Conflitto sociale
L’argomento del conflitto sociale venne affrontato in termini di ‘italianità’ da un orientamento, una ‘scuola’, poi dimenticata, ma che ebbe a metà dell’Ottocento un certo seguito e un notevole prestigio, la scuola italiana, che proponeva di risolvere i problemi con la via di mezzo, con l’arte del compromesso e del buon senso, facendosi così interprete del carattere nazionale.
La scuola italiana, guidata da Pellegrino Rossi, ministro del papa, economista e giurista, ebbe in quegli anni una notevole diffusione. Ne furono esponenti persino due economisti di rilievo come Melchiorre Gioia e Giandomenico Romagnosi. Alla sua base vi era anche il richiamo a una tradizione nazionale di studi settecenteschi che aveva dato grande prova di sé e nobilitava con ciò tutti gli apporti successivi. In essa il conflitto sociale era attutito dal concetto di comunità e dai limiti posti all’individualismo, secondo una tradizione assai consolidata nel nostro Paese.
Nella cultura economica italiana di metà Ottocento i codici disciplinari non erano ancora ben definiti e ciò consentiva di intendere la scienza economica come un’arte utile per i governanti al fine di amministrare lo Stato attraverso un insieme di consigli affidati al principe per sciogliere nodi e risolvere problemi. Che tra questi compiti vi fosse anche quello di attutire i conflitti sociali era un fatto ben consolidato e considerato prioritario. Si sperava anzi che l’ambiente italiano potesse essere preservato dalla principale causa di essi e cioè dall’industrializzazione. Non che le campagne fossero esenti da aspri contrasti, ma si riteneva di poter risolvere tutto all’interno di un sistema paternalistico e per via gerarchica.
I bacini industriali invece (là dove si erano formati) erano considerati fonte di conflitti e personaggi importanti dell’Italia liberale, come Cesare Cantù e Ruggero Bonghi, speravano che in Italia non se ne sviluppassero, confortati dalla cultura economica che predicava una vocazione agraria della penisola. Questo tema del destino agrario e non manifatturiero del Belpaese fu a metà Ottocento a lungo sostenuto e considerato prioritario, sia per un certo dottrinarismo legato a un malinteso liberismo, sia appunto per le temute tensioni sociali che potevano essere provocate dalla formazione di una classe operaia nei bacini industriali. L’esaltazione del felice e sereno mondo rurale proseguirà a lungo, persino in termini mitologici, nella letteratura.
La scuola italiana insegnava che l’individuo non andava considerato isolatamente, ma collocato nella comunità in cui viveva, tendeva cioè a privilegiare il momento comunitario rispetto a quello individuale. Il conflitto sociale non era quindi previsto in tale contesto ispirato evidentemente – almeno sullo sfondo – alla dottrina cattolica. Il carattere morale dell’economia era ribadito da questi autori con l’adozione frequente della denominazione economia sociale anziché economia politica. Si trattava dell’intenzionale sottolineatura di un concetto preciso di scienza, con l’intento di distinguerlo da quello espresso dalla scuola inglese e dal suo approccio individualistico. L’economia, per la scuola italiana, doveva tendere alla «disposizione ordinata della società», venuto meno ogni conflitto.
Si auspicava l’intervento pubblico per raggiungere una condizione armoniosa, senza contrasti nella compagine sociale: lo scopo dell’economia era quello di preparare gli uomini di governo a condurre senza scosse lo Stato. Negli economisti italiani la preoccupazione di ben governare era fortemente sentita perché essi erano assai spesso esponenti politici liberali e amministratori del nuovo Regno.
Questi orientamenti erano presenti nei manuali, la cui disposizione era sempre la stessa, e tutta intesa a lenire o a prevenire il conflitto sociale: largo spazio era lasciato alla beneficenza, al divieto di lavoro per le donne e per i fanciulli.
Il modello era costituito dal trattato di Antonio Scialoja, pubblicato per la prima volta nel 1840, Principii di economia sociale esposti in ordine ideologico. La versione più diffusa uscì nel 1846, e venne ristampata molto a lungo. Pur avendo tratti liberali, il manuale, oltre ad affrontare i temi della beneficenza e del lavoro minorile e femminile da curare, metteva in guardia dai pericoli dell’urbanesimo, dalla caduta di moralità nelle fabbriche, dagli usi e costumi di popoli diversi, auspicava l’intervento del governo e sosteneva che scopo dell’economia era perseguire «l’utile generale», eliminando ogni tensione.
Anche il trattato di Marco Minghetti per il «buon governo dell’economia» – Dell’economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto – era tutto orientato a sopprimere ogni conflitto sociale. Pubblicato per la prima volta nel 1859 ebbe uno straordinario successo. Lo statista sosteneva che non si poteva parlare della «massima produzione della ricchezza» richiamandosi a essa «astrattamente», ma si doveva considerare la stessa in rapporto a un’«equa ripartizione» e a un «conveniente consumo». Nei concetti di equo e di conveniente diveniva determinante il giudizio morale, per cui i criteri di distribuzione e la capacità di domanda non erano stabiliti dal mercato ma da considerazioni di opportunità, atte a prevenire ogni conflitto.
