Conflitto
Conflitto (dal latino conflictus, "urto, scontro", derivato di confligere, "cozzare insieme, combattere") significa combattimento, guerra, scontro. Nozione centrale del pensiero moderno, il conflitto è stato variamente interpretato, sia nella sua dimensione antropologica, sia come polarità dialettica nello sviluppo delle energie spirituali dell'uomo: al conflitto inteso come antagonismo si è fatto ricorso nei tentativi di fornire una spiegazione del progresso storico, e una condizione conflittuale è stata riconosciuta alla base degli stessi meccanismi che presiedono al processo dell'evoluzione. In psicologia, il concetto di conflitto esprime l'idea di un contrasto tra tendenze, bisogni e motivazioni tra loro contrastanti che spinge verso una risoluzione. In questo senso, il conflitto assume il valore di un potente fattore dinamico della vita psichica.
Concezioni moderne del conflitto
La nozione di conflitto, sia sul piano interindividuale sia sul piano internazionale (guerra), acquista rilevanza nella discussione filosofica a partire dall'Età moderna. Il giusnaturalismo secentesco pone le basi per questa riflessione presupponendo, in armonia con quello antico e quello medievale, l'esistenza di un ordine giuridico naturale che tendenzialmente esclude il conflitto. Quest'ultimo è tuttavia possibile in due casi: da un lato, come momentanea infrazione dell'assetto giuridico naturale con atti di prevaricazione individuale o collettiva, e, dall'altro, come strumento per ristabilire con la forza il diritto conculcato, secondo il principio: "è lecito respingere la violenza con la violenza". Se nella tradizione della scuola del diritto naturale il conflitto riveste un carattere di eccezionalità, in un giusnaturalista eterodosso come T. Hobbes esso si configura invece come la condizione permanente in cui vive l'uomo nello stato che precede l'istituzione della società civile. Lo stato di natura è infatti uno stato di 'guerra di tutti contro tutti', nel quale gli individui si trovano reciprocamente in una condizione di ostilità (homo homini lupus) e vantano ciascuno un diritto esclusivo su tutto (ius in omnia). Del resto, la conflittualità universale rappresenta una condizione antropologica prima ancora che giuridica: l'uomo non solo è in grado di attentare all'incolumità del prossimo (perché in natura gli uomini godono dell'eguaglianza delle forze), ma vuole anche ledere il suo vicino, sia per contendergli gli scarsi beni offerti dalla natura, sia per prevenire eventuali atti di ostilità nei suoi confronti. Ciò non significa che la pace cessi di essere un valore - anzi essa è oggetto di prescrizione da parte della prima legge di natura -, ma può essere realizzata soltanto artificialmente attraverso la costituzione della società civile. Il razionalismo illuministico del Settecento, il quale tendeva a far convergere il concetto di natura con quelli di ragione e di ordine, prese le distanze da Hobbes, 'filosofo maledetto' che aveva confuso la condizione naturale dell'uomo con le sue degenerazioni sociali. Voltaire osserva che, se Hobbes avesse ragione, l'umanità si sarebbe estinta da un pezzo. Su un piano concettualmente più elevato J.-J. Rousseau ritiene che la conflittualità vada di pari passo con lo sviluppo della società: assente nella condizione originaria, nella quale gli uomini vivono isolati poiché la soddisfazione dei loro bisogni elementari non richiede l'interazione sociale, il conflitto compare in misura limitata (come lotta e omicidio) nelle prime forme di società naturale, sorte per soddisfare bisogni più complessi, e assume infine le massime dimensioni nella guerra tra gli Stati, che rappresentano la forma più artificiale di società. Nelle filosofie della storia nate dalla cultura illuministica il progresso umano è contrassegnato tanto dall'inarrestabile avanzamento della ragione quanto dalla graduale scomparsa della conflittualità e della guerra. I numerosi progetti di pace perpetua formulati nel Settecento, al pari della convinzione che la conflittualità bellica sia destinata a essere sostituita da pacifici rapporti commerciali tra le nazioni, sono espressione di questo ottimismo storico.
Tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, soprattutto nell'area culturale tedesca, si assiste invece a una piena rivalutazione della nozione di conflitto. Le scoperte scientifiche di A. Volta e di L. Galvani, nonché la ripresa degli studi sul mesmerismo, avevano spiegato i fenomeni elettrici o magnetici in termini di tensione tra poli opposti. Esteso da F.W. Schelling all'intero ambito naturale, il principio della polarità non tardò a essere applicato anche alla realtà in generale e alla sfera politica in particolare, richiamando l'assunto eracliteo per cui "la guerra è madre di tutte le cose". Il rapporto polare - insieme unitario e conflittuale - tra giovane e vecchio, tra maschile e femminile, tra universale e particolare, appare al romantico A. Müller il fondamento di ogni realtà sociale e politica. Ma anche J.G. Fichte e G.W.F. Hegel, per quanto lontani dalla cultura romantica, fondano il loro idealismo sul principio - insieme logico e ontologico - della contrapposizione dialettica: tra Io e Non-Io il primo, tra la categoria della posizione e quella della negazione il secondo. In campo morale le situazioni di tensione, conflitto e guerra appaiono condizioni indispensabili allo sviluppo delle energie spirituali dell'uomo che, sul piano individuale come su quello della specie, non potrebbero emergere nel tranquillo godimento della pace. Da qui deriva in gran parte il riconoscimento, espresso nel Settecento da I. Kant e poi ripreso in forma diversa da P.-J. Proudhon e da G. Sorel, della funzione dell'antagonismo come molla del progresso storico. L'utilità del conflitto ai fini del progresso storico verrà del resto ribadita anche da K. Marx e dalla tradizione marxista, ancorché esso venga applicato principalmente ai rapporti tra le classi sociali: la lotta di classe assume forme differenti nelle diverse società - tra padroni e schiavi, tra feudatari e servi della gleba, tra capitalisti e proletari -, ma è ineliminabile finché non porti alla rivoluzione finale e all'instaurazione della società comunista. Nel corso dell'Ottocento, positivismo e liberalismo concorrono invece a opporre al conflitto i valori dell'armonia e della cooperazione. Il principio liberale del laissez faire riposa sul presupposto di una naturale convergenza degli interessi, già sostenuta nel Settecento dalla dottrina della 'mano invisibile' di A. Smith, che nell'ambito della produzione nazionale si configura come spontanea armonizzazione degli interessi dei diversi soggetti sociali e, sul piano dei rapporti internazionali, garantisce i vantaggi del libero scambio commerciale. Analogamente il positivismo - da Saint-Simon e A. Comte a H. Spencer - ritiene che la pace e la cooperazione spontanea siano rispettivamente la condizione e la caratteristica fondamentale della società positivistico-industriale in opposizione a quella coercitiva, e quindi potenzialmente conflittuale, delle antiche società feudali o militari. Sul positivismo, tuttavia, pesa anche l'influenza dell'opera Sull'origine delle specie (1859) di Ch. Darwin, il quale, attraverso le nozioni di 'lotta per l'esistenza' e di 'selezione naturale' parve rivelare il ruolo positivo svolto dal conflitto nel corso dell'evoluzione: infatti Spencer, pur ritenendo che l'evoluzione conduca a una progressiva riduzione del conflitto, estese il concetto della 'lotta per la selezione' dall'ambito prettamente biologico a quello sociale, preparando la strada al cosiddetto darwinismo sociale della fine del 19° secolo (L. Gumplowicz, J.-A. Gobineau).
