribellione vittoriosa contro un'autorità ingiusta risulta da una sequenza di atti organizzativi, privativi e ricostitutivi (v. Gamson e altri, 1982).
Mark Granovetter si è accostato alla dinamica della micromobilitazione da un'altra angolazione. I suoi "modelli-soglia del comportamento collettivo" postulano una distribuzione di attori ciascuno dei quali fa i propri calcoli in termini di costi e benefici derivanti dalla sua partecipazione a una determinata azione, calcoli che dipendono in misura assai rilevante dal numero di attori già coinvolti nell'azione o che promettono di parteciparvi. L'attivazione dell'intero gruppo, se si verifica, dipende dal raggiungimento da parte dei diversi attori delle rispettive soglie - per esempio, il 20%, il 40%, il 90% dei membri del gruppo - via via che altri soggetti si uniscono all'azione. In questi modelli, due gruppi con identiche propensioni medie ad agire (per esempio due gruppi in cui il membro-tipo è pronto a unirsi all'azione quando il 40% dei membri è già coinvolto in essa) possono differenziarsi in maniera significativa, a seconda della distribuzione delle soglie individuali, nella loro propensione collettiva all'azione. I modelli di Granovetter prestano grande attenzione alla raccolta di informazioni circa l'impegno di altre persone che di solito precede un'azione rischiosa: la disponibilità allo scontro fisico, l'esame delle varie tattiche, il ricordo dei precedenti scontri, gli appelli alla solidarietà, le stipulazioni di accordi tra coppie di partecipanti e così via.Malgrado questo promettente indirizzo di ricerca e d'indagine teorica, le analisi strategiche dei conflitti interni a un determinato paese non hanno goduto di quella popolarità raggiunta invece dalle analisi strategiche dei conflitti internazionali.
Ciò è avvenuto soprattutto per due ragioni:
1) gli studiosi di conflitti internazionali pensano abitualmente in termini strategici, mentre coloro che si occupano di conflitti interni pensano di solito in termini di eziologia;
2) è più facile applicare modelli decisionali unitari agli Stati che non alla maggior parte dei partecipanti a conflitti interni.
In realtà l'uso dell'analisi strategica come metodo generale per spiegare il conflitto sociale presenta ancora alcuni gravi limiti. In primo luogo, allo stato presente delle conoscenze, i modelli strategici risultano efficaci solo in presenza di presupposti molto restrittivi: numero e identità fissi degli attori, interessi e scelte noti agli attori e specificati a priori, e così via; in molti conflitti, invece, questi aspetti cambiano nel corso della lotta. Al limite (come sostengono, sebbene con modalità alquanto diverse, E. P. Thompson, Alain Touraine e Francesco Alberoni), il conflitto produce realmente nuove identità, nuovi interessi e nuove scelte. In secondo luogo, alcuni dei processi cruciali nell'ambito del conflitto - per esempio quelli con cui Stati in guerra fra loro ricostituiscono le proprie risorse e rinfocolano l'impegno dei propri cittadini - non sono strategici in alcun senso pregnante del termine; essi richiedono piuttosto, per essere descritti, dei modelli di accumulazione, di comunicazione e di controllo. In terzo luogo, se si vuole affrontare seriamente il problema di spiegare non solo la dinamica del conflitto ma anche le caratteristiche dei suoi partecipanti e le sue origini sociali, allora è necessario analizzare il sorgere e il trasformarsi degli attori, degli interessi, delle scelte, delle informazioni e delle diverse forme di conflitto; ma l'analisi strategica offre un aiuto alquanto modesto in tale direzione.