Era presente in questi manuali, sia pure sullo sfondo, la diffidenza propria della società rurale verso l’accrescimento individuale della prosperità; essi badavano più al contesto che all’individuo, vedevano nel laissez-faire l’origine di ogni contrasto nella società. Un riflesso di ciò si riscontrava nelle definizioni della scienza economica, non come scienza delle ricchezze, ma come economia sociale, e nell’affermazione che lo studio dell’economia non dovesse riguardare le azioni dell’individuo, dell’uomo economico, ma la comunità nel suo insieme, più che la somma degli sforzi individuali, e quindi dovesse essere collegato alla storia, alla morale, alla filosofia.
Fedele Lampertico dichiarava di studiare l’«economia sociale», concependo la popolazione come un tutto organico, senza conflitti. Conservava nei suoi libri l’andamento proprio dei manuali italiani, con le attinenze tra religione ed economia, tra economia e morale, in cui il principio fondamentale restava l’affermazione che l’individuo non era mai da prendersi isolatamente, ma da collocare sempre all’interno della comunità. Considerava pure le «sottili analisi di Carlo Marx» e ne dava conto, unendovi un’osservazione interessante e acuta: «Ad udire i socialisti, siamo noi, e non già essi medesimi, i colpevoli di sostituire ad un ordine naturale un ordinamento arbitrario» (F. Lampertico, Economia dei popoli e degli Stati, 1° vol., Introduzione, 1874, p. 283), fonte di conflitti.
Fu molto presente in Italia anche la scuola economica ispirata ai classici e guidata da Francesco Ferrara, che tra il 1848 e il 1873 aveva tentato di affidare all’economia politica il compito di costituire lo scheletro di un sistema ideologico ben ordinato in cui la borghesia in ascesa doveva essere pronta ad assumere la guida politica ed economica della società, instaurando la libertà in ogni campo. Sempre immerso nelle vicende del suo tempo, Ferrara non sistematizzò però il suo pensiero: i suoi contributi furono per lo più contingenti, interventi espressi per affrontare i singoli argomenti concreti, i vari temi specifici. Erano scritti che si applicavano a situazioni precise nelle quali si intendeva far prevalere il valore della libertà; con queste finalità l’economia classica di Ferrara era ispirata alla politica, alla filosofia e collegata con il diritto attraverso i frequenti propositi mirati a orientare la pratica amministrativa.
Da tempo l’economista siciliano criticava l’eccessivo interventismo economico della destra e polemizzava contro gli ambienti ministeriali riuniti attorno a Minghetti, a Luigi Luzzatti e al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio per preparare l’intervento economico dello Stato. Per Ferrara l’economia si esplicitava fondamentalmente nel laissez-faire, ripreso da Jean-Baptiste Say e Frédéric Bastiat, più che da Adam Smith. Cadeva vittima egli stesso dell’utopia – tipica di una società rurale – di creare d’un colpo la società perfetta, sia pure fondata sulle armonie economiche, piuttosto che condividere una spiegazione della vita associata che fondava ogni progresso sulla somma degli sforzi individuali, secondo appunto l’interpretazione data da Smith. Per Ferrara le armonie derivanti dal mercato erano dunque la soluzione ideale di ogni conflitto sociale.
Luzzatti riteneva invece che la cooperazione fosse il miglior modo per risolvere la questione sociale e i conflitti che ne derivavano, onde evitare il danno degli scioperi e rendere evidente come l’operaio «non in essi ma nelle associazioni di mutuo soccorso dovesse cercare i mezzi per migliorare le condizioni economiche e morali» (L. Luzzatti, Memorie autobiografiche e carteggi, 1° vol., 1930, p. 263). In questo orizzonte, teso a evitare i conflitti, mediante l’azione dello Stato progettò, allo scopo di «sapere per intervenire», la sua inchiesta industriale, specie dopo la visita agli opifici dove la questione sociale si era manifestata.
L’inchiesta, del 1877, si può collocare sullo sfondo di questa tradizione culturale. Tutti gli allarmismi intorno agli effetti negativi dell’industrialismo, tramandati di manuale in manuale, con le descrizioni delle piaghe da esso provocate, attribuite agli altri Paesi, dalla Francia all’Inghilterra, trovarono nell’indagine riscontro e attualità anche per l’Italia. Il tessuto dei manuali economici si concretizzava così nell’azione ministeriale di Luzzatti che parlava di «fanciulli pallidi e macilenti» incontrati «visitando le fabbriche», luoghi d’origine d’ogni conflitto.