Nel Novecento, le filosofie vitalistiche ripropongono una rivalutazione positiva del conflitto, già preparata dall'irrazionalismo ottocentesco di A. Schopenhauer e di F. Nietzsche. Ma l'influenza maggiore è esercitata dalla teoria della psicoanalisi di S. Freud, che presuppone un relativo antagonismo tra le istanze psicologiche riconducibili all'inconscio (Es) - soprattutto le pulsioni sessuali - e quelle che si esprimono nell'attività conscia dell'Io: gli impulsi dell'Es repressi dall'attività conscia dell'Io provocano un conflitto interno alla personalità del soggetto (nevrosi), che deve essere curato dall'analista portando alla coscienza gli impulsi inconsci. Questa nuova sensibilità per l'elemento conflittuale è alla base dello sviluppo di due opposte tendenze nella riflessione filosofica e sociologica contemporanea sul conflitto. Esso, da un lato, viene valutato negativamente, come disfunzione prodotta dalla proiezione sul piano sociale di disturbi psicologici (R.K. Merton) o come fenomeno disgregativo del sistema sociale (funzionalismo di T. Parsons); dall'altro, viene considerato come una manifestazione che, essendo intrinseca ai rapporti sociali, può rivestire una funzione positiva se sottoposta a una corretta regolamentazione (R. Dahrendorf, K. Lewin, L.A. Coser).
I.
Le prime prove dell'azione di un conflitto sul comportamento umano vennero a Freud dall'osservazione delle resistenze di alcuni pazienti a ricordare eventi di vita connessi con i propri disturbi, in particolare le circostanze in cui i sintomi avevano dato segno di sé. Da queste osservazioni Freud trasse il convincimento che il soggetto, perturbato dall'attivazione di desideri o impulsi di desiderio in contrasto con altre aspirazioni o incompatibili con le proprie esigenze etiche o estetiche, se ne difende soprattutto attraverso due modalità: con la proiezione nel mondo esterno, o con la rimozione, cioè sottraendo alla coscienza la rappresentazione indesiderata. Grazie a tali modalità il soggetto ottiene sollievo al conflitto, ma non se ne libera interamente. Proiezione e rimozione non sono completamente efficaci; rappresentazioni rimosse o proiettate dal soggetto tendono a ritornare e riattivano ulteriori misure di difesa in una lotta che può non avere fine producendo un'offesa permanente dell'Io e una restrizione alle sue funzioni. Secondo questa prospettiva, un conflitto che si istituisce nel mondo esterno ha senso nella vita mentale in quanto ritrova in essa elementi di appoggio che lo riconducono al mondo interno. In altri termini, un conflitto ha rilevanza psichica solamente in quanto si traduce come conflitto nel mondo interno. Appaiono così due primarie fonti del conflitto psichico: il contrasto tra rappresentazioni mentali e obiezioni di realtà, da una parte, e l'opposizione tra rappresentazioni coscienti compatibili e reminiscenze inconsce non compatibili, dall'altra. Per questa via la psicoanalisi ha costruito la nozione di inconscio.