Il conflitto sociale può assumere molte forme, che variano in funzione della struttura sociale e del precedente evolversi del conflitto tra determinati attori. Prendiamo il caso del conflitto industriale: gli scioperi, nel senso di astensioni concertate dei lavoratori dalla produzione, associate a richieste di cambiamenti nelle condizioni della produzione stessa, si verificano soprattutto quando il lavoro viene eseguito da proletari, il capitale è concentrato in poche mani e gli operai lavorano in stretto contatto. Ma le forme particolari di sciopero, come ha mostrato Michelle Perrot (v., 1974) a proposito della Francia del XIX secolo, si sviluppano dalle lotte tra lavoratori, capitalisti e agenti dello Stato; il risultato è che col tempo ciascun paese accumula, attorno al fenomeno dello sciopero, un proprio patrimonio di leggi speciali, prassi poliziesche, burocrazie, comportamenti dei lavoratori, tecniche di associazione e strategie padronali. Tale patrimonio determina poi in larga misura l'incidenza, la distribuzione, la frequenza, il carattere e l'esito degli scioperi.
Ciò che vale per gli scioperi si può estendere generalmente a tutte le forme di conflitto. In confronto alla molteplicità di attività conflittuali possibili almeno in teoria, una qualsiasi coppia di attori che s'impegna in un conflitto prolungato tende ad attuare una serie estremamente limitata di comportamenti, adottando sempre gli stessi per più volte, con variazioni di secondaria importanza. All'interno degli Stati capitalisti contemporanei, i conflitti organizzati tra padroni e operai assumono la forma di scioperi, serrate, consigli di fabbrica, dimostrazioni, richieste d'intervento statale, sabotaggi ecc.
Nei paesi europei del XVIII secolo, d'altra parte, padroni e operai si affrontavano ricorrendo ad azioni umilianti (come il far sfilare un crumiro in groppa a un asino) e a ciò che gli inglesi chiamavano turn-out. Il turn-out consisteva in una serie di iniziative: i lavoratori (insoddisfatti) di una determinata città si riunivano in un luogo protetto, quindi marciavano da un'officina all'altra sollecitando altri lavoratori a unirsi a loro, poi indicevano una nuova assemblea di lavoratori, nel cui ambito formulavano collettivamente le proprie rivendicazioni, infine inviavano delegazioni presso i padroni e le autorità locali. A tutto ciò facevano seguito controassemblee padronali (e talvolta delle autorità locali), negoziati (durante i quali il lavoro restava interrotto) e accordi conclusivi, sia al più ampio livello della comunità che a quello più ristretto della singola officina. Il fatto che il turn-out non abbia seguito in tutti i casi questa esatta sequenza - il fatto che, per esempio, singoli padroni abbiano talvolta cacciato i propri operai dalla fabbrica, rifiutandosi poi di riassumerli - conferma che non si trattava di un vuoto rituale, ma di un vero e proprio mezzo con cui gli antagonisti risolvevano i propri conflitti.
Nei paesi occidentali, a partire dalla seconda guerra mondiale, è diventata abbastanza comune una forma di conflitto fino a quel momento piuttosto rara: un gruppo s'impadronisce di un luogo, di una persona o di un oggetto importanti per il loro valore simbolico, tenendoli in ostaggio nel corso delle trattative con un altro gruppo. Rientrano in questo schema i dirottamenti aerei, le occupazioni delle fabbriche e i sit-in negli uffici o nelle pubbliche piazze. La cattura di ostaggi in guerra ha dietro di sé una lunga storia, e le dimostrazioni per più di un secolo hanno gravitato intorno ai più importanti luoghi pubblici, ma come tattica premeditata questa dinamica sequestro-trattativa rappresenta un orientamento del tutto nuovo. Essa coincide in parte con le tattiche adottate in quell'ambito eterogeneo di conflitti che le autorità indicano con il nome di terrorismo.
Attacchi proditori alle autorità condotti da gruppi al di fuori della legalità si sono verificati per millenni. In questo senso generico il terrorismo non rappresenta nulla di nuovo. Le novità del recente terrorismo, come segnala Donatella Della Porta (v., 1984, p. 14), risiedono piuttosto nella scelta ricorrente di bersagli di rilevanza più simbolica che reale, nella ricerca dell'effetto psicologico, nell'adeguare il messaggio al bersaglio e nel dirigere molti attacchi contro persone che non hanno il potere di soddisfare le richieste dei terroristi. Queste tattiche, quando hanno successo, riescono a raggiungere più scopi nello stesso tempo: confermano l'esistenza del gruppo di attivisti, ne pubblicizzano le richieste, dimostrano la vulnerabilità delle autorità. Ma gradualmente anche queste forme di conflitto si cristallizzano in stereotipi chiaramente individuabili.