L’attività del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio fu molto legata negli anni Settanta e Ottanta del 19° sec. alla questione sociale e alla necessità di varare una legislazione in grado di affrontare tale emergenza, secondo un’impostazione che si ricava pure dalla mentalità diffusa attraverso i manuali già a metà dell’Ottocento. Il problema degli infortuni – che tanta parte ebbe nell’imporre all’attenzione comune la questione della legislazione sociale – si aggravò enormemente in seguito all’ondata di speculazione edilizia che investì le città italiane dalla fine degli anni Settanta agli anni Ottanta, allorché i metodi improvvisati e azzardati di costruzione provocarono una tale quantità di incidenti da suscitare orrore e da indurre la classe dirigente liberale a pensare a una legislazione appropriata muovendosi dalla situazione determinata dal gran numero di edili che avevano subito mutilazioni o decessi.
In tale contesto, Antonio Salandra pubblicò sulla «Rassegna settimanale» vari interventi sulla legge per gli infortuni e per l’assicurazione agli operai mostrando di essere un ammiratore dello statalismo degli economisti tedeschi. Esponeva questi criteri tenendo – significativamente – un corso di legislazione economico-finanziaria presso l’Università di Roma. Pur considerando il socialismo della cattedra di Adolph Heinrich Gotthilf Wagner e Gustav Von Schmoller troppo avanzato, condivideva i principi dello Stato forte, del sistema bismarckiano, con richiami al dibattito tedesco del 1881 sull’assicurazione obbligatoria dei lavoratori.
Anche Giuseppe Ricca Salerno, docente di scienza delle finanze, sostenne:
Lo Stato interviene nelle faccende economiche quale rappresentante degli interessi generali e promotore del bene comune in virtù di principii suoi propri, che differiscono sostanzialmente da quelli che governano gli interessi privati (L’assicurazione degli operai, «Annuario delle scienze giuridiche, sociali e politiche», 1883, 4, p. 400)
fonte e origine dei conflitti. Attorno alla questione degli infortuni e delle assicurazioni si consolidò insomma la cultura economica che si basava sull’autorità dello Stato anziché sull’iniziativa individuale e fungeva da supporto al legislatore per definire l’intervento pubblico. Esprimeva bene questi concetti lo stesso Ricca Salerno:
In un regime di libera concorrenza e di assoluta responsabilità individuale le sorti del lavoro sono rese difficili oltremodo dalle instabili vicende dell’industria, dalle continue mutazioni della richiesta, dagl’infortuni che colpiscono le persone dei lavoranti, dalla mancanza di sussidi, di guarentigie, di appoggi in caso di bisogno (p. 401).
Come nel passato l’indignazione suscitata dagli effetti della concorrenza e della libertà, così ora l’emergenza imposta dalla questione sociale inducevano a una cultura economica interventista:
È uno spettacolo deplorevole – diceva Ricca Salerno – quello dei vecchi lavoratori i quali stendono la mano alla limosina, si ricoverano in un ospizio o a stento si sostengono dalla famiglia a cui stanno a carico senza profitto (p. 380).
Ulisse Gobbi, si occupò specificamente di infortuni e assicurazioni con conferenze all’Accademia Fisio-medico-statistica di Milano, con un’impostazione giuridico-economica che si saldava con la cultura medico-sanitaria.
Secondo Schmoller, come sostenevano i suoi epigoni italiani:
Il socialismo di stato si propone il ristabilimento di fraterne relazioni fra le classi sociali, la rimozione o modificazione dell’ingiustizia, una maggiore approssimazione al principio della giustizia distributiva con l’adozione di una legislazione sociale che promuova il progresso e garantisca l’elevazione morale e materiale delle classi infime e medie (Dieci anni di socialismo di Stato in Germania, «Rassegna delle scienze sociali e politiche», 1890, 7, p. 356),
eliminando in tal modo i conflitti sociali. Dall’inizio degli anni Novanta la cultura economica impartita nelle università, espressa dalle direzioni ministeriali e diffusa dalle riviste, dette luogo a una scienza nazionale, utilizzabile sul piano amministrativo, pratico, legislativo, che guardava alla Germania come proprio fondamentale modello e a Berlino come alla propria capitale. La necessità di controllare e regolare il mercato era largamente condivisa. Si riteneva di poter dar luogo a una legislazione sociale, soprattutto sulla previdenza e sugli infortuni nel lavoro, che ponesse l’Italia al passo con gli altri Paesi europei ormai già avviati sulla strada dell’industrializzazione; in questo modo ogni conflitto sociale sarebbe risultato risolto.