Un'altra ipotesi avanzata dalla ricerca psicoanalitica è che un conflitto attuale trae le motivazioni più forti da conflitti analoghi vissuti nella prima infanzia. Un conflitto non si alimenterebbe solo di motivazioni attuali, ma anche e con pari forza di motivazioni della vita infantile, per lo più inconsce. A queste, in particolare, si devono quegli atteggiamenti fuori misura tipici di certi nostri comportamenti di difesa nei confronti della realtà, come pure gli eccessi di risonanza affettiva ed emozionale che si risolvono in sintomi di inibizione e di angoscia. I sintomi di delirio, fantasie e azioni, sono in genere il risultato di un compromesso tra la motivazione conscia e i motivi inconsci, specialmente i ricordi d'infanzia ridestatisi e le spinte emotive inerenti a essi; e in un compromesso si tiene conto delle richieste di ciascuna delle due componenti psichiche, ma ciascuna deve anche rinunciare a qualcosa di ciò che avrebbe voluto ottenere. Quando si forma un compromesso vi è stata anteriormente una lotta. Nella formazione dei sintomi questa lotta non si conclude. Assalto e resistenza si rinnovano dopo la formazione di ogni compromesso, che non è mai del tutto soddisfacente né conclusivo. I sintomi sono così dei sostituti e derivati di ricordi rimossi, ai quali una resistenza impedisce di venire alla coscienza nella loro forma genuina, ma che riescono a penetrarvi purché aggirino, ricorrendo a deformazioni e trasformazioni, la censura esercitata dalla resistenza. Effettuato un tale compromesso, i ricordi d'infanzia si volgono in fantasie, che possono essere facilmente fraintese dalla persona cosciente, a causa della loro deformazione e per effetto della componente psichica dominante. Rientra nella vita di ogni giorno, anche delle persone sane, che ci si inganni circa i motivi delle proprie azioni e che se ne divenga consapevoli soltanto in un secondo tempo, sempre che un conflitto fra più componenti emotive fornisca la condizione necessaria per una tale confessione.
2.
La psicoanalisi sviluppa una concezione dinamica che riconduce la vita psichica a un gioco di forze che si accordano o si inibiscono tra loro. Quando accade che un gruppo di rappresentazioni viene sottratto alla coscienza, essa ne deduce che è in opera un'opposizione attiva da parte di un altro gruppo di rappresentazioni. In particolare ogni pulsione, che è la rappresentante psichica di uno stimolo, cerca di farsi valere cercando di raggiungere i propri fini. Non sempre le pulsioni sono in accordo tra di loro, spesso anzi entrano in conflitto. Hanno importanza i contrasti tra le pulsioni al servizio del piacere e della vita sessuale e le pulsioni che hanno per meta l'autoconservazione dell'individuo, le pulsioni libidiche e quelle narcisistiche. L'Io si sente minacciato dalle pretese delle pulsioni conservatrici e se ne difende attraverso rimozioni e formazioni sostitutive.Le pulsioni sessuali si esercitano primariamente basandosi sulle stesse funzioni di sopravvivenza, come quelle alimentari, per es., ed escretorie. L'effetto della rimozione si esercita soprattutto sulla relazione d'organo, anche al di là del suo possibile significato sessuale, e l'Io ne perde più o meno estensivamente il dominio. Inibizioni, compromessi sintomatici, risveglio d'angoscia ne sono gli esiti più conosciuti, sicché a ragione Freud poté asserire che "l'Io non è padrone in casa propria" (1917, trad. it., p. 658). Non essendo in grado di estinguere quelle forze psichiche pulsionali che non si sono sottomesse, l'Io si difende dalle loro pretese mediante energiche funzioni protettive e misure psichiche di contrasto, oppure cerca di venirne a capo tramite soddisfacimenti sostitutivi. Le caratteristiche più generali della vita psichica, i conflitti tra i moti pulsionali, le rimozioni e i soddisfacimenti sostitutivi, sono ovunque presenti. La civilizzazione comporta la rinuncia a molte pretese pulsionali: i moti pulsionali dei quali più si richiede la rinuncia sono quelli sessuali e quelli aggressivi. La pulsione a conservare la sostanza vivente, a legarla in unità sempre più vaste, che Freud riconosce nel principio di Eros, è contrapposta alla pulsione che spinge a dissolvere questa unità e a ricondurla allo stato inorganico primordiale, un impulso distruttore denominato principio di Thanatos. Il significato dell'evoluzione della civilizzazione risiede nel superamento attraverso appropriate formazioni della lotta tra pulsione di vita e pulsione di distruzione.
3.