Una delle parole con cui si indica l'insieme dei mezzi usati in un conflitto da una qualsiasi coppia (o gruppo più ampio) di attori è 'repertorio'. La metafora teatrale suggerisce che si tratta di un numero limitato di procedure relativamente differenziate e implicanti interazione tra alleati e nemici, che sono messe in atto dai partecipanti in base a norme negoziate, sono più o meno note a tutti i partecipanti, variano di volta in volta e tendono ad essere manipolate dagli attori a proprio esclusivo vantaggio. Naturalmente nelle forme del conflitto si verifica anche una certa innovazione, che però modifica solo marginalmente le forme che hanno già una posizione consolidata nel repertorio. All'interno dei repertori del conflitto sono estremamente rari i momenti di dirompente creatività, come il luglio del 1789 o il maggio del 1968. Gli attivisti politici inglesi del XIX secolo, per esempio, crearono gradualmente la forma della dimostrazione attraverso una serie di variazioni rispetto alle forme del comizio pubblico, della marcia di petizione e della delegazione, ciascuna delle quali aveva una certa importanza nei repertori inglesi della fine del XVIII secolo. Già prima del 1840 la dimostrazione di massa era ormai divenuta una tattica usuale dei gruppi in lotta per strappare concessioni alle autorità.
I vantaggi di queste modifiche marginali dei repertori esistenti sono ovvi: coloro che mettono in pratica nuove forme di conflitto hanno relativamente poco da imparare e, nella misura in cui il repertorio ha raggiunto una legittimazione de facto o persino de jure, gli avversari incontrano maggiori difficoltà nell'invocare sanzioni legali e morali contro quelle innovazioni che sembrano cadere entro tale ambito. C'è però anche lo svantaggio che per ostacolare l'innovazione gli avversari possono ricorrere a mezzi analoghi a quelli già utilizzati per neutralizzare le forme precedenti. Nel conflitto, pertanto, gli innovatori devono costantemente soppesare i pregi della familiarità e della legalità di contro agli innegabili vantaggi connessi al fattore sorpresa.
I repertori del conflitto variano secondo la struttura e la storia delle relazioni sociali nel cui contesto essi sono situati. Questo è uno dei motivi che sta alla base delle differenze sussistenti tra i conflitti Stato/Stato, Stato/non-Stato e non-Stato/non-Stato: nella loro interazione, gli Stati creano una serie di modelli conflittuali standard, gli Stati e i loro oppositori interni ne elaborano altri, gli avversari al di fuori dello Stato altri ancora. Dopo il 1500 gli Europei hanno imposto al mondo intero il proprio tipo di sistema statale e quindi i loro apparati di ambasciate, delegazioni, conferenze internazionali, trattati, eserciti permanenti e formali dichiarazioni di guerra, che a loro volta hanno determinato quel repertorio stilizzato di relazioni interstatali tipico dell'epoca contemporanea. Sebbene l'organizzazione interna degli Stati, l'appartenenza al sistema internazionale degli Stati, le potenze dominanti e gli interessi da queste perseguiti abbiano subito enormi cambiamenti nel corso dell'ultimo secolo, la sopravvivenza di un tale apparato militare-diplomatico ha mantenuto una certa continuità nelle forme del conflitto fra Stati, le quali comprendono ancora lo spionaggio e la stipulazione di alleanze offensive, come pure le minacce, le ostentazioni di potenza e l'uso della forza militare ed economica. Analoghi elementi di continuità si riscontrano anche nelle lotte tra Stato e non-Stato e in quelle tra non-Stato e non-Stato.