Un teorico assai accreditato della soluzione dei conflitti sociali fu, a fine Ottocento, Achille Loria. Si era imposto all’attenzione degli studiosi con La rendita fondiaria e la sua elisione naturale (1879), una monografia di settecento pagine, scritta a ventidue anni. Fu la vasta erudizione di questa prima opera ad attribuirgli tanto credito; in essa parlava di tutto, delle condizioni di vita delle «plebi rurali», delle banche europee, della conduzione dei campi, del lavoro industriale nei principali Paesi, con esempi e statistiche in parte sul modello della monumentale Economia dei popoli e degli Stati (1874-84) di F. Lampertico. Oltre a David Ricardo e a Karl Marx si richiamava direttamente ai tedeschi, alla scuola storica, ad Adolph Wagner, a Schmoller, a Lujo Brentano. Includeva nel suo sistema, che richiamava i tradizionali manuali italiani, oltre l’economia classica, il marxismo, la scuola storica, e anche il positivismo evoluzionistico. L’opera maggiore di Loria – o considerata tale – era intitolata Analisi della proprietà capitalista (1889-1890) ed era composta di due volumi che avevano per titolo, rispettivamente, Le leggi organiche della costituzione economica e Le forme storiche della costituzione economica. In essi il conflitto sociale era attribuito alla scarsità di terra libera e all’appropriazione di essa da parte dei proprietari e la sua soluzione era assegnata a un giusto ed equilibrato intervento pacificatore dello Stato.
Il libro di economia forse più diffuso e che ebbe la maggiore influenza pratica e politica, pubblicato nel 1889 assieme ai lavori di Loria, ma più rimarchevole nell’impatto culturale immediato, fu quello di padre Matteo Liberatore, gesuita, il cui titolo richiama il coevo libro di Maffeo Pantaleoni, Principii di economia pura, sostituendo però all’aggettivo pura il tradizionale politica (Principii di economia politica, 1889). Ebbe un’edizione spagnola nel 1890 e una tedesca nel 1891, e fu allora molto conosciuto. Liberatore era un collaboratore autorevole di «Civiltà cattolica», su cui aveva pubblicato molti articoli economici negli anni 1886-1888. Egli prese parte alla stesura dell’enciclica papale Rerum novarum; il suo pensiero economico ebbe così notevole influenza sul movimento cattolico. Nelle sue pagine conduceva una requisitoria contro il «liberalismo anarchico», la «libertà senza freno», secondo concetti risalenti al neotomismo, che per primo aveva espresso tale necessità, ed era stato riscoperto proprio alla fine del secolo, anche attraverso la lezione economica di Giuseppe Toniolo.
Liberatore definiva perciò l’economia, secondo un’antica tradizione, «scienza pratica», ovvero «scienza dell’uomo di stato»; derivava da queste considerazioni, con origini antiche e sempre presenti, la conseguenza che «le teoriche economiche debbono conformarsi alle politiche». Soprattutto ricordava che «l’economia politica è subordinata alla scienza morale», anzi che «la subordinazione dell’Economia politica alla morale può dimostrarsi direttamente da questo stesso che essa è scienza pratica», cioè, a differenza delle scienze speculative, che hanno per proprio fine il «vero», essa ha solo «per proprio obiettivo il bene»; il conflitto sociale si risolveva negando l’individualismo e rinnegando l’egoismo e riaffermando la mentalità diffusa legata al concetto di popolo, di comunità: era la dottrina sociale della Chiesa, ripresa in termini simili da Toniolo.
Cultura cattolica e cultura laica coincidevano in questa diffidenza per l’individualismo e in questa nostalgia per la comunità in cui situare l’individuo, per eliminare i conflitti sociali recati dall’industrialismo.
Alla fine degli anni Ottanta si era formato un altro gruppo di economisti indipendenti, coetanei tra loro, importanti per l’attività scientifica e politica svolte. Per esprimere le nuove idee marginaliste, oltre alla pubblicazione delle loro opere, fondarono nel 1890 il «Giornale degli economisti». Erano Maffeo Pantaleoni, Antonio De Viti De Marco, Ugo Mazzola, cui si unì Vilfredo Pareto; essi elaborarono alla fine del 19° sec. gli statuti scientifici dell’economia e della scienza delle finanze italiane moderne, acquisendo notevole prestigio internazionale. Il grande lavoro così compiuto, attraverso l’importazione di un modello di Stato di tipo anglosassone, quando ormai sembrava eclissato dalla Germania, era teso a tenere distinta l’elaborazione teorica – affidata al calcolo algebrico – di una economia e di una finanza «pure».
I marginalisti, sia pure in modo non sistematico e con diversità anche notevoli tra l’uno e l’altro, manifestarono comunque una precisa visione, sostanzialmente liberale, della vita associata e dello Stato, e quindi anche dei conflitti sociali, sui quali si espressero in particolare a partire dalla crisi di fine secolo.