"Le nevrosi scaturiscono fondamentalmente da un conflitto tra l'Io e la pulsione sessuale" (Freud 1911, trad. it., p. 403). I sintomi sarebbero l'esito del conflitto tra due forze psichiche: la 'libido', fattore in genere eccessivo, e il 'rifiuto', o rimozione troppo severa. La pulsione sottoposta all'azione della rimozione non è eliminata, ma continua a esistere nell'inconscio e, se riattivata, invia alla coscienza una formazione sostitutiva, deformata e resa irriconoscibile, alla quale si allacciano le impressioni di dispiacere che si tentava di evitare rimuovendo l'impulso indesiderato. Queste formazioni di compromesso, sottoposte al lavoro della deformazione e della trasformazione, sono i sintomi. Essi, da un lato, consentono alla pulsione un soddisfacimento parziale e, dall'altro, comportano una rinuncia all'oggetto e uno spostamento della meta per aggirare la resistenza nell'accesso alla coscienza. Questo soddisfacimento parziale rappresenta il risultato principale del sintomo e della nevrosi. Molte persone di fronte a conflitti la cui soluzione è troppo penosa si rifugiano nella nevrosi, ricavando dalla malattia un innegabile risultato secondario, assicurato dalla regressione, maggiormente tollerata anche dai congiunti, e dal minor coinvolgimento nei normali compiti e nelle abituali responsabilità della vita quotidiana. I sintomi si generano con diversi meccanismi: 1) come formazioni sostitutive delle forze psichiche rimosse; 2) come compromessi tra forze rimosse e forze rimoventi; 3) come formazioni reattive o dispositivi di sicurezza contro le forze rimosse. Prototipi del primo tipo sono i sintomi di conversione, soprattutto quelli isterici, del secondo tipo i cerimoniali ossessivi, e del terzo tipo le misure preventive dell'angoscia, così frequenti nelle manifestazioni fobiche. Nella paranoia, lo scopo della produzione sintomatica è di respingere una rappresentazione incompatibile mediante una proiezione del suo contenuto nel mondo esterno. In questo modo un conflitto in piena attività nel mondo interno è rimpiazzato da un conflitto tra l'Io e il mondo esterno, la cui percezione progressivamente appare alterata dalla proiezione.In forme meno gravi il conflitto psichico è presente nei numerosi disturbi della psicopatologia della vita quotidiana, soprattutto nelle perturbazioni del discorso come i lapsus verbali, nelle alterazioni della memoria e nei disturbi dell'azione, come gli atti mancati. Disturbi della parola - come gli inceppi verbali e la balbuzie - rivelano i tratti propri dell'azione di contrasto nei confronti di impulsi altrimenti incoercibili: in genere, desideri contrari a quelli ammessi, autogiustificazioni per un'azione mancata, impulsi segreti o inconfessabili. Molte forme di inibizione psichica sono l'espressione di un energico contrasto nei confronti di un impulso disapprovato, che così si rende palese. È il caso di coloro che soccombono a un successo. L'appagamento di desiderio che il successo consente elimina la frustrazione proveniente dall'esterno, ma lascia senza contrasto quella interna, libera di produrre i suoi effetti tramite inibizioni, autopunizioni, fallimenti, coazioni a ripetere, come il famoso gesto di Lady Macbeth (il continuo sfregamento delle mani per detergere il ricordo del sangue di cui si è macchiata). Disturbi della potenza sessuale rivelano l'influenza esercitata da determinati conflitti psichici che sfuggono alla conoscenza dell'individuo. Le cause più comuni sono fissazioni incestuose non pienamente superate, impressioni accidentali precoci dal carattere penoso, inibizioni per eccesso di stimolazione in un'epoca in cui la libido non aveva raggiunto una forma genitale. In queste situazioni non si sono fuse due tendenze dal cui incontro risulta assicurato un comportamento amoroso più evoluto: la tenerezza e la sensualità. La prima deriva dalla scelta oggettuale infantile primaria. La tenerezza dei genitori, o di chi si è preso cura del bambino, lo prepara con l'esperienza al pieno sviluppo della capacità di amare. Queste fissazioni di tenerezza del bambino continuano per tutta l'infanzia e coinvolgono l'erotismo, che in tal modo è distolto dalle sue mete sessuali. Nella pubertà si aggiunge una potente componente sensuale che non disconosce più le sue mete. Essa non tralascia mai di ripercorrere le strade già percorse in precedenza e di investire, ora con importi libidici molto più forti, gli oggetti della scelta infantile. Urtando però negli ostacoli eretti dalla barriera contro l'incesto, si dirige verso nuovi oggetti sessuali, scelti secondo il modello di quelli infantili, che con il tempo attirano a sé la tenerezza legata agli oggetti precedenti. Questo progresso può fallire, ora a causa di frustrazioni nella realtà, ora per effetto del grado di attrazione che possono ancora esercitare gli oggetti di scelta infantile, destinati altrimenti a essere abbandonati. Ne deriva l'impotenza psichica nelle sue varie forme, in quanto fallisce la valorizzazione dell'oggetto della pulsione. Si tratta di un conflitto tra pretese infantili ed esigenze attuali dello sviluppo. Un crocevia determinante è l'esito del conflitto edipico (v. complesso).