Prendiamo il caso dei movimenti sociali, ovvero il caso di una prolungata sfida alle autorità condotta a favore di un gruppo privo di quei vantaggi di cui godono invece molti altri gruppi. Tra il 1780 e il 1880 si formò, nella maggior parte dei paesi occidentali, l'apparato dei movimenti sociali, quale lo conosciamo oggi. Esso comprende associazioni apposite, riunioni pubbliche, enunciazione di programmi, dichiarazioni, slogan, marce, petizioni e portavoce riconosciuti da entrambe le parti. Sul versante delle autorità, tale apparato include anche procedure standard di polizia, spionaggio, contenimento, ascolto delle rivendicazioni e negoziazione. Proprio come le dimostrazioni danno spesso luogo a controdimostrazioni, i movimenti sociali generano frequentemente dei contromovimenti in rappresentanza di parti i cui interessi sono da quelli minacciati.
Gli studiosi dei movimenti sociali hanno mostrato l'infelice tendenza a trattare questi movimenti come se fossero gruppi, mentre si tratta, in realtà, di prolungate interazioni tra sfidanti e autorità. Soltanto di rado capita che sia un singolo gruppo, compatto, a portare avanti la sfida. Accade molto più spesso, invece, che gli organizzatori di un movimento impieghino gran parte delle proprie energie nel mettere insieme delle coalizioni, nell'inventare per tali coalizioni nomi 'da gruppi', nel sopprimere i rivali o gli alleati scomodi, e nel disciplinare i partecipanti per mantenere almeno l'illusione di un fronte unito. L'intero apparato presenta una notevole somiglianza con quello approntato in occasione delle campagne elettorali, e non a caso: i movimenti sociali ebbero un vigoroso sviluppo tanto da assurgere a forme standard di conflitto nel momento in cui l'allargamento del suffragio dette rilevanza politica a chiunque potesse fornire pubblicamente la prova che un gran numero di individui sosteneva una determinata persona, o rivendicazione, o programma politico. A partire dal XIX secolo, i movimenti sociali hanno occupato un posto importante nei repertori del conflitto diffusi nella maggior parte dei paesi occidentali.
Quali condizioni sociali promuovono e quali ostacolano il formarsi di pretese di segno negativo? Come e perché i gruppi che avanzano tali pretese si formano e si mobilitano? Questi sono gli interrogativi concernenti le origini e i protagonisti del conflitto sociale. Gli studiosi di scienze sociali non sono affatto unanimi circa le risposte da dare a tali interrogativi, anzi i tradizionali indirizzi della tensione sociale e della lotta tra gruppi divergono proprio su questi punti. Per i teorici appartenenti al primo indirizzo, un cambiamento sociale rapido e ineguale promuove il conflitto, e i gruppi sradicati dal cambiamento sociale vi partecipano in misura più intensa. (Un'altra versione della teoria della tensione sociale è imperniata sulle discrepanze tra aspettative e traguardi raggiunti; si tratta di una versione più statica della precedente, ma la logica di fondo rimane la stessa). Viceversa, per i teorici appartenenti all'indirizzo della lotta tra gruppi, il conflitto si sviluppa dall'intersezione di solidarietà e interessi contraddittori: oltre un certo livello-soglia di solidarietà e interesse, tutte le condizioni sociali che causano il sorgere della solidarietà entro gruppi di interesse o la crescita delle contraddizioni tra interessi promuovono il conflitto aperto. Le nozioni di 'cambiamento sociale rapido e ineguale' e di 'interesse contraddittorio' sono troppo vaste, imprecise e controverse per consentire confronti incisivi ed empirici tra le due prospettive.
La maggior parte dei dati sistematici accumulati finora induce a dubitare seriamente delle formulazioni proprie della metateoria della tensione sociale, favorendo piuttosto l'una o l'altra variante degli argomenti addotti dalla metateoria della lotta tra gruppi (per una rassegna critica, v. Zimmerman, 1983). I risultati empirici riguardanti individui, gruppi e nazioni non riescono in molte occasioni a mostrare relazioni attendibili tra il carattere o l'intensità del conflitto, da un lato, e, dall'altro, il ritmo di differenti tipi di cambiamento sociale, il livello di frustrazione, il grado di variazione delle aspettative, la prevalenza di una patologia sociale, o le altre variabili introdotte dalle argomentazioni della metateoria della tensione sociale.