Dopo i disordini e gli scioperi che caratterizzano gli ultimi anni dell’Ottocento, De Viti De Marco elaborò un concetto pienamente liberale nell’indicare il modo di affrontare i conflitti che nella crisi si facevano sempre più numerosi e violenti: «Tra le parti contraenti e contendenti, l’Autorità deve restare neutrale. Ad essa è indifferente se gli scioperanti ottengano o no il maggior salario» (A. De Viti De Marco, Cronaca, «Giornale degli economisti», s. II, 1897, 15, p. 38). Contrastava in particolare la tendenza dell’esercito a intervenire nella contesa non solo reprimendo, ma anche sostituendo gli scioperanti.
Pantaleoni faceva ricadere il problema nell’ambito del rispetto della proprietà che doveva valere non solo per gli imprenditori ma anche per la forza lavoro degli operai, liberi di negare le loro prestazioni per accrescerne il prezzo, senza che lo Stato intervenisse ad alterare la contrattazione favorendo la controparte. In sostanza il conflitto sociale si doveva trasformare in una semplice azione di mercato, all’interno della quale si stabilivano i prezzi, usciti dal gioco della domanda e dell’offerta.
A differenza di quanto era stato sostenuto sino allora a opera della scuola storica, della scuola italiana e della dottrina sociale della Chiesa, cioè che lo Stato doveva regolare il conflitto sociale per attutirlo o eliminarlo all’interno della comunità, i marginalisti liberisti sostenevano che esso faceva parte della libera azione delle forze di mercato per determinare il costo della manodopera e lo Stato non doveva interferire con esse.
Contrastava con ciò l’antico mondo sociale italiano, ben conosciuto da questi liberisti, che ne erano perfettamente consapevoli e lo descrivevano con precisione. Osservava De Viti De Marco:
Né gli operai né i padroni erano preparati alla contesa tra lavoro e capitale, in cui le parti, lottando ciascuna per migliorare la propria posizione si riconoscono reciprocamente una rispettiva base di diritto […]. Al fondo si trova una contesa moderna tra capitale e lavoro condotta con i metodi antiquati della lotta tra padrone e servo, tra signore e plebeo (Corrispondenza, «Giornale degli economisti», s. II, 1899, 18, pp. 194-95).
In un articolo dal titolo Saggi di economia e finanza uscito nel 1898 sul «Giornale degli economisti», «molto letto e discusso», «molto ricercato in tutta Roma», come scriveva Antonio Labriola a Benedetto Croce, De Viti De Marco sosteneva che le cause del conflitto sociale erano inoltre legate al fatto che gli industriali ravvisavano negli operai sentimenti di odio e rancore, mentre a loro volta i lavoratori conoscevano il disprezzo degli imprenditori nei loro confronti. Se gli operai non potevano illudersi di condurre le fabbriche senza la direzione e l’iniziativa degli imprenditori, questi ultimi non potevano dal canto loro pretendere di ridurre i primi alla «condizione di lavoro servile», nel miope calcolo di ricavare un utile solo dallo sfruttamento della manodopera sottopagata. L’evoluzione dei costumi e della cultura anche economica delle classi interessate era considerata da De Viti De Marco indispensabile per far evolvere in senso moderno non l’eliminazione, ma almeno la temporanea soluzione dei singoli conflitti.
Pantaleoni sosteneva che il conflitto sociale andava approvato se dava come risultato la prevalenza dei migliori (era ispirato da Herbert Spencer) e ciò si otteneva, a beneficio dell’intera società, «distruggendo ogni forma di monopolio, dalla casta alla corporazione di arti e mestieri», «non riconoscendo altri gradi sociali che non siano quelli che la selezione dei migliori crea quando ad armi uguali si è lottato» (M. Pantaleoni, La legislazione di classe e la democrazia, «Giornale degli economisti», s. II, 1902, 24, p. 81).
De Viti De Marco proponeva una visione moderna del conflitto sociale frutto di relazioni tra opposte associazioni di categoria; Pantaleoni contratti non collettivi ma individuali, strettamente legati alla logica di mercato.
In un quadro europeo diviso tra welfare State e Stato previdenziale tedesco come risposta al conflitto sociale recato dall’industrialismo, Giovanni Montemartini, allievo di Pareto e di De Viti De Marco, ma socialista riformista, considerava, nel primo Novecento, importante precisare che non si dovevano seguire i criteri derivanti dalla «teoria del governo patriarcale» ma i suggerimenti di coloro che «reclamano il controllo e l’intervento degli interessati nel varo di una legislazione sociale». Citava, allo scopo di far meglio comprendere a quali vedute nell’assunzione di tale compito egli si ispirasse, le pagine in cui John Stuart Mill in Principles of political economy (1848) distingueva due teorie in merito alla «posizione sociale desiderabile per i lavoratori». Secondo la prima di queste teorie la condizione della classe lavoratrice doveva essere regolata da un «sistema patriarcale, da un governo paterno». Per la seconda invece «un popolo non può evolversi e svilupparsi che con la signoria di se stesso, con le virtù dell’indipendenza» (G. Montemartini, Un decennio di vita nei corpi consultivi della legislazione sociale in Italia (1903-12), «Nuova antologia», 1912, 52, p. 302). Montemartini dichiarava appunto di ispirarsi a questa seconda veduta per la legislazione sociale, promossa da un’organizzazione dei lavoratori e accettata dallo Stato. Non governo ‘patriarcale’ dunque ma controllo e intervento degli interessati nel varo della legislazione sociale, risolutrice dei conflitti.