4.
L'uomo è pressato da più parti, dal suo mondo interno, dalla realtà ambientale che è fonte di limitazioni e di frustrazioni, dagli altri uomini. Le sofferenze e le limitazioni provenienti da questi ultimi sono avvertite come le più penose. Una progressiva rinuncia alle pulsioni costituzionali, la cui messa in atto potrebbe assicurare all'Io un piacere primario, sembra essere una delle basi della civilizzazione umana. La nostra civiltà si è edificata sulla sospensione e sulla repressione delle pulsioni. Ogni individuo ha rinunciato a una parte delle sue appropriazioni, del suo potere incontrastato, delle tendenze aggressive e vendicative. I singoli sono stati indotti a queste rinunce, oltre che dalle necessità della vita, dai sentimenti, derivati dall'erotismo, per i propri familiari. La nevrosi, quale che ne siano la gravità e l'origine, riesce a svuotare gli intenti della civiltà, compiendo il lavoro delle forze psichiche ostili alla civilizzazione. Esiste pertanto un conflitto tra spinte a differire e a rinunciare ai soddisfacimenti pulsionali in attesa di un vantaggio maggiore e la spinta a piegare il mondo della realtà ai propri soddisfacimenti. L'individuo tende a regolare le relazioni realistiche con l'ambiente sociale circostante secondo codici ricalcati sul modello delle sue esperienze familiari e infantili. Ciò avviene secondo modalità inavvertite, che spesso costituiscono motivi di ostacolo, di resistenza, di deformazione dei compiti realistici del piccolo gruppo di appartenenza o del gruppo sociale più ampio. Tra questi codici , i più influenti sono i "parentemi" e gli "erotemi", la tendenza cioè a registrare le relazioni interpersonali e intergruppali secondo modalità affettive familiari al soggetto (Fornari 1976). Il conflitto tra le esigenze affettive e quelle pragmatiche proprie del gruppo di lavoro spinge a istituire delle formazioni difensive specializzate, la cui funzione è di trattare e soddisfare, almeno in parte, le spinte pulsionali e affettive altrimenti disgregatrici del gruppo impegnato nel compito (Bion 1961). Il mezzo per controllare i conflitti da parte delle istituzioni sociali consiste nell'esportare il conflitto psichico trasformandolo in un conflitto intersoggettivo, o meglio in un conflitto intergruppale, che è molto meno penoso per il singolo, assicurando allo stesso tempo un certo grado di repressione e di soddisfacimento.
w.r. bion, Experiences in groups, and other papers, New York, Basic Books, 1961 (trad. it. Roma, Armando, 1971).
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m. mori, La ragione delle armi. Guerra e conflitto nella filosofia classica tedesca (1770-1830), Milano, Il Saggiatore, 1984.