Nessuno potrebbe affermare, tuttavia, che gli studiosi di scienze sociali abbiano provato la validità delle teorie della lotta tra gruppi, se non altro perché, sotto questa bandiera, viaggiano molte idee scientificamente inconsistenti. Ma alcune risultanze ricorrenti puntano in questa direzione: il continuo ripresentarsi di gruppi sociali relativamente coerenti in situazioni di conflitto prolungato, la persistente importanza che riveste la posizione di potere come fattore di previsione del coinvolgimento di un individuo o di un gruppo nel conflitto, la standardizzazione delle forme di conflitto all'interno di determinati gruppi, la larga presenza di agenti statali nei conflitti condotti su scala più vasta, e conclusioni analoghe cui è pervenuta la ricerca sistematica. Le prove favorevoli alle teorie della lotta tra gruppi consistono specialmente in un plausibile accordo tra diversi modelli di conflitto da un lato e ragionevoli attribuzioni di interessi, organizzazione, alleanze, risorse e potere ai relativi attori, dall'altro (v. De Nardo, 1985; v. Goldstone, 1982; v. Gurr, 1980 e 1986; v. Jenkins, 1983; v. Luterbacher e Ward, 1985; v. Oberschall, 1978; v. Roy, 1984; v. Schellenberg, 1982; v. Singer, 1980; v. Tilly, 1978; v. Zimmerman, 1983).In caso, per esempio, di significativi e permanenti squilibri di potere tra le parti di un conflitto, alcune risposte sono abbastanza scontate: nei conflitti in cui sono coinvolte due parti, se una di esse è molto più debole dell'altra è tipica la scelta di astenersi del tutto dall'azione, oppure il ricorso a quelle che James Scott (v., 1985) definisce le "armi del debole": sabotaggio, incendio doloso, fuga, acquiescenza apparente, resistenza passiva e così via; nei conflitti che coinvolgono tre o più attori, è caratteristico delle parti più deboli allearsi contro quella più forte. Quando gli antagonisti hanno una potenza approssimativamente uguale, diviene più probabile un conflitto aperto e prolungato (v. Korpi, 1974).
Le regole cambiano quando si verifica un rapido trasferimento di potere: gruppi ben organizzati (come gli artigiani minacciati dalla meccanizzazione) che si trovano a fronteggiare improvvise minacce rivolte contro i loro interessi passano spesso all'azione, malgrado alte probabilità di insuccesso; mentre gruppi relativamente deboli (come i contadini in rivolta) spesso si fanno avanti nel momento in cui l'autorità dei loro principali antagonisti riceve un duro colpo (come quando uno Stato perde una guerra o si dimostra incapace di sedare delle ribellioni scoppiate altrove). Se le azioni di una delle parti violano i diritti consolidati o colpiscono direttamente le basi dell'identità della seconda parte (come la lingua, la religione, o una proprietà cruciale per il suo valore simbolico), la parte lesa di solito contrattacca anche se le possibilità di riuscita non sono incoraggianti (v. Moore, 1979). Queste e altre regolarità offrono un sostegno alla teoria che considera il conflitto sociale basato sulla lotta tra gruppi, e pongono serie limitazioni alla possibile validità delle concezioni della tensione sociale, del carattere intrinseco e delle relazioni tra gruppi.
Le varie tendenze del conflitto differiscono ampiamente a seconda del contesto e del tipo di conflitto. Dal punto di vista della guerra aperta, il XX secolo è stato il più sanguinoso di tutta la storia umana. Dal 1480 al 1800 le guerre internazionali sono scoppiate a una media di circa quaranta per secolo, dal 1800 al 1944 a una media di circa settantacinque per secolo, dal 1944 in poi a una media di circa novanta per secolo (v. Beer, 1974, pp. 12-15; v. Small e Singer, 1982, pp. 59-60). Mettendo insieme le grandi guerre internazionali e quelle civili (la distinzione non è sempre facile), il XVIII secolo ha visto sessantotto guerre con quattro milioni di morti in combattimento, e il XIX secolo duecentocinque guerre con otto milioni di morti; alla media tenuta fino al 1985, il XX secolo giungerà a circa duecentosettantacinque guerre e a centoquindici milioni di morti in battaglia (v. Sivard, 1986, p. 26). Queste cifre sconvolgenti, per di più, non tengono conto dei morti provocati dalla guerra tra la popolazione civile.