Luigi Einaudi considerava indispensabile eliminare il conflitto sociale elevando il tenore di vita delle classi popolari, facendo delle lotte legittime dei lavoratori componenti dinamiche del mercato (simile in questo agli altri marginalisti) all’interno delle istituzioni liberali. L’economista piemontese vedeva nel conflitto sociale un elemento positivo se le lotte dei lavoratori miravano a integrare le classi popolari nel sistema istituzionale in un’ottica riformista; deplorava invece le istanze rivoluzionarie che si potevano manifestare.
Francesco Saverio Nitti propose soluzioni al conflitto sociale, oltre che analisi di esso, attraverso una legislazione previdenziale divenuta poi concreta con la sua ascesa al portafoglio del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, nel marzo 1911, con il nuovo governo Giolitti. Principale difensore del metodo storico come giustificazione teorica dell’interventismo statale, Nitti attaccò gli «economisti della scuola di Jevons», ossia i marginalisti, accusandoli di aver frainteso lo stesso William Stanley Jevons. Polemizzava contro Pantaleoni anche come autore di Principii di economia pura, rimproverandogli la «concezione» che definiva «esagerata», avente lo «scopo di dimostrare non solo il vantaggio, ma, ciò che è più ancora, la necessità dell’economia capitalistica» (F.S. Nitti, Il lavoro, «La riforma sociale», 1895, 2, p. 6).
Importanti collaboratori della sua rivista «La riforma sociale» (prima che fosse diretta da Einaudi) che alimentarono e accrebbero questo orientamento furono Eugenio Masé Dari, Camillo Supino, Carlo Francesco Ferraris, Augusto Graziani, tra gli economisti, e tra i giuristi i ministri Vincenzo Miceli, Pietro Lacava, Bernardino Grimaldi; economisti favorevoli all’intervento statale, quali Rodolfo Benini, che sostenne nella «Riforma sociale» la più solida difesa teorica dell’intervento statale pronunziata negli anni Novanta; ed economisti che erano anche importanti esponenti politici, come Giulio Alessio, Luigi Luzzatti. Nitti, dal canto suo, non perdeva occasione per sottolineare come la vera grande rivista economica italiana fosse la «Riforma sociale». Su di essa appoggiava la tesi del conflitto sociale regolato dall’alto attraverso una legislazione previdenziale di stampo tedesco.
L’economista giunse al ministero con grandi progetti di riforma, circondandosi di economisti funzionari, formatisi alla scuola storica, ritenuti in grado di formidabili attuazioni. Pose alla direzione generale del ministero Vincenzo Giuffrida, economista funzionario e giurista, che pronunciò un’appassionata difesa del mercantilismo e dei calmieri. Alberto Beneduce divenne suo segretario particolare per elaborare i progetti e preparare il materiale documentario. Nitti dispose anche l’unificazione dell’Ufficio del lavoro con la direzione di statistica. Furono uffici attivissimi, pronti a sostenere, con elaborazioni economico-giuridiche adeguate, la battaglia per il monopolio statale delle assicurazioni, sulla base degli studi di Ulisse Gobbi. Elaborando così dati che dovevano consentire di affrontare le contestazioni degli economisti marginalisti, principalmente De Viti De Marco ed Einaudi.
Nel primo consiglio d’amministrazione dell’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni) i membri scelti dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio furono Beneduce, Vincenzo Magaldi, che era stato funzionario ed economista con C.F. Ferraris; presidente fu nominato Bonaldo Stringher. Sia attraverso la cultura universitaria, sia attraverso la formazione ministeriale i criteri guida per la politica economica e per la mentalità degli uomini che la applicavano ebbero sostanza diversa dal pensiero economico italiano neoclassico. Venne insomma applicata una politica economica per l’industrializzazione e una legislazione previdenziale orientata ad attutire il conflitto sociale che ne derivava e a elevare per tale via il tenore di vita delle classi lavoratrici.