Durante questo periodo, sorprendentemente, le guerre combattute tra le grandi potenze sono diventate più brevi, meno frequenti e di minore portata quanto al numero dei belligeranti. In radicale antitesi con l'Europa dei secoli XVI e XVII, le popolazioni civili delle maggiori potenze sempre più di rado debbono sopportare i saccheggi condotti dalle truppe combattenti - tanto quelle nemiche che quelle del proprio paese. La prima e la seconda guerra mondiale devastarono importanti regioni dell'Europa e dell'Asia, ma esse differirono da una guerra come quella dei Trent'anni per la loro brevità e intensità. Le guerre tra grandi potenze sono diventate sempre più distruttive; in caso di guerra, la gioventù delle maggiori potenze si trova sempre più a rischio di morte (v. Levy, 1983, pp. 116-149). Da quando il sistema degli Stati europei si è esteso fino a includere il mondo intero, gli Stati di minore importanza sono scesi in guerra l'uno contro l'altro più spesso e con effetti più letali, mentre le guerre, sempre meno frequenti, tra le grandi potenze sono diventate apocalittiche.Nel mondo occidentale, almeno, la percentuale di morti dovute ad atti di violenza 'privata' è scesa in modo sensazionale nel corso dello stesso periodo (v. Chesnais, 1981; v. Gurr, 1981; v. Hair, 1971; v. Stone, 1983). Nell'Inghilterra del XII secolo, per esempio, la media degli omicidi era all'incirca dieci volte maggiore rispetto a quella odierna, e forse due volte maggiore rispetto alla media dei secoli XVI e XVII. Tendenze analoghe si manifestano in tutti gli altri Stati occidentali per i quali si dispone di dati sufficienti. Se non fosse per la guerra, la repressione statale, il suicidio e gli incidenti automobilistici, il rischio di morte violenta sarebbe incomparabilmente più basso, nei paesi occidentali, di quanto non lo fosse tre o quattro secoli fa. Mentre la sfera statale è diventata sempre più violenta, quella della vita civile si è fatta relativamente pacifica.
Questi cambiamenti rispecchiano, tra le altre cose, la tendenza degli Stati nazionali a ottenere il controllo e il monopolio degli strumenti per l'esercizio della forza. Quando in Europa cominciò a prender forma il sistema degli Stati, molte persone portavano con sé armi letali, abbondavano gli eserciti privati, i banditi prosperavano, e molti antagonisti regolavano le proprie controversie con la forza delle armi. Gradualmente, coloro che erano alla guida degli Stati sciolsero o cooptarono le bande armate private, soppressero il duello e altri tipi di combattimento tra privati cittadini, affidarono ai propri tribunali la soluzione delle controversie e disarmarono la popolazione civile. Il risultato fu che la vita sociale divenne meno violenta e sempre più netto il contrasto tra il potere armato dello Stato e la condizione inerme dei suoi cittadini.
Stabilire se il conflitto non violento abbia subito un certo declino, nel corso del medesimo processo, dipende dal modo in cui noi definiamo la sua intensità e valutiamo le sue molte, differenti forme; negli Stati Uniti, per esempio, le vertenze civili si sono moltiplicate, mentre il ricorso alla vigilanza privata è andato diminuendo (v. Friedman, 1985). In ogni caso, nessuno studioso ha raccolto in proposito i dati necessari, anche solo per un singolo paese. Una supposizione ragionevole è che il conflitto, considerato nel suo insieme, non è diminuito, ma piuttosto ha cambiato forma e - se si esclude la sfera statale - ha perso gran parte della sua violenza. Nello stesso tempo, gli Stati sono diventati sempre più violenti.
(V. anche Classe, coscienza di; Classi e stratificazione sociale; Comportamenti collettivi).
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