Combatté questo orientamento anche Pareto, oltre a Einaudi, De Viti De Marco e Pantaleoni. Pareto era convinto assertore della curva delle entrate che egli stesso aveva disegnato secondo i concetti espressi nel 1896-97 nel Cours d’économie politique. Da essa scaturiva l’immutabilità della distribuzione del reddito sotto qualunque regime sociale, perché costantemente a favore della minoranza detentrice del potere. Nella teoria delle élites, organicamente esposta appunto in Les systèmes socialistes, Pareto sosteneva che i socialisti credevano «sinceramente che una nuova élite di politicanti» avrebbe mantenuto «le sue promesse meglio di quelle succedutesi» sino a quel momento al vertice della società. Ma date le premesse da lui poste intorno alla distribuzione forzatamente ineguale, era inevitabile la conclusione che:
disgraziatamente questa vera rivoluzione che deve portare agli uomini una felicità senza dolori, non è che un miraggio ingannatore, che non diventa mai una realtà (V. Pareto, Introduzione ad un’opera sui sistemi socialisti, «La riforma sociale», 1902, 9, p. 345).
Se si trasportano queste considerazioni sul piano politico, si coglie subito l’intento di dimostrare la vacuità di un movimento che agli inizi del secolo pareva inarrestabile: l’ascesa delle «classi popolari» verso una maggiore e decisiva influenza sulla società e il loro prevedibile raggiungimento del potere, accompagnati dal declino inevitabile e corrispondente della borghesia, della quale perciò Pareto criticava aspramente le fiacchezze e le larghe concessioni a considerazioni umanitarie.
Pareto si radicò nella convinzione che fosse comunque una minoranza a governare, un convincimento divenuto incrollabile perché basato sull’osservazione della realtà e dimostrato con il calcolo analitico, attraverso la curva delle entrate.
Erano idee, queste sulla minoranza al potere, che traevano alimento dall’osservazione della politica italiana. Le conseguenze di tale ragionamento erano però di una logica spietata per chi come Pareto credeva nella scienza sperimentale. Dal suo pensiero emergevano infatti due verità tra loro in conflitto. La prima che credeva di aver scoperto era che solo la libera concorrenza garantiva il benessere per tutti. E questo era lo scopo dell’economia politica: garantire il benessere a tutti; in ciò, anzi, liberalismo e scienza economica coincidevano. Perfezionando, come diceva, l’economia classica con la matematica, questa verità era per Pareto salda come una roccia. Le incompatibilità emersero quando scoprì l’altra verità, anch’essa dimostrabile con l’analisi matematica, cioè che solo una minoranza avrebbe comunque governato. Dov’era la contraddizione? Nella constatazione che l’applicazione della libera concorrenza in grado di garantire il benessere a tutti era nelle mani dell’élite governante. Da qui il passaggio chiave del pensiero paretiano: «La libertà economica non può promettere alcun privilegio ai suoi seguaci, né attirare con l’esca di guadagni illeciti: essa non offre che la giustizia e il benessere per il maggior numero, ed è troppo poco». Per questo «nessun paese, finora, è stato governato secondo un sistema di completa libertà economica». Proprio perché al governo si sarebbe trovata comunque una minoranza che non intendeva conseguire il benessere di tutti, ma solo il proprio. Di qui la conclusione che «le democrazie moderne […] devono contentarsi di placare il maggior numero possibile di appetiti, moltiplicando le funzioni pubbliche» (V. Pareto, I sistemi socialisti, a cura di G. Busino, 1974, p. 350), senza poter applicare la libera concorrenza, e attutire per tale via i conflitti sociali.
Quali erano stati invece i risultati della propaganda liberale? Pareto osservò che avevano solo infiacchito, diffondendo l’umanitarismo, la volontà della borghesia, lasciando libero campo a nuove minoranze, democratiche e socialiste, che tendevano a soffocare la libertà, a sopprimere del tutto la responsabilità, e comunque ad allontanarsi sempre più dalla prima verità, la libera concorrenza. I conflitti venivano alimentati dalle élites al potere che si appropriavano quasi integralmente delle risorse disponibili.
Il robusto saggio di Enrico Barone, uscito sul «Giornale degli economisti» nel 1908, intorno al Ministro della produzione nello stato collettivista, era un perfetto esempio dei risultati brillanti e durevoli cui poteva giungere l’economia matematica se applicata a combattere in questa ottica il socialismo.
Già nei suoi Principii di economia politica (1908) Barone aveva, pur senza creare nuovi teoremi, pubblicato per la prima volta un trattato interamente rispondente alla nuova impostazione matematica, quale nemmeno Pareto aveva dato. In questo manuale egli interrompeva la serie fitta di formule che lo contraddistingueva solo per lanciare polemiche accuse alle «aristocrazie operaie» che stavano dominando il Paese, con il partito socialista che le sorreggeva e le difendeva.
Il saggio sul Ministro della produzione era diretto contro lo stesso avversario, ma l’attacco era stavolta frontale. Barone ammetteva l’esistenza di un futuro Stato collettivista, quale i socialisti auspicavano, e immaginava i calcoli che al ministro della Produzione sarebbero stati necessari per riuscire a coordinare l’economia del Paese, per definizione dipendente da un organo centrale. Dimostrava poi che in linea teorica un’esperta équipe di matematici collaboratori del ministro avrebbe potuto fornire in tempo utile per il sistema le indicazioni indispensabili alla produzione e alla distribuzione del reddito. Il nucleo centrale del saggio consisteva appunto nella ricostruzione logica di questa possibilità. Tuttavia, concludeva, anche nell’ipotesi che tutto ciò, con difficoltà pratiche quasi insormontabili, potesse essere attuato, rimaneva pur sempre il fatto che i risultati dei calcoli programmatori dell’équipe a ciò destinata avrebbero dovuto essere necessariamente identici a quelli già forniti dagli automatismi del mercato, in condizioni di perfetta concorrenza, senza organizzazione alcuna. Tali meccanismi erano quindi maggiormente idonei a risolvere i conflitti.
Per quanto diretti contro i socialisti e volti a ridare fiducia alla borghesia, interventi come questi erano, a ben guardare, un’arma a doppio taglio: in fin dei conti Barone dimostrava la possibilità teorica di una pianificazione, inutile forse, ma pur sempre rispondente a quell’aspirazione all’egualitarismo e al socialismo che Pareto (un’altra arma a doppio taglio) aveva posto in evidenza quanto fosse radicata, e sia pure irrazionalmente radicata, nell’animo umano, per porre fine a ogni conflitto sociale.
Dopo l’avvento del fascismo, sullo sfondo degli effetti della crisi del 1929, l’economia di mercato subì un ridimensionamento severo che generò la ricerca di un modello alternativo a quello che si considerava fallito. Il protrarsi della crisi e il manifestarsi dei suoi effetti tolsero la credibilità a un esempio, quello liberista, che sempre aveva suscitato dubbi, proprio perché non era mai stata assimilata la lezione di Smith per il suo affidarsi alle decisioni individuali anziché alle direttive dall’alto. Nelle soluzioni prospettate quella del liberalismo riformatore keynesiano di tipo anglosassone provocava solo sarcasmi e irrisioni. Più sul serio veniva presa la via dei piani quinquennali sovietici; ma soprattutto si cercava la terza via corporativa e persino l’economia ‘diretta’ nazionalsocialista.
Un esempio di queste elucubrazioni per risolvere il conflitto sociale era dato da Giuseppe Bruguier che sul «Giornale degli economisti» proponeva il corporativismo per «inquadrare le forze vive di una nazione nei fini dello stato», per perseguire i quali «occorre la fede» non la «burocrazia» o il semplice «buon governo»; contro l’«insufficienza delle vecchie concezioni» si doveva «far sentire il moto storico delle idee» e quindi la necessità di sottoporre a revisione critica le teorie accettate, di ripensare la scienza.
Il nerbo degli studi corporativi era costituito dal pensiero di Ugo Spirito e di Alfredo Rocco, sostenitore del Rechtsstaat e della Nationaloekonomie. Dal canto suo Gino Arias si era sforzato di ricondurre la «nuova scienza economica» alla filosofia tomistica, anche in un corso di lezioni all’università. Secondo tali presupposti corporativi, i conflitti sociali non esistevano più.
Non fu dunque l’ortodossia einaudiana a impedire l’accesso di Keynes in Italia, ma il disprezzo dominante tra le due guerre per le dottrine anglosassoni e l’attenzione per il corporativismo, per i modelli totalitari, le pianificazioni. L’Italia si trovò, però, tra il 1945 e il 1948, di fronte all’esigenza di integrarsi in un nuovo ordine economico internazionale imperniato sul dollaro come moneta di riferimento, sul GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), sugli accordi di Bretton Woods, sul piano Marshall sulla necessità di collocarsi in un sistema fondato sul libero mercato, assai diverso dall’autarchia su cui aveva sino allora puntato. Della necessità di rielaborare una cultura economica adeguata al nuovo momento storico furono interpreti, oltre al piano del lavoro elaborato dalla CGIL nel 1949, due convegni di Confindustria nel 1947 e 1948, espressivi della cultura economica della ricostruzione.
Le idee generali per il futuro sviluppo industriale furono elaborate da Giovanni Demaria, Giordano Dell’Amore, Francesco Vito che adattarono alla nuova situazione interna e internazionale l’interventismo antico e il corporativismo recente, con premi e sovvenzioni all’industria e con l’assorbimento mediante lavori pubblici della manodopera eccedente, per vincere con la «solidarietà» i conflitti sociali.
Demaria e Angelo Costa esaltarono pure la «libertà economica», contrastati peraltro da Ernesto Rossi che, per tutti gli anni Cinquanta, attraverso «Il mondo», sostenne le ragioni della libera concorrenza in funzione antitrust e delle nazionalizzazioni dell’energia elettrica, degli idrocarburi, dei telefoni, per ribadire una concezione che vedeva nella crescita del mercato controllato la soluzione di ogni conflitto sociale, di cui si prevedeva la fine nell’Italia del ‘miracolo economico’, con l’avvento della società dei consumi.